BACONE, Francesco

Enciclopedia Italiana (1930)

BACONE, Francesco (Francis Bacon)

Adolfo Levi

Vita. - Nacque a Londra il 22 gennaio 1561 (1560 vecchio stile). Suo padre, sir Nicola, era lord guardasigilli; sua madre, Anna Cooke (figlia di Antonio, precettore di Edoardo VI) possedeva una cultura vastissima; suo zio, William Cecil (poi lord Burghley), dapprima segretario di stato, in seguito lord tesoriere di Elisabetta, era il maggiore statista dell'età sua. Francesco Bacone trovava quindi nel suo ambiente familiare insigni modelli di cultura e d'attività politica. Nel 1573 entrò col fratello Antonio nell'università di Cambridge (ove forse ascoltò l'insegnamento di E. Digby), iscrivendosi nel Trinity College; alla fine del 1575 la lasciava senza aver preso alcun titolo, malcontento della filosofia aristotelico-scolastica che vi s'insegnava. Iniziò un viaggio sul continente, recandosi in Francia (1576); ma per la morte del padre (20 febbraio 1579) dovette ritornare in Inghilterra. Sir Nicola, che aveva otto figli, possedeva una fortuna modesta, sicché Francesco, che aveva sognato di dedicarsi a ricerche scientifiche e filosofiche, si volse agli studî di giurisprudenza, rientrando nel 1580 nel Gray's Inn (uno dei più insigni tra i collegi in cui si formavano i giudici e gli avvocati), di cui rimase membro per tutta la vita e ove in seguito si recò più volte. Nel 1582 divenne avvocato; nel 1589 insegnante di diritto nel collegio. Nel 1597 fu nominato consigliere straordinario della corona. Già nel 1584 era entrato nella Camera dei comuni, di cui continuò a far parte anche in seguito, facendosi ammirare per la sua eloquenza. Siccome l'Inghilterra allora era minacciata dalla Spagna di Filippo II e da lotte interne, la corona chiese sussidî al parlamento: B. vi si oppose, attirandosi così l'avversione di Elisabetta, la quale non gli concesse gli uffici di procuratore generale (Attorney General) o di avvocato generale (Solicitor General), sebbene l'appoggiasse il suo amico e protettore Roberto Devereux, conte di Essex, che era allora il favorito della regina. Nel 1597 B. acquistava fama di scrittore, pubblicando la prima edizione dei suoi Essays, che ebbero grandissimo successo: le sue condizioni finanziarie erano tuttavia così infelici che fu costretto a ricorrere ad usurai, da uno dei quali nel 1598 fu fatto arrestare, perché non aveva potuto far fronte a un impegno.

Comparso, nel febbraio 1601, il conte d'Essex davanti alla Camera dei lord, quale capo della congiura contro la regina, fra i suoi accusatori trovò B., che sostenne energicamente l'accusa contro di lui. Il conte di Essex fu decapitato il 25 febbraio 1601: B., incaricato da Elisabetta di scrivere un'apologia del giudizio e della condanna, non mostrò riguardi per il condannato, che rappresentò come un malvagio e un traditore. Essendo stato accusato d'ingratitudine, un anno dopo la morte di Elisabetta scrisse una giustificazione in cui dichiarava che, redigendo la difesa della condanna, aveva agito come segretario della regina, mettendo di suo soltanto lo stile; osservava che la sua amicizia per il conte d'Essex non era stata mai incondizionata, perché in lui aveva visto uno strumento del bene pubblico, e soltanto per questo s'era posto al suo servizio; ricordava di averlo messo in guardia contro i pericoli che affrontava, di essersi sforzato, per quanto aveva potuto, di riconciliarlo con la sovrana e d'indurre questa a clemenza. Partecipando al processo, aveva agito conformemente al suo ufficio di consigliere della corona e al suo dovere. Spesso gli storici hanno giudicato in modo assai sfavorevole la condotta di B. rispetto al conte d'Essex: alcuni però hanno osservato giustamente che egli (che finché aveva potuto si era sempre sforzato di rendere buoni servigi al favorito) riteneva che la rivolta dovesse condurre all'anarchia. In ogni modo anche i giudici più favorevoli riconoscono che la condotta di B. non fu del tutto irriprovevole.

Dopo la morte di Elisabetta, nel 1603, B., protetto dal successore di lei Giacomo I e dal suo favorito Giorgio Villiers (più tardi conte e poi duca di Buckingham), poté conseguire gli onori più elevati. Nel 1603 ebbe il titolo di sir (cavaliere), nel 1604 fu nominato consigliere ordinario della corona, nel 1607 Solicitor General, nel 1613 Attorney General; nel 1616 entrò nel Consiglio privato della corona, nel 1617 conseguì l'ufficio di lord guardasigilli (che suo padre aveva avuto), e nel 1618 quello di lord cancelliere. Nello stesso anno fu ammesso tra i Pari col titolo di barone di Verulamio, nel 1621 ebbe il titolo di visconte di Sant'Albano. Dal 1616 in poi B. dovette al Buckingham le dignità conferitegli; ma aveva ottenuto le precedenti dal favore del re, come ricompensa di ciò che aveva fatto per sostenere la causa della corona di fronte al parlamento. Infatti egli si era posto con incondizionata devozione al servizio di Giacomo I e sino dall'inizio difese la sua politica interna contro l'opposizione dei Comuni; rispetto a quella estera, avrebbe desiderato che il nuovo sovrano avesse seguito la via segnata da Elisabetta, e lo incitò inutilmente ad agire così, ma non osò mai andar contro la volontà del re e del governo. Infatti le sue tendenze aristocratiche lo rendevano avverso alle richieste del popolo, e la sua devozione illimitata alla causa della monarchia non soltanto lo spingeva a sostenere le aspirazioni assolutistiche di Giacomo I, ma gl'impediva altresì di opporsi alle sue decisioni, anche se le disapprovava. In complesso, però, sembra che non si sia reso conto della tragica importanza che veniva assumendo il conflitto tra la corona da una parte, e il parlamento e il paese dall'altra, e che non abbia compreso che per evitare una crisi il re avrebbe dovuto procedere ben diversamente.

Il parlamento, che si aprì il 9 febbraio 1621 espresse subito il profondo malcontento del popolo inglese per la politica interna ed estera del re, cui si rimproverava di non avere esercitato un'azione energica in favore del protestantesimo nella guerra dei Trent'anni, scoppiata nel 1618. Un comitato nominato dai Comuni per compiere un'inchiesta sulle corti di giustizia verificò alcuni abusi commessi alla cancelleria da un subalterno, ed essendo stata decisa un'inchiesta anche sul funzionamento di questa, il comitato inquirente raccolse denunce di corruzione che colpivano lo stesso cancelliere: allora i Comuni deferirono il caso al giudizio dei lord. I tre comitati incaricati da questi d'istruire la causa di B. riunirono i capi di accusa (che gli furono comunicati per iscritto, perché era caduto ammalato), concedendoglisi 5 giorni per dare una risposta. In questa B. comincia col confessare di essere reo di corruzione e con l'affidarsi alla grazia e alla misericordia dei lord: passando poi alle accuse, ne riconosce alcune giuste e cerca di dare spiegazioni o attenuazioni rispetto ad altre: infine fa appello alla clemenza dei giudici. Il 3 maggio 1621 i lord, riconosciuta all'unanimità la colpevolezza di B., lo condannarono a pagare un'ammenda di 40.000 sterline, a restare imprigionato nella torre di Londra sinché fosse piaciuto al re, a essere per sempre incapace di coprire un ufficio pubblico, a non occupare un seggio nel parlamento e a non avvicinarsi alla sede della Corte: il giorno seguente la sentenza fu letta ai Comuni. Il re cercò tutti i modi di mitigarne le disposizioni: B. restò nella torre soltanto pochi giorni, ottenne il condono dell'ammenda, il perdono generale degli atti della sua carriera giudiziaria (non la grazia) e il permesso di ritornare a Londra; gli fu concessa anche una pensione. In una lettera, egli riconosceva che la sua condanna era stata giusta, sebbene fosse stato il più giusto cancelliere che avesse avuto l'Inghilterra dopo suo padre; e più tardi scriveva che era stato il più giusto fra i giudici inglesi degli ultimi 50 anni, quantunque la sua condanna fosse stata la più giusta fra quelle pronunciate nel parlamento da due secoli. L'apparente contraddizione che esiste tra queste affermazioni, e inoltre tra le confessioni di colpevolezza e le dichiarazioni d'innocenza da corruzione, si spiega ricordando che B. distingueva profondamente la corruzione vera e propria (consistente nel vendere i giudizî) dal ricevere doni dalle parti contendenti: egli, pur riconoscendo di avere compiuto il secondo atto, negò sempre energicamente di essersi reso colpevole del primo, ossia di avere pronunciato sentenze inique per i regali offertigli. Ora, nell'Inghilterra dell'età baconiana il ricevere doni era una consuetudine generale dei giudici, cui s'erano conformati anche i cancellieri che avevano preceduto B.; del resto, accettavano regali persino i più insigni personaggi del regno, a cominciare dal re e dal favorito: nell'XI degli Essays, B. aveva condannato quell'abitudine, ma non ebbe la forza di opporsi all'età sua. Inoltre (sebbene avesse abitudini personali semplici e sobrie) era dominato da tendenze al lusso e alla prodigalità che l'inducevano ad accettar doni senza preoccupazioni; un'altra causa della sua rovina furono i suoi domestici, che a sua insaputa abusarono della sua autorità e ne vendettero la protezione. Dapprima B. intendeva discolparsi, ma poi si lasciò condannare senza difesa: ora ciò si spiega ricordando che la sua causa (in cui agirono anche rancori e inimicizie personali) era essenzialmente politica e costituiva un momento di quel conflitto tra la corona e il parlamento che doveva condurre alla rivoluzione: nel cancelliere l'opposizione voleva colpire tutto l'ordinamento politico del tempo, a cominciare dal re. Giustamente si è detto che B. fu scelto come il capro espiatorio, e che, rinunciando a una difesa la quale, senza salvarlo, avrebbe scoperto la monarchia, almeno temporaneamente, salvò il re e il favorito. Ciò spiega perché avesse la convinzione di essere una vittima.

Anche dopo la condanna, B. non riuscì a misurare le spese e si trovò in condizioni finanziarie penose: occorre però osservare che la sua povertà era tale soltanto rispetto alle sue abitudini. Per liberarsi dagl'imbarazzi finanziarî egli sollecitò ripetutamente sussidî da più parti, inoltre si valse di tutti i mezzi per ottenere la remissione completa della sua condanna e per rientrare nella camera alta, ma non raggiunse questi scopi nemmeno quando a Giacomo I succedette il figlio Carlo I. Dopo la sua condanna, B. poté, realizzando il suo sogno giovanile, dedicare il suo tempo agli studî filosofici e scientifici e principalmente alle ricerche naturalistiche, le quali gli costarono la vita. Nel 1626, in un giorno assai rigido, mentre faceva una passeggiata in carrozza vicino a Londra, volle scendere per sperimentare se la neve preservasse le carni dalla putrefazione: preso dal freddo, si ammalò, e morì il 9 aprile. Come aveva desiderato, fu sepolto nella chiesa di S. Michele presso S. Albano. Nel testamento dichiarava di lasciare in legato il nome e la memoria alle parole degli uomini caritatevoli, alle nazioni straniere e alle età future.

I giudizî dati su di lui come uomo sono assai diversi. È certo che persone che lo conobbero da vicino ne parlarono assai favorevolmente; in complesso pare che fosse d'indole buona e che i suoi errori e le sue colpe si debbano attribuire, anche più che all'ambizione e al desiderio del potere (la cui azione non si può disconoscere), alla mancanza di un carattere fermo e coerente e di una lucida e precisa intuizione dei valori morali.

Dottrine. - Nella vasta e svariata opera di Francesco B. gli scritti filosofici e scientifici occupano il posto più importante, e ciò si comprende facilmente quando si consideri che nella sua vita egli sempre tenne fisso il pensiero all'innovazione radicale di tutta la filosofia o scienza (che identificava), e che sempre si preoccupò della scoperta d'un nuovo metodo di ricerca il quale ne fosse la prima condizione. Il pensiero di B. però trova i suoi antecedenti nella filosofia del Rinascimento, di cui costituisce in parte la continuazione, in parte la critica e la negazione. Considerata nell'insieme, quell'epoca ha per caratteri predominanti e strettamente connessi l'individualismo, che porta gli spiriti a ribellarsi al dominio della tradizione, e il naturalismo, che li spinge a conoscere a fondo la natura, a rappresentarla, a viverne la vita, in contrapposizione al Medioevo, che l'aveva disprezzata o troppo poco apprezzata; il ritorno alla civiltà classica è un mezzo per raggiungere quel fine. Per questi due motivi i pensatori del Rinascimento lottano fieramente contro la tradizione peripatetico-scolastica e il suo primo maestro, Aristotele, cui rimproverano di essersi compiaciuti in vane astrazioni concettuali, anzi in discussioni verbali sterili; e dapprima cercano di far rifiorire le dottrine di altri filosofi dell'antichità e poi di costruire nuovi sistemi, miranti all'interpretazione della realtà naturale.

Ma questi sistemi, che pure contenevano intuizioni geniali, destinate nelle età successive a trovare importanti svolgimenti, includevano elementi (empirici, fantastici, razionali) eccessivamente eterogenei, e non di rado inconciliabili fra loro: soprattutto, non potevano soddisfare veramente l'esigenza, sempre più viva nei ricercatori di quel tempo, di acquistare conoscenza sicura della realtà naturale; perciò l'attenzione degli studiosi si venne a fissare sempre più sul problema del metodo scientifico, perché essi si chiedevano quale via permettesse di giungere a quella meta.

Il sogno di una innovazione radicale del sapere, reso indipendente da tutte le autorità dell'età antica, del Medioevo e del Rinascimento, e fondato sulla scoperta di un nuovo metodo di ricerca, balenò assai presto alla mente di B.: sembra che vi pensasse già nel 1575, quando ancora studiava a Cambridge. Nel 1585 cominciò a effettuare il suo disegno, componendo un opuscolo intitolato Temporis partus maximus sull'argomento che lo preoccupava. (Si ritiene che sia perduto e che non si debba identificare con i due frammenti che portano il titolo Temporis partus masculus: questi però non debbono essere molto posteriori). Ma il disegno primitivo venne ampliandosi successivamente, sicché il piano definitivo della Instauratio Magna doveva comprendere sei parti: I. Partitiones Scientiarum (l'enciclopedia baconiana che divide e descrive tutte le scienze e arti, indicando le lacune ancora esistenti nel sapere); Il. Novum Organum sive Indicia de Interpretatione Naturae (la logica della scienza, o la teoria del nuovo metodo); III, Phaenomena Universi sive Historia Naturalis et Experimentalis ad condendam Philosophiam (la storia sperimentale e naturale, considerata il fondamento necessario della filosofia della natura); IV. Scala Intellectus sive Filum Labyrinthi (scala che insegna a salire dai fatti particolari a proposizioni universali e poi a ridiscendere a nuove applicazioni, filo che guida lo studioso, inoltrato nella selva intricata dei fenomeni naturali, a trovare la strada sicura); V. Prodromi sive Anticipationes Philosophiae Secundae (esposizione di dottrine trovate dall'autore o da altri con l'antico metodo e perciò accettate soltanto provvisoriamente); VI. Philosophia Secunda sive Scientia Activa (sintesi di proposizioni generali riguardanti gruppi di fatti, destinata a dirigere l'attività pratica con l'applicazione dei principî scoperti col nuovo metodo scientifico). Questo grandioso disegno fu dall'autore attuato soltanto in misura ristrettissima, perché è veramente completa esclusivamente la prima parte, rappresentata dal De Dignitate et Augmentis Scientiarum, in nove libri, che è la traduzione latina assai ampliata di uno scritto inglese anteriore in due libri (Of Proficience and Advancement of Learning). La seconda è il Novum Organum (rifatto almeno dodici volte), pubblicato incompleto e non compiuto in seguito; restano pochi frammenti della terza; alla quarta e alla quinta appartengono in modo sicuro soltanto le prefazioni, sebbene alcuni altri scritti possano assegnarsi ad esse con probabilità; della sesta nulla rimane. B. ritornava a trattare argomenti già studiati e passava dall'uno all'altro senza portare a compimento i lavori iniziati; per questi motivi i suoi scritti filosofici e scientifici costituiscono in gran parte una massa di abbozzi e di frammenti che spesso è difficile assegnare alle diverse parti della Instauratio. Alcuni scritti che interpretano allegoricamente miti antichi (De Sapientia Veterum; De Principiis atque Originibus) male rientrano nel piano generale: insieme con alcuni passi delle Cogitationes de natura rerum (1600-1604), debbono tuttavia collegarsi, almeno in qualche punto, a quella parte dell'enciclopedia che riguarda problemi metafisici.

Il movente della ricerca di B. è sempre costituito da quell'esigenza dell'applicazione pratica della scienza che lo traeva a giudicare, a sedici anni, insipida la tradizionale filosofia aristotelica, perché sterile di risultati utili alla vita umana. La scienza deve essere non passiva contemplazione, ma guida dell'azione, cioè deve servire alla vita. Ora, l'uomo tanto può quanto sa: l'impero umano consiste nella scienza, perché, essendo infrangibile la catena delle cause naturali, si può comandare alla natura soltanto se le si obbedisce. Questa tesi si applica tanto al mondo fisico quanto a quello umano: la filosofia naturale ha per fine il dominio delle cose; chi ha conoscenza della natura umana può essere l'artefice della propria fortuna ed è destinato all'impero. Però B. si occupa soprattutto della scienza della natura, perché col suo aiuto l'uomo impara a dominare le forze di essa mediante le invenzioni; quindi, se si può parlare dell'utilitarismo baconiano, si deve rilevare che esso ha carattere largamente umanistico, perché tende non al profitto degl'individui singoli, ma al vantaggio generale dell'umanità, in quanto aspira a rendere possibile la restaurazione dell'impero umano sulla natura, che è stato perduto per il peccato originale. Inoltre B. condanna energicamente il desiderio di ritrarre immediate applicazioni utili dalle ricerche ed esige uno studio disinteressato della natura, che renderà possibili in seguito più numerose scoperte. Talvolta egli mostra di apprezzare il sapere in modo disinteressato, e afferma che la conoscenza ha per sé maggiore dignità di tutte le scoperte che procura; ma in complesso l'utilitarismo umanistico è il motivo predominante nell'opera sua. Per questa ragione soprattutto B. critica e condanna, generalmente in tono assai aspro, tutto il sapere tradizionale, ch'egli giudica sterile di scoperte utili alla vita; a suo parere, la scienza greca, da cui è derivata quella posteriore, è simile ai fanciulli che sono sempre pronti a ciarlare, ma incapaci di generare. È necessario abbandonare i vecchi metodi, le vie del passato, per seguirne una completamente nuova che renda possibile la Instauratio magna di tutto il sapere. È vero che, mentre l'opera vagheggiata da B. portava questo titolo, gli scritti che dovevano propriamente costituirla (le parti II-VI) si riferivano soltanto alla scienza della natura e alle sue applicazioni; ma egli, che chiamava la filosofia naturale magna mater scientiarum e la radice delle altre scienze, e che considerava il nuovo metodo applicabile a tutti i rami del sapere, riteneva che la trasformazione totale di questi dovesse essere determinata da quella della filosofia della natura. La prima parte serviva a preparare la Instauratio, di cui doveva rendere più facile il significato; infatti occorre cominciare col conoscere il posto che spetta alla scienza della natura nel globo intellettuale, cioè nel mondo del sapere. Inoltre si deve considerare che la concezione della scienza e dei suoi fini determina la teoria del metodo, ossia dei mezzi che permettono di conseguirli e che essa implica una particolare concezione della natura, la quale è esposta principalmente nel De Dignitate et Augmentis Scientiarum e in scritti che ad esso si possono collegare. Quell'opera, dopo avere difeso la scienza dalle critiche che abitualmente le rivolgono i teologi e gli uomini politici, e dopo aver esaltato il suo valore, esamina a parte i diversi rami del sapere. Le conoscenze umane, prese nel senso più ampio, sono distinte in storia, poesia e filosofia o scienza, correlativamente alle tre facoltà dell'anima razionale da cui provengono: la memoria, la fantasia, la ragione. La storia ha per oggetto individui reali, la poesia individui foggiati ad arbitrio dalla fantasia sul modello dei primi, mentre la filosofia o scienza include le nozioni generali astratte che la mente trae dall'apprensione degli esseri individuali e che compone e divide in modo corrispondente alla realtà. La storia si divide in naturale e civile (perché può considerare sia la natura sia l'uomo). La prima si suddivide corrispondentemente alle condizioni in cui si può trovare la natura, che può svolgersi liberamente nel suo corso abituale o allontanarsi da esso nelle mostruosità o venire soggiogata dall'arte umana: la terza suddivisione costituisce quindi la storia delle arti (o meccanica e sperimentale). B. mette in rilievo il valore della storia delle mostruosità, osservando che le anormalità sono esperimenti compiuti dalla stessa natura che permettono di comprendere meglio il suo corso normale; quanto alla storia delle arti, nota che queste, tormentando la natura, ce ne dànno una visione più chiara di quella che essa ci offre quando è abbandonata a sé stessa. La storia della natura, che è divisa in tre rami rispetto al suo oggetto, lo è in due relativamente all'ufficio che compie, perché può o far conoscere le cose per sé o offrire materia al processo legittimo d'induzione e alla filosofia naturale; si hanno così la storia narrativa e l'induttiva. La storia civile si divide in sacra o ecclesiastica, civile in senso stretto (o politica) e letteraria, o storia delle lettere e delle arti. Precorrendo i tempi, B., che chiama quest'ultima l'onore e quasi l'anima di tutta la storia civile, l'intende nel senso d'una vera e propria storia della cultura. Nella poesia egli distingue le parole (che sono una forma di elocuzione) dal contenuto che riguarda le cose; considerata sotto questo aspetto, essa è un'imitazione arbitraria della storia e si divide in narrativa o eroica, drammatica e parabolica. B. (che apprezza quest'ultima più delle altre forme di poesia) distingue le parabole secondo che servono a insegnare la verità o a velarla: infatti esse hanno avuto talvolta nell'antichità l'ufficio di coprire d'un velo i misteri della religione, della politica, della filosofia. B. interpreta varie favole antiche, in cui ritrova molte dottrine (assai importanti per la comprensione della sua filosofia generale) che evidentemente giudica vere e in cui vede reliquie sacre di tempi migliori.

Prima di ricordare ciò che dice della filosofia o scienza, occorre indicare le sue dottrine gnoseologiche più importanti. Seguendo il Telesio, B. distingue l'anima razionale, ispirata direttamente da Dio, dalla irrazionale, sensibile (che l'uomo ha in comune con i bruti), e assegna alla seconda le funzioni del senso e del moto, mentre ricorda tra quelle della prima, dichiarandole innate, l'intelletto, la ragione, la fantasia, la memoria, l'appetito, la volontà. In un testo importantissimo riduce le funzioni dell'anima razionale a un moto non materiale ma spirituale, cioè al movimento del pensiero. Inoltre egli non si limita a chiamare innate le funzioni dell'anima razionale, che per lui è per essenza distinta dalla sensibile (il che implica l'irriducibilità delle attività del pensiero al senso), ma sostiene anche che è innata la luce naturale, il lumen naturae, cioè la facoltà di distinguere il vero dal falso e di apprendere il primo. Ciò costringe a ritenere che, quando ripetutamente afferma che il senso è la porta dell'intelletto, che per giungere all'universale occorre partire dai particolari, che la conoscenza della natura deve muovere dall'esperienza sensibile (tesi, del resto, sostenute anche dalla tradizionale filosofia aristotelico-scolastica), quando condanna coloro che hanno preteso di derivare dal puro pensiero tutta la conoscenza della realtà, quando contrappone le anticipazioni della mente (o della natura), con cui il pensiero vuole precorrere l'esperienza, alla legittima interpretazione della natura, non intende affatto di far provenire dal senso tutto il conoscere. Se con quelle parole egli vuole mettere in luce la necessità di porre nel dato empirico il punto di partenza della ricerca, ritiene però che la mente possieda energie proprie che sono necessarie per elaborare e interpretare l'esperienza in modo conforme a un criterio assoluto di verità che la luce naturale deve apprendere immediatamente. Ciò risulta anche da altre sue affermazioni. La filosofia si divide nelle scienze della divinità, della natura e dell'uomo, che sono fondate su una scienza universale, la filosofia prima, che ha essenzialmente per oggetto i principî o assiomi comuni a più discipline scientifiche: ora tra essi sono ricordate le proposizioni "nulla nasce dal niente e nulla può ritornare al niente" (ex nihilo nihil fieri neque quicquam in nihilum redigi), che B. replicatamente dichiara le più vere che esistano in natura e che costituiscono il presupposto tacito delle sue concezioni filosofiche fondamentali. Si deve quindi ammettere che siano apprese dalla luce naturale, sebbene occorra un eccitamento dell'esperienza perché la mente riesca a leggerle nella realtà. Ora B. afferma di non attribuire molta importanza all'apprensione sensibile immediata se non in quanto rivela movimento o alterazione nelle cose, e che il principale inganno del senso, cioè la sua soggettività, si corregge soltanto con la ragione e la filosofia universale. In altri termini, la ragione esige che le apparenze sensibili, che presentano un fluire di qualità mutevoli, un continuo nascere e perire, siano ridotte a processi meccanici, a movimenti di una realtà quantitativamente immutabile, il che è appunto richiesto dalla proposizione ex nihilo nihil. Premesse queste indicazioni (che troveranno in seguito altre prove), possiamo passare alle divisioni delle filosofie o scienze particolari.

La scienza della divinità, concepita come teologia naturale, cioè come la conoscenza che per mezzo della luce di natura e della contemplazione delle creature si può avere di Dio, si deve distinguere dalla teologia rivelata, che B. identifica con la religione. La prima ha una sfera limitata, perché serve a confutare l'ateismo, a provare l'esistenza di Dio e poco più, non a dare un fondamento alla religione che deve avere per base non la ragione, ma la fede.

La scienza o filosofia della natura si divide in speculativa o teorica, che ricerca la conoscenza delle cose, e in operativa o pratica, che mira alla produzione degli effetti: l'una va dalle esperienze alle proposizioni generali, l'altra discende da queste a nuove scoperte. La prima si suddivide in fisica e in metafisica: quella studia le cause materiali ed efficienti, questa ha per oggetto le formali e finali. Le cause di cui si occupa la fisica sono incerte, mutevoli, relative, quelle che formano l'oggetto della metafisica sono permanenti e costanti. La fisica poi può considerare la natura nella sua unità o nella sua varietà: siccome quell'unità dipende dai principî comuni di tutte le cose o dall'unica struttura integrale dell'universo, si hanno tre rami della fisica, la teoria dei principî delle cose, la teoria della struttura dell'universo (ambedue sono appena accennate nel De Dignitate et Augmentis), la teoria della varietà delle cose. Alla prima si collegano le idee che, interpretando alcuni miti antichi, B. presenta sull'atomismo, al quale da principio si mostra favorevole, per allontanarsene gradatamente col tempo. Egli difatti respinge l'atomismo democriteo, perché ammette il vuoto e una materia non fluxa (cioè immutabile): però sostiene una dottrina assai simile ad esso. A suo parere, i principî o elementi delle cose (il Cupido delle favole antiche), identici nella sostanza, si distinguono tra loro soltanto per forma, figura e posizione. I principî poi differiscono completamente, per la sostanza, per le proprietà, per il movimento, dai corpi composti; però in essi risiedono gli elementi di tutti i corpi, nel moto e nelle virtù loro sono posti gl'inizî di tutti i moti e di tutte le virtù, e tutta la varietà degli esseri proviene dalle differenze di tali caratteri dei loro principî. Ma questi si trasformano gli uni negli altri, ossia cambiano figura, e ciò avviene perché non esiste riposo assoluto, nemmeno nelle particelle minime, le quali continuamente mutano perché includono una virtù, una forza primitiva (comunicata ad esse da Dio), che è insieme un appetito, uno stimolo, e il loro movimento naturale, che è anche la legge suprema della materia prima, legge che costituisce il vertice della piramide della natura e che è altresì identica al moto più generale che vi sia. Può darsi che la mente umana sia incapace di apprendere tale legge, e che Dio ne riservi a sé soltanto la conoscenza, ma, se è forse impossibile determinare con precisione la sua natura, è indiscutibile la sua esistenza: pare anzi che B. veda in essa la tendenza della materia a conservare sé stessa, su cui poggia la sua indistruttibilità. "Ovunque si trova percezione", ma essa non deve scambiarsi col senso, cioè con l'apprensione cosciente. Ora, se il movimento primitivo degli elementi è una forza, un appetito originario, è facile comprendere come esso sia il fatto più universale (il che implica un'intuizione meccanica della natura), e inoltre come tutti i corpi includano tendenze unite a percezioni, sebbene nei principî loro l'impulso sia cieco, com'è Cupido. Sulla teoria dei principî delle cose si fonda quella della struttura dell'universo, la quale presenta questo come una totalità che ha una costituzione unitaria, perché sottostà a una sola legge necessaria collegante con vincoli infrangibili tutti gli avvenimenti e tutti gli esseri, e perché è riducibile a un unico principio universalissimo. Infatti tutti gli esseri naturali gradatamente mettono capo a un'unità suprema per la ragione che sono costituiti degli stessi elementi e sono governati dalla legge di questi, legge che regge l'universo, perché a essa si riducono tutte le altre. L'unità sistematica del tutto si fonda così sull'omogeneità dei suoi elementi e sull'uniformità della sua azione, che è sempre costante e uguale a sé medesima, perché poggia sulla forza, cioè sul movimento naturale degli elementi che permane sempre lo stesso; per sua natura esso è necessario e perciò dà origine a un rigoroso determinismo di cause e di effetti che, collegando tutti gli esseri e tutti gli avvenimenti, esclude completamente la contingenza e la fortuna. La concezione baconiana della natura appare quindi fondata su una teoria dei principî che collega il meccanicismo, il dinamismo e l'animismo, in quanto intende gli elementi primi delle cose come corpuscoli fluenti, in cui è incluso un moto naturale che è insieme una forza, uno stimolo, una legge; questa teoria s'impone al pensiero perché ha per base la proposizione più certa che esista ("nulla nasce dal nulla..."), la quale prescrive di spiegare il divenire che si presenta al senso con differenze di figura e di posizione e con processi di movimento di realtà sempre identiche. È vero che i corpuscoli elementari sono fluenti e si trasformano l'uno nell'altro; ma essi posseggono esclusivamente determinazioni geometriche, e perciò i loro mutamenti possono consistere soltanto in cambiamenti di figura di parti dello spazio pieno. In ultimo, quindi, tutto l'universo si riduce a una sola realtà che nella sua totalità permane immutabile: la somma delle determinazioni spaziali, ossia la spazialità piena.

Prima di passare alla teoria delle forme, che trova il suo presupposto nelle dottrine ora ricordate, occorre accennare alla terza parte della fisica (cioè allo studio della varietà delle cose), che è divisa in fisica concreta, che considera le sostanze, ossia gl'individui concreti e le loro proprietà, e in fisica astratta, che ha per oggetto le nature, vale a dire le proprietà comuni a esseri svariati. Fra le parti in cui si divide la prima, B. si occupa soltanto dell'astronomia, deplorando che sia stata studiata come una scienza matematica, non fisica. B., che critica le tre ipotesi predominanti fra gli astronomi del tempo suo (la tolemaica, la copernicana e quella di Tycho Brahe), mostrandosi particolarmente severo verso la seconda, chiede che si costruisca un'astronomia fisica viva, che faccia conoscere la sostanza dei corpi celesti. In questo argomento, combattendo le opinioni della scienza antica e medievale e propugnando quelle della moderna, nega valore alla dottrina aristotelica, che contrapponeva l'eternità e l'immutabilità dei cieli all'incessante alterazione e corruzione del mondo sublunare, e sostiene vigorosamente il principio della omogeneità della materia dell'universo (che del resto ha per base l'unità dei principî elementari). Se in ciò B. si avvicinava al pensiero moderno, rimaneva legato a quello anteriore quando, pur criticando l'astrologia ed esigendo che venisse purificata dalle superstizioni e invenzioni fantastiche che la contaminavano, si opponeva alla sua completa eliminazione; non bisogna però dimenticare che scienziati come Tycho Brahe e Keplero le prestavano ancora fede. Nella fisica concreta rientrano la ricerca dello schematismo latente, che risiede nella struttura intima della materia, e quella del processo latente, che è il movimento che si svolge nelle particelle di tale schematismo. Se il primo studio si può forse avvicinare alle analisi chimiche, è difficile trovare nella nostra scienza qualche cosa di analogo al secondo, che comprende un programma di ricerche, poggiate bensì sull'intuizione meccanica della realtà, ma diverse ed eterogenee: però ciò che B. dice parlando del processo latente contiene importanti accenni all'interpretazione genetica della natura. Le particelle dello schematismo latente presentano proprietà sensibili (perché, sebbene abitualmente siano impercettibili, possono con istrumenti, come il microscopio, essere portate sotto il senso), e perciò si debbono ridurre in ultimo a corpuscoli elementari, ai cui movimenti primitivi dovranno essere ricondotti quelli che tali particelle compiono nel processo latente: ciò verrà chiarito dalla teoria delle forme, che fa parte della metafisica. Questa però è preceduta dalla fisica astratta, che ha per oggetto ciò che B. chiama le nature semplici, suddivise negli schematismi della materia o atti puri (cioè le proprietà sensibili) e negli appetiti o virtù attive di essa (ossia i suoi principî motori, identificati con i movimenti). Mentre la fisica astratta studia questi oggetti sotto il rispetto delle cause materiali ed efficienti, la metafisica se ne occupa per scoprire quelle formali, ossia le forme. Le forme delle nature semplici, con le loro combinazioni, costituiscono quelle degli esseri individuali, cioè delle sostanze concrete (come la quercia, l'oro, ecc.); ma per conoscere le seconde occorre sapere che cosa sono le prime. Il concetto delle forme è uno dei più importanti di tutta la filosofia di B., ma ha dato luogo a notevoli divergenze d'interpretazione, sia per le difficoltà dell'argomento, sia per i diversi modi in cui egli ha espresso il suo pensiero.

In ogni modo è certo che, secondo lui, la forma di una natura semplice (p. es. del colore bianco o del calore, cioè di una proprietà sensibile) e la natura stessa non sono due cose diverse, ma differiscono soltanto come l'esistente e l'apparente (la realtà e la sua apparenza), l'interno e l'esterno; ossia sono la stessa cosa considerata in relazione ora con l'universo, ora con l'uomo. Lo studio delle poche indicazioni dei testi baconiani che trattano della ricerca delle forme (specialmente nel Novum Organum) mostra che queste consistono in condizioni geometrico-meccaniche, cioè in strutture e in movimenti delle parti costituenti i corpi: sono cause delle nature semplici soltanto in quanto determinano certe impressioni sui sensi di un soggetto cosciente, e ciò significa che le qualità sensibili sono puramente soggettive. B., chiamando cause le forme, dà a questa espressione un significato diverso da quelli del linguaggio comune e della scienza moderna. Non sono cause efficienti, ma essenze immanenti alle cose; in questo concetto B. si avvicina alla dottrina aristotelica, mentre riprende quella democritea, interpretando le forme in senso geometrico-meccanico. B. le chiama anche leggi degli atti puri, ma non vede affatto in esse espressioni di rapporti funzionali universali e necessarî tra fenomeni, e meno che mai pensa alla natura quantitativa di quei rapporti. Con la sua concezione geometrico-meccanica della realtà, egli vuole non interpretare matematicamente i fenomeni, ma ridurli a elementi forniti soltanto di proprietà spaziali e di movimenti; il suo fine non è strettamente scientifico, ma metafisico. Siccome le forme, secondo B., costituiscono una gerarchia, si deve giungere gradatamente agli elementi ultimi della materia e al loro movimento naturale, cioè al vertice della piramide della natura. Le teorie dello schematismo e del processo latenti portano alla dottrina delle forme delle nature semplici, e questa a sua volta conduce a quella degli elementi ultimi delle cose e dei loro movimenti, che costituisce il presupposto della ricerca induttiva, che dovrà determinare con esattezza la natura degli uni e degli altri. La metafisica si occupa, oltre che delle cause formali, anche di quelle finali, che invece debbono venire escluse dalla fisica, non perché non abbiano realtà, ma perché le riescono dannosissime, allontanando gli studiosi dalla ricerca delle cause efficienti. Del resto, esse si possono conciliare perfettamente con le seconde, perché lo stesso fatto si può spiegare mediante le une e mediante le altre, e questo accordo offre la miglior prova della provvidenza di Dio. La scienza operativa o pratica della natura (che è un'applicazione di quella speculativa) si divide in meccanica, che ha per base la fisica, e in magia, intesa nel senso buono della parola, che poggia sulla metafisica, in quanto teoria delle forme. La conoscenza di queste, secondo B., permetterebbe di conseguire la trasmutazione dei corpi vanamente ricercata dagli alchimisti, perché chi avesse notizia delle forme delle nature semplici che costituiscono l'oro (il colore, il peso, ecc.) potrebbe, producendo queste proprietà in un corpo, ottenere quella sostanza. Un'appendice comune delle due parti, teoretica e pratica, della filosofia naturale, è la matematica. B., che le dimostra poca simpatia e che poco l'apprezza, vuole che sia un'ancella della fisica, e fa vedere di valutarla quasi esclusivamente per il contributo che, insieme con questa, arreca alle applicazioni pratiche.

Sebbene B. si occupi largamente della scienza dell'uomo, non occorre soffermarsi a lungo su questa trattazione, che non è molto interessante. Egli la divide in due sezioni, secondo che considera l'uomo come individuo singolo (la scienza dell'individuo umano), o come parte della società (filosofia civile). La prima può occuparsi del corpo dell'uomo, della sua anima e di ciò che è comune all'uno e all'altra; quest'ultima ricerca può avere per oggetto tutta la natura umana o il rapporto dell'anima e del corpo. I punti più importanti dello studio dell'anima umana (distinzione dell'anima sensibile dalla razionale; indicazione delle loro facoltà; differenza tra la percezione e il senso) sono stati già menzionati. A questa trattazione segue quella della logica (che qui basta ricordare) e dell'etica. B. (che, pur sottoponendola alla religione, le riconosce una certa autonomia) la divide in teoria del modello o dell'immagine del bene, che designa il fine da raggiungere, e in teoria della cultura (o georgica) dell'anima, che indica i mezzi per conseguirlo. Quanto alla prima, B. afferma che l'ideale della condotta deve essere derivato dallo studio della natura, il quale mostra che ogni corpo include l'appetito innato sia del bene individuale o soggettivo sia di quello collettivo. Il secondo generalmente è più forte del primo, soprattutto nell'uomo (in quello almeno che non è un degenerato); ma nessuna religione o filosofia ha tanto esaltato il bene collettivo e depresso l'individuale quanto la fede cristiana, la quale vede nella carità la virtù che include tutte le altre; questo mostra che lo stesso Dio, che ha imposto alle creature inanimate le loro leggi naturali, ha dato all'uomo la legge del cristianesimo. La georgica dell'anima deve partire dallo studio accurato dei diversi caratteri individuali, esaminare a fondo le passioni che turbano l'uomo e indicare i mezzi (l'abitudine, l'educazione ecc.) che, operando sull'appetito e sulla volontà, giovano a modificare i costumi. La scienza civile si divide in tre parti: la teoria delle relazioni con gli uomini, la teoria del modo di dirigere i proprî affari, la teoria del governo dello stato. La seconda, che insegna a far progressi nella vita per conseguire fini puramente individuali, in modo indipendente e anche contrario al bene comune, male si accorda sia con la morale naturale sia con la teologica, che comandano, l'una la ricerca del bene collettivo, l'altra quella della carità. Della teoria del governo dello stato è trattata soltanto la parte che riguarda i mezzi che permettono d'ingrandire un paese, in cui B. considera gli stati come individui che sono per natura in condizione di guerra reciproca e che debbono proporsi il fine d'essere superiori agli altri con tutti i mezzi, cercando pretesti per legittimare le guerre se non ne esistono cause giuste. B., mettendo in luce l'importanza che ha il dominio del mare, pare nutrire la speranza che l'Inghilterra, che naturalmente lo possiede, sia destinata all'impero del mondo. Nel suo programma, le finalità belliche predominano su tutte le altre, talché il sapere, la tecnica, le industrie sono subordinati ad esse. La scienza civile si chiude con la trattazione della giustizia universale o delle fonti del diritto, in cui B. cerca di dare in forma aforistica l'esempio d'un lavoro che mostri come si raggiungano le sorgenti naturali della giustizia e dell'utilità pubblica e come si ponga in evidenza nelle diverse parti del diritto un modello o idea del giusto che possa fungere da criterio di valutazione e di correzione per le leggi degli stati particolari.

Il Novum Organum costituisce la nuova logica della scienza della natura e soprattutto della metafisica, perché si occupa principalmente della scoperta delle forme e delle applicazioni di esse. A differenza della logica volgare o dialettica, quella nuova deve insegnare a trovare non ragionamenti probabili, ma res et opera, invenzioni, applicazioni pratiche, a dominare la natura con l'azione; perciò adopera non il sillogismo (che giova soltanto nelle discussioni), ma l'induzione. La mente umana è difettosa sia perché è ristretta, sia perché non rispecchia in modo fedele la realtà; perciò bisogna diffidare dell'intelletto abbandonato a sé stesso e guidarlo dall'inizio al termine della ricerca, usando un procedimento, che, fornito dalla sicurezza d'un meccanismo, non lasci quasi posto per le differenze mentali degl'individui. Però la parte positiva del Novum Organum, cioè la vera e propria teoria metodologica, è preceduta da quella negativa o polemica, la critica degl'idoli (ossia delle cause d'errore), sia innati sia provenienti dall'esterno, da cui bisogna purificare la mente che da essi è occupata. Sono innati gli idola tribus (della specie umana), cioè quelli fondati sulla natura stessa dell'uomo, che nelle sue percezioni, sensibili o intellettuali, ha delle cose rappresentazioni non oggettive, ma soggettive. Alcuni errori provengono dal senso, il quale o ci abbandona o c'inganna, altri dal pensiero. Fra questi merita ricordo la tendenza ad astrazioni intellettuali arbitrarie: occorre sezionare la natura, analizzarla, non risolverla in astrazioni. Queste affermazioni implicano la convinzione che la natura ha una struttura geometrico-meccanica che si sottrae sia al senso sia alle astrazioni concettuali. Innati sono pure gli idola specus (ossia quelli proprî dell'individuo singolo), dei quali fa parte l'eccessiva propensione per l'antichità o per la novità: B. condanna ambedue questi eccessi, ma, in complesso, è più ostile al primo che al secondo, avvicinandosi in ciò alle tendenze predominanti nell'età sua. Veritas temporis filia dicitur ("si chiama la verità figlia del tempo"): i veri antichi sono i moderni perché posseggono maggiore ricchezza di esperienza e più matura riflessione. "La scienza si deve derivare dalla luce della natura, non dall'oscurità dell'antichità". Del resto, le dottrine dei pensatori antichi che la corrente del tempo ha trasportate a noi sono le più leggiere (perché erano le più grate alla massa), mentre quelle più profonde si sono sommerse. Quasi innati sono gli idola fori, cioè gli errori provenienti dalle relazioni sociali che si formano fra gli uomini per opera del linguaggio; infatti spesso alle parole si dà per convenzione un significato che non corrisponde alla realtà. I più pericolosi e i più profondamente radicati derivano da processi difettosi di astrazione, ossia da una tendenza comune della mente umana, e perciò la prima sorgente di questi errori si deve cercare negl'idoli della tribù. Vi sono poi errori che penetrano nella mente dall'esterno, e sono gli idola theatri, cioè quelli prodotti dalle dottrine filosofiche e dai processi dimostrativi difettosi: tutte le filosofie sinora costruite sono tante rappresentazioni teatrali che hanno creato mondi fantastici e scenici. In questa parte B. si diffonde assai nella critica delle dottrine dei filosofi e degli scienziati del passato, soprattutto in quella dell'aristotelismo. La filosofia può peccare per scetticismo o per dogmatismo. Quella dogmatica è superstiziosa, se mescola la scienza della natura con la teologia; razionalistica se, dopo aver tratto dall'esperienza di fatti svariati, ma volgari e non bene accertati e verificati, alcune nozioni pure volgari, si sforza di spiegare con esse tutto il resto, valendosi esclusivamente del lavoro della mente (questo intellettualismo poggia quindi su un ingenuo empirismo acritico); empirica, se fonda interi sistemi su pochi esperimenti compiuti con grande laboriosità.

Bacone, pur riconoscendo che la sua filosofia è affine allo scetticismo nel punto di partenza, afferma che, rispetto alla meta, gli si contrappone, perché ritiene non già che nulla si può conoscere, ma che non molto si può sapere seguendo la via sinora tenuta; egli non nega la possibilità della conoscenza, ma vuole indicare il modo che permette di conseguire un sapere sicuro. Quanto al dogmatismo, B. condanna incondizionatamente la filosofia superstiziosa, mentre accusa la razionalistica e l'empiristica di unilateralità e invoca un intimo connubio tra la facoltà razionale e l'empirica della mente. Occupandosi dei procedimenti metodologici, condanna aspramente la dialettica tradizionale, propria del razionalismo aristotelico, il quale anche qui è accusato di poggiare su un empirismo ingenuo che parte da un'esperienza non criticata e, in ultimo, dal dato sensibile, accettato con fiducia illimitata. B. critica anche quell'induzione che per mezzo dell'enumerazione semplice vuole scoprire i principî delle scienze, osservando che, se si enumerano casi particolari non contraddetti dall'esperienza precedente, non si può giungere a una conclusione che sia superiore a una congettura probabile; del pari, condanna la pretesa di ascendere di sbalzo, non per mezzo di un processo graduale, ai principî più universali. Al pari della maggior parte dei filosofi del Rinascimento e di Galileo, B. fa oggetto di una severa critica l'eccessiva fiducia riposta nel meccanismo sillogistico, che in effetto si lascia sfuggire la realtà. Al pari di Galileo, egli colpisce nella metodologia aristotelica sia l'empirismo acritico, che troppo confida nell'esperienza, sia lo schematismo astratto del sillogismo; ma con non minore durezza condanna i procedimenti metodologici di ogni forma di empirismo.

Alla parte polemica del nuovo metodo segue quella positiva, l'arte d'interpretare la natura, che, al pari della filosofia naturale, è divisa in due sezioni: la contemplativa o teorica, che insegna a salire dall'esperienza a proposizioni generali (o assiomi), e l'operativa o pratica, che ammaestra a discendere da esse a nuove applicazioni. La prima comprende la trattazione degli aiuti (ministrationes) che si debbono dare al senso, alla memoria e all'intelletto. Gli ausilî del senso includono alcuni gruppi d'istanze prerogative (fatti privilegiati per la loro importanza) che si debbono raccogliere prima d'iniziare ricerche particolari: esse, che rappresentano una scelta compiuta da B. nella storia naturale di cui poteva disporre, hanno l'ufficio di recare aiuto all'intelletto, o indirettamente, in quanto soccorrono il senso (dal quale deve partire il lavoro del pensiero che vuole interpretare la natura), o in modo più diretto, ma sempre per mezzo del materiale empirico. Così è stabilito un intimo rapporto tra la facoltà empirica e la razionale; del resto, si deve notare che si affida sempre al pensiero l'incarico di riconoscere e valutare i fatti che possono aiutarlo, di comprenderli, d'interpretarli. Gli ausilî della memoria risiedono nella scrittura, ma soprattutto nelle tavole di scoperta in cui il materiale empirico deve essere diviso. Siccome la forma d'una natura deve essere sempre presente o assente secondo che questa è presente o assente, e aumentare e diminuire in correlazione con essa, i fatti si devono dividere nelle tavole di concordanza (in cui si raccolgono quelli che si accordano nel presentare la natura studiata), di privazione (che include i casi in cui è assente) e dei gradi; è chiaro che questa trattazione presuppone tutta la teoria delle forme. Gli aiuti della ragione, ai quali si subordinano i precedenti, consistono nell'induzione vera, che è la chiave dell'interpretazione della natura. Contrapponendosi all'aristotelica, essa deve procedere gradatamente, in modo continuo, dai fenomeni particolari dell'esperienza ai principî più universali ed essere così costituita da poter trarre una conclusione universale da alcuni casi in modo tale che si possa dimostrare che non è possibile scoprire un'istanza contraddittoria. Per giungere a conclusioni necessarie il procedimento induttivo deve però, invece di considerare solamente i casi positivi (come si fa di solito), valersi anche, anzi principalmente, dei negativi, per scartare grazie al metodo di esclusione le possibili soluzioni errate: occorre che la mente risolva le cose nelle nature semplici che le costituiscono per riconoscere poi, con l'eliminazione delle nature che non sono sempre presenti o assenti, che non crescono e diminuiscono con la studiata, quale sia quella che ha con questa tali rapporti: essa sarà la forma ricercata. Ma se le cose concrete sono costituite da nature semplici, o proprietà sensibili, che, a giudizio di B., sono puramente soggettive, come è possibile giungere a qualche cosa di oggettivo, a una forma che sia l'essenza di una di esse? Per risolvere la difficoltà occorre ammettere che la natura che, essendo sempre unita a quella studiata, è la sua forma, risieda non nei corpi composti, ma nei loro elementi costitutori. In altri termini, B. possedeva la certezza che la ragione fa riconoscere nella realtà soltanto elementi forniti di proprietà geometriche che compiono movimenti nello spazio, e perciò poteva integrare la soluzione analitica di una sostanza nelle proprietà sensibili di cui risulta con una più profonda che, grazie all'eliminazione di queste, arreca una determinazione particolare alla concezione metafisica generale, indicando con precisione in quali condizioni geometriche di struttura e in quali processi di movimento consista una certa forma. Però molto spesso è necessario adoperare le nozioni abituali che sono difettose e per conseguenza il risultato cui si giunge è semplicemente un'ipotesi provvisoria: occorre quindi arrecare all'intelletto aiuti più forti. B. ne enumera nove, ma ne studia soltanto uno, le istanze prerogative, fra le quali hanno particolare importanza le cruciali (instantiae crucis), che, simili alle croci poste nelle biforcazioni delle strade, mostrano quale fra le possibili cause della natura studiata sia la vera. Fra gli altri otto argomenti indicati merita ricordo la preparazione della ricerca (trattata da B. in uno scritto speciale, Parasceve ad Historiam Naturalem et Experimentalem) che deve dare norme sul modo di preparare una storia naturale che si conformi a criterî razionali, per servirsi del materiale empirico allo scopo d'interpretare la natura. Del resto, B. (che ha sempre chiesto che lo studio storico di questa si volgesse più agli esperimenti luminosi che a quelli fruttuosi), mostra, in generale, come la storia della natura, che egli considera la base di tutta l'opera sua, implichi il lavoro del pensiero e la connessione della facoltà empirica con la razionale. Spesso, parlando sia delle istanze prerogative (specialmente delle cruciali) sia di altri soccorsi dell'intelletto, egli insiste sulla necessità di far uso di un procedimento sperimentale attivo con cui lo scienziato, per verificare un'ipotesi, modifica il corso abituale della realtà: l'ufficio del senso si limita a constatare i fatti, mentre l'esperimento predeterminato dall'intelletto, ossia l'intelletto stesso che lo ha concepito per raggiungere i suoi fini scientifici, dà un giudizio sulla natura e sulle cause dei fatti stessi. Anche le applicazioni pratiche delle scoperte scientifiche (cioè le nuove invenzioni) servono, oltre che ad appagare i bisogni dell'uomo, a convalidare proposizioni generali e a garantire la certezza dei risultati conseguiti con l'induzione. B. afferma che le opere (ossia le applicazioni) sono il maggior pegno di verità; perciò occorre pensare che le considerasse il criterio definitivo delle ipotesi provvisorie ottenute col procedimento induttivo e che, soltanto dopo essersene servito, ritenesse di potere ascendere con sicurezza a proposizioni più universali. Il Novum Organum si limita a dare pochi cenni sulla parte pratica della metodologia, cui si debbono assegnare alcune istanze prerogative.

Compiuto l'esame dell'opera filosofica di B., occorre, prima di valutarla nel complesso, considerare rapidamente altri aspetti della sua attività. Come uomo politico, coprì bensì uffici elevati, ma subordinati, perché la direzione delle cose pubbliche spettava ai favoriti e ai segretarî di stato; comunque, gli si deve tener conto di alcuni importanti progetti e principalmente di quello riguardante la codificazione delle leggi britanniche. Come giurista, dalla considerazione dei casi particolari seppe con sicurezza innalzarsi nella sfera dei principî generali del diritto. Come scrittore sia inglese sia latino, i migliori giudici si accordano nel riconoscere la sua grandezza e le rare doti del suo stile. I suoi Essays (che secondo H. Morley si rivolgono a tutti coloro che vivono, perché trattano di ciò che è essenziale nella vita) hanno in Inghilterra segnato l'inizio di un genere letterario che doveva vantare una storia gloriosa e sono sempre uno dei libri più letti dagl'Inglesi. La Storia del regno di Enrico VII è stata giudicata uno dei più insigni frutti che abbia prodotto al suo inizio la letteratura storica inglese. Ma importanza assai maggiore di tutte le altre esplicazioni dell'attività di B. ha il suo pensiero scientifico e filosofico, in cui però bisogna distinguere ciò che concerne lo scienziato da ciò che riguarda il teorizzatore della scienza e il filosofo. Sotto il primo rispetto, è indiscutibile che le aspre critiche che gli sono state rivolte appaiono nell'insieme giustificate. Egli, che poneva il fondamento della totale trasformazione della scienza della natura in una storia naturale e sperimentale criticamente raccolta e accusava i suoi predecessori di credulità e di superficialità, ha offerto il fianco alle critiche non soltanto dei suoi denigratori, come J. von Liebig, ma anche di giudici favorevoli, quando ha cercato di attuare i suoi progetti; particolarmente la sua storia generale della natura (la Sylva Sylvarum) è piena d'inesattezze e di errori gravissimi. B., che criticava duramente la scienza anteriore e contemporanea, ha mostrato di non aver conosciuto o di non aver apprezzato giustamente alcune delle più importanti conquiste dei ricercatori dell'età sua, principalmente di coloro che lavoravano nel campo delle matematiche e delle discipline fisiche di tipo matematico, come l'astronomia e la meccanica: ha trattato con poco riguardo W. Gilbert, assalito Copernico, ignorato Keplero e S. Stevin, mostrato scarsa fiducia nelle scoperte di Galileo; soprattutto ha dato prova di non rendersi conto della rivoluzione che quest'ultimo aveva prodotto nella scienza. Ma questo è un effetto del suo spirito antimatematico che gl'impediva d'indovinare l'ufficio che le matematiche erano destinate a compiere nella costruzione della nuova scienza della natura. D'altro canto bisogna aggiungere che spesso egli precorse i suoi tempi, indicando alle scienze particolari nuovi campi d'indagine e nuovi criterî di ricerca.

Rispetto al valore di B. come teorizzatore della scienza e come filosofo, occorre portare la discussione su un terreno diverso. Spesso lo si è biasimato per avere valutato eccessivamente l'importanza del metodo scientifico e per aver preteso che se ne potesse insegnare uno che, procedendo con l'infallibilità d'un meccanismo permettesse di giungere, in modo indipendente dal genio individuale, a scoperte e a invenzioni nuove; ma per non commettere ingiustizie, occorre ricordare che il Descartes e i suoi continuatori (soprattutto il Leibniz) hanno confidato non meno di B. nell'efficacia del metodo, e che egli ha effettivamente riconosciuto che esso si deve perfezionare gradatamente, in correlazione con le scoperte che la ricerca scientifica compie; ora ciò significa che la scienza si viene evolvendo, e questo presuppone l'attività del ricercatore che trasforma progressivamente gli strumenti di cui si vale. Si è biasimato B. per la sua condanna delle ipotesi; ma con essa egli voleva colpire soltanto le costruzioni arbitrarie della fantasia, non fondate sull'esperienza e non verificate da essa; del resto, il suo stesso metodo si vale continuamente del procedimento ipotetico. In generale, la teoria metodologica di B. non soltanto esige la connessione indissolubile dell'esperienza e del pensiero, ma presuppone anche, sino dall'inizio, una concezione generale della natura che ne predetermina i procedimenti. Però non si può giustamente affermare che B. abbia fondato la metodologia della nuova scienza induttiva della natura; egli mirava alla scoperta non di rapporti funzionali tra fenomeni, ma di essenze ultrafenomeniche (al contrario della ricerca scientifica moderna), sebbene il suo procedimento, cioè l'induzione per esclusione, che voleva restare empirico, non gli permettesse di ottenere lo scopo; infatti, come si è ricordato, egli dovette mutare l'analisi sperimentale in una concettuale, per poter superare la sfera soggettiva delle proprietà sensibili e raggiungere essenze oggettive. Appunto perciò, in seguito, fu possibile ai teorici dell'induzione empirica trasformare il metodo di B. e ricercare con esso non le forme baconiane, ma rapporti causali esistenti tra fenomeni. Però B. contribuì allo sviluppo posteriore della scienza, lottando vigorosamente contro la tradizione aristotelico-scolastica ancora potente, condannando l'abuso di vuote astrazioni concettuali, insistendo con energia sulla necessità di partire dall'esame dei fatti, mettendo in rilievo l'esigenza di sottoporre a una severa critica, che deve essere compiuta dal pensiero guidato da una visione complessiva della realtà, quell'esperienza comune che raccoglie senza riserve le testimonianze del senso, esaltando il valore dell'esperimento attivo. Anche più efficacemente B. contribuì alla formazione e al progresso della nuova scienza della natura con la sua intuizione meccanicistica del mondo fisico, che imponeva di spiegare tutti i fenomeni con determinazioni geometriche e con processi di movimento. Il meccanicismo poteva più tardi essere criticato e respinto, o venire apprezzato soltanto come un'ipotesi di lavoro, non come una concezione metafisica soddisfacente; ma è certo che i fondatori della nuova scienza (come Galileo e il Descartes) credettero necessario di fondare l'interpretazione matematica dei fenomeni su una dottrina meccanicistica concepita come un'intuizione della realtà, e per molto tempo i loro continuatori divisero questa convinzione.

Da quanto ora si è detto si può facilmente passare alla valutazione dell'opera filosofica di B.: occorre però prima risolvere due questioni. Lo si deve porre tra gl'iniziatori della filosofia moderna, o (come alcuni anche recentemente hanno sostenuto) tra gli ultimi rappresentanti del Rinascimento? Nel primo caso, è giusto ritenerlo il fondatore dell'indirizzo empiristico, che si contrappone a quello razionalistico (che muove dal Descartes), il quale trova un precedente nell'opera galileiana? Rispetto alla prima questione, si deve rispondere che B., pure avvicinandosi sotto varî rispetti ai pensatori del Rinascimento, rivela una forma mentale che lo allontana da questi e lo collega ai fondatori della scienza e della filosofia moderne. In particolare poi si avvicina a questi per i seguenti motivi. Se non pone, come il Descartes, la ricerca gnoseologica nel centro della sua filosofia, le accorda assai maggiore importanza dei rappresentanti del Rinascimento, e, al pari del primo, dà larghissimo sviluppo alla metodologia scientifica, che questi ultimi avevano trascurata. Mentre essi, pur distinguendo la religione dalla filosofia, la fede dalla scienza, avevano nelle loro costruzioni introdotto in larga misura dottrine teologiche, B. (simile in ciò a Galileo e al Descartes dei primi lavori) conserva fermamente quella distinzione ed evita di abbandonarsi a speculazioni religiose. Pur non condannando le scienze occulte (assai care ai suoi predecessori) col disdegno e con l'incredulità di Galileo e del Descartes, le critica assai vivamente, e cerca di conservarne soltanto gli elementi che crede conciliabili con l'esperienza e la ragione. Soprattutto, si avvicina ai fondatori del pensiero moderno con la sua concezione meccanica della natura. Se B., col Telesio, distingue l'anima corporea e sensibile da quella incorporea e razionale, si allontana da lui e in generale dai filosofi della natura del Rinascimento (che abitualmente assegnavano alla seconda soltanto l'apprensione delle verità etico-religiose, mentre accordavano alla prima la conoscenza naturale, che era così derivata tutta dal senso) in quanto, superando il loro empirismo, attribuisce alla razionale le funzioni conoscitive superiori, che anzi fa provenire tutte dal movimento dell'attività pensante. Ciò mostra già che è errata l'opinione di chi, prendendo alla lettera certe espressioni di cui B. si serve nella sua lotta appassionata contro l'abuso delle astrazioni concettuali, giudica un empirista, anzi il fondatore dell'indirizzo empiristico, lo scrittore che combatteva l'empirismo cieco al pari di quel razionalismo unilaterale che tutto pretende ricavare dal puro pensiero, e che esigeva che la valutazione delle testimonianze del senso fosse compiuta dall'intelletto conformemente a una concezione razionale di tutta la realtà. Infatti, una suprema verità (ex nihilo nihil), appresa dalla luce naturale della ragione, predetermina quella intuizione meccanicistica della realtà che è il presupposto necessario della metodologia baconiana e che costituisce il criterio cui debbono conformarsi le funzioni intellettuali (innate all'anima nostra) nell'elaborazione e nell'interpretazione del materiale empirico. Tutto ciò mostra come B. sia assai più prossimo di quanto si creda abitualmente al fondatore del razionalismo filosofico, col quale (e con Galileo) si accorda sia nell'accettare la concezione meccanicistica della natura, sia nel porre nella luce naturale l'ultima garanzia della validità della conoscenza. Si deve poi notare che, mentre nel Medioevo il concetto del lumen naturae serviva bensì a legittimare la conoscenza naturale, ma implicava anche la subordinazione di questa a una superiore, oggetto non di ragione, ma di fede, la nuova filosofia e la nuova scienza se ne valevano per affermare energicamente l'indipendenza della prima dalla seconda: anche in ciò B. e il Descartes si accordano perfettamente. Le divergenze che esistono fra essi (e, in generale, tra il primo da una parte e Galileo e il razionalismo che muove dal Descartes dall'altra), dipendono soprattutto dalla tendenza antimatematica del filosofo inglese, che apprezza le scienze matematiche soltanto come strumento di applicazioni pratiche; ma ciò non permette di chiamarlo empirista.

Se si passa a considerare l'opera più strettamente filosofica di B., si può affermare che il suo significato storico consiste essenzialmente in ciò, che egli presenta una concezione della natura che segna idealmente il passaggio dal pampsichismo teleologico del Rinascimento e principalmente dalle intuizioni del Campanella (di cui però non sembra subisse l'influsso; invece risentì quello di B. Telesio che a sua volta dipendeva dall'ilozoismo stoico) alle concezioni del Leibniz, attraverso il meccanicismo che inizia l'età moderna. B. non vede più nella natura ciò che vi avevano scorto i pensatori del Rinascimento, cioè una unitaria totalità organica, vivente e animata: per lui l'unità di essa risulta dal fatto di essere costituita dagli stessi elementi, che includono una forza originaria che è nello stesso tempo un appetito e un movimento naturale primitivo, cieco e necessario. Questa concezione, che fondeva il dinamismo, il meccanicismo e il pampsichismo, nella sua negazione della teleologia e nella sua affermazione vigorosa di un infrangibile determinismo meccanico che domina l'universo, aprì dapprima la via a un meccanicismo sempre più incondizionato e intransigente; ma più tardi il Leibniz (che conosceva e apprezzava altamente B.), reagendo ad esso, venne a concepire il mondo fisico governato da leggi meccaniche come l'espressione fenomenica di una realtà sostanziale, che ha natura spirituale e che è diretta da cause finali. Così è eliminata l'identificazione baconiana (che era una confusione prodotta dall'intreccio di motivi di pensiero risalenti da una parte allo stoicismo e in ultimo a Eraclito, dall'altra all'atomismo) dei concetti di forza o appetito e di movimento naturale e necessario degli elementi, e il meccanicismo e il pampsichismo dinamico sono collocati in due sfere diverse di realtà; ma non è piccola gloria per B. avere indicato la via che, movendo dal Rinascimento, doveva metter capo alla geniale costruzione del Leibniz. Egli infatti ha precorso l'autore della Monadologia nel riconoscere che il meccanicismo, che è necessario per giungere a un'interpretazione scientifica della natura, deve però essere integrato da altre concezioni, perché i concetti geometrico-meccanici, per sé presi, non permettono di spiegare integralmente la realtà.

Scritti più importanti (fra parentesi s'indica l'anno della composizione certa o probabile). - Opere pubblicate dall'autore: Essays; Religious Meditations (in latino; nel testo sono intitolate: Meditationes Sacrae); Places of Persuasion and Dissuasion (nel testo: Of the Colours of Good and Evil), Londra 1597. L'ultima edizione (3ª) dei Saggi, curata da B. nel 1625, ne contiene 58. Nel volume Opera Moralia et Civilia, edito da W. Rawley nel 1638, è inclusa una versione latina dei Saggi (se non fatta da B., diretta o riveduta da lui), intitolata: Sermones Fideles sive Interiora Rerum; The two Books of Proficience and Advancement of Learning [1603-1605], Londra 1605; De Sapientia Veterum [1609], Londra 1609; Novum Organum [1608-20], Londra 1620. Segue, con numerazione distinta, la Parasceve ad Historiam Naturalem et Experimentalem [1620]; The Historie of the Raigne of King Henry the seventh [1621-22], Londra 1622; Historia Naturalis et Experimentalis ad condendam Philosophiam [1622], Londra 1622 (include, oltre a scritti riguardanti tutta la storia naturale, la Historia Ventorum e i titoli e le prefazioni di altre 5 storie); Historia Vitae et Mortis [1623], Londra 1623; De Dignitate et Augmentis Scientiarum [1622-23], Londra 1623. Pubblicazioni postume: Sylva Sylvarum [1624-26] e New Atlantis [1624] (edite da W. Rawley in un volume), Londra 1627; The Elements of the Common Lawes, Londra 1630 (contiene la 1ª edizione delle Maximes of the Common Law [1596] e la 2ª dell'Use of the Law [già edito nel 1629: è di autenticità dubbia]); The Learned Reading upon the Statute of Uses [1600], Londra 1642. - Scritti inediti íurono pubblicati in Certaine Miscellany Works, ed. da W. Rawley, Londra 1629; The Remains, Londra 1648; Scripta in Philosophia Naturali et Universali, ed. da I. Gruter, Amsterdam 1653; Resuscitatio, ed. da W. Rawley, Londra 1657; Opuscula varia posthuma, ed. da W. Rawley, Londra 1658; Baconiana, ed. da T. Tenison, Londra 1679; Letters and Remains, ed. da R. Stephens, Londra 1734. Altri inediti furono pubblicati nella edizione curata da J. Spedding, R. Leslie Ellis e D. Denon Heath, Londra 1857-59. Fra gli scritti inediti pubblicati nelle raccolte indicate si possono menzionare i seguenti: Temporis partus masculus [poco dopo il 1585?]; Valerius Terminus [1603 circa]; Partis secundae Delineatio et Argumentum [1606-607]; Cogitata et Visa [1607]; Redargutio Philosophiarum [1609]; De Principiis atque Originibus [1611-20]; Descriptio Globi Intellectualis [1612].

È nota l'ipotesi che attribuisce a Bacone i drammi shakespeariani (v. shakespeare). Per contro E. Reichel, Wer schrieb das "Novum Organum" von Francis Bacon?, Stoccarda 1886, gli ha tolto la paternità dell'opera metodologica, attribuendola allo Shakespeare.

Tra le edizioni generali delle opere sono fondamentali le seguenti: J. Spedding, R. L. Ellis e D. D. Heath, The Works of F. B. in 7 voll., Londra 1857-59, nuova ed. 1887-92; J. Spedding, The Letters and the Life of Francis Bacon including all his occasional Works, in 7 voll., Londra 1861-72, nuova ed., 1890 segg. Edizioni parziali: M. N. Bouillet, Øuvres philosophiques de B., Parigi 1834, 3 voll. (ancora utile); J. M. Robertson, Philosophical Works (scelta: le opere latine sono tradotte in inglese), Londra 1905; J. Devey, Moral and Historical Works, Londra 1877; E.A. Abbott, Essays, Londra 1876, voll. 2; T. Case, The Advancement of Learning (con la New Atlantis), Oxford 1906; Th. Fowler, Novum Organum, Londra 1878; 2ª ed., 1889 (ottima).

Bibl.: (Ampia bibliografia in Fr. Überweg, Grundriss der Geschichte der Philosophie, III, 12ª ed. curata da M. Frischeisen-Köhler e W. Moog, Berlino 1924, pp. 650-52). Tra le biografie antiche merita speciale ricordo la Vita di Bacone scritta dal suo cappellano e segretario W. Rawley: nel testo inglese precede la Resuscitatio, Londra 1657 (è riprodotta nel 1° volume dell'edizione Spedding delle opere, ricordata sopra); nella traduzione latina è premessa agli Opuscula varia posthuma. Si può ricordare anche J. Aubrey, Letters... and Lives of eminent Men, Londra 1919. Fra le biografie più recenti si noti quella dello Spedding, nella sua edizione generale sopra citata: biografia abbreviata in J. Spedding, Account of the Life and Times of F. B., Londra 1879, voll. 2. Fra le opere generali sulla vita e la filosofia di B. si possono menzionare per la prima: T. Macaulay, Lord B., in The Edinburgh Review, luglio 1837; ristampato in Critical and Historical Essays (questo saggio, molto noto ma poco attendibile, contrappone l'uomo al pensatore, e in modo eccessivo esalta il secondo e deprime il primo); Ch. de Rémusat, B: sa vie, son temps, sa philosophie et son influence jusqu'à nos jours, Parigi 1857, 1858, 1877; K. Fischer, F. B. von Verulam. Die Realphilosophie und ihr Zeitalter, Lipsia 1856; Geschichte der neueren Philosophie, X: F. B. und seine Schule, 4ª ed., Heidelberg 1923; E. A. Abbott, F. B. An Account of his Life and Works, Londra 1885; J. Nichol, F. B., his Life and Philosophy, Londra 1888-89, voll. 2 (Philosophical Classics for English Readers); G. Sortais, La philosophie moderne depuis Bacon jusqu'à Leibniz, I, Parigi 1920 (la biografia è molto ricca di notizie; minuto, ma non profondo, lo studio del pensiero). - Delle opere generali sulla filosofia di B., tra quelle citate sopra, merita speciale ricordo K. Fischer, F. B. und seine Schule. Inoltre, Th. Jowler, Bacon, Londra 1881 (English Philosophers); Ch. Adam, Philosophie de F. Bacon, Parigi 1890; A. Levi, Il pensiero di F. B., Torino 1925; W. Frost, B. und die Naturphilosophie, Monaco 1927 (Geschichte der Philosophie in Einzeldarstellungen, XX). - Studî più brevi: V. Brochard, La philosophie de B., in Revue Philosophique, XVI, XXXI (1891, I), pp. 368-381, riprodotto in Études de Philosophie ancienne et de Philosophie moderne, Parigi 1912, pp. 303-319; C. D. Broad, The Philosophy of F. B., Cambridge 1926; A. E. Taylor, F. B., Oxford 1927; V. Fazio Allmayer, F. B., Palermo 1928. - Studî particolari: A. Lasson, Über B.s von Verulam wissenschaftliche Prinzipien, Berlino 1860 (severo); J. Liebig, Über F. B. von Verulam und die Methode der Naturforschung, Monaco 1863 (invettiva violenta, che ha suscitato in Germania vivaci discussioni); H. Heussler, F. B. und seine geschichtliche Stellung, Breslavia 1889; P. Janet, Baco Verulamius Alchemicis Philosophis quid debuerit, Angers 1889; A. Lalande, Quid de mathematica vel rationali vel naturali senserit Baconius Verulamius, Parigi 1899; E. Wolff, F. B. u. seine Quellen: I., B. und die griechische Philosophie, Berlino 1910; II., Griechische Autoren und römische Dichter, Berlino 1913. - Si può menzionare infine l'attacco appassionato e violento che, per motivi religiosi, J. de Maistre ha rivolto alla filosofia baconiana, Examen de la Philosophie de B., Pargi 1836 (spesso ristampato in seguito).

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