CHIONIO, Francesco Antonio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 25 (1981)

CHIONIO, Francesco Antonio

Donatella Balani

Nato a Monastero di Lanzo in provincia di Torino nel 1709 dal notaio Giovanni Battista e da Anna Torreno, apparteneva ad un'agiata famiglia dell'alta Val di Lanzo che nel corso del Settecento doveva acquistare la nobiltà.

Le vicende dei Chionio esemplificano modalità di ascesa - gli studi universitari e la carriera degli uffici - assai comuni nel Piemonte del Settecento, ove il regirne inaugurato dalle riforme di Vittorio Amedeo Il favoriva la mobilità sociale. I quattro figli del notaio Giovanni Battista si laurearono nell'ateneo torinese (tre in legge ed uno in teologia) ed intrapresero, in settori diversi, una carriera al servizio dello Stato: due divennero professori universitari ed uno entrò nella magistratura. La generazione successiva avrebbe compiuto - sempre grazie alle cariche pubbliche - il passo decisivo nell'ascesa della famiglia, con l'acquisto di un feudo in alta Savoia e del titolo baronale (1789).

Il C. frequentò la facoltà di legge torinese, ove si laureò il 14 agosto del 1732, in un periodo delicato di transizione tra due fasi istituzionalmente e politicamente diverse delle vicende universitarie. In quegli anni l'ateneo doveva infatti affrontare una nuova più rigorosa ristrutturazione, con le costituzioni del 1729, e subiva sul piano didattico e culturale gli effetti di un certo ripiegamento della politica innovativa e spregiudicata del decennio precedente. Il C. avrebbe vissuto dolorosamente il contrasto tra la sua formazione, avvenuta alla scuola del Campiani, in un ambiente in cui ancora si avvertivano gli effetti innovativi delle riforme di Vittorio Amedeo II, e la realtà di una professione svolta sotto unregime sempre più ottusamente repressivo.

Laureatosi dunque nel 1732, poco dopo entrò nel collegio di facoltà e ricevette gli ordini sacri. Nel 1735 (r. pat. 29 ott. 1735) venne chiamato a sostituire il professore D. A. Morello momentaneamente impegnato per servizio regio, alla cattedra di diritto canonicò dell'università. Il 25 ag. 1738 fu nominato prefetto della classe legale del Collegio delle provincie. Resasi poi vacante la cattedra di diritto canonico il Caissotti, gran cancelliere dell'università, appoggiò la candidatura dei C., scrivendo all'Ormea che "sì può facilmente sperare egli possa divenire tra pochi anni un buon professore, essendo massimamente inclinato allo studio" (Arch. di Stato dì Torino, I sez., Regia università, mazzo IV, n. 13). Il C. venne così confermato alla cattedra dapprima come soprannumerario (10 ott. 1741) e poi come professore effettivO (27 sett. 1743), con lo stipendio iniziale di 1.300 lire annue. Insegnò diritto canonico senza intoppi per quasi un ventennio, finché nel 1754 dettò dalla cattedra un lungo trattato, De regimine Ecclesiae, che doveva suscitare scalpore.

Non è stato possibile trovare il testo del trattato, che per ordine regio venne dato alle fiamme in tutte le copie reperite. Ma ne conosciamo abbastanza bene i contenuti e l'arficolazione grazie all'analisi puntuale che ne fece T. Vallauri (1816), sulla base di una copia manoscritta di 184 pagine in-folio conservata alla Bibl. Balbo in Torino, ora introvabile, ed alla ricca documentazione manoscritta sulla vicenda custodita alla Bibl. Apost. Vaticana, all'Arch. di Stato ed alla Biblioteca reale di Torino.

Il trattato, diviso in sei capi, toccava aspetti assaì spinosi del rapporto giurisdizionale tra Stato e Chiesa. L'intonazione regalista di alcune affermazionì suscitò fin dall'inizio dell'anno accademico proteste e critiche che, se pur indirizzate specificamente al professore, coinvolgevano in una generica condanna l'insegnamento impartito nell'ateneo torinese e la politica culturale del sovrano.

Il magistrato della Riforma, venuto a conoscenza del malumore degli ambienti curiali, avvisò il professore di muoversi con cautela su quelle materie e di appoggiare le sue'affermazioni alle testimonianze dei Padri della Chiesa e degli autori più ortodossi. D C. ritrattò genericamente le tesi più delicate del suo trattato nella lezione conclusiva del corso, sperando così di mettere a tacere i suoi oppositori. Ma ormai la questione, divenuta di pubblico dominio, non poteva più essere soffocata all'interno dell'università. L'arcivescovo Roero chiese infatti al sovrano di far esaminare lo scritto del professore da una commissione di esperti e Carlo Emanuele III incaricò della questione il Caissotti. Per quanto potesse essere seducente per un principe settecentesco avere al suo fianco difensori coraggiosi del giurisdizionalismo e delle teorie regaliste, sia il re sia il Bogino tenevano troppo ai buoni rapporti con la S. Sede ed a mantener fede al concordato da poco stipulato per lasciarvisi sedurre.

Vennero così formate due commissioni di esperti., una laica - di cui facevano parte l'avvocato generale del Senato di Piemonte e alcuni consiglieri di Stato - e l'altra ecclesiastica, formata dai teologi più illustri della città e presieduta dal vicario generale. Il C. fece allora un ultimo tentativo di ridimensionare la vicenda e di prevenire un giudizio negativo e le inevitabili conseguenze, firmando una dichiarazione di sottomissione al giudizio della Chiesa, dicendosi pronto a ritrattare le proposizioni giudicato eterodosse. Ma i censori ecclesiastici non si lasciarono disarmare. La commissione individuò nel trattato sei proposizioni lesive delle prerogative spirituali e temporali della Chiesa e concluse affermando che il C. aveva insegnato dalla cattedra che il potere della Chiesa si estendeva unicamente al forum conscientiae e che la sostanza ed essenza della religione consisteva nel solo culto privato. In una lettera (8 luglio 1754) all'arcivescovo di Torino il vicario generale Buglioni definì il trattato "indegno di scrittore cattolico e sostenuto solamente dagli eretici, come tessuto tutto di proposizioni che sono formalmente eretiche, perché contrarie ai testi espressi letterali della Sacra Scrittura; altre... prossime all'eresia e dalla Chiesa già condannate; altre erronee, scandalose, offensive delle pie orecchie dei fedeli, perturbatrici nella concordia tra il Sacerdozio e l'Impero, temerarie e falsissime" (Arch. di Stato di Torino, I sez., Regia università, mazzo V, n- 45).

La commissione laica, pur ammettendo che vi erano nelle materie dettate dal C. delle proposizioni ardite, altre non ben spiegate e che l'opera in genere era assai confusa, non la ritenne però meritevole della dura condanna pronunciata dai censori ecclesiastici. Si sostenne infatti che né lo scritto né il pensiero dell'autore erano stati ben compresi perché i censori avevano troppo frettolosamente esaminato le proposizioni al di fuori del contesto generale in cui si inserivano. Si concludeva affermando che le proposizioni condannate "tanto sono lontane da supposti errori e falsità, che anzi sono totalmente conformi alla pratica quasi universale e specialmente dei nostri paesi".

La discordanza dei pareri alimentò ulteriori polemiche. La difesa delle proposizioni incriminate si basava sul principio che esse non erano state ben comprese. Si diceva che "scopo dell'autore era solo quello di stabilire certi confini tra l'una e l'altra podestà in quelle cose che appartengono non alla sostanza della religione, ma a certi punti di giurisdizione, che sono vari secondo i vari costumi dei paesi". Si insinuava che i censori ecclesiastici non avessero operato "con animo libero da ogni prevenzione" e che si fossero comportati in modo indegno verso il professore, "poiché il simile non si sarebbe forse pubblicato contro Calvino quando cominciava a spargere le sue false dottrine" (Torino, Bibl. reale, Misc. 128). In difesa delle posizioni ecclesiastiche circolò allora uno scritto, nel quale, a riscontro delle proposizioni censurate, se ne leggevano alcune tratte dai libri degli eresiarchi, già condannate dalla Chiesa. Il, re, per mettere fine alle polemiche, che minacciavano di danneggiare i delicati equilibri politici con la S. Sede, licenziò il professore, imponendo silenzio sulla questione. Ordinò che si requisissero in tutto il paese e poi si bruciassero gli esemplari del trattato. Riteneva infatti che il C., pur non essendo un eterodosso, dovesse essere condannato perché aveva suscitato scandalo, dettando dalla cattedra una materia non prevista dai regolamenti dell'università, ne assegnata dal magistrato della Riforma. Ma il provvedimento non soddisfece totalmente l'arcivescovo di Torino che richiese una pubblica ritrattazione. Essa fu pronunciata in privato, in una stanza del palazzo arcivescovile il 14 ag. 1754. Nel testo della ritrattazione si faceva riferimento a tre proposizioni considerate erronee: "consistere la sostanza e l'essenza della religione nel solo culto privato; niun pubblico esercizio di religione potersi dire comandato da Cristo, epperciò doversi tutto collocare nel potere di Cesare; il pubblico governo della Chiesa ess ere soggetto alla podestà civile e ciò dimostrarsi evidentemente colla testimoniama dei divini comandamenti" (Arch. di Stato di Torino, I Sez., Regia università, mazzo V, n. 45). Il professore dovette ritirarsi per sei mesi nel romitorio dei camaldolesi sui colli di Torino.

La vertenza si concluse pertanto con la vittoria del potere ecclesiastico che si affrettò a dare alla vicenda ampia pubblicità. Tuttavia la campagna organizzata in difesa del C., nonostante il severo controllo statale, dimostrò l'esistenza di professori, magistrati e giuristi che continuavano a lottare per la salvaguardia dei diritti dello Stato.

Una lettera conservata all'Archivio di Stato di Torino esprime assai bene la delusione di questo gruppo di giurisdizionalisti nel constatare l'ennesima vittoria della Chiesa: "Ha ben motivo la Chiesa di rallegrarsi d'aver in questa occasione ottenuto dalla Sacra Pietà e religione di V. M. quanto potesse desiderare ed avesse potuto in un caso simile ottenere mai e riscuotere anche in Roma e dalle stesse jurisdizioni di Spagna, Portogallo, assai più di quelle di Roma, come ognun sa, rigide e severe in queste materie" (Archivio di Stato di Torino, I Sez., Regia università, mazzo V, n. 45: lettera al sovrano del conte Simeoni di Rivera, ministro del Piemonte a Roma, datata 31 ag. 1754).

Solo quattro anni dopo la questione poteva dirsi veramente conclusa per il C., con il perdono formale dei papa ed una sostanziale riabilitazione. In risposta ad una lettera di spiegazione e di scusa inviata al pontefice dal professore (11 genn. 1758) Benedetto XIV si mostrava disposto al perdono e gli augurava di riacquistare presto "nome e grado" (Torino, Bibl. reale, Misc. 58, lettera del 28 gennaio del 1758). Poco dopo il C. otteneva dal re la sospirata pensione di ottocento lire per il servizio prestato per quasi un ventennio e rientrava nel collegio di facoltà, in cui sarebbe rimasto fino al 1772.

Il C. moriva in Monastero di Lanzo, dove si era ritirato, il 4 aprile del 1783 all'età di 74 anni.

Fonti e Bibl.: Per le vicende personali e familiari del C. cfr. il testamento in Arch. di Stato di Torino, Sez. riunite, Insinuazione, 1783, lib. 3, c. 2; e Torino, Bibl. naz., A. Manno, Ilpatriziato subalpino..., VII(datt.), sub voce. Per le vicende relative al De regimine Ecclesiae cfr. la docum. sulla vertenza conserv. alla Bibl. Ap. Vaticana, Vat. lat. 8226, cc. 68-76, all'Arch. di Stato di Torino (I sez., R. Università, mazzo V, nn. 16 e 45) ed alla Bibl. reale di Torino, Misc. 22/7; 35/16-17; 58/11; 128/27, Sulla posiz. del C. nel panorama culturale subalpino cfr. T. Vallauri, Storia delle università degli studi del Piemonte, III, Torino 1816, pp. 156-164; T. Chiuso, La Chiesa in Piemonte dal 1797 ai giorni nostri, Torino 1887, pp. 59 s.; M. Gorino, G. V. Spanzotti: contributo alla storia del giansenismo in Piemonte nella prima metà del Settecento, Torino 1931, p. 36; C. Calcaterra, Ilnostro imminente Risorgimento, Torino 1935, ad Indicem;Id. Le adunanze della Patria Società letter., Torino 1943, ad Indicem;G. Quazza, Le riforme in Piemonte nella prima metà del Settecento, II, Modena 1957, ad Indicem;F. Cognasso, Vita e cultura in Piemonte, in Storia del Piemonte, II, Torino 1960, p. 684; P. Stella, Giurisdizionalismo e giansenismo all'università di Torino nel sec. XVIII, Torino 1958, ad Indicem; II giansenismo in Italia, a cura di P. Stella, I, IlPiemonte, Zürich 1966-1974, 1, 2, pp. 92, 511; I, 3, pp. 83, 574. Cfr. infine D. Balani, La facoltà di legge di Torino tra la riforma universitariadel primo Settecento e l'occupaz. francese del Piemonte (1720-88), tesi di laurea, facoltà di lettere dell'univ. di Torino, anno acc. 1970-71, pp.238-253.

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