Energia, fonti di

Enciclopedia delle scienze sociali (1993)

Energia, fonti di

Alberto Clô

Introduzione

L'energia è, nell'accezione aristotelica del termine, una sostanza: una realtà astratta - non percepibile con i sensi o misurabile con gli strumenti - che permane invariata nel corso dei fenomeni dei quali costituisce il substrato. Quel che percepiamo e misuriamo sono, invece, le manifestazioni dell'energia (con le quali diamo soddisfazione ai nostri bisogni), le cosiddette 'forme energetiche': meccanica, termica, elettrica, chimica (v. Biondi, 1983); così come, a monte di esse, le materie e i sistemi che per effetto di trasformazioni sono in grado di rendere disponibile energia in forma tale da poter essere impiegata, le cosiddette 'fonti primarie di energia': rinnovabili (idraulica, solare, biomasse, eolica, ecc.), fossili (carbone, petrolio, gas naturale), geotermiche e nucleari (fissili o da fusione).

"Non v'è fenomeno naturale o artificialmente provocato che non implichi una conversione di energia da una forma in un'altra ovvero un mutamento nei parametri che determinano questa grandezza o ancora una variazione della sua distribuzione nello spazio e nel tempo" (v. Angelini, 1977, p. 510). L'intera evoluzione dell'economia, dell'organizzazione sociale, della tecnica può essere posta e letta sotto il segno dell'energia. È però soprattutto nel campo della fisica che la sua nozione è andata nel tempo definendosi, attraverso continue estensioni, fino a divenire 'filo conduttore' dell'esplorazione di tutte le scienze applicative. Questo affinamento conoscitivo ha la sua massima espressione nella 'rivoluzione termodinamica' del secolo scorso, che culmina nelle formalizzazioni che James P. Joule nel 1847 e Rudolf Clausius nel 1865 seppero, rispettivamente, dare dei due principi su cui essa si imperniava. Il primo principio, della conservazione dell'energia, ne sostiene l'invarianza quantitativa attraverso le sue molteplici trasformazioni, cosicché esse assumono una configurazione simile a quella dei processi meccanici, che conoscono solo cambiamenti (reversibili) di posizione, ma non qualitativi. Il secondo principio supera questa visione riduttiva e confortante dei fenomeni reali, sostenendo che ogni trasformazione energetica in un sistema isolato - che non scambia né materia né energia con l'ambiente esterno - causa inevitabilmente un aumento del suo grado di disordine molecolare (la cosiddetta entropia) e quindi una irreversibile dissipazione di energia in calore: incapace, in quanto tale, di compiere ulteriore lavoro. "La legge dell'entropia - scrive Nicholas Georgescu-Roegen (v., 1976; tr. it., p. 33) - costituisce la radice della scarsità economica", poiché "qualunque azione di uomini e di organismi, anzi qualsiasi processo naturale, deve risultare in un deficit per il sistema nel suo insieme", anche se di ciò l'umanità può disinteressarsi finché è circondata da risorse abbondanti e facilmente accessibili.

tab. I

La quantità di beni e servizi a disposizione dell'umanità - la sua capacità di crescere e di produrre ricchezza - è direttamente connessa alla disponibilità e all'uso di energia. Per converso, la crescita economica, come espressa dal prodotto interno lordo, spiega in media l'80-90% della crescita dei consumi di energia di oltre 12 volte su scala mondiale tra il 1900 e il 1986, a fronte di un aumento reale del reddito di circa 22 volte, e della popolazione di 3 volte (v. tab. I). Per quanto il livello dei consumi di energia e la loro articolazione per settori di impiego non possano essere gli unici indicatori del progresso e della prosperità di un paese, nondimeno la loro significatività a tale riguardo è innegabile. Il 'valore' dei beni e dei servizi che l'energia è in grado di assicurare - come misurato dal 'costo opportunità' di non disporne - è andato anzi crescendo nel tempo, così da divenire incommensurabilmente superiore al prezzo pagato per essa. Parallelamente, il suo 'costo sociale' sopravanzava quello monetario, nella misura in cui si palesavano gli effetti negativi sull'ambiente della crescita esponenziale dei consumi di energia. Dell'uno e dell'altro aspetto è necessario tener compiutamente conto nell'esaminare la 'risorsa energia' e le implicazioni sociali, politiche, economiche delle scelte che a essa fanno riferimento.

Di queste implicazioni tratteremo in questo articolo: tracciando, in una prima parte, un quadro dell'evoluzione storica dei processi di sostituzione delle principali fonti/forme di energia e affrontando, in una seconda parte, il tema controverso e assillante, anche se sempre superato dai fatti, della scarsità e dell'abbondanza delle risorse energetiche, e dei modi in cui la prima può volgere verso la seconda.

Sostituzione delle fonti, progresso tecnologico e crescita economica

Una storia in continuo divenire

Storia economica e storia energetica evidenziano che le grandi innovazioni tecnico-scientifiche sono state sempre collegate o rese possibili da nuovi modi d'impiego di fonti di energia note anche da lunghissimo tempo. Le città di Parma e Genova già nel 1802 impiegavano nella loro illuminazione stradale petrolio che estraevano da piccoli pozzi lungo il fiume Taro, ma fu necessario oltre mezzo secolo perché l'estrazione del petrolio diventasse un fatto industriale e circa un secolo perché il suo consumo mondiale superasse i 10 milioni di tonnellate. Analizzare il succedersi delle diverse fonti/forme di energia e il corso dei mutamenti nei loro modi di produzione, di conversione e di utilizzazione significa, come afferma il chimico e filosofo tedesco Wilhelm Ostwald, fondatore della scuola energetica, ripercorrere i cicli di civilizzazione dell'umanità: nei suoi modi di vita, nella sua organizzazione economica, nella sua struttura sociale. Si riscontrano per l'energia i tratti caratteristici delle innovazioni schumpeteriane che venendosi a concentrare in determinati momenti storici e ambiti produttivi - per poi diffondersi a cascata nel resto dell'economia - alterano in modo drastico i meccanismi di funzionamento e di crescita delle economie (i cosiddetti breakthroughs). Così accadde all'inizio del Medioevo, quando il mulino ad acqua si diffuse con grande rapidità in tutta l'Europa occidentale, interrompendo una situazione di impasse del progresso tecnologico che perdurava da tre millenni (v. Lilley, 1973; tr. it., p. 170) e, cinque secoli dopo, quando l'impiego dell'energia idraulica per l'azionamento di macchine si diffuse a un numero crescente di processi produttivi: dalla follatura e torcitura dei filati di seta alla preparazione della cellulosa, dai magli e mantici delle fucine alla frantumazione dei minerali. Ugualmente importante fu la contemporanea introduzione di nuovi sistemi di bardatura dei cavalli (collare, timone, disposizione a file e zoccoli ferrati) che, consentendo di aumentare di ben quattro volte il rendimento dei precedenti finimenti, fecero del cavallo una fonte di energia essenziale nell'agricoltura, nei trasporti e anche nell'industria.

tab. II

È soprattutto con la rivoluzione industriale che si afferma l'essenzialità dell'energia nello sviluppo economico. Essa consentì, attraverso la sequenza di invenzioni-innovazioni sintetizzate nella tab. II, di realizzare produzioni con grandi impianti, di svincolarne la localizzazione dalle aree ove erano disponibili risorse idrauliche, di accrescere la gamma di prodotti che ne sostituivano altri la cui offerta non aumentava con il resto dell'economia, di allargare e migliorare i sistemi di trasporto: e di qui l'estensione assoluta dei mercati e il volume degli scambi internazionali.

"Se - scrive Carlo Maria Cipolla (v., 1962; tr. it., p. 52) - la rivoluzione agricola è il processo mediante il quale l'uomo pervenne a controllare e ad aumentare la disponibilità di convertitori biologici (piante e animali), la rivoluzione industriale può essere considerata come il processo che permise di intraprendere lo sfruttamento su vasta scala di nuove fonti di energia per mezzo di convertitori inanimati". L'origine e l'essenza di quella rivoluzione non stavano, come tramandato di solito, negli affinamenti tecnici di metodiche medievali nell'industria tessile: poiché né la spola volante di John Kay del 1733 né il telaio automatico perfezionato da James Hargreaves nel 1768 avrebbero consentito di trasferire quelle produzioni dalle lavorazioni a domicilio alle fabbriche. Esse risiedevano, piuttosto, negli sviluppi che in Inghilterra la 'tecnologia del vapore' avrebbe prodotto dapprima nell'industria del carbone (con l'impiego della macchina di James Watt per l'estrazione dell'acqua dalle miniere) e successivamente in quella metallurgica e nei trasporti.

Carbone e industrializzazione

"Il carbone divenne così un elemento strategico del sorgere della civiltà industriale e della sua diffusione" (v. Cipolla, 1962; tr. it., p. 54). La sua utilizzazione, come prima fonte energetica commerciale, si affermò a partire dall'inizio dell'Ottocento, non solo perché in natura più abbondante e meno costoso della fonte sino allora dominante, la legna, le cui declinanti 'riserve' erano sempre meno in grado di fronteggiare l'espansione demografica ed economica, ma soprattutto perché il carbone, come un secolo dopo il petrolio, risultava più idoneo - per le sue caratteristiche chimico-fisiche - a 'combinarsi' con le innovazioni tecnico-scientifiche che andavano allora maturando. La sostituzione del carbon coke al charcoal (carbone da legna) nell'industria metallurgica avvenne, ad esempio, perché il charcoal non si poteva trasportare senza che si disintegrasse rapidamente, rendendo così necessaria la sua utilizzazione vicino ai forni, e anche perché il suo impiego era incompatibile, per ragioni d'intrinseca friabilità, con la principale caratteristica dei nuovi forni: la loro elevata altezza e scala dimensionale. La produzione media consentita ai forni inglesi dei primi del Settecento era appena di 300 tonnellate l'anno contro le 100-150 mila tonnellate che si potranno produrre alla metà dell'Ottocento.In ogni momento storico il corso delle innovazioni tecnologiche ha portato a privilegiare, in ragione delle loro specificità qualitative, una fonte di energia sulle altre, mentre solo secondariamente hanno influito sui processi di sostituzione altre motivazioni, quali i prezzi relativi delle fonti, l'intenzione di conseguire un miglioramento nell'efficienza energetica, o quella di accrescere il grado di sicurezza degli approvvigionamenti. Analizzando l'evoluzione dell'industria metallurgica nei suoi progressi tecnologici, Nathan Rosenberg (v., 1982, p. 83) sottolinea che "la fonte di energia più conveniente in termini energetici spesso non ha coinciso con la soluzione tecnologica che minimizzava i costi finali delle produzioni".

Elettricità e flessibilità

Che il costo relativo dell'energia non abbia rappresentato, di per sé, la determinante prima delle decisioni di sostituzione, lo si evince esemplarmente dall'analisi della forma di energia che, pur se più onerosa, maggiormente ha contribuito agli sviluppi tecnologici e alla crescita economica del XX secolo: l'elettricità. Quantunque le principali scoperte scientifiche e le prime realizzazioni pratiche in tale campo risalgano alla prima metà del secolo scorso, è solo nella sua ultima decade che inizia l'era dell'elettricità. La prima centrale per forniture commerciali della Edison Electric Light Company è del 1882 a New York, mentre è del 1900 il primo impianto di turbina a vapore per la produzione di corrente alternata. I consumi di elettricità si mantengono su livelli relativamente bassi e geograficamente concentrati nei primi due decenni di questo secolo, per poi diffondersi su scala mondiale (ma per lo più nei paesi industrializzati) con una crescita che per mezzo secolo (1920-1970) risponderà alla famosa 'legge di Ailleret' del raddoppio dei consumi ogni dieci anni (v. Ailleret, 1963). Dai 123 miliardi di kWh del 1920 si passa ai circa 5.000 del 1970 sino agli oltre 10.000 del 1987 (e a un livello previsto di 15.000 nel 2000). Le ragioni di questa crescita stanno tutte (ancora una volta) nelle caratteristiche qualitative di questa forma di energia: a) la sua grande flessibilità, sia nei modi di produzione, potendosi ottenere da tutta la gamma delle fonti primarie, comprese quelle più povere in termini energetici, che nei modi d'impiego, potendosi trasformare in tutte le forme utili di energia, con rendimenti di solito molto elevati; b) la sua estrema dosabilità e adattabilità alle esigenze degli utenti finali, potendo assecondarne qualsiasi livello e profilo temporale dei prelievi; c) la sua producibilità in impianti di grande scala, così da poterne sfruttare le rilevantissime economie tecniche di produzione, massimizzando al contempo l'affidabilità delle forniture; d) la sua trasportabilità (con perdite relativamente modeste) su elevate distanze e la sua capillarità distributiva a un'utenza anche estremamente dispersa; e) la sua facilità e pulizia d'uso, essendo l'elettricità l'unica fonte che non comporti al momento dell'impiego alcuna forma d'inquinamento.

tab. IV

Queste ragioni spiegano la crescita dei consumi di energia elettrica e, insieme, perché essa sia risultata sempre superiore a quella dei consumi totali di energia. Dal 1950 al 1987 questi ultimi sono aumentati di 4,1 volte, mentre quelli elettrici sono aumentati di circa 11 volte. Il relativo tasso di penetrazione (v. tab. IV), che si aggirava intorno al 9% prima dell'inizio del secondo conflitto mondiale, è salito al 24% circa nel 1970 e al 33,5% nel 1987 (38% nella media OCSE con punte superiori al 40% in Giappone e Canada).Al ruolo svolto dall'elettricità nella crescita economica e sociale della società moderna è stato rivolto un grande interesse. Joseph A. Schumpeter ritiene che con il decollo dell'industria elettrica, tra il 1890 e il 1896, prenda avvio la terza 'onda lunga' individuata da Nikolaj Kondrat´ev. "L'elettricità - egli scrive - ha certamente creato nuove industrie e nuove merci, nuovi atteggiamenti, nuove forme di comportamento e di risposte sociali. Ha sconvolto le precedenti localizzazioni industriali, eliminando in sostanza l'elemento energia dalla lista dei fattori determinanti - sempre che, aggiungiamo noi, essa fosse disponibile nelle quantità e nei modi desiderati -, ha modificato la posizione economica relativa dei paesi e le condizioni del commercio estero" (v. Schumpeter, 1939; tr. it., p. 204).

tab. V

L'evidenza empirica conferma che aumenti nell'efficienza dei sistemi produttivi richiedono generalmente processi di sostituzione di energia e capitale al lavoro. Conseguentemente aumenta il tasso di crescita della produttività di quest'ultimo e rallenta (o diminuisce) quello degli altri fattori. L'elettrificazione progressiva delle macchine - dopo che era andato a compimento il passaggio da energia umana a energia meccanica avviatosi con la prima industrializzazione - segna, a partire dagli anni trenta, una forte accelerazione nei processi di sostituzione del fattore energia al fattore lavoro (e in misura minore al fattore capitale) consentendo un eccezionale aumento nella produttività globale dei fattori di produzione. L'elettricità penetra nell'industria americana a partire dal 1883, un anno dopo che Thomas Edison ne aveva iniziato la commercializzazione. Del tutto marginale sino alla fine del secolo, la potenza dei motori elettrici dal 1899 al 1939 aumenta negli Stati Uniti in valore assoluto di 94 volte, passando dal 4,8% della complessiva potenza meccanica a un valore che tuttora permane intorno all'85%. Le analisi di Sam H. Schurr e di Dale W. Jorgenson dimostrano con precisione come a questo fatto si debba principalmente ricondurre l'aumento di oltre 3 volte del tasso di crescita della produttività aggregata di capitale e lavoro nell'industria manifatturiera americana - dallo 0,8% medio annuo del periodo 1899-1920 al 2,65% del 1920-1973 (v. tab. V) - e non vi è motivo per ritenere che una simile correlazione non si sia riproposta anche altrove (v. Schurr e Sonenblum, 1986).

L'ammodernamento tecnologico delle strutture produttive che si accompagnava alla loro elettrificazione non solo faceva sì che 10 uomini potessero svolgere il lavoro di 30 o 40, ma permetteva di risparmiare anche capitale (per l'aumento della velocità delle macchine) ed energia, perché il potente effetto di leva che ne derivava sull'output finale più che compensava l'aumento assoluto dei suoi consumi di 3,8 volte tra il 1920 e il 1973. "Cinquant'anni fa la fabbrica media era complicata e goffa, una fonte centrale di energia serviva macchinari rozzi che funzionavano a velocità relativamente basse. Oggi motori elettrici, ingegneria di precisione, cuscinetti a sfere, sistemi di lubrificazione, lame di tungsteno, meccanismi di controllo migliorati permettono alle macchine di funzionare a una velocità sei o sette volte maggiore. Analogamente, miglioramenti dell'organizzazione e della disposizione degli impianti, trasporti e comunicazioni più veloci, e una progettazione migliore che riduce il numero dei guasti sono tutti fattori che hanno reso possibili sostanziali economie assolute di capitale" (v. Salter, 1966; tr. it., p. 59).

Sino all'avvento dell'elettrificazione le macchine su cui si articolavano le diverse lavorazioni erano azionate da una singola e fissa sorgente di energia (macchina a vapore o ruota idraulica) per il tramite di un complicato sistema di aste, pulegge e cinghie di cuoio (a cui ogni macchina era allacciata) che, appese al soffitto di un capannone, lo attraversavano completamente, spesso prolungandosi all'esterno per collegare un altro edificio. L'intero sistema era in continuo movimento indipendentemente dal numero di macchine in ogni momento impiegate e dal loro effettivo utilizzo. Ogni sua fermata - per guasto o manutenzione - interrompeva necessariamente ogni lavorazione. Il passaggio da questo sistema di stationary prime mover a quello unit drive, ove ogni macchina è resa indipendente dal sistema, in quanto dotata di un proprio motore, rivoluziona l'intera organizzazione produttiva e commerciale delle fabbriche, in modo ancor più drastico di quanto non fosse accaduto con la comparsa della macchina a vapore. Questa aveva consentito alla fabbrica di liberarsi delle rigidità esterne, che l'energia idraulica le imponeva in termini di localizzazione e di disponibilità stagionale dell'energia stessa. L'elettricità elimina, invece, ogni rigidità e diseconomia interna ai modi di produrre: perché disponibile e ugualmente efficiente su ogni dimensione produttiva (mentre la macchina a vapore non lo era per basse dimensioni); adattabile all'effettiva capacità produttiva e all'effettivo profilo dei fabbisogni di potenza; disponibile entro ristretti spazi fisici. Il suo valore d'uso è ben superiore al suo costo (relativamente) elevato, perché consente di controllare e regolare esattamente l'energia che serve alla produzione quanto a spazio, dimensione, tempo (potendo essere avviata, fermata, variata secondo necessità).

Effetti dirompenti non dissimili da quelli registrati nell'organizzazione economica l'elettricità avrebbe prodotto nell'organizzazione sociale, combinandosi con i sistemi di comunicazione ed eliminando progressivamente i vincoli (tecnici ma anche politici) che prima ritardavano il diffondersi delle informazioni, delle conoscenze, delle idee. Le prime macchine funzionanti a elettricità furono acquistate dall'US Government Printing Office. Nel 1896 già il 30% delle rotative dei quotidiani americani era elettrificato e nel 1916 il 100%; la velocità di stampa aumentava di 1/3 e le ore di lavoro necessarie per pubblicare un quotidiano in 10.000 copie scendevano, rispetto ai metodi precedenti, da 17 a 5 (v. Devine, 1986, p. 151). I vantaggi di questi processi non erano certo misurabili con il solo metro dell'economia.

Il petrolio tra economia e politica

Una vicenda - anche temporalmente - simile a quella dell'elettricità, nei suoi nessi con il progresso tecnologico e la crescita economica, si riscontra anche per il petrolio. Come per il carbone e l'elettricità, la sua diffusione è per alcuni decenni lenta, settorialmente e geograficamente limitata. Sebbene la storia del petrolio venga fatta cominciare nel 1859, con la prima consistente estrazione negli Stati Uniti, fino alla fine del secolo quello petrolifero è più un settore di avventurieri che un'industria metodicamente organizzata, e comunque un settore circoscritto al solo mercato americano, con un peso del tutto marginale sull'insieme dei suoi consumi di energia (1890-1899: circa 4%). A frenare la penetrazione del petrolio non è solo la particolare dotazione impiantistica di quel tempo, tutta orientata all'uso del carbone, e gli alti costi del suo trasporto (imposti dalle ferrovie), ma anche le fortissime oscillazioni che si osservano nei prezzi di vendita: dai 9,59 dollari per barile (unità di volume equivalente a 159 litri) del 1860 agli 0,49 del 1861, agli 8,06 del 1864 ecc. Nei 129 anni successivi solo 36 registrano variazioni nei prezzi inferiori al 5%, mentre 93 registrano variazioni superiori al 5% e di queste circa la metà superiori al 20%. L'instabilità è, quindi, una connotazione fisiologica dell'industria petrolifera - in ragione delle sue condizioni economiche di base e della sua connotazione oligopolistica - e questo spiega perché la preoccupazione ossessiva delle imprese sia sempre stata quella di conseguire un controllo monopolistico del mercato, così da assicurargli condizioni di equilibrio, di certezza, di sviluppo (v. Clô, 1990).

L'inizio di questo secolo segna il passaggio dell'industria petrolifera da 'fenomeno americano' a 'fenomeno mondiale' con un raddoppio dei consumi, anche in questo caso secondo la 'legge di Ailleret', ogni 10 anni: dai 21 milioni di tonnellate di petrolio del 1900 si passa ai 203 del 1930, ai circa 2.000 del 1970 sino ai 2.500 della prima metà degli anni ottanta. All'origine di questa crescita vi è, da un lato, l'aumento dei consumi totali di energia (di 12 volte tra il 1900 e il 1985 a livello mondiale) e, dall'altro, la progressiva preferenza assegnata al petrolio rispetto al carbone: da quote, sul totale dei consumi, che ancora nel 1950 sono rispettivamente del 25 e 60% a quote nel 1970 del 42 e 34% (con valori ancor più divaricati per i paesi, come Giappone o Italia, privi di risorse nazionali di carbone).

Questo rapido processo di sostituzione ha motivazioni di ordine particolare e generale. Tra le prime devono includersi principalmente le innovazioni che hanno legato, in misura crescente, lo sviluppo dei trasporti, dell'agricoltura e della chimica all'impiego dei derivati del petrolio. Con l'avvento dell'industria automobilistica e aeronautica e l'ammodernamento tecnologico dei sistemi esistenti, l'offerta di trasporto (e conseguentemente la sua domanda) conosce una ristrutturazione e un'espansione davvero formidabili se si rammenta che ancora nel 1880 la vela contribuiva per la metà del traffico merci marittimo sulle lunghe rotte e che nel 1910 la rete ferroviaria mondiale raggiungeva i 1.130 km (circa 1/20 di quella oggi esistente in Italia). In questa ristrutturazione ed espansione dei sistemi di trasporto il petrolio ha svolto un ruolo assolutamente dominante, al punto da assicurare oggi il 99% dei fabbisogni energetici complessivi di questo settore (nel mondo industrializzato) con il consumo del 50-55% di tutta la produzione. L'importanza di questi dati non sta tanto nei pur delicati elementi di rigidità che essi individuano nella sostituibilità tra le diverse fonti - poiché gli usi di prodotti petroliferi nei trasporti appaiono, anche in una prospettiva a lungo termine, come tecnologicamente 'obbligati' - ma piuttosto in quel che essi fanno intravvedere nella domanda 'potenziale' di petrolio dei paesi in via di sviluppo (oggi pari a nemmeno 1/4 di quella mondiale), una volta che il tasso di penetrazione delle automobili, in essi attestato a poco più dell'1% della popolazione, dovesse anche parzialmente avvicinarsi al 40% che si riscontra nei paesi industrializzati.

Un altro settore che riceve dal petrolio una formidabile accelerazione nei suoi ritmi di crescita è l'agricoltura. Gli aumenti della produttività resi possibili dalla meccanizzazione delle tecniche di lavorazione e da un'utilizzazione crescente dei fertilizzanti d'origine chimica (aumentata di 9 volte tra il 1950 e il 1986, fino a raggiungere i 136 milioni di tonnellate) hanno consentito di fronteggiare i fabbisogni alimentari di una popolazione raddoppiata dal 1950 a oggi, attenuando nello stesso tempo le forti sperequazioni nei livelli di consumi alimentari tra le diverse aree geografiche.

Terzo e ultimo ciclo innovativo cui è legata la penetrazione del petrolio è quello dell'industria petrolchimica, branca dell'industria chimica che utilizza come materie prime petrolio e gas naturale e dalla quale hanno origine prodotti quali materie plastiche, gomme e fibre sintetiche, detersivi, solventi, fertilizzanti, esplosivi, ecc. Nata negli Stati Uniti (è del 1920 la prima fabbricazione industriale d'isopropanolo, del 1931 la scoperta delle fibre poliestere, del 1935 la preparazione in laboratorio del polietilene), fino alla seconda guerra mondiale l'industria petrolchimica resta un fatto marginale e circoscritto al mercato americano, con una produzione di appena 0,6 milioni di tonnellate nel 1940, mentre la chimica organica, al di là e soprattutto al di qua dell'Atlantico, continuava a utilizzare come materie prime sottoprodotti della fabbricazione del coke, di cui l'industria metallurgica, in piena crescita, andava divenendo sempre più grande consumatrice.

La scarsità di offerta dei derivati del carbone e dei prodotti naturali, di fronte all'esplosione dei consumi finali che si registra a partire dal dopoguerra, segna il definitivo decollo dell'industria petrolchimica, prima negli Stati Uniti, poi in Europa e in Giappone. A trainarne l'espansione produttiva su scala mondiale - dai 3-4 milioni di tonnellate del 1950 (materie plastiche, fibre e gomme sintetiche, detergenti) ai 13,2 del 1960, ai 50,4 del 1970, ai 110 della metà degli anni ottanta - è soprattutto la 'rivoluzione' delle materie plastiche, la cui produzione, dal 1950 al 1973, cresce a un tasso medio annuo del 15%. Un peso particolarmente leggero, proprietà meccaniche, chimiche (resistenza alla corrosione) e termiche particolarmente vantaggiose, e in continuo miglioramento rispetto alle esigenze dei consumatori finali, e costi relativi contenuti e decrescenti hanno aperto a questi nuovi materiali mercati sempre più vasti - dall'edilizia alle automobili, dall'elettronica agli elettrodomestici e agli imballaggi - in sostituzione dei materiali tradizionali (vetro, acciaio e legno).

La stessa espansione avviene nel campo delle fibre sintetiche, le quali dal 1949 al 1969 hanno saputo assicurare il 75% dell'intera crescita dei consumi di fibre tessili, aumentando la produzione di 38 volte, fino a raggiungere 1,6 milioni di tonnellate annue, mentre quella complessiva di fibre naturali (cotone, lana, seta) regrediva leggermente a 1,9 milioni di tonnellate. Analogamente, a partire dal dopoguerra, gli elastomeri sintetici sono andati sostituendo la gomma naturale, arrivando ad assicurare attualmente il 65% dell'intero mercato delle gomme.

L'effetto sinergico delle trasformazioni indotte dal petrolio nei trasporti, nell'agricoltura e nella chimica, anche preso isolatamente, avrebbe determinato una forte dilatazione dei suoi consumi; alla loro ulteriore crescita contribuirono anche due ragioni di ordine generale: bassi costi e alta flessibilità d'uso del petrolio.

Bassi costi. Quantunque l'energia consumata abbia giocato sempre un ruolo relativamente marginale nella struttura dei costi e nel valore della produzione - superando solo eccezionalmente il 15% del prodotto interno lordo delle economie industrializzate e mai più del 10% di quelle sottosviluppate - le sue condizioni di accesso hanno costituito un fattore critico dello sviluppo economico e della sua stabilità nel tempo. E ciò in ragione: a) dei lunghi tempi tecnici e dell'elevato costo di sostituzione sia tra fonti di energia che tra energia e altri fattori di produzione; b) della sua 'orizzontalità' rispetto all'intera economia, sì che le variazioni nei suoi prezzi comportano a lungo andare non solo modifiche nella struttura produttiva, ma anche nel livello complessivo dell'attività; c) del ruolo crescente che l'energia è andata assumendo nell'interscambio commerciale di tutti i paesi, per l'asimmetrica dislocazione geografica che, proprio con il petrolio, la sua offerta ha manifestato rispetto ai consumi. Dalla transizione al petrolio lo sviluppo economico postbellico trae grande beneficio in quanto il suo prezzo all'origine è minore e fortemente decrescente in termini reali fino alla fine degli anni sessanta; minore è il suo costo di trasporto; maggiori sono i rendimenti termici che consente nella fase di utilizzazione finale. Il prezzo FOB (free on board) del greggio Arabian light - deflazionato secondo l'indice dei prezzi al consumo OCSE - fatto 100 nel 1950 scende a 80 nel 1960 e a 60 nel 1970. Il carbone, che a metà degli anni cinquanta manteneva un vantaggio sul petrolio che in alcuni paesi europei arrivava al 40%, risulta dieci anni dopo più oneroso secondo un rapporto 2 a 1. La riconversione al petrolio consente così alle economie industriali di beneficiare di un forte effetto deflattivo sull'intero sistema dei prezzi, e all'Europa e al Giappone di ridurre il consistente svantaggio che essi erano andati accumulando verso gli Stati Uniti nei costi medi dell'energia pagati dai consumatori finali, compreso a metà degli anni cinquanta tra un minimo del 35% per la Gran Bretagna e massimi del 55-60% per Italia e Giappone (v. Dunkerley, 1980, p. 57).

Alta flessibilità d'uso. Nonostante i benefici effetti che l'uso del carbone aveva consentito nella localizzazione delle attività produttive, permanevano comunque forti rigidità connesse a tale localizzazione per l'estrema difficoltà e onerosità a trasportarlo su grandi distanze. Il carbone lo si consumava per lo più là dove lo si produceva, e ciò è ancora oggi in gran parte vero. Le sue esportazioni hanno per questo sempre rappresentato una quota del tutto marginale della produzione mondiale: intorno al 10% se si considera il complesso delle transazioni internazionali, ma al 5% se da esse si escludono quelle all'interno di aree economicamente integrate (CEE e COMECON). La distribuzione geografica delle riserve di carbone risultava d'altra parte sì diseguale, ma sufficientemente ampia da soddisfare la domanda relativamente contenuta di energia degli anni 1940-1950; certo non quella 4 volte superiore degli anni ottanta. Ciò era invece possibile al petrolio per l'offerta estremamente abbondante che esisteva sul mercato e per l'estrema facilità di movimentazione, di stoccaggio e di trasporto dovuta al suo stato liquido e all'alto rapporto potere calorifico/volume: condizioni queste che gli hanno consentito di favorire, sin dalle origini, crescita della produzione e crescita delle esportazioni su distanze prima assolutamente inimmaginabili. Già alla metà degli anni trenta il 40% della produzione mondiale di petrolio fluiva via nave sulle rotte dal Venezuela al Nordamerica o dal Medioriente all'Europa, superando in termini quantitativi tutti gli scambi internazionali di carbone. Questi flussi sono aumentati da allora alla fine degli anni settanta di 18 volte, sino a raggiungere un picco di 1.800 milioni di tonnellate: pari, in termini di valore, al 10% di tutto il commercio mondiale e, in termini quantitativi, al 60% di quello via mare (v. Masseron, 1982, p. 164).

Con il petrolio, lo sviluppo economico si disgiunge, per la prima volta, dalla proprietà diretta (o ravvicinata) delle risorse energetiche di cui si alimenta. I paesi che dominano sul piano industriale divengono progressivamente dipendenti dall'estero su quello energetico: sino a livelli, nella prima metà degli anni settanta, compresi tra il 20% degli Stati Uniti - ma con una totale indipendenza dell'Unione Sovietica - e l'80-90% di Italia e Giappone (con valori medi dell'Europa intorno al 65%). Dei rischi insiti in questa trasformazione è ben consapevole Winston Churchill quando, il 17 luglio del 1913, in un discorso alla Camera dei Comuni sostiene che l'Ammiragliato inglese, di cui è primo lord, "debba divenire proprietario indipendente e produttore dei combustibili di cui necessita" (v. Frankel, 1973, p. 110). Lo stesso anno il Parlamento inglese autorizza il Tesoro ad acquisire il 51% della Anglo-Persian Oil Company (poi British Petroleum), che dal 1901 deteneva in un'unica concessione ogni diritto di ricerca, sfruttamento ed esportazione di petrolio su quasi tutta la Persia per un periodo di sessant'anni.Con il petrolio l'energia cessa di essere un fatto prevalentemente economico per divenire anche motivo e arena di scontro politico - al fine di acquisirne il diretto controllo o di garantirsi la sicurezza dei rifornimenti - tra (e all'interno degli) Stati, tra imprese, e tra gli uni e le altre. Per comprendere appieno gli sviluppi che in seguito si avranno nei processi di sostituzione delle fonti di energia, non si potrà più prescindere dalla valenza politica a essi connessa, anche se sarebbe altrettanto erroneo ricondurvi ogni tipo di spiegazione.

Dagli anni venti alla fine degli anni quaranta lo scontro per il controllo delle risorse petrolifere è tutto interno alle diplomazie occidentali - e segnatamente tra quelle britannica e statunitense - per spartirsi le aree geografiche di influenza politica e, conseguentemente, gli spazi di operatività economica delle grandi compagnie petrolifere che, al di là e al di qua dell'Atlantico, erano andate costituendosi a partire dalla seconda metà del secolo scorso. La loro proiezione peculiarmente multinazionale - che le porterà ad acquisire posizioni di assoluta leadership nell'intero panorama industriale - derivava proprio dal 'rapporto simbiotico' (che sempre manterranno) con i loro governi di origine, ai quali assicuravano condizioni di relativa certezza nei rifornimenti esteri di petrolio ottenendone, in cambio, occasioni di espansione e, insieme, protezione all'estero dei loro interessi economici. Un esempio significativo di quanto sopra descritto è quello che accadrà nel 1951, quando il governo iraniano di Mossadeq nazionalizzerà l'Anglo-Iranian Oil Company, ma dovrà cadere due anni dopo, a causa, soprattutto, dell'impossibilità di collocare sui mercati esteri un solo barile di petrolio per il boicottaggio opposto dalle potenze occidentali (con una produzione petrolifera iraniana scesa in due anni da 32 a 1 milione di tonnellate).

Lo 'scontro delle diplomazie' vede, al termine della seconda guerra mondiale, la definitiva affermazione dell'egemonia statunitense (rispetto a quella precedente britannica) nella cruciale area mediorientale, le cui riserve complessive nel 1950 erano per il 50% sotto il controllo delle imprese americane, contro il 30% del 1945 e il 10% del 1940. A esse (insieme a quelle inglesi) veniva assegnato il compito primario di gestire in modo quanto più economico possibile l'allocazione del petrolio tra le nazioni occidentali, sotto una duplice assunzione: "che le compagnie erano strumenti della politica estera americana e che gli interessi delle compagnie erano sostanzialmente identici agli interessi nazionali degli Stati Uniti", come affermerà nel 1975 la Commissione Church del Senato americano nel rapporto Multinational oil corporations and US foreign policy (p. 14).

Lo stretto 'coordinamento oligopolistico' che l'esiguo club delle maggiori imprese petrolifere seppe sapientemente realizzare - attraverso strutture produttive fortemente integrate 'verticalmente' e 'orizzontalmente', così da minimizzare sul mercato il volume delle libere contrattazioni, e un complesso sistema di joint ownership che riduceva di molto la possibilità per ciascuna impresa di adottare decisioni non rispondenti a interessi comuni (v. Blair, 1977; v. Penrose, 1968) - fu in grado di assicurare, negli anni dal 1949 al 1970, un periodo di relativa stabilità dei prezzi nominali del greggio come mai si era verificato in precedenza né più si verificherà.

Dopo gli 1,70-1,90 dollari al barile tra il 1949 e il 1956, e la punta di 2,08 raggiunta nel 1957-1958, i prezzi ufficiali di listino del greggio trattato sul mercato internazionale scivolano, sotto la pressione di una strisciante concorrenza, a 1,80 nel 1960, restando fermi per circa un decennio. Solo in un quadro di simile stabilità fu possibile 'governare' - anticipandone puntualmente l'offerta - una crescita dei consumi intensa e regolare (7-8% all'anno) nell'aggregato mondiale, ma molto differenziata all'interno dei singoli mercati. Alla continua e diffusa aderenza dell'offerta alla domanda di petrolio si accompagnava una grande flessibilità nelle correnti di traffico che consentiva di fronteggiare con immediatezza la lunga stagione di scontri politici e militari tra paesi arabi e Israele apertasi sin dal momento della costituzione di questo Stato nel 1948. Così accadde con la guerra di Suez del 1956 e ancora con la guerra dei 'sei giorni' del 1967, quando alla chiusura del Canale - che era andato assumendo un ruolo sempre più importante nei rifornimenti dell'Europa - si accompagnò il tentativo dei paesi arabi di utilizzare il controllo delle riserve petrolifere come arma di pressione politica ed economica nei confronti del mondo occidentale (v. Odell, 1986).

Quel che non era riuscito loro nel 1956 e nel 1967 si verificò invece traumaticamente nel 1973, quando improvvisamente, il 5 ottobre, scoppiò tra Egitto e Israele la guerra dello Yom kippur. Tra il 17 ottobre e il 5 novembre i paesi arabi aderenti all'OPEC (Organization of Petroleum Exporting Countries), Arabia Saudita, Kuwait, Libia, Abu Dhabi, Algeria, Qatar e Iraq) decidevano il totale embargo delle esportazioni di petrolio verso gli Stati Uniti e l'Olanda e stabilivano altresì di ridurre, nel complesso, la produzione di un 25% rispetto ai livelli di settembre "finché fosse completato il ritiro totale di Israele da tutti i territori arabi occupati nel giugno 1967 e fossero ripristinati i legittimi diritti del popolo palestinese". Il 16 ottobre i sei paesi OPEC del Golfo Persico - e poi a catena gli altri paesi - avevano unilateralmente deciso di aumentare i prezzi dell'Arabian light (e coerentemente delle altre qualità di petrolio) da 3,011 dollari al barile a 5,119, e il successivo 22 dicembre a 11,61 dollari. Anche se non esisteva formalmente alcuna connessione (per la diversità dei protagonisti e delle motivazioni) tra la decisione di ridurre la produzione e quella di aumentare i prezzi, non poteva di fatto sfuggire lo stretto rapporto di funzionalità che tra esse intercorreva (v. AA.VV., 1975).

Il successo di quell'azione e il complesso di accadimenti poi noto come 'crisi energetica', non discendevano tuttavia, a ben vedere, dall'evento bellico in sé, ma da un insieme di ragioni così riassumibili: a) il profondo mutamento che dalla metà degli anni sessanta si era andato consolidando nei rapporti tra imprese petrolifere e Stati produttori, nell'inevitabile intento di questi ultimi di superare l''equilibrio diseguale' su cui poggiava l'antico sistema delle concessioni petrolifere, così da affermare pienamente "il diritto inalienabile degli Stati a esercitare la loro sovranità in maniera permanente sulle risorse naturali nell'interesse del loro sviluppo", come solennemente aveva riconosciuto l'Assemblea generale delle Nazioni Unite nella risoluzione del novembre 1966; b) il conseguente venir meno dei meccanismi di 'stabilizzazione' del mercato internazionale, con il passaggio del controllo diretto dell'offerta di greggio dalle imprese occidentali agli Stati produttori - un processo, questo, che avviatosi alla fine degli anni sessanta andrà a compimento dieci anni dopo; c) l'annullarsi dei margini di 'capacità inutilizzata' di petrolio, che aveva consentito in passato di fronteggiare con immediatezza ogni situazione di crisi internazionale (quella, in particolare, su cui potevano far conto gli Stati Uniti, primi consumatori di petrolio al mondo con il 35% del totale, si era progressivamente ridotta dai 4 milioni di barili al giorno nel 1964 a zero nel 1970); d) non ultima determinante della crisi energetica era infine la crescente instabilità del sistema monetario internazionale, combinata con i sempre più elevati tassi d'inflazione del mondo industrializzato.

La prima crisi petrolifera del 1973 e la seconda del 1978-1979 - che, simile nelle motivazioni, proietterà i prezzi del greggio a valori medi di 34 dollari al barile (circa 14 volte quelli del 1972) con punte superiori ai 40 dollari - ripropongono all'attenzione degli Stati occidentali l'urgenza di ridurre con determinazione - per ragioni economiche e politiche insieme - il grado di dipendenza dagli approvvigionamenti esteri di petrolio e, insieme, il suo peso nella struttura di tutti i consumi di energia. "Se non saremo in grado di avviare a soluzione i problemi energetici - affermano a Venezia nel giugno 1980 i sette paesi più industrializzati - non potremo affrontare gli altri problemi" (dalla recessione alla disoccupazione, all'inflazione, al sottosviluppo) che avevano già pesantemente caratterizzato l'economia mondiale dalla seconda metà degli anni settanta (v. Fried e Schultze, 1985). Il processo di aggiustamento delle politiche e dei sistemi energetici occidentali poggerà, dal lato dell'offerta, su quattro direttrici. In primo luogo, l'aumento degli investimenti e della produzione di petrolio nelle aree esterne ai paesi OPEC. Dal 1973 al 1985 essa aumenterà di poco meno del 50% (raggiungendo i 40 milioni di barili al giorno), e farà sì che la quota OPEC sull'offerta mondiale scenda di 25 punti percentuali, riducendosi al 29%. In secondo luogo, l'aumento del ruolo del gas naturale, che, impostosi tra le altre fonti energetiche a partire dagli anni 1940-1950, aveva guadagnato - specie negli usi industriali e civili - posizioni significative collocandosi nel 1973 sul 18% di tutti i consumi e nel 1985 sul 23%. In terzo luogo, la 'riscoperta' del carbone, in termini sia produttivi che tecnologici, per le grandi potenzialità che gli alti prezzi dell'energia facevano intravvedere nella sua liquefazione e gassificazione, che ne riducono l'altrimenti grave impatto ambientale. La quarta direttrice di azione, infine, è quella dell'aumento della produzione di energia elettrica per via nucleare, che verrà esaminata nel paragrafo successivo in modo più approfondito.

Nell'insieme, l'aggiustamento dell'offerta di energia ha considerevole successo: l'offerta incrementale di carbone, metano e nucleare riesce, infatti, ad assicurare su scala mondiale il 63% dei 2,5 miliardi di tep (tonnellate equivalenti di petrolio) in più consumati tra il 1970 e il 1985, dimezzando così al 28% il contributo relativo del petrolio rispetto a quanto si era osservato nel ventennio precedente. In conseguenza di ciò - e anche per il contenimento dei consumi indotto nei paesi industrializzati dagli alti prezzi, dalla minor crescita economica e dal progresso tecnologico - il grado di dipendenza energetica dall'estero si riduceva di 20 punti (al 45%) nei paesi della Comunità Economica Europea (ma di zero punti in Italia) e di 8 punti sia negli Stati Uniti (al 12%) che in Giappone (all'82%).

La 'speranza' e lo 'spettro' del nucleare

Gli anni settanta propongono, come centrale nelle opzioni e nelle aspettative dei paesi più industrializzati, la 'speranza' nucleare. Fondamentale a tutti gli effetti, specie per chi non disponeva d'altro, come fonte energetica di produzione 'interna', per l'abbondanza delle riserve di uranio e il peso marginale (circa il 20%) del costo della materia prima sul costo totale del kWh, il nucleare sembrava costituire la risposta più adeguata alle tensioni dei mercati energetici: perché in grado di accrescere la sicurezza delle forniture energetiche e in particolare di quelle più essenziali di elettricità; di ridurre il costo medio dell'energia (collocandosi il suo break-even point rispetto al petrolio sui 10-15 dollari a barile) e soprattutto di porne sotto controllo la dinamica; di allargare la base accessibile dell'offerta di energia, avendo 1 tonnellata di uranio il potenziale energetico di 3.500 tonnellate di carbone (e 60 volte in più con i reattori autofertilizzanti); di imprimere, infine, una forte spinta innovativa ai sistemi industriali, per l'alto contenuto tecnologico di ogni fabbricazione o lavorazione connessa al nucleare.

L'inizio dell'era nucleare può farsi risalire al 2 dicembre 1942, quando all'Università di Chicago venne dimostrata da Enrico Fermi per la prima volta la possibilità di innescare e controllare la reazione a catena della fissione dei nuclei di uranio. Con l'Atomic energy act, del 1946, il Congresso americano decise di proseguire lo sviluppo militare dell'energia nucleare e, contemporaneamente, di costituire una struttura giuridica e istituzionale (l'Atomic Energy Commission, AEC) che ne consentisse l'impiego civile. In questo contesto, e sotto l'impulso delle commesse militari dell'AEC, l'industria americana s'impegnò al massimo nella prospezione mineraria dell'uranio e nella messa a punto delle sue applicazioni industriali, in particolare nel comparto navale (sottomarini) e in quello elettrico. Una filiera era oggetto di speciale attenzione: quella dei reattori a neutroni veloci. Da un impianto della potenza di 100 kW l'AEC ottenne nel 1951 la prima energia elettrica di origine nucleare. Bisognò attendere tuttavia il 1954 perché il Congresso, all'indomani del discorso Atoms for peace, tenuto dal presidente Eisenhower alle Nazioni Unite, approvasse (in parte sussidiandolo) il Power reactor demonstration program, che prevedeva la costruzione di cinque centrali. Il primo reattore civile da 60 MW, già precedentemente ordinato, venne posto in esercizio nel 1957 a Shippingport, vicino a Pittsburgh in Pennsylvania. Quasi contemporaneamente altre tre centrali venivano messe in esercizio: una a Calder-Hall in Gran Bretagna, una a Marcoule in Francia e una a Obninsk in Unione Sovietica. Trent'anni dopo, nel 1987, dietro la sollecitazione degli avvenimenti sopra analizzati, il 13% dell'elettricità prodotta nel mondo proveniva da 374 centrali nucleari, per una potenza complessiva di circa 250 mila MWe, localizzata per il 61% negli stessi quattro paesi che ne erano stati i primi produttori (nell'ordine: Stati Uniti 31%, Francia 15%, Unione Sovietica 11%, Gran Bretagna 4%) e per il restante 39% in altri 21 paesi (principalmente: Giappone 10%, Germania Occidentale 6%, Canada e Svezia 4%, Belgio e Spagna 2%).

Nonostante l'aumento di 16 volte registrato dal 1970 al 1985, lo sviluppo della produzione nucleare è andato tuttavia progressivamente allontanandosi dalle speranze che sul suo conto si erano alimentate, per ragioni insieme di carattere economico, politico e sociale. In primo luogo, per il disagio con cui l'opinione pubblica, o almeno una sua gran parte, continuava a guardare all'energia nucleare, collegandola inevitabilmente alle nefaste esperienze della bomba atomica e temendo che in qualche modo il materiale radioattivo potesse essere utilizzato per la produzione di ordigni esplosivi. In secondo luogo, per le conseguenze straordinariamente gravi che un serio incidente agli impianti avrebbe potuto determinare (quantunque nessuno potesse disconoscere il praticamente nullo impatto ambientale che, in condizioni di normalità di funzionamento, una centrale nucleare era in grado di assicurare rispetto ai combustibili fossili). Infine, in terzo luogo, per l'insoddisfacente tasso di crescita dei consumi elettrici che, specie negli Stati Uniti, si traduceva in un basso tasso di utilizzazione delle centrali nucleari e quindi, in ragione dell'alta incidenza dei costi fissi, in una loro ridotta convenienza.

L'incidente del 28 marzo 1979 a Three Mile Island, negli Stati Uniti, e soprattutto quello del 25 aprile 1986 a Černobyl, in Unione Sovietica, avrebbero dato corpo a quelli che prima apparivano solo come timori remoti, diffondendo in larga parte dell'opinione pubblica e in non pochi governi un atteggiamento di opposizione alla costruzione di nuove centrali, anche se quelle già programmate e in costruzione sono state poi portate a termine senza sostanziali modifiche. Dopo Černobyl sono entrati infatti in esercizio 52 nuovi impianti, mentre di altri 114 si prevede l'entrata in funzione da qui alla fine del secolo, così da raggiungere a quella data una potenza complessiva su scala mondiale di 400 mila MWe: il 60% in più di quella del 1987, ma circa la metà di quella che precedentemente si prevedeva sarebbe stata realizzata nei soli paesi industrializzati.

Alcune conclusioni

Dall'analisi dei passati processi di sostituzione delle fonti di energia emergono alcune conclusioni d'ordine generale a cui è opportuno rapportarsi per ragionare anche sulle loro possibili future dinamiche: 1) la penetrazione di nuove fonti di energia è stata sempre determinata dall'andamento generale dell'economia e non dalla loro 'scoperta' in quanto tale; 2) sono le 'specificità' qualitative di ogni fonte di energia, e le innovazioni tecnologiche che a esse si associano, a determinarne la supremazia sulle altre. Questa coerenza tra specificità e innovazioni spiega perché, in ogni periodo storico, una singola fonte abbia teso a divenire dominante sulle altre - a prescindere dalla loro disponibilità e dai loro prezzi relativi - e perché il tempo di affermazione di una fonte (per passare dall'1 al 10% dei consumi mondiali) sia sempre stato compreso tra i 50 e i 60 anni; 3) i processi di sostituzione tra fonti di energia (e tra energia e altri fattori di produzione) creano ogni volta rispetto al periodo precedente forti discontinuità tecnologiche, produttive e sociali, determinando, da un lato, un irreversibile superamento dei precedenti assetti socio-economici e, dall'altro, una compenetrazione sempre più profonda tra nuovi assetti e nuove fonti con le quali questi si combinano; 4) l'interrelazione tra energia ed economia nei paesi industrializzati è andata nel tempo enormemente accrescendosi, sia per la dimensione assoluta che le due grandezze hanno raggiunto, che per la natura dei legami che si sono andati tra loro instaurando. Ciò ha determinato forti rigidità interne ai sistemi energetici, con tempi di aggiustamento che sono oggi superiori a quelli anteguerra di quasi un ordine di grandezza.

Le risorse di energia

A ogni stadio di sviluppo delle società si è rinnovata costantemente la preoccupazione circa l'adeguatezza dell'offerta di energia e quindi circa la sua capacità di assecondare congiuntamente l'espansione quantitativa dei consumi e la loro modificazione qualitativa. Con regolare ciclicità storica, momenti di grande euforia e ottimismo, sostenuti dalla fiducia nella tecnologia, si sono alternati a momenti di fosco pessimismo, alimentato dal timore ecologico per il moltiplicarsi della popolazione, dei consumi e dei processi produttivi. Così è avvenuto in Gran Bretagna, nella seconda metà dell'Ottocento, quando l'economista William S. Jevons, riflettendo sulla crescita dei consumi di carbone dal 1800 al 1860 (15 volte) e minuziosamente calcolando un loro ulteriore incremento di 31 volte nel secolo successivo (2,6 miliardi di tonnellate contro 0,29 che poi si registreranno effettivamente), ammoniva che l'inevitabile aumento nei costi di estrazione e di vendita del carbone avrebbe irreversibilmente minacciato la supremazia commerciale e manifatturiera dell'economia britannica, così che la "nostra presente felice condizione di progresso ha dinanzi a sé un futuro limitato". "Noi dobbiamo scegliere tra una grandezza di breve durata e una più lunga prolungata mediocrità" (v. Jevons, 1865, pp. 243 e 376).

Preoccupazioni del tutto simili si sarebbero ripetute cinquant'anni dopo negli Stati Uniti, nonostante l'offerta di carbone, a prezzi reali decrescenti, fosse riuscita nel frattempo a espandersi su scala mondiale di 7 volte e nonostante quel paese disponesse di risorse ben più abbondanti di quelle inglesi. Gifford Pinchot, leader con Theodore Roosevelt del Movimento conservazionista, che ebbe un certo rilievo nella vita politica americana tra il 1890 e il 1920, ammoniva, con parole non diverse da quelle di Jevons, sui rischi per la società americana della limitatezza delle risorse di carbone e del "rapido esaurimento" di quelle di petrolio e di gas naturale (v. Pinchot, 1910), quando il loro consumo complessivo non aveva ancora raggiunto nel mondo i 60 milioni di tep contro i circa 3.800 di oggi.

Se è pur vero che l'esperienza storica nulla prova circa l'ipotesi che la limitatezza delle risorse energetiche, alle quali da due secoli in qua l'umanità ha sempre più massicciamente fatto ricorso, e i rendimenti decrescenti nel loro sfruttamento abbiano condizionato in modo significativo la crescita di lungo periodo delle economie, è altrettanto vero che nulla porta a ritenere con certezza che in tale campo "il futuro assomiglierà al passato" (v. Rosenberg, 1976; tr. it., p. 274). Ogni valutazione sull''adeguatezza' delle risorse energetiche deve infatti tener conto congiuntamente di due ordini di vincoli: la loro teorica disponibilità 'quantitativa' e la loro effettiva 'accessibilità', non essendo affatto detto che a conclusioni positive sul primo versante abbiano a corrispondere, sempre e comunque, conclusioni di ugual segno anche sul secondo.

Le disponibilità teoriche

Sotto il profilo della disponibilità è rilevante fissare la distinzione che intercorre tra risorse, riserve e capacità produttiva, tre concetti che definiscono - in decrescenza - i confini quantitativi delle fonti di energia sotto diverse angolazioni: economiche, tecnologiche e temporali. Con risorse s'intende, in particolare, lo stock di una data fonte che, sulla base di considerazioni geologiche ed economiche, si presume di poter estrarre in un futuro non definito. Si tratta, in sostanza, del confine ultimo, quantitativamente più ampio ma anche più soggettivo, ipotetico e incerto. È naturale che questa incertezza risulti maggiore per le risorse fossili del sottosuolo, ma anche per le altre essa non appare trascurabile. Le risorse idriche risentono, ad esempio, delle incertezze dovute agli usi alternativi nell'agricoltura o nell'industria, mentre nel lungo periodo possono essere influenzate da variazioni climatiche conseguenti a mutazioni ambientali di tipo globale. Di ben maggiore spessore è, tuttavia, l'incertezza relativa alle risorse fossili. Significativa, a tale riguardo, è l'estrema variabilità che negli ultimi cinquant'anni si è registrata nelle stime delle risorse ultime di petrolio convenzionale (quel petrolio che si estrae direttamente dal sottosuolo sotto forma liquida). Nel 1942 i geologi Pratt, Weeks e Stebinger valutavano in 600 miliardi di barili la loro consistenza, cifra che veniva rivalutata di oltre due volte, a 1.500 miliardi, da Levorsen appena sette anni dopo, e ancora di oltre due volte, a 3.550 miliardi di barili, da Weeks nel 1968. Fu quella la stima storicamente più elevata, registrandosi da allora valutazioni via via decrescenti fino a raggiungere, a metà degli anni ottanta, livelli oscillanti intorno ai 1.700 miliardi di barili: la metà di quel che si reputava vent'anni fa.

Secondo lo schema di classificazione delle risorse minerarie più utilizzato, quello noto sotto il nome di 'scatola di McKelvey' (v. McKelvey, 1972), il totale delle risorse assomma tutti i materiali che sono già stati identificati (identified) e altri che lo potrebbero essere in futuro (undiscovered). All'interno della prima categoria, il sottoinsieme che è già stato individuato con relativa certezza - per dimensione, localizzazione, qualità - e che si ritiene possa essere effettivamente estratto, dati i prezzi e la tecnologia attuali, si definisce con il termine di riserve. Quantunque il grado di certezza nella loro stima sia maggiore di quello riscontrabile per le risorse, la loro entità, allo stesso modo, non è una grandezza fissa nel tempo: potendo, da un lato, diminuire con i consumi dall'altro accrescersi per miglioramenti nelle tecnologie o per la scoperta di nuovi giacimenti. L'evoluzione dei prezzi agisce, per contro, in entrambe le direzioni: consentendo, quando aumentano, di trasformare risorse marginali in riserve o, nel caso opposto, di rendere marginali giacimenti oggi suscettibili di sfruttamento.

tab. VI

Da quel che si è detto si deduce come risorse e riserve siano parti di un sistema dinamico che non consente, in alcun momento, di inventariarle esattamente quasi fossero scatole in uno scaffale. I mutamenti nelle condizioni economiche e tecnologiche ne condizionano infatti continuamente l'entità, come si è sinora osservato, in senso sempre espansivo. Tale processo non può comunque spingersi, per ogni fonte energetica fossile (e a quel che a oggi è dato di vedere ciò vale soprattutto per il petrolio), sino al limite estremo di annullarne il carattere di limitatezza. L'esaurimento geologico ed economico delle miniere è un fatto tutt'altro che immaginario e illudersi che ciò non abbia mai a verificarsi può essere estremamente pericoloso. Pur se vera in teoria, una simile eventualità appare, tuttavia, alquanto remota solo che si osservino i dati della tab. VI, ove sono riportate le stime più aggiornate sulla consistenza delle risorse e delle riserve mondiali dei combustibili fossili, fonti di energia che da un secolo in qua assicurano la copertura ai nove decimi dei fabbisogni mondiali. Pur se inevitabilmente aleatorie, esse aprono orizzonti temporali di sfruttamento teorico davvero immensi. Insieme petrolio, metano e carbone (ove si prescinda dai vincoli che la tecnologia pone oggi alla loro piena sostituibilità) potrebbero continuare a soddisfare le esigenze energetiche, ai ritmi estrattivi attuali, per oltre un secolo - se ci riferiamo al più significativo dato sulle riserve provate - e addirittura per ben oltre un millennio se ragioniamo sul dato 'congetturale' delle risorse. Questi orizzonti si proietterebbero poi molto più in là nel tempo se considerassimo anche i modi (in teoria possibili o in uso ai primordi industriali) di produzione non convenzionale degli idrocarburi: come, ad esempio, il petrolio estratto da sabbie asfaltiche o da scisti bituminosi, le cui risorse si stimano in 350 volte quelle di petrolio convenzionale. Non è certo, quindi, l'energia che manca: il problema è, semmai, come vedremo, quello dell'effettiva possibilità di accedervi.

Risorse e riserve sono concetti che individuano confini produttivi - espressi in termini di stock - i cui livelli e le cui variazioni influiscono sulle dinamiche di mercato e sui costi-prezzi di lungo periodo. Le dinamiche di breve-medio periodo sono invece strettamente condizionate da un terzo ancor più ristretto confine: quello della capacità produttiva, disponibile in ogni momento e sostenibile per un dato periodo senza compromettere le potenzialità estrattive. Espressa in termini di flusso, essa dipende non tanto dall'entità mineraria dei giacimenti identificati, quanto dagli investimenti realizzati nell'attività di esplorazione e di sviluppo, così come in tutte quelle infrastrutture che risultano necessarie perché il barile di petrolio o il metro cubo di gas estratto raggiungano effettivamente i mercati di consumo. Per il consumatore, in ogni dato istante, la sola offerta che conta è quella che gli può essere resa effettivamente disponibile e non quella potenziale come è espressa dalle riserve o tantomeno dalle risorse. Se quel flusso di offerta è inadeguato, aumenti dei prezzi saranno inevitabili, e per accrescerlo in misura significativa saranno necessari lunghi periodi di tempo. I giacimenti petroliferi dell'Alaska, scoperti nel 1964, e quelli del Mare del Nord, scoperti nel 1967, hanno richiesto, ad esempio, circa 15 anni per raggiungere le loro piene capacità estrattive.

L'incapacità di distinguere tra risorse, riserve e capacità produttiva di fonti di energia, o l'uso strumentale che di tali concetti è stato fatto per influenzare le scelte nella direzione voluta, hanno costituito nel passato un motivo di grave confusione nei tentativi di interpretazione di quel che andava accadendo o che, in assenza di interventi, sarebbe potuto accadere sui mercati. I dati sulle risorse (il confine produttivo più ampio, ma anche più ipotetico) venivano 'condizionati' dall'opinione in ogni momento dominante: essendo privilegiato, nell'ampio ventaglio delle congetture scientifiche su cui si fondava la loro quantificazione, l'estremo superiore o quello inferiore, a seconda dell'intenzione di diffondere un messaggio di scarsità o di abbondanza. Allo stesso modo le riserve provate (la parte delle risorse già identificate) hanno finito per rappresentare, in modo improprio, l'indicatore empirico più immediato delle possibilità residue di estrazione del petrolio: dovendo invece essere interpretate come risultato dell'operare delle imprese e non già come vincolo esterno a esse. Tra l'altro, questo spiega perché il rapporto riserve/produzione di petrolio si sia sempre collocato, da cinquant'anni in qua, su valori compresi tra 30 e 40 anni che rappresentano, appunto, la 'vita media' dei giacimenti in produzione.

Un non corretto apprezzamento dei vari concetti che definiscono la dimensione quantitativa delle diverse fonti di energia può generare ingiustificati timori sulla loro 'scarsità', così come altrettanto ingiustificate illusioni sulla loro 'abbondanza' (e ciò a prescindere da ogni mutamento nella tecnologia o nei prezzi). L'impennata dei prezzi degli anni settanta venne, ad esempio, generalmente interpretata non già come un problema, relativamente semplice, di momentanea insufficienza della capacità produttiva disponibile di petrolio (dati i livelli di domanda) e di concentrazione di quella marginale nei paesi OPEC, ma come effetto del manifestarsi di una scarsità assoluta di tale risorsa. Quell'inatteso, ma non imprevedibile, evento pareva costituire una prima cupa conferma del nuovo ciclo di apocalittiche predizioni che Dennis Meadows e altri inauguravano nel 1972 con il famoso Rapporto del Club di Roma I limiti dello sviluppo, ove si prospettava per l'umanità un catastrofico declino, nell'arco di un secolo, per i soffocanti limiti che alla crescita esponenziale della popolazione e della produzione sarebbero derivati dalla limitatezza delle risorse e dall'incapacità dell'ambiente naturale di assorbire il crescente fall-out d'inquinamento.

Per una volta, però, i 'sani' meccanismi del mercato avrebbero svolto appieno la loro funzione: l'effetto espansivo degli alti prezzi sull'offerta e insieme quello depressivo sui consumi di energia (soprattutto di petrolio) avrebbero infatti consentito ai mercati, nell'arco di un quindicennio, di riguadagnare posizioni di equilibrio, con prezzi reali tornati pressocché ai livelli di partenza. Interpretare questo aggiustamento come il definitivo superamento delle ragioni di 'scarsità' economica del petrolio - e di qui dedurne che le economie internazionali non dovranno in futuro subire nuove tensioni sul fronte dei prezzi energetici - è, tuttavia, del tutto errato, allo stesso modo in cui lo furono le apocalittiche interpretazioni del passato. Questa visione delle cose sarebbe sbagliata, non solo perché nel medio periodo il pendolo del mercato potrebbe riprendere a oscillare, in modo tanto più traumatico quanto più i prezzi continueranno a collocarsi a livelli inidonei ad assicurare piena redditività agli investimenti di sostituzione delle capacità minerarie utilizzate, ma ancor più perché le attuali condizioni dei mercati nulla ci dicono e in nulla possono rassicurarci sulle prospettive energetiche di lungo periodo.

L'effettiva accessibilità

"Sebbene l'astronave del genere umano galleggi all'interno di una fantastica riserva di energia disponibile, solo una frazione infinitesimale di questa riserva è accessibile all'uomo" (v. Georgescu-Roegen, 1976; tr. it., p. 35). Le immense disponibilità fisiche delle risorse fossili non rinnovabili che si sono sopra riportate, e quelle ancor più estese che potrebbero enumerarsi nel campo delle risorse rinnovabili (sole, acqua, vento, ecc.), nulla ci dicono, infatti, sulla loro effettiva accessibilità. Questo concetto discende da e individua vincoli all'uso delle risorse energetiche di natura diversa e mutevoli nel tempo, con il variare delle tecnologie e delle valenze (economiche, politiche e ambientali) connesse all'impiego dell'energia. Per comodità espositiva li analizzeremo singolarmente, anche se quel che conta è il loro effetto combinato.

1. Vincoli minerari, che non consentono, con le tecniche oggi disponibili, di spingere il tasso di sfruttamento dei giacimenti di carbone al di là, in media, del 50-60% della loro consistenza, del 30-40% nel caso del petrolio e del 70% nel caso del gas naturale. Questi vincoli riducono di fatto l'ammontare delle riserve accertate di combustibili fossili di circa il 45% rispetto alle stime riportate nella tab. VI, così che attualmente solo il 5% delle risorse valutate è pienamente sfruttabile. Lo stesso può dirsi per le risorse rinnovabili, le quali, illimitate o inesauribili in teoria, sono in pratica 'catturabili' e utilizzabili con le tecniche d'oggi solo in misura insignificante.

2. Vincoli economici, che inducono costi marginali di produzione di lungo periodo fortemente crescenti nel passaggio dal petrolio alle altre, pur più abbondanti, fonti energetiche. A costi medi delle risorse fossili convenzionali compresi tra le poche decine di centesimi di dollaro per barile dei greggi 'facili' mediorientali e i 17-18 dollari dei giacimenti marginali, con carbone e nucleare collocati grosso modo a cavallo tra 5 e 10 dollari, si contrappongono costi delle risorse non convenzionali (sabbie e scisti bituminosi, liquefazione e gassificazione del carbone, olii pesanti, ecc.) e di quelle rinnovabili (solare, eolico, biomasse, ecc.) compresi, nei casi più favorevoli, tra 30 e 50 dollari al barile (v. Masseron, 1982, pp. 475 ss.).

3. Vincoli ambientali, che portano oggi ad attenuare o escludere un uso intensivo delle fonti energetiche - in primo luogo nucleare e carbone - verso cui si vanno maggiormente addensando le preoccupazioni ecologiche delle popolazioni e degli Stati. Le nuove tecnologie di combustione dei fossili o la messa a punto di nuovi progetti di reattori nucleari (di bassa scala dimensionale) permetteranno di ridurre in misura significativa le emissioni di talune sostanze inquinanti o di accrescere la sicurezza delle produzioni nucleari, ma il loro sviluppo (e la loro diffusione) richiederà tempo e denaro, riducendo nel frattempo il grado di accessibilità delle risorse 'disponibili'.

4. Vincoli politici, che frenano la maggior parte dei paesi industrializzati dal ricorrere, al di là di certe soglie di 'sicurezza', alle instabili aree mediorientali, ove pure sono localizzati i 2/3 delle riserve accertate di petrolio nel mondo, il 20-40% di quelle che si presume possano esserlo in futuro, e l'80% delle risorse sfruttabili a costi relativamente bassi (v. Clô, 1988, p. 26).

5. Vincoli energetici, di coerenza termodinamica e d'intrinseca efficienza, che portano a escludere dal computo delle risorse quelle unità che richiedono per la loro produzione (con le attuali tecnologie) più energia di quanta siano in grado di produrre. È questo il caso di una larga parte delle risorse rinnovabili, che presentano un rapporto tra energia prodotta ed energia impiegata (per produrla) inferiore o di poco superiore a 1, contro valori dei combustibili fossili che arrivano sino a 100 (v. Cleveland e altri, 1984). Va da sé che, se i progressi della tecnologia non saranno in grado di modificare drasticamente questi rapporti, la penetrazione delle risorse rinnovabili comporterà una pressione aggiuntiva sulla domanda di energia tradizionale, scarsamente compatibile con gli obiettivi di 'conservazione' e difesa ambientale cui il loro impiego è in genere associato.

6. Vincoli qualitativi, connessi all'idoneità delle singole fonti energetiche a soddisfare la specifica 'scheda' dei consumi finali. Fra le caratteristiche qualitative che le società avanzate richiedono all'offerta di energia, tre assumono particolare rilevanza: un'alta concentrazione dell'offerta in uno spazio relativamente ristretto; una sua alta affidabilità e controllabilità ovvero la possibilità di disporre dell'energia nel luogo, nel momento e nella modulazione desiderata; una sua alta flessibilità d'uso ovvero la possibilità di convertire il calore in altre forme di energia (ad esempio cinetica o meccanica). L'insieme di queste caratteristiche costituisce un'ulteriore ragione di penalizzazione delle risorse rinnovabili, quali soprattutto l'energia eolica o quella solare. La loro discontinuità e imprevedibilità ne costringe di fatto l'impiego (specie nella produzione di elettricità cui sono per lo più destinate) a situazioni locali circoscritte, a una bassa scala dimensionale e con un rilievo quantitativo del tutto irrisorio rispetto all'insieme dei consumi di energia (v. Clô, 1989).

È dalla effettiva accessibilità sul piano dell'offerta e dalla effettiva utilità su quello della domanda che deve discendere ogni compiuta valutazione sulla 'scarsità' energetica. Al tradizionale concetto di scarsità, nella sua formulazione malthusiana di limite assoluto alla disponibilità delle risorse o nella forma ricardiana di continuo declino nel tempo della qualità economica delle risorse, si è andato sostituendo, nella dinamica evolutiva delle società e nelle mutevoli esigenze che esse esprimevano in ogni loro stadio di sviluppo, il concetto di 'scarsità multidimensionale' delle risorse energetiche, quale risultante aggregata di tutte le 'scarsità parziali' che contraddistinguono i singoli elementi 'definitori' di ciascuna di esse. Se di tutti questi elementi si tiene debito conto, ci accorgiamo che l'entità delle risorse su cui poter fare realmente affidamento nel lungo periodo è ben più ristretta di quanto ci possano far ritenere i semplici dati fisici o geologici.

Alcune indicazioni prospettiche

tab. VII

La caduta, la stabilizzazione e poi la lenta ripresa dei consumi di petrolio che si sono osservate negli anni ottanta, se sono valse a riportare i prezzi reali ai livelli precedenti la prima crisi del 1973, non hanno potuto impedire - per l'ordine di grandezza raggiunto dai consumi - che dal 1973 al 1988 raddoppiasse il 'grado di esaurimento' delle risorse ultime di petrolio, dato dal rapporto tra la domanda cumulata dall'inizio del suo impiego e il confine massimo delle sue potenzialità estrattive (risorse). Questo rapporto (v. tab. VII) è infatti passato dall'11-15% del 1973 - a seconda che si considerino i valori massimo o minimo nel range di stima delle risorse - al 24-34% del 1988. In 15 anni, in sostanza, è stato consumato più petrolio di quanto ne era stato consumato nei precedenti 117 anni della storia petrolifera. Se le cose andranno secondo le previsioni su cui concorda la maggior parte dei centri di ricerca (v. AIE, 1989), il 'grado di esaurimento' delle risorse di petrolio andrebbe a collocarsi, all'inizio del prossimo secolo, tra il 35 e il 50% e trent'anni dopo, proseguendo gli stessi ritmi di sfruttamento, al 75%, qualora si dimostrasse corretta l'ipotesi più ottimistica sulla loro consistenza, e al di là dell'ultimo barile di petrolio nel caso contrario. Un'eventualità, quest'ultima, che forse una giustificata fiducia nel progresso tecnico suggerisce di non valutare necessariamente come catastrofica - come non lo furono in passato altre situazioni di scarsità -, ma che i tempi dell'economia richiederebbero di affrontare sin d'ora per cercare di evitarla.

La possibilità che ciò possa verificarsi - senza rinnovati contraccolpi sui prezzi e sulle economie - trova, tuttavia, un formidabile impedimento nel venir meno delle condizioni che hanno consentito ai mercati energetici di riassorbire gli squilibri del passato e sulle quali si faceva più affidamento per assicurare loro stabilità nel lungo periodo. Si intende fare riferimento, in primo luogo, al declino dei prezzi reali dell'energia, inidonei ai livelli d'oggi a sostenere lo sviluppo della capacità sostitutiva e addizionale del petrolio e a maggior ragione delle altre più onerose fonti di energia e, in secondo luogo, al sempre più avvertito conflitto tra economicità e accettabilità sociale del nucleare e del carbone.

Questi due fenomeni, pur di origine diversa, generano effetti similari: mettono in difficoltà a lungo termine larghe potenzialità di offerta - perché non convenienti o socialmente non desiderate - creando così le premesse per un'aggiuntiva e accelerata pressione della domanda incrementale di energia sulle relativamente più scarse risorse petrolifere. La ridotta propensione a investire - che si osserva in pressoché tutte le aree geografiche e in tutti i segmenti di offerta - si scontra infatti con una crescita dei consumi che si è fatta vieppiù consistente dal momento in cui il ciclo economico mondiale si è modificato in senso espansivo (nel 1982-1983). Questa crescita ha nuovamente interessato le economie industrializzate, ove l'onda lunga del risparmio energetico pare gradualmente affievolirsi (per il gioco combinato dell'effetto reddito e dell'effetto prezzi), e soprattutto quelle in via di sviluppo, ove i consumi energetici pro capite si collocano spesso a livelli inferiori alle capacità di sussistenza (in un rapporto sino a 1 a 25 con quelli dei paesi più ricchi).

Intere aree geografiche vanno affacciandosi sui mercati mondiali dell'energia con intensità e rapidità inaudite - quella emergente del Sudest asiatico, ad esempio, ha più che quadruplicato i suoi consumi (a 300 milioni di tep) in due decenni - e questa tendenza è ineludibile e destinata anzi a rafforzarsi. In un solo quinquennio (1983-1988) i consumi mondiali sono aumentati di 1,2 miliardi di tep. A essi si è data copertura per l'85% con le fonti a maggior tasso d'inquinamento, quelle fossili - aggravando così un già deteriorato bilancio ambientale -, e per circa un quarto con il petrolio, fonte più scarsa e con maggiori rischi economici e politici.

Per contenere l'insieme di questi effetti negativi - con una crescita economica che sappia rendersi vieppiù compatibile con la protezione dell'ambiente - i maggiori paesi industrializzati, nel loro quindicesimo vertice tenutosi a Parigi nel luglio 1989, hanno sottoscritto un comune impegno "a favorire l'adozione delle misure, tra l'altro economiche, che tendono a migliorare la conservazione dell'energia e più generalmente a promuovere un uso efficace di tutte le forme di energia con le tecniche e le tecnologie adeguate". Questo impegno richiede un'attenta definizione e gestione delle politiche pubbliche lungo due linee di azione. In primo luogo, in tema di prezzi e di fiscalità al consumo dei prodotti energetici, al duplice scopo di controbilanciare gli effetti espansivi che il calo delle quotazioni all'origine delle materie prime (e del dollaro) va inducendo sui consumi (per unità d'output e totali) e di orientare la composizione di questi ultimi verso le fonti a minor impatto ambientale e minor contenuto d'importazione (favorendo cioè le produzioni interne, specie rinnovabili). Una simile politica incontra d'altronde limiti precisi nella bassa elasticità ai prezzi della domanda di energia (nei paesi OCSE in media stimata intorno a - 0,2 nel breve e a - 0,6 nel lungo termine), in particolare se raffrontata a quella che lega domanda e reddito (generalmente unitaria). Una manovra di contenimento dei consumi lasciata alla sola leva dei prezzi richiederebbe, d'altra parte, una loro lievitazione in termini reali difficilmente compatibile con politiche antinflazionistiche. Accanto a essa si richiede perciò, come seconda linea d'azione, un'intelligente politica di incentivazione del risparmio energetico e delle risorse rinnovabili, in particolare nei casi ove risultati positivi possano conseguirsi con lo sviluppo di nuove tecnologie, oggi non competitive per la ridotta estensione della domanda e il basso livello dei prezzi dell'energia.

Una decisa azione dei governi, in queste o altre direzioni, s'impone: vuoi per contrastare l'impressionante degrado dell'ambiente provocato dall'uso delle energie fossili, vuoi per impedire che nuove situazioni traumatiche abbiano a ripetersi sui mercati del petrolio. Le più recenti tendenze dal lato dell'offerta e della domanda di questa fonte energetica fanno intravvedere e temere, infatti, negli anni novanta, una dinamica evolutiva del suo mercato non dissimile da quella osservata negli anni settanta: con un crescente ricorso all'unica capacità produttiva disponibile, quella detenuta nei paesi OPEC (e in particolare nel Golfo Persico), e la possibilità che il suo tasso di utilizzo possa risalire alle soglie critiche che l'esperienza del decennio scorso ha dimostrato idonee a favorire spinte collusive. Il tempo e i meccanismi di mercato giocano ora a favore del cartello OPEC: e tanto più forti sono oggi le sue divisioni interne - e quindi più depressi i prezzi, come è prevedibile che accada fino a quando vi sarà eccesso di capacità - tanto più ravvicinati e forti potranno essere domani i 'contraccolpi' causati da questa situazione. Se, in conclusione, la dinamica effettiva dei prezzi reali dell'energia si avvicinerà a quella teorica - dettata dalle condizioni di equilibrio di domanda e offerta nel lungo periodo - il processo di aggiustamento e di transizione delle economie al 'dopo petrolio' potrà avvenire in modo armonico e costituire anzi occasione di grandi innovazioni, come si è potuto osservare nei passati processi di sostituzione e come fanno sperare i progressi che si sono andati registrando nelle nuove 'frontiere' tecnologiche, quali la fusione nucleare o la superconduttività, frontiere per le quali i tempi di sviluppo non possono però al momento ancora prevedersi. Se, al contrario, le indicazioni di prezzo di breve e lungo periodo risulteranno tra loro contrastanti, potranno nuovamente manifestarsi, in misura non meno critica di quanto già osservato in passato, situazioni di rottura nei mercati. (V. anche Ambiente, tutela dell'; Economia; Industria; Industrializzazione; Macchine; Sviluppo economico).

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