VANCINI, Florestano

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 98 (2020)

VANCINI, Florestano

Stefania Parigi

– Nacque a Ferrara il 24 agosto 1926 in una famiglia di origine contadina, ultimo dei nove figli di Mario e di Caterina Rizzatti.

Visse la sua infanzia a Boara, un paese distante pochi chilometri da Ferrara, dove frequentò le scuole elementari fino alla quarta classe. Per fare la quinta dovette recarsi in città. Alla fine del 1937, a 11 anni, cominciò il ginnasio in un collegio salesiano a Penango, nel Monferrato, da cui fu espulso due anni dopo per aver composto un sonetto, come lui stesso ebbe modo di raccontare (Gambetti, 2000, pp. 23 s.). Tornato a Ferrara – dove la famiglia si era nel frattempo trasferita per il lavoro del padre, impiegato agli uffici postali – frequentò il liceo scientifico, senza nutrire alcuna predisposizione per gli studi matematici. In seguito si iscrisse alla facoltà di chimica ma non conseguì la laurea. Dalla fine del 1943 partecipò alla Resistenza, entrando a far parte del Fronte della gioventù fondato nel 1944 da Eugenio Curiel.

La passione per il cinema cominciò a manifestarsi intorno al 1940-41, quando Vancini era ancora studente liceale. Prima di allora la madre gli aveva fatto conoscere e apprezzare il teatro di prosa e lirico. In quegli anni fu «folgorato», secondo le sue stesse parole (Gambetti, 2000, p. 26), da Stagecoach (1939; Ombre rosse) di John Ford e La grande illusion (1937; La grande illusione) di Jean Renoir. Cominciò a comprare libri di cinema, a leggere le riviste più importanti del periodo, come Cinema e Bianco e Nero, e a scrivere recensioni nel giornaletto del liceo La voce dello studente. Nel 1942 assistette alle riprese a Ferrara e dintorni di Ossessione, il film d’esordio di Luchino Visconti, al quale collaborarono i giovani critici della rivista Cinema e che rappresentò il manifesto di un nuovo cinema improntato al realismo.

Nel dopoguerra Vancini scrisse recensioni di film in La nuova scintilla, settimanale ferrarese del Partito comunista italiano (poi settimanale della Federazione comunista ferrarese) e fu giornalista cinematografico, ma anche di cronaca nera, per Il Corriere del Po, quotidiano fondato dal CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) di Ferrara. Dal 1947-48 vide i classici del cinema sovietico presso il circolo Ricciotto Canudo fondato dal professore di lettere Claudio Varese.

Iniziò la sua carriera di regista nel 1949, autoproducendo sotto il marchio Este Film e dirigendo insieme ad Aldo Baruffi il cortometraggio Amanti senza fortuna, che rievocava la tragica sorte di Ugo d’Este e di Parisina Malatesta, i due amanti fatti decapitare nel 1425 da Niccolò III, marchese di Ferrara. Con Baruffi realizzò nel 1950 altri quattro documentari dedicati in gran parte ai problemi o alle bellezze della sua terra: Uomini della pianura e Alluvione, sugli allagamenti provocati dall’esondazione del fiume Reno nel novembre del 1949; Pomposa, sull’omonima abbazia; Camionisti, sul viaggio dal Nord al Sud di due autisti di un mezzo pesante. Le attrezzature per girare furono fornite da Antonio Sturla – operatore dell’Istituto Luce e poi del cinegiornale Settimana Incom – che firmò la direzione della fotografia. Nel 1951 si interruppe la collaborazione con Baruffi e Vancini cominciò a dirigere da solo i suoi documentari, sempre concentrandosi sulle condizioni di vita nelle valli del Po (Delta padano, prodotto dalla Camera del lavoro di Ferrara) o sulla storia di Ferrara (La città di Messer Ludovico).

Nel gennaio del 1952 si trasferì a Roma, dove si era già più volte recato per il montaggio e il doppiaggio dei suoi cortometraggi, consigliato da Michelangelo Antonioni, al quale si era rivolto, insieme a Baruffi, già ai tempi del suo documentario d’esordio. Negli stabilimenti della capitale e nelle trattorie romane conobbe la schiera nutrita dei registi della sua generazione che si stavano cimentando con il cortometraggio documentario: Valerio Zurlini, Francesco ‘Citto’ Maselli, Gillo Pontecorvo, Giulio Questi, tra gli altri.

Nel 1952 realizzò per la Faretra Film tre cortometraggi ambientati in Sicilia, con la fotografia del giovane Carlo Di Palma: Luoghi e figure di Verga, sull’ambiente contadino di uno scrittore profondamente amato; Più che regione, sui progetti di riforma del territorio; Portatrici di pietre, su un soggetto di Basilio Franchina, dedicato al faticoso lavoro delle donne impegnate a trasportare le pietre dei fiumi per favorire la coltivazione dei terreni e fornire materiali per la costruzione delle case.

Il 27 dicembre 1952 sposò la parmense Liliana Ferrari, con la quale ebbe due figli: Gloria e Mario.

Dal 1953 al 1959 gli ambienti privilegiati delle sue riprese tornarono a essere quelli ferraresi e padani. Non mancarono, tuttavia, incursioni in Calabria, nelle Marche, in Abruzzo o sulle Alpi per documentare la costruzione della funivia del Monte Bianco. Tra i numerosi cortometraggi realizzati da Vancini in questo periodo si ricordano soprattutto: Uomini della palude (1953) sui pescatori di frodo nelle Valli di Comacchio; Tre canne un soldo, dedicato al taglio delle canne alle foci del Po; Teatro minimo (1957) che, con un testo di Giorgio Bassani, indagava le rappresentazioni di una compagnia teatrale nel delta padano; Uomini soli (1959), sul dormitorio pubblico di Ferrara. Il suo sguardo mirava a mettere in luce i problemi del lavoro e le difficoltà della vita quotidiana e al contempo a rivelare le stratificazioni culturali del territorio e la sua storia. Nel 1957 realizzò Gli ultimi cantastorie, con una sceneggiatura e un commento parlato di Renzo Renzi, che rievocava un’antica tradizione popolare in via di estinzione.

Prima di esordire nel lungometraggio di finzione, Vancini ebbe due importanti esperienze come aiutoregista. La prima per La donna del fiume (1954), diretto da Mario Soldati e prodotto da Carlo Ponti, in cui vennero utilizzati due suoi documentari (Uomini della palude e Tre canne un soldo) per l’ambientazione del film che doveva lanciare Sophia Loren. Vancini partecipò anche alla sceneggiatura, insieme a Bassani e a Pier Paolo Pasolini. La seconda esperienza fu al fianco dell’amico Zurlini per il suo lungometraggio d’esordio, Estate violenta (1959). In entrambi egli fu anche attore, seppure in brevi apparizioni, come avvenne molti anni più tardi per l’ultima scena di Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi.

Sul set di Estate violenta nacque l’idea del suo primo film di finzione, La lunga notte del ’43 (1960), basato su traumatici ricordi personali (andando a scuola in bicicletta nel novembre del 1943 aveva visto i cadaveri di undici civili trucidati dai fascisti per rappresaglia) e sul racconto Una notte del ’43 di Bassani, compreso in Cinque storie ferraresi (Torino 1956).

L’opera inaugurò, insieme ad altre dello stesso periodo, una nuova riflessione sul recente passato storico, in particolare la guerra civile, che il cinema dell’immediato dopoguerra aveva in buona parte rimosso, e sul presente e le continuità tra fascismo e istituzioni repubblicane. Il film vinse il premio ‘opera prima’ alla Mostra internazionale del cinema di Venezia.

Vancini partecipò poi al film collettivo Le italiane e l’amore (1961) – concepito da Cesare Zavattini nell’ambito dei suoi progetti sul film-inchiesta – con l’episodio La separazione legale, in cui affrontava i problemi connessi all’assenza del divorzio nella legislazione italiana.

Al 1962 risale La banda Casaroli, basato su fatti di cronaca nera avvenuti a Bologna nel 1950. Attraverso un’attenta ricerca di documenti e testimonianze, che avrebbe contraddistinto tutte le sue prove future, Vancini ricostruì la storia di tre giovani delinquenti nel quadro del disordine del dopoguerra, intrecciando l’analisi sociale con quella psicologica ed esistenziale.

Il regista andò a trovare nel carcere di Porto Azzurro, dove scontava l’ergastolo, il capo della banda, Paolo Casaroli (interpretato da Renato Salvatori), già membro della X MAS di Junio Valerio Borghese, mentre gli altri membri avevano concluso con il suicidio la loro violenta avventura. La banda Casaroli ha un ritmo serrato da film d’azione ed è articolato come un lungo flashback, che parte dalla sparatoria finale per esplorare le dinamiche che avevano condotto al drammatico epilogo, sullo sfondo di una città raffigurata con spirito realistico e allo stesso tempo totalmente reinventata al montaggio.

Il successivo La calda vita (1963), tratto dal romanzo omonimo dello scrittore triestino Pier Antonio Quarantotti Gambini, segnò un cambiamento nel percorso di Vancini che scelse di rappresentare la difficile transizione dall’adolescenza alla maturità. Immergendo i suoi personaggi nel paesaggio (sardo, anziché istriano come nel romanzo), il regista ne rappresentò le dinamiche sentimentali e comportamentali, con tratti che qualche critico non esitò a definire antonioniani.

Al 1966 appartiene una delle opere in cui Vancini si sentì più coinvolto personalmente, sceneggiata con lo scrittore Elio Bartolini e autoprodotta insieme all’amico Mario Gallo (Ga.Va. Film) mediante un’ipoteca sulle loro abitazioni. Le stagioni del nostro amore racconta la crisi esistenziale e politica di un intellettuale di sinistra, che rappresenta quella di un’intera generazione formatasi nel clima e nell’entusiasmo dell’immediato dopoguerra. Vicende private e collettive si intrecciano in una trama ricca di evocazioni e di ricordi (resi in flashback), dove il passato viene messo in doloroso contrasto con il presente, con esiti di amara disillusione e coscienza del fallimento.

Lo scarso successo del film e i problemi economici che ne derivarono costrinsero Vancini a una prestazione puramente professionale, un western all’italiana, I lunghi giorni della vendetta (1967), girato in Spagna con Giuliano Gemma e Francisco Rabal nel ruolo dei protagonisti e firmato con lo pseudonimo di Stan Vance.

Dopo Un’estate in quattro (1969), originariamente uscito con il titolo Violenza al sole, in cui si cimentò con problemi di coppia, di modelli di genere e di culture sessuali diverse (svedesi e italiane) nello scenario vacanziero delle isole Tremiti, Vancini ritornò alla sua originaria vocazione di regista impegnato nella riflessione storica e politica.

Nel 1970 la RAI trasmise Il discorso, diretto dal regista nell’ambito del programma 10 giugno 1940. Il discorso del titolo è quello di Benito Mussolini che dal balcone di palazzo Venezia annuncia l’entrata in guerra dell’Italia. L’originale scelta registica consiste nel non mostrare mai il duce e nello strutturare il breve racconto, che dura solo 20 minuti, come una soggettiva di Mussolini.

Con La violenza: quinto potere (1972), tratto dalla pièce La violenza di Giuseppe Fava, Vancini raccontò il nuovo volto della mafia e le sue collusioni con lo Stato, anche alla luce della documentazione fornita nel 1971 dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia.

Nel 1972 uscì Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, il cui punto di partenza fu la novella Libertà di Giovanni Verga.

Vancini aveva cominciato a occuparsi dei fatti di Bronte già nel 1961, raccogliendo un’ingente mole di documentazione sulla repressione, operata dai garibaldini, delle forze popolari insorte contro i latifondisti durante la spedizione dei Mille. I titoli di coda offrono una vera e propria bibliografia (atti processuali, epistolario di Nino Bixio, storiografia) su questo episodio oscuro del nostro Risorgimento. Alla sceneggiatura del film, girato in Istria con diversi attori slavi, parteciparono Nicola Badalucco, Fabio Carpi e Leonardo Sciascia. Con l’aiuto di Mario Gallo, il film fu prodotto dalla RAI che decise di distribuirlo nelle sale, anziché trasmetterlo in televisione, in una versione più corta.

Rientra nell’ambito del cosiddetto cinema di impegno civile anche Il delitto Matteotti (1973), prodotto dall’Italnoleggio cinematografico presieduto da Gallo, in cui Vancini ricostruì la crisi politica che portò alla dittatura fascista, sempre attraverso una ricerca storiografica meticolosa e puntuale.

Amore amaro (1974), tratto dal romanzo omonimo di Carlo Bernari, racconta in flashback una storia che si svolge nel 1938-39, con un significativo cambio di ambientazione: dalla Roma dello scrittore alla Ferrara anteguerra del regista.

Alla fine del 1977 risale la prima e unica regia lirica di Vancini, Ernani di Giuseppe Verdi, rappresentata al teatro Regio di Parma.

Ispirato al romanzo uscito postumo di Guido Morselli, Un dramma borghese (1979) è strutturato come un Kammerspiel, con pochi personaggi e riprese prevalentemente in interni, e affronta il rapporto complesso e difficile, con derive incestuose, tra un padre e una figlia. Nel 1980 uscì La baraonda, originariamente intitolato Passioni popolari, tutto rivolto all’attualità e fondato su un soggetto originale. La ‘sei giorni ciclistica’ al Palasport di Milano diventa il set di una piccola storia privata immersa in un quadro corale dedicato al clima, ai costumi sociali e alle tensioni della contemporaneità.

Dal 1980 Vancini cominciò a lavorare sempre di più per la televisione, realizzando alcune inchieste e ricostruzioni storiche nell’ambito della serie di RAI Tre Finché dura la memoria. Fragheto, una strage: perché? (1980) ripercorre le dinamiche dell’eccidio compiuto dai nazisti nel paesino marchigiano. Vittorio Valletta: gli anni della ricostruzione (1982), in due puntate, è una biografia del dirigente della FIAT, che si affida a materiali di repertorio e interviste, con la consulenza storica di Valerio Castronovo. Reggio Calabria 1970: una città in rivolta (1984) analizza gli scontri e i disordini provocati dal Movimento sociale italiano (MSI) tra l’estate del 1970 e i primi mesi del 1971. Per il ciclo 10 registi italiani - 10 racconti italiani diresse Il commissario (1983), basato su due racconti di Mario Pomilio (Il cane dell’Etna e Il vicino).

Nel 1984 la RAI fu tra i produttori del film La neve nel bicchiere tratto dal romanzo omonimo di Nerino Rossi, che ebbe due versioni: una più corta per il cinema e una più lunga per la televisione. L’opera segna l’ennesimo ritorno di Vancini alla sua terra, la Bassa Ferrarese, e alla cultura contadina della sua infanzia, raccontando le vicende di una famiglia dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Venti del Novecento, con numerosi riferimenti alla tradizione pittorica italiana.

Dalla metà degli anni Ottanta si dedicò quasi esclusivamente alla televisione. Nel 1986 firmò la regia della seconda stagione della Piovra, una serie di grande successo sulla mafia, in precedenza diretta da Damiano Damiani, che fu trasmessa da RAI Uno in sei puntate. Nel 1988 realizzò Lettera dal Salvador, coprodotto dalla RAI nell’ambito della serie francese Médecins des hommes, dedicata alle iniziative di assistenza sanitaria nel mondo. Per Il giudice istruttore, miniserie di RAI Due fondata su soggetti e consulenze del magistrato Ferdinando Imposimato, girò quattro episodi andati in onda nel 1990: La confessione, Complotto internazionale, Suicidio d’amore e Simulazione di reato. Nel 1992 uscì su Canale 5 della Fininvest, in cinque puntate di circa 90 minuti l’una, la fiction Piazza di Spagna, in cui Vancini cercò di dare un ritratto della nuova ‘dolce vita’ romana.

Alla sua città natale sono dedicati gli ultimi suoi lavori: Ferrara, un documentario girato per la RAI nel 1995; il mediometraggio Lucrezia Borgia. Un’intervista impossibile di Maria Bellonci (2002); E ridendo l’uccise (2005), un film storico in costume, con cui Vancini cercò di raccontare il «rovescio della medaglia dell’Umanesimo ferrarese» (Napolitano, 2008, p. 92), centrando lo sguardo sui buffoni di corte attraverso il ricorso meticoloso agli archivi degli Estensi e dei Gonzaga, alle fonti figurative e letterarie (le novelle di Matteo Bandello e Franco Sacchetti, le Satire di Ludovico Ariosto), alle ricerche condotte da Alessandro Luzio alla fine dell’Ottocento.

Il 18 maggio 2008 Vancini fu insignito della laurea honoris causa in filosofia dall’Università degli studi di Ferrara.

Morì a Roma il 18 settembre 2008.

Fonti e Bibl.: G. Gambetti, F. V., Roma 2000; P. Micalizzi, F. V. fra cinema e televisione, Ravenna 2002; Bronte. Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato, a cura di P. Iaccio, Napoli 2002; Una Regione piena di cinema. F. V., a cura di G. Martini, Modena 2003; V. Napolitano, F. V. Intervista a un maestro del cinema, Napoli 2008.

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