FLORENSI

Federiciana (2005)

Florensi

VValeria De Fraja

Il monachesimo florense, appartenente alla grande famiglia benedettina, sorse in Calabria negli ultimi anni del XII sec., per iniziativa del monaco Gioacchino da Fiore (1135 ca.-1202). Successivamente, esso vide una diffusione a carattere essenzialmente locale, in Calabria e in altre zone del Regno di Sicilia (Puglia, penisola sorrentina); al di fuori del Regno, poté contare alcune fondazioni nel Lazio meridionale e in Toscana, fino a raggiungere complessivamente, nel momento della sua massima espansione (metà del XIII sec.), una quindicina di monasteri. Alla fine del Cinquecento, a seguito di un lento ma inesorabile declino, si estinse definitivamente e le case superstiti furono riunite nell'Ordine cistercense.

Nell'estate del 1189 Gioacchino da Fiore, a quel tempo abate del monastero cistercense di S. Maria di Corazzo (Catanzaro), salì con alcuni compagni sulla Sila e iniziò a risiedere stabilmente in un tugurium eremitico, costruito nell'autunno precedente, in una località da lui denominata Flos (Fiore), oggi Flore Vetere, nei pressi dell'attuale S. Giovanni in Fiore (Cosenza). Il locum Floris si rivelò ben presto insufficiente per sostenere le necessità di un numero di discepoli in costante crescita. Pertanto Gioacchino, nel 1191, si presentò alla corte di re Tancredi per esporgli le accresciute necessità e per venire a capo dei contrasti sorti con alcuni emissari regi, probabilmente a causa delle pressioni dei cittadini di Cosenza, che vedevano nel nuovo stanziamento silano un concorrente per le consuetudini e gli usi che essi detenevano sulla Sila. Re Tancredi concesse a Gioacchino un vasto terreno contiguo al locum Floris, una donazione annuale di 50 some di segale e trecento pecore per il sostentamento perpetuo dei monaci eremiti. Nel giro di tre anni, l'eremitismo comunitario di Fiore si strutturò in forme più cenobitiche: il 21 ottobre 1194, infatti, Enrico VI definì la nuova fondazione silana "monasterium" e si rivolse a Gioacchino come "abbas de Flore". Il giovane imperatore e re di Sicilia non si limitò a confermare la donazione di Tancredi, da poco defunto, ma ampliò notevolmente i terreni concessi al monastero, aggiunse una serie di diritti e libertà (di pascolo, di ghiandatico, di erbatico, di ricavare sale dalle saline della Calabria, di compravendita senza l'onere di teloneatico, plateatico e passaggio). Le donazioni e concessioni ottenute nel 1194 furono poi ampliate ulteriormente nel 1195; il 21 febbraio 1197 Enrico VI prese il monastero sotto la sua protezione, contro le molestie arrecate ai monaci da parte dei suoi funzionari. Già sotto il regno di Enrico VI e di sua moglie Costanza d'Altavilla il monastero di Fiore, per l'accresciuto numero di seguaci di Gioacchino, fondò alcune piccole dipendenze nelle sue vicinanze (Monte Marco, Bonum Lignum e Tassitano). La necessità di regolare le relazioni tra il monastero di Fiore e le sue nuove sedi dovette spingere Gioacchino a stabilire una serie di statuta; tali istituzioni nel 1196 furono presentate a papa Celestino III, che il 25 agosto di quell'anno, con una lettera diretta all'abate di Fiore, ne notificò l'approvazione riassumendo stringatamente i punti rilevanti. Il testo delle istituzioni florensi andò in seguito perduto; esse non ci sono dunque note, se non in alcuni minimi frammenti, che lasciano comunque intravedere che l'Ordine florense non intendeva riproporre, nei progetti di Gioacchino, il modello istituzionale dell'Ordine cistercense, quanto piuttosto un sistema di sette priorati e di tre abati.

Il sorgere delle tre nuove fondazioni florensi provocò la reazione violenta delle popolazioni locali, che vedevano compromesse le proprie prerogative e i propri usi nel territorio, e già nel secondo decennio del XIII sec. esse non vengono più ricordate nella documentazione florense. Simile destino sembra incontrare anche il progetto di una nuova dipendenza nella Sila cosentina, su un terreno che Gioacchino, nel marzo 1200, aveva ottenuto dal giovanissimo re di Sicilia Federico, succeduto alla madre Costanza. Federico concesse infatti all'abate di Fiore un terreno di 1.000 passi quadrati in località Caput Album, per la costruzione di una nuova domus religionis. I successivi diplomi di Federico, tuttavia, non nominarono più tale terreno tra i possessi florensi. Al contrario, un ulteriore progetto di Gioacchino ebbe successo: nel 1201 egli fondò a Fiumefreddo (Tropea) il monastero di Fonte Laurato, grazie al sostegno e alle donazioni di un uomo di punta della nobiltà regnicola: Simone di Mamistra, signore di Fiumefreddo, che nel 1199 è attestato quale "capitano, maestro connestabile, giustiziere della Valle del Crati, del Signi e del Laino" e nel marzo 1200 è detto "gran giustiziere regio della Calabria" (Documenti florensi, 2001, p. 221). Alla morte di Gioacchino, nel 1202, subentrò in qualità di abate di Fiore Matteo Vitari, che ricoprì la carica fino al 1234, anno in cui salì alla cattedra della diocesi di Cerenzia. Il suo abbaziato si aprì con una grave crisi che probabilmente scosse la comunità dei monaci florensi, tanto che venne progettato un trasferimento dalla Sila a una zona dal clima più mite, nei pressi di Cosenza (progetto in seguito abbandonato). Nel 1214 il monastero di Fiore fu distrutto da un incendio e la comunità si trasferì da Flore Vetere a una zona limitrofa, dove si trovano l'attuale chiesa abbaziale e il complesso monastico. Sotto il governo di Matteo, comunque, i Florensi istituirono due nuovi monasteri nel territorio calabrese: l'abbazia di Acquaviva e quella di Calabro Maria. Si progettò anche un terzo cenobio, nella diocesi di Cerenzia, che non si riuscì tuttavia a realizzare, se non molti anni più tardi, nel 1253 (S. Maria Nuova).

Negli anni compresi tra il 1202 e il 1234, l'Ordine guidato da Matteo si diffuse anche al di fuori della Calabria: inizialmente nel Lazio meridionale, ai confini con il Regno di Sicilia, grazie alla fondazione del monastero di S. Angelo del Mirteto, presso Ninfa. Da questo cenobio dipendevano le abbazie, riformate dai Florensi nel periodo 1220-1225, della Campania nella zona della penisola sorrentina: il monastero di S. Michele Arcangelo di Revigliano, tra Castellammare e Torre Annunziata, quello di S. Renato di Sorrento e quello di S. Marina della Stella, presso Maiori. Si tratta di fondazioni che godettero dell'appoggio e della benevolenza dell'imperatore Federico, che in diverse occasioni ne accrebbe e ne difese le proprietà.

Un gruppo di Florensi, che non paiono legati ad alcuna abbazia madre fino al 1226, si era stanziato anche in Toscana, in diocesi di Lucca, precedentemente al 1216. Il priorato lucchese fu unito, nel 1235, al monastero benedettino di Camaiore, che in quella occasione accolse la riforma florense. Nel 1226 un cenobio benedettino pugliese, bisognoso di riforma, fu affidato ai Florensi (S. Maria di Laterza); nello stesso anno, papa Gregorio IX fondò l'abbazia di S. Maria della Gloria, ad Anagni, dotandola di vasti possessi appartenenti alla sua famiglia.

Nel trentennio guidato dall'abate Matteo, dunque, l'espansione dell'Ordine toccò il suo apogeo, grazie al successo riscosso dall'istituzione monastica nel territorio calabrese e alla fiducia dei vescovi e dei signori locali, al sostegno (soprattutto nel caso dei cenobi al di fuori della Calabria) da parte della Santa Sede, che in numerose occasioni ricorse ai Florensi per riformare monasteri, greci o benedettini, decaduti o scossi da problemi disciplinari. Al favore e al sostegno di vescovi e pontefici si deve aggiungere, almeno fino al primo quarto del secolo, la predilezione di Federico II per il monastero 'fondato' dai suoi genitori, come egli sempre ricordò nei suoi diplomi a favore di Fiore. Grazie all'appoggio dell'imperatore svevo, fino al 1225 il cenobio silano accrebbe in misura rilevante i suoi possessi, estesi dal Cosentino al Tirreno, le sue libertà ‒ di pascolo e di pesca, di compravendita, di sfruttamento di saline e miniere, di circolazione per terra e per mare ‒, i suoi diritti, in particolare relativi all'esazione dei pagamenti per le numerose attività svolte sui terreni di proprietà del monastero, come la coltivazione, il pascolo, la caccia e la pesca, la conduzione di mulini e di forni per la produzione della pece. Nel 1221 queste libertà e questi diritti si estesero ai poteri di giurisdizione su tutti i reati, a esclusione di quelli di omicidio, di amputazione e di lesa maestà; l'abate di Fiore divenne dunque il signore feudale delle terre appartenenti al cenobio. Non è noto, in realtà, quanto l'abate florense abbia potuto esercitare i suoi poteri giurisdizionali: le fonti documentarie superstiti non attestano mai l'esercizio di queste funzioni, né da parte di Matteo, né da parte dei suoi successori. È possibile che, a causa delle difficoltà createsi con Federico II, per la posizione dei Florensi a favore del pontefice nello scontro tra papato e Impero, i poteri delegati all'abate di Fiore siano stati almeno in parte revocati. Nel 1233 papa Gregorio IX dovette intervenire presso gli arcivescovi di Palermo e di Capua, chiedendo loro di convincere l'imperatore a mantenere in vigore i privilegi concessi ai Florensi; tra di essi era probabilmente compreso quello con cui l'imperatore aveva delegato all'abate di Fiore i poteri giurisdizionali. In seguito, l'espansione florense sembra sostanzialmente fermarsi e la comunità di Fiore fu piuttosto impegnata a difendere le posizioni, i possessi e i diritti acquisiti nel periodo precedente.

Ugualmente avvenne per l'Ordine florense nel suo complesso: si ha notizia, in un documento del 1263, di un monastero che doveva sorgere in diocesi di Squillace, nel territorio di S. Martino, per iniziativa di Federico Lancia, zio di Manfredi, ma a quanto pare esso non venne mai istituito, forse a causa degli avvenimenti politici e del subentrare della dinastia angioina. Neppure nel resto d'Italia si ebbe più alcuna nuova fondazione o affiliazione. Ai Florensi furono invece affidati alcuni altri monasteri decaduti, che passarono all'Ordine come nuda proprietà dipendente dai monasteri già istituiti o come grange.

La parabola dei Florensi, dopo il momento di ricchezza e diffusione in coincidenza con il periodo svevo, conobbe una lenta ma inarrestabile fase di declino, fino a quando, nel 1570, l'esperienza monastica voluta da Gioacchino si chiuse definitivamente.

fonti e bibliografia

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