FISICA

Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

FISICA

Enrico Bellone

(XV, p. 473; App. II, I, p. 950; III, I, p. 619; IV, I, p. 812)

Studi di storia della fisica. − "Prendiamo dunque il bastone dell'esperienza e lasciamo stare la storia di tutte le vane opinioni dei filosofi", scriveva orgogliosamente, attorno alla metà del Settecento, J. Offroy de Lamettrie. Questo modo d'intendere la conoscenza e di pensarne la storia appariva, allora, certamente ovvio a quegli intellettuali che, tentando d'interpretare i mutamenti verificatisi nella scienza a seguito delle scoperte venute alla luce durante il Seicento e i primi decenni del Settecento, ritenevano d'aver scorto sia la fonte primaria della verità sia le radici esclusivamente filosofiche delle proposizioni false sul mondo. Pochi mesi dopo la pubblicazione de L'homme machine (1748) di Lamettrie, E. de Condillac, nelle pagine del Traité des systèmes (1749), attaccava con durezza la sapienza edificata come sistema filosofico e scriveva parole celebri: "Dal proprio letto si crea e si governa l'universo. Il tutto non costa più di un sogno, e un filosofo sogna con facilità".

La fonte primaria della verità era dunque collocata nell'esperienza e nell'impiego di un linguaggio rigoroso: e poiché quella fonte sembrava essere stata individuata soltanto nelle più recenti pratiche scientifiche, il sapere del passato si presentava come sequenza di errori; la storia della conoscenza, filtrata da una simile immagine del vero e del falso, era dunque una storia dove Tolomeo aveva errato e Newton, invece, era stato capace di scoprire il vero (e gli errori antichi) indagando direttamente tra i fenomeni e facendo leva su linguaggi precisi.

Nessuna sorpresa, quindi, per il lettore che oggi rilegge l'opera che a buon diritto può essere definita come il primo testo di storia della f., e cioè The history and present state of electricity, che J. Priestley volle, nel 1767, dedicare alla ricostruzione dei tentativi compiuti dall'uomo per trovare le chiavi necessarie a capire i fenomeni dell'elettricità, "le sole chiavi che apriranno i misteri della natura, le indicazioni che conducono attraverso i suoi labirinti".

Secondo Priestley, infatti, la ricostruzione storica della crescita delle conoscenze umane sull'elettricità poggiava, nella sostanza, su due idee. La prima poteva essere enunciata prendendo atto, con soddisfazione, della circostanza di stare assistendo a un "miglioramento continuo" del sapere. La seconda aveva l'aspetto d'un canone per la ricerca storiografica, nel senso che quest'ultima non doveva tenere conto "degli errori, dei fraintendimenti e delle dispute" che pure erano presenti tra coloro che avevano studiato e stavano studiando i fenomeni connessi all'elettricità: la crescita del sapere aveva ormai la connotazione del progresso e la memoria degli errori commessi nel passato poteva, nella migliore delle ipotesi, essere solo utile come antidoto per le nuove generazioni di scienziati.

Da un lato, dunque, si percepiva giustamente l'emergere di nuovi canoni di razionalità, quali quelli che avevano operato negli studi di Galilei, di Harvey o di Newton. E, con pari giustezza, si coglieva la rete di nessi che si stavano realizzando tra quell'emergere e il sempre più appariscente estendersi dei campi (come la matematica, la f., la chimica o la biologia) nei quali la scienza entrava, mietendo successi. Dall'altro lato, però, si faceva sempre più pressante, in vasti strati di intellettuali, la convinzione che l'uomo avesse ormai scoperto le regole auree e definitive della ricerca, e che tale scoperta consentisse di porre un confine netto tra la sapienza degli antichi (inficiata da errori e false credenze) e il sapere che, a partire dal Seicento, aveva cominciato a trionfare grazie all'instaurarsi di metodi risolutivi.

Questa raffigurazione della ragione e della verità che occupava le pagine di Priestley divenne una sorta di modello per coloro che, dopo Priestley, si accinsero a tracciare altri capitoli della storia della fisica. Esemplare, sotto questo aspetto, è l'influente opera che P. S. Laplace volle dedicare alla storia dell'astronomia, vista come storia del confluire, in una forma modello della scienza, di saperi tratti dall'osservazione astronomica, dalla f. e dalla matematica applicata alla meccanica celeste. Nel Précis de l'histoire de l'astronomie, un testo che Laplace pubblicò nel 1821 ricavandolo da rimaneggiamenti del libro quinto della celeberrima opera che egli stesso aveva fatto apparire nel 1796 sotto il titolo di Exposition du système du monde, la storia della f. era immersa nella storia di una rivoluzione che gettava lumi sull'intero universo e abbandonava le errate credenze degli antichi. La scienza disegnata da Laplace nell'Exposition e nel Précis era entrata in possesso, dopo Newton, di una "lingua universale", l'analisi matematica, ricca e potente, ed era ormai sufficiente "tradurre le verità particolari in questa lingua universale, per veder emergere, dai loro stessi enunciati, una folla di verità nuove e inaspettate".

Anche se Laplace prendeva le distanze dal valore primario dell'esperienza che era stato invece il cardine della storia di Priestley, le pagine del Précis facevano ancora parte di una tradizione che, avendo posto basi sicure nel Settecento, avrebbe dettato, ancora per molti decenni, alcuni punti di riferimento della storiografia della f.: una storiografia che vedeva nel cammino della f. un ottimo esempio di pratica scientifica avanzante per esperimenti e deduzioni, ormai libera da vincoli e mobile secondo i crismi della linearità.

Durante l'intero Ottocento la storia della f. occupò una collocazione non certo marginale nelle indagini sulla storia della scienza che in quella tradizione cercava ispirazione. Opere come Geschichte der Physik di J. K. Fischer, edita nel primo decennio del secolo (1801-08), o History of physical astronomy di R. Grant, pubblicata a Londra nel 1852, e, negli anni Ottanta, Geschichte der Physik (1882-84) di A. Haller e Die Geschichte der Physik (1882-90) di F. Rosenberger, aprivano al lettore ottocentesco panorami non dissimili da quelli raffigurati, nel 1873, nei capitoli della History of the mathematical theories of attraction and the figure of the earth di I. Todhunter o nella Histoire de l'astronomie moderne pubblicata da J. B. J. Delambre nel 1821. Si tratta di una tradizione nella quale ricerca erudita e aneddotica celebrativa si fondevano in quella che S. Schaffer (1983) ha giustamente definito in termini di "modalità eroica della scrittura", e a proposito della quale S. Brush ha coordinato un'interessante analisi (1972).

Tra la fine dell'Ottocento e i primissimi anni del Novecento quella tradizione − che aveva trovato conforto nel diffondersi di opinioni variamente connesse al positivismo e all'immagine di un progresso lineare e cumulativo del sapere − fu incrinata da studi storici che prestavano molta attenzione a questioni di metodo e di fondamenti. Una spinta rilevante a intraprendere questi studi fu indubbiamente provocata da vicende interne allo sviluppo delle scienze fisiche e dai riflessi che tali vicende ebbero nella riflessione sulla scienza. Oggi gli indizi di tale spinta non sono difficili da rilevare attraverso la rilettura di testi che, proprio negli ultimi decenni dell'Ottocento, diedero l'avvio a riflessioni esemplari quali quelle esposte da J. B. Stallo in The concepts and theories of modern physics del 1882.

Stallo cercava di cogliere il senso di un insieme di mutamenti profondi verificatisi nella f. del suo tempo, e affrontava la massa di problemi che erano stati sollevati dalla formulazione di geometrie non euclidee o dalla teoria atomica della struttura della materia. A suo avviso tutti questi problemi derivavano da un'accettazione acritica della necessità di spiegare i fenomeni dell'universo in funzione di una sola interpretazione centrata sulle leggi della meccanica applicate a moti molecolari: si trattava, secondo Stallo, di controllare la veridicità di un simile atteggiamento, senza lasciarsi influenzare dai successi che la strategia dei fisici aveva raccolto. Stallo intendeva negare tale veridicità sulla base di argomenti filosofici e, in pratica, invitava il mondo intellettuale a ripercorrere le vicende scientifiche degli ultimi tre secoli senza subire l'influsso delle celebrazioni che di quelle vicende erano state fatte nell'ambito della tradizione storiografica più diffusa.

Se il libro di Stallo è oggi da leggere come sintomo di una situazione in rapido movimento in merito al rapporto tra f. e cultura diffusa, che molti intellettuali settecenteschi avevano immaginato come codificato da una rottura drastica tra sapere scientifico e sistemi metafisici, va però tenuto presente che la tradizione storiografica che s'era inaugurata nella seconda metà del 18° secolo stava subendo forti critiche all'interno stesso della comunità dei fisici ottocenteschi. L'idea che il progresso lineare della conoscenza fisica fosse ormai, una volta per tutte, regolato da un sistema di norme metodologiche di stampo newtoniano, si stava infatti affievolendo tra quegli stessi fisici che pure avrebbero dovuto tradurla in realtà nelle loro ricerche. E ciò avveniva in quanto si stava prendendo consapevolezza del fatto che una ricerca storica eseguita da fisici poteva aiutare a meglio comprendere lo stato in cui l'indagine fisica versava.

Nei primi anni dell'Ottocento lo scienziato ginevrino P. Prevost, che aveva contribuito agli sviluppi della termologia, aveva dato alle stampe due volumi (Notice de la vie et des écrits de George Louis Le Sage de Genève, 1805; Deux traités de physique mécanique, publiés par Pierre Prevost comme simple éditeur du premier et comme auteur du second, 1818) nei quali l'analisi storiografica delle vicende settecentesche sulla causa della gravità si intrecciava strettamente con la ricerca in fisica. Le pagine di Prevost non si limitavano a rappresentare il Settecento come un periodo di crescita del sapere secondo canoni tradizionali, ma, soprattutto, facevano leva su problemi fondamentali e irrisolti che dovevano essere affrontati con vigore teorico e con una rigorosa documentazione storica. Interessi analoghi sarebbero stati coltivati, nei successivi decenni, da autorevoli fisici come W. Thomson (Lord Kelvin) o J. C. Maxwell, al quale spettò, per es., il merito di pubblicare gli scritti inediti di un suo grande predecessore: The electrical researches of the Honourable Henry Cavendish (1879).

Nel clima di quegli anni la tradizione inaugurata da Priestley s'andava insomma disfacendo in quanto non era più sostenibile l'immagine di una impresa scientifica che trovava nella f. un modello di crescita lineare attorno a un solo gruppo immodificabile di leggi naturali. È in quel clima che E. Mach dava alle stampe, nel 1883, Die Mechanik in ihrer Entwicklung historisch-kritisch dargestellt.

Il libro di Mach, che ebbe una grande diffusione e varie edizioni a cavallo tra 19° e 20° secolo, esercitò un'influenza ancor oggi difficilmente valutabile, nella sua interezza, sia sulle ricerche storiografiche, sia sulla riflessione epistemologica, sia infine sulle filosofie personali di molti scienziati. Mach, definendo la propria opera come permeata di istanze antimetafisiche, difendeva senza mezzi termini l'opinione secondo cui l'analisi storica delle vicende relative alla formazione dei concetti di base della meccanica era l'unica via che permettesse di cogliere il nucleo di quei concetti, che, a suo avviso, restava ancora celato. E questa opinione non era valida unicamente nel caso della meccanica: essa si realizzava in una storia della meccanica da intendersi tuttavia come "esempio semplice e istruttivo del processo attraverso il quale generalmente si forma la scienza naturale", come si legge nelle prime righe dell'Introduzione. Non è certamente questa la sede per un esame sia pur sommario delle principali idee che formano la struttura portante di Die Mechanik. Va invece sottolineato come Mach avesse rovesciato, in quel libro, la diffusa tendenza a cercare, per ogni fenomenologia osservabile, una sorta di spiegazione necessaria e univoca in termini di leggi della meccanica. Le critiche machiane al nucleo nascosto nei fondamenti stessi della f. newtoniana, pur assumendo la forma tipicamente filosofica dell'argomentazione connessa alla teoria della conoscenza, tendevano sempre a reperire, sul terreno storiografico, le nozioni indispensabili per capire meglio la f. e, più in generale, l'intero processo di edificazione della scienza.

A distanza di decenni il peso esercitato dall'opera machiana sull'assetto dell'indagine storica è ancora così spiccato da indurre alcuni tra i più sottili storici contemporanei della f. a rileggere e a criticare i presupposti stessi di Die Mechanik. Sia qui sufficiente ricordare, a questo proposito, la recente tesi di C. Truesdell, secondo cui la descrizione machiana della f. di Newton, con le implicazioni che quella tesi comporta per la teoria della matematica e della meccanica settecentesche, costituisce ancor oggi un ostacolo per una migliore comprensione della scienza post-newtoniana.

Una parte delle nozioni centrali di Die Mechanik, e cioè quelle tendenti a mostrare che Newton avrebbe avuto il merito di elaborare, insieme a Galilei, la maggior parte della meccanica, cominciò comunque a entrare in crisi grazie alle indagini ampie e meticolose di P. Duhem, che sfociarono in una sequenza impressionante di lavori quali Recherches sur l'hydrodynamique e L'évolution de la mécanique del 1903, Les origines de la statique e Recherches sur l'hydrodynamique. Seconde Série del 1904, il secondo tomo di Les origines de la statique apparso nel 1906, gli studi su Leonardo da Vinci, Mersenne, Copernico, Retico, Giorgio Valla, Duns Scoto, la scuola parigina e Buridano che apparvero tra il 1903 e il 1912, nonché la monumentale edizione in più tomi intitolata Le système du monde, avviata nel 1913, e relativa alla storia della cosmologia da Platone a Copernico.

L'opera duhemiana, alla quale recentemente è stato rivolto uno studio dello storico della scienza S. L. Yaki (1984), ha esercitato e continua a esercitare, al pari di quella di Mach, un influsso rilevante, sia sul piano storiografico, sia su quello relativo alla riflessione filosofica sulla scienza. Quest'ultimo deriva da due ricerche duhemiane che costituiscono una fonte classica per ampi settori dell'analisi metodologica concernente la spiegazione fisica: La théorie physique: son objet et sa structure (1906) e ΣΘΖΕΙΝ ΤΑ ΦΑΙΝΟΜΕΝΑ. Essai sur la notion de théorie physique de Platon à Galilée (1908).

Questi testi, d'altra parte, rappresentano una buona chiave di lettura dell'immenso lavorio storiografico di Duhem. Esso ebbe infatti, per un verso, il pregio di mettere a disposizione dell'interpretazione storica una sterminata documentazione che provava, al di là di ogni ragionevole dubbio, la limitatezza dell'assunto machiano sul contributo di Galilei e Newton all'elaborazione della meccanica: dopo Duhem divenne infatti impossibile non tener conto delle ricerche pregalileiane, specie quelle tardomedievali, sul moto. Per l'altro verso lo schema duhemiano implicava una sostanziale continuità nello sviluppo della conoscenza fisica e poneva gravi ombre sulle tesi di quanti invece erano propensi a vedere, nel Seicento, un periodo di rottura rivoluzionaria. Su questo secondo versante delle conclusioni che Duhem ritenne di dover sostenere sono state infatti esercitate in questi ultimi decenni critiche che hanno probabilmente messo a nudo il fatto che la ragione per cui Duhem pose sul tema della continuità una particolare enfasi, era spiccatamente connessa alle sue personali vedute sulla struttura della scienza e della f. in particolare: vedute personali che non a caso, di fronte agli sconvolgimenti verificatisi nelle scienze fisiche con l'avvento della teoria ristretta della relatività e delle prime teorie sui quanti, lo avevano spinto, nella seconda edizione de La théorie physique, datata 1914, a condannare in blocco la nuova f., colpevole di aver abbandonato "la logica" e "il buon senso", nonché quelle regole metodologiche che egli aveva creduto di vedere confermate nelle sue ricerche storiografiche.

È sintomatica a tal proposito la riflessione che A. Koyré sviluppò sull'opera duhemiana (e sulle reazioni da essa suscitate) in un saggio del 1953 intitolato Léonard de Vinci 500 ans après. Koyré sottolineò il fatto che solo grazie a Duhem la storiografia aveva potuto scoprire la straordinaria ricchezza del sapere pregalileiano e avviarsi a studi sempre più approfonditi sul Medioevo e il Rinascimento. Nell'ambito della continuità intravista da Duhem nello sviluppo storico della scienza, Leonardo era stato reinterpretato come legame fondamentale tra il pensiero medievale e quello rinascimentale. Orbene, Koyré riteneva essenziale la correzione di quell'immagine duhemiana, così da riconoscere che gli uomini del 16° secolo, per ritrovare gli elementi di una tradizione scientifica, non avevano avuto affatto bisogno di cercare i manoscritti di Leonardo: era loro sufficiente leggere i libri che venivano stampati. La correzione, però, non doveva spingersi al di là del ragionevole, nel desiderio di respingere la teoria duhemiana, così da sostituire, al Leonardo che tutto aveva letto e che tutti avevano letto, un Leonardo che nulla aveva letto e che nessuno aveva preso in considerazione.

L'argomento di Koyré era sintomatico nel senso che esso si collocava al centro di un complesso di ricerche che lo stesso Koyré aveva avviato, nel 1940, pubblicando un lavoro memorabile per la storia della f. del nostro secolo (Etudes galiléennes), e sviluppato negli anni con una sequenza di capolavori: Introduction à la lecture de Platon del 1944, Mystiques, spirituels, alchimistes du XVIe siècle allemand del 1955, Du monde clos à l'univers infini del 1957, La révolution astronomique. Copernic, Kepler, Borelli del 1961, Etudes newtoniennes del 1965. Grazie a Koyré l'intero periodo compreso tra Copernico e Newton veniva riletto in modo nuovo.

Non si trattava più di celebrare una rottura conoscitiva con un passato che Duhem aveva riconquistato all'analisi storiografica, così come non si doveva, però, indebolire in una continuità senza traumi il carattere emergente della f. e dell'astronomia seicentesche. Koyré poneva in evidenza quel carattere sottolineando l'intero fascio di correlazioni che, negli scritti di un Galilei o di un Cartesio, stabiliva ponti documentabili tra una storia di esperimenti e teoremi da un lato, e un travaglio filosofico dall'altro. La storia della f. acquistava allora senso nel quadro globale di una storia del pensiero e delle idee. Nello stesso tempo, però, Koyré intendeva sostenere la tesi secondo cui, in quel quadro globale, il contributo sperimentale, che secondo una storiografia positivista ormai datata avrebbe costituito la fonte della f. galileiana, doveva essere ridimensionato: gli esperimenti decisivi che Galilei sostenne di aver eseguito erano, a parere di Koyré, da valutare alla stregua di esperimenti mentali.

In un breve saggio su Galileo e Platone, Koyré scrisse che la rivoluzione scientifica del 17° secolo era stata il più profondo mutamento del pensiero umano dopo l'invenzione del cosmo da parte dei Greci, e aggiunse che la f. moderna era il frutto di quel "mutamento intellettuale". Da questo punto di vista il Dialogo galileiano non era un libro di f. ma un testo di filosofia naturale: per Koyré, infatti, la costruzione di una nuova f. dipendeva dalla soluzione di un problema filosofico, e questo problema era enunciabile chiedendosi quale ruolo svolgesse la matematica nella formazione della scienza. Il saggio si chiudeva con una tesi chiara e perentoria: l'opera galileiana era la narrazione della riscoperta del linguaggio matematico parlato dalla natura stessa. Il Dialogo e i Discorsi diventavano libri innovatori in quanto, grazie a quella riscoperta, nelle loro pagine era formulata la teoria vista come guida per la ricerca sperimentale. Quella di Galilei, dunque, era indubbiamente una scienza ''nuova'': ma questa scienza era, per Galilei, "una prova sperimentale del platonismo".

Al pari di Mach e di Duhem, Koyré è stato e continua a essere un punto di riferimento fondamentale per chiunque effettui, oggi, una ricerca in storia della fisica. E, al pari di quelle difese da Mach e da Duhem, anche alcune tesi di Koyré sono state e sono tuttora oggetto di analisi critiche sempre più raffinate. Basti qui ricordare la ripresa delle tematiche sul ruolo dell'esperimento e della misura, sia nella nascita della nuova f. di Galilei, sia nelle origini della rivoluzione scientifica seicentesca, e cioè di quelle tematiche che in Etudes galiléennes erano state ricondotte all'argomento dell'esperimento mentale.

Storici come S. Drake, facendo leva su analisi di manoscritti e ricostruendo il lavorio quotidiano di Galilei in opere come Galileo at work, attirano l'attenzione degli studiosi sull'effettiva realizzabilità, con le tecniche disponibili nei primi anni del Seicento, di osservazioni e misure atte a fornire informazioni preziose per la nascita di una nuova f. e di una nuova astronomia. E, nello stesso tempo, sottili analisi di teoremi e dimostrazioni, come quelle svolte da W. L. Wisan nel 1974, e ricostruzioni del clima intellettuale del tipo di quelle suggerite da L. Geymonat o da W. R. Shea, consentono allo storico della f. che voglia oggi esplorare la rivoluzione scientifica seicentesca una collezione di documenti e di riflessioni la cui ricchezza è notevolmente maggiore di quella che consentì gli studi di uomini come Mach, Duhem e Koyré, come del resto appare dal monumentale testo che recentemente I. B. Cohen ha voluto dedicare al tema della Revolution in science e dalla ripresa di meditazioni sul Seicento scientifico che appare nel lavoro di P. Rossi La scienza e la filosofia dei moderni.

Lo spazio sinora dedicato alla storiografia della f., centrata sulle ricerche galileiane e newtoniane, ha un senso preciso: gli storici della f., che negli ultimi decenni hanno sempre più accentrato i loro interessi sui processi di sviluppo della conoscenza fisica durante l'Ottocento e il Novecento, hanno infatti un notevole debito culturale nei confronti di una linea più tradizionale d'indagine che ha portato a ricostruire sempre meglio la rivoluzione scientifica del Seicento e ad avviare più meditate esplorazioni del Settecento. Questo debito, però, non ha la forma di una norma vincolante sul piano metodologico. I risultati che nella storia contemporanea della f. cominciano a emergere a proposito del Settecento, dell'Ottocento e del Novecento, stanno a indicare che l'era post-galileiana è densa di straordinari rivolgimenti concettuali, ed è pertanto contrassegnata da profondi mutamenti rispetto ai saperi che ebbero le basi in Galilei, in Cartesio o in Newton. Ciò appare con immediatezza non appena si leggono le pagine più impegnative di testi come Scottish philosophy and British physics, 1750-1880 di R. Olson, The caloric theory of gases from Lavoisier to Regnault di R. Fox, Electricity in the 17th & 18th centuries. A study of early modern physics di J. Heilbron, Thematic origins of scientific thought: Kepler to Einstein di G. Holton, o The kind of motion we call heat di S. Brush. Da queste pagine, infatti, traspare come gli storici della f., pur avendo alle spalle Mach, Duhem e Koyré, stiano elaborando strumenti d'indagine nuovi e specialistici, la cui matrice deriva non tanto dai risultati già ottenuti nell'ambito della storia della scienza, quanto dalla natura dei problemi storiografici presi in esame.

La storiografia contemporanea della f., abbandonando definitivamente l'idea che le radici della conoscenza scientifica del mondo siano immerse nel solo Seicento e dedicandosi con sempre maggiore impegno all'esplorazione del Settecento, dell'Ottocento e del Novecento, produce ormai opere come la serie di volumi che J. Mehra e H. Rechenberg dedicano a The historical development of quantum theory, o come Inward bound. Of matter and forces in the physical world di A. Pais. Come risulta facilmente da una consultazione degli apparati bibliografici più recenti, la professionalità stessa degli storici della f. sta subendo una trasformazione sempre più netta, in quanto, dovendo affrontare documenti sulla geometria non euclidea, sulla teoria generale della relatività o su problemi connessi alla f. delle particelle elementari, uno storico deve possedere un bagaglio concettuale diverso da quello che, all'inizio del Novecento, era sufficiente per trattare questioni seicentesche. Da ciò dipende il progressivo sviluppo della storia della f. come disciplina autonoma rispetto a una tradizione che tendeva a inserire le storie delle singole discipline scientifiche nell'alveo di una storia globale della scienza, del pensiero scientifico e delle idee.

Bibl.: Su E. Mach vedi: C. A. Truesdell, A program toward rediscovering the rational mechanics of the Age of Reason, in Archive for the History of Exact Sciences, 1 (1960), 1, pp. 3-36; Id., Essays in the history of mechanics, Berlino 1968. Una bibliografia esauriente su P. Duhem è reperibile in S. L. Yaki, Uneasy genius: the life and work of Pierre Duhem, L'Aja 1984; tra le edizioni delle opere si menzionano almeno quelle che nel secondo dopoguerra hanno contribuito alla diffusione delle idee duhemiane in campo internazionale: Le système du monde, tomi i-v, Parigi 1954, tomo vi, Le reflux de l'Aristotélisme. Les condamnations de 1277, con una premessa di P. Duhem, ivi 1954, tomi vii-x, ivi 1956-59; Etudes sur Léonard de Vinci, 3 voll., ivi 1955; Recherches sur l'hydrodynamique, ivi 1961; The evolution of mechanics, Alphen aan den Rijn 1980. Su rivoluzione scientifica, fisica galileiana e newtoniana, oltre ai classici studi di A. Koyré (Etudes galiléennes, Parigi 1940; Introduction à la lecture de Platon, New York 1944, Parigi 1962, trad. it. con in appendice il saggio Galileo e Platone, Firenze 1973; Mystiques, spirituels, alchimistes du XVIe siècle allemand, Parigi 1955; From the closed world to the infinite universe, Baltimora 1957, trad. francese, Parigi 1962; La révolution astronomique. Copernic, Kepler, Borelli, Parigi 1961; Etudes newtoniennes, ivi 1965; Etudes d'histoire de la pensée scientifique, ivi 1966, contenente anche il saggio Léonard de Vinci 500 ans après), vedi: W. R. Shea, Galileo's intellectual revolution, Londra 1972; S. Drake, Galileo's experimental confirmation of horizontal inertia, in Iris, 64 (1973), pp. 291-99; W. L. Wisan, The new science of motion: a study of Galileo's De motu locali, in Archive for the History of Exact Sciences, 13 (1974), pp. 103-306; S. Drake, Galileo's new science of motion, in Reason, experiment and mysticism in the Scientific Revolution, a cura di M. L. Righini Bonelli e W. Shea, New York 1975; L. Geymonat, Galileo Galilei, Torino 1975; S. Drake, Galileo at work. His scientific biography, Chicago 1978; Id., Telescopes, tides & tactics, ivi 1983; I. B. Cohen, Revolution in science, Cambridge (Mass.) 1985; P. Rossi, La scienza e la filosofia dei moderni, Torino 1989. Sull'evoluzione della storiografia della fisica dal Settecento al Novecento, vedi: R. Fox, The caloric theory of gases from Lavoisier to Regnault, Oxford 1971; Resources for the history of physics, a cura di S. G. Brush, Hanover (NH) 1972; G. Holton, Thematic origins of scientific thought: Kepler to Einstein, Cambridge (Mass.) 1973; R. Olson, Scottish philosophy and British physics, 1750-1880, Princeton (NJ) 1975; S. G. Brush, The kind of motion we call heat. A history of the kinetic theory of gases in the 19th century, 2 voll., Amsterdam 1976; Berkeley Papers in History of Science, Office for History of Science and Technology, Berkeley 1977-82; J. L. Heilbron, Electricity in the 17th & 18th centuries. A study of early modern physics, ivi 1979; J. Mehra, H. Rechenberg, The historical development of quantum theory, vol. i, parte i, New York 1982; S. Schaffer, History of physical science, in Information sources in the history of science and medicine, a cura di P. Corsi e P. Weindling, Londra 1983, pp. 285-314; A. Pais, Inward bound. Of matter and forces in the physical world, Oxford 1986.

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