Firenze

Enciclopedia Dantesca (1970)

Firenze

Ernesto Sestan
Ugo Procacci
Eugenio Ragni
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Pier Vincenzo Mengaldo

Storia. - F. è collegata a D. per due ragioni: come luogo in cui trascorse una parte della sua vita e al quale pensò con l'appassionata nostalgia dell'esule; e come città storica, alla quale erano legate tradizioni e memorie che risalivano a molte generazioni addietro e che egli sentì profondamente e, occasionalmente, espresse.

Al tempo della nascita di D., F. vive ancora sotto il peso della sconfitta di Montaperti (1260), che era stata - è vero, a stretto rigore - la sconfitta non di F., ma di una Parte, di una fazione della città, quella guelfa, e la vittoria dell'altra, quella ghibellina. Ma questo poco consolava i Fiorentini e amareggiava anche la Parte vincitrice. Perché la sostanza era che F., quale che fosse, o guelfa o ghibellina, era caduta, in seguito a quella sconfitta, dalla sua posizione già di città egemonica in Toscana, a tutto vantaggio della rivale Siena e anche di Pisa, città ghibelline. Sfuggita all'annientamento che i vincitori non fiorentini le avevano minacciato, la città si stava riprendendo rapidamente, perché le sue energie erano grandi e non distrutte da quella sconfitta. Se si tiene presente, poi, che le lotte faziose fra guelfi e ghibellini erano a F., in questo tempo, circoscritte fra gruppi magnatizi ed estranee, propriamente, alle classi popolari, le quali volevano la pace e, sperata conseguenza di questa, la prosperità, se ne dovrebbe concludere che il grosso della popolazione fiorentina dovesse rimanere indifferente all'esito di quelle lotte non sue. Ma così non era. Tutti i Fiorentini, ma specialmente quelli delle classi popolari, erano accesi da fortissimi sensi di patriottismo locale, cittadino. Le lotte faziose fra Fiorentini guelfi e Fiorentini ghibellini erano divenute una lotta fra F. e Siena e gli alleati ghibellini di Siena, re Manfredi innanzi tutti. Su questo punto il patriottismo cittadino s'infiammava e coinvolgeva in una stessa repulsione e condanna gli odiati Senesi e i loro complici Fiorentini. Così, per effetto di Montaperti, il guelfismo fiorentino, in quanto portatore, se pur sfortunato, della rivalità contro Siena, veniva a identificarsi col patriottismo fiorentino senz'altro, mentre un'ombra di tradimento calava sui ghibellini fiorentini, che avevano trescato con i nemici della città e che dalla sconfitta di essa avevano tratto le ragioni delle loro momentanee fortune politiche. Si aggiunga che il decennio precedente a Montaperti (1250-1260), il decennio del ‛ primo popolo ', era stato il periodo del guelfismo trionfante, ma, insieme, di un governo accentuatamente popolare, di cui erano rimasti la memoria e il rimpianto. Così, sempre per effetto di Montaperti, le classi popolari vennero sempre più portate a riconoscersi nel segno del guelfismo e a vedere in esso congiunte le fortune politiche della città: un orientamento di spiriti, che dominerà per alcuni secoli la storia politica fiorentina, per cui Montaperti, una modesta parentesi nelle fortune politiche di F., acquista un significato decisivo per la storia interna della città.

D. nasce, dunque, in una F. ghibellina, anzi in una Toscana ghibellina, perché anche Lucca, ultimo baluardo guelfo, deve giurare fedeltà a Manfredi, nell'agosto 1264. Ma è predominio ghibellino minacciato da grosse nubi. Dai primi del 1263 papa Urbano IV comincia a mettere fuori legge i mercanti e banchieri di città ghibelline, primi i Senesi, e nel marzo 1263 anche i Fiorentini; e poco dopo (giugno 1263) il papa fa sapere di avere scelto il conte di Provenza, Carlo d'Angiò, fratello del re di Francia, come re di Sicilia, preannuncio, quindi, di una spedizione di lui in Italia per abbattervi re Manfredi, capo del ghibellinismo italiano. D. nasce, quindi, in un momento in cui, per molti segni, si preannuncia non improbabile una svolta politica della città, svolta che è segnata, com'è noto, dalla sconfitta e morte di Manfredi a Benevento (26 febbraio 1266). Non consta che gli Alighieri, per quanto guelfi, avessero noie durante il dominio ghibellino: non furono cacciati né andarono spontaneamente in esilio; pare fossero tollerati, come guelfi non temibili né per potenza familiare né per combattività partigiana della casata.

Impazienze, dopo Benevento, ci furono a F., per ripristinare un governo guelfo, tipo ‛ primo popolo ', ma il papa Clemente IV non le secondò, anzi le ostacolò, mirando a un governo paritetico guelfo-ghibellino. Questo carattere doveva avere il governo dei due frati gaudenti bolognesi, Catalano di Guido Malavolti e Loderingo degli Andalò, che durò meno di un semestre (maggio-novembre 1266), in mezzo a molti ondeggiamenti fra guelfi e ghibellini, questi ultimi ancora tanto forti da rifiutare al papa l'espulsione da F. dei cavalieri tedeschi mandati, a suo tempo, in loro aiuto da re Manfredi e da respingere il podestà nominato dal papa (ottobre 1266). Ma poco dopo una rivolta popolare, attizzata, forse, dai due frati gaudenti (novembre) travolge il debole governo paritetico e induce molti dei ghibellini a lasciare la città. Che, a coronamento della vittoria del guelfismo impersonato da Carlo d'Angiò, le classi popolari fiorentine mirassero alla restaurazione di un governo tipo ‛ primo popolo ', è dimostrato dal ripristino del capitano del popolo, simbolo del guelfismo democratico. Ma il papa spera ancora in un governo paritario, a cui s'ispira una commissione di trentasei uomini, probabilmente popolari, la quale richiama in città gli esuli guelfi. Ma i più tenaci e potenti e rancorosi fra i guelfi rimangono in esilio: essi vogliono una vittoria piena, completa, un predominio assoluto della loro parte, che sperano, infatti, di ottenere da Carlo d'Angiò, nominato dal papa (10 aprile 1267) " paciarus generalis " per la Toscana. Il titolo è insidioso e può essere interpretato in vario modo: o come ufficio mirante a istituire un governo di compromissione fra le parti o a imporre la pace con un atto di forza di una parte sull'altra. È questa l'interpretazione che gli danno i più potenti fra i fuorusciti guelfi: essi, presentandosi come fautori ed esecutori della volontà del " paciarus ", comandati dal conte Guido Guerra dei conti Guidi, entrano nella città il 18 aprile 1267 - un anno abbondante dopo Benevento - mentre i più dei ghibellini ne escono, riparando in varie città (Pisa, Siena) e castelli, specialmente a Poggibonsi. Carlo d'Angiò è acclamato podestà di F. per la durata, assolutamente insolita, di sette anni. Il carattere magnatizio guelfo del nuovo governo è sottolineato dalla contemporanea soppressione del capitanato del popolo e dall'istituzione della Parte guelfa, organizzazione ristretta dei più potenti dei guelfi ritornanti e bramosi di rifarsi sui ghibellini dei danni ricevuti durante i quasi sette anni d'esilio.

Nell'autunno dello stesso anno 1267 le speranze ghibelline rinverdiscono per la venuta in Italia del giovinetto Corradino di Svevia, rivendicante per sé l'eredità del regno di Sicilia contro l'Angiò e quindi anche contro il papa, che ne ha già disposto a favore del principe francese. Nel giugno 1268 il giovane principe tedesco è accolto festosamente a Pisa e Siena, città ghibelline, e poi anche a Roma, naturalmente dalla fazione antipapale; e presso Laterina, sulla via di Arezzo, consegue anche un certo successo militare sulle truppe angioine. Ma la sconfitta di Tagliacozzo (24 agosto 1268) e la conseguente decapitazione a Napoli troncano brutalmente le speranze che i ghibellini avevano posto sul giovane principe. La lunga vacanza papale dopo la morte di Clemente IV lascia mano libera a Carlo d'Angiò per rafforzare la posizione del guelfismo in tutta Italia, e particolarmente in Toscana. Pisa e Siena reggono malamente a questa pressione. Siena, battuta a Colle (17 giugno 1269) dai Fiorentini, che vedono in questa vittoria il riscatto dall'onta di Montaperti, deve, dopo un anno e mezzo d'incertezze e sotto la pressione di Guido di Montfort, vicario generale di Carlo d'Angiò in Toscana, riaprire le porte ai suoi esuli guelfi (agosto 1270), il che è seguito dallo spontaneo esilio dei più dei ghibellini. La stessa Pisa, roccaforte del ghibellinismo, qualche mese prima (aprile 1270) aveva dovuto - e sia pure a non troppo dure condizioni - piegarsi al guelfismo con la nomina di un podestà guelfo. L'anno 1270 significa il trionfo generale del guelfismo in Toscana (e anche altrove); ma non senza qualche resistenza ancora in località forti del contado; anche nei dintorni di F. gruppi di ghibellini si sono asserragliati, per esempio, a Signa, mentre cripto-ghibellini sono sospettati in F. stessa. Per non dire delle città tradizionalmente ghibelline: a Siena (1271) un'insurrezione popolare incendia il palazzo dei Tolomei, guelfi.

Il nuovo papa finalmente eletto, Gregorio X, riprende i tentativi di pacificazione, un po' per paterno spirito cristiano, un po' per non farsi soverchiare dallo strapotere di Carlo d'Angiò. A tale scopo s'incontra col re di Sicilia proprio a F. (giugno 1273). È probabile che D. bambino abbia visto, in questa occasione, i due più grandi personaggi d'Italia in quel tempo. Ma il tentativo di pacificazione fra le due fazioni fallisce, per i reciproci sospetti: ciò che induce il papa (settembre 1273) a lanciare l'interdetto contro la riottosa città guelfa. A Pisa, situazione analoga, anche se di segno contrario: qui sono i ghibellini che cacciano dalla città i capi guelfi, Giovanni Visconti, giudice di Gallura, e il suocero di lui Ugolino della Gherardesca (luglio 1274), ciò che provoca azioni di guerra, in genere fortunate, della lega delle città guelfe toscane contro Pisa, sicché questa deve riprendersi i guelfi espulsi (luglio 1276). Anche a Siena, il governo dei Trentasei, espressione della grassa borghesia mercantile e bancaria, assume un carattere accentuatamente guelfo (maggio 1277). Dopo questa scossa, nel 1278, il predominio guelfo in Toscana è ristabilito e restaurata la pace, almeno in apparenza, ché gli esuli ghibellini non si danno ancora per vinti. Onde il nuovo pontefice, Niccolò III, riprende in Toscana e fuori di Toscana un vasto tentativo di pacificazione generale, valendosi del congiunto, il cardinale Latino Malabranca. Anche F., ovviamente, entra in quest'azione papale, con risultati, almeno in apparenza, positivi: la pace del cardinale Latino (febbraio 1280) introduce - col rientro di una parte dei ghibellini fuorusciti (non tutti accettarono di tornare) - uno dei soliti governi paritetici, accompagnato dalle solite scene pubbliche di pacificazioni e conseguenti maritaggi, cioè il governo dei Quattordici buoni uomini, dato che la podesteria di Carlo d'Angiò, divenuta decennale, era scaduta l'anno prima.

Ma non era la pace interna: magnati guelfi e magnati ghibellini si azzuffavano di continuo e costituivano un motivo permanente di turbamento della tranquillità pubblica, a cui era sensibile particolarmente la classe media e popolare, produttrice e lavoratrice, estranea alle rivalità fra le grandi casate. Già nel 1281 il governo dei Quattordici impone malleverie ai magnati come garanzia della pace interna. L'insurrezione siciliana dei Vespri (31 marzo 1282) rinfocola anche in Toscana le speranze ghibelline; il che vuoi dire, a F., accentuarsi delle lotte fra magnati; onde la decisione delle classi medie e popolari, organizzate nelle arti, d'istituire, dapprima accanto al debole governo dei Quattordici, poi come unico governo, un reggimento di loro espressione, prima di tre, poi di sei priori delle arti, se non proprio apertamente antimagnatizio, diffidente molto verso i magnati (giugno 1282); priori affiancati da un " difensore delle arti e degli artefici ", comandante delle compagnie armate popolari distinte per gonfaloni (suddivisioni entro i sesti della città). Quattro anni dopo (ottobre 1286) sono estesi i poteri del " difensore " contro le prepotenze dei magnati a danno degli artigiani popolani e " parte debole ", prepotenze nelle quali si era distinto particolarmente il magnate Corso Donati. L'allargamento democratico della base del governo dei priori si annuncia anche, dalla metà del 1287, con l'apertura, nei consigli del comune, anche ai rappresentanti delle cinque arti medie (12 con le 7 arti maggiori). La tensione fra magnati e popolani si attenua poi di fronte alla tensione F. Arezzo, dove il vescovo Guglielmo degli Ubertini, ghibellino, ha in mano il potere. Il governo dei priori fiorentini, dapprima incerto - incerto anche perché una guerra esterna accresce internamente il peso dei magnati, in quanto costituenti il nerbo, come cavalleria, delle forze militari comunali - apre poi le ostilità contro Arezzo, facendosi forte anche degli aiuti dati dalla lega guelfa toscana e anche di aiuti bolognesi. La battaglia di Campaldino (11 giugno 1289), alla quale prende parte anche il giovane D., nelle file dei feditori, è una schiacciante vittoria fiorentino-guelfa, alla quale, però, non seguono risultati politici rilevanti. Questa guerra e ancor più la successiva contro Pisa mettono in luce le gravi disfunzioni e corruzioni nell'amministrazione finanziaria del comune. Cercano di porvi rimedio le " provvisioni canonizzate " del settembre 1289. Ma il malessere rimane: le arti maggiori, esponenti dei ceti affaristici fiorentini, si premuniscono contro le resistenze del ceto operaio sottoposto alle arti. Ma nello stesso tempo tutte le 21 arti, quindi anche le arti minori, sotto l'impulso di Giano della Bella, ricco mercante, non per posizione sociale, ma per sentimento, più vicino ai popolani che non ai magnati, concorrono, con gli Ordinamenti di Giustizia del 18 gennaio 1293, a stabilire una legislazione intesa a fissare la minorazione giuridica delle casate magnatizie, specificamente elencate, imponendo il principio della corresponsabilità collettiva delle casate per gli atti di violenza commessi dai loro membri e obbligandole a rendersi mallevadrici (legge del sodamento) per danni recati a popolani, ed escludendo i magnati dai consigli cittadini e dalle più alte magistrature. La casata degli Alighieri, per quanto nobile per lignaggio, non è iscritta per il suo mediocre peso e prestigio economico e politico, fra le magnatizie. D. può quindi sedere nei consigli della città. Non si sa quale giudizio egli formulasse, fino a questo momento, quando era vicino alla trentina, sulla politica cittadina, alla quale sembra ancora estraneo, tutto versato negli studi filosofici e letterari, nelle tenzoni poetiche. Non pare che abbia alcun significato politico la conoscenza, che egli fece in questo tempo a Firenze (marzo 1294), col giovane principe angioino Carlo Martello, che andava ad assumere la contrastata corona ungherese.

I più violenti e facinorosi fra i magnati mordono il freno: Corso Donati, autore di violenze contro un consanguineo ma anche contro un popolano, è, tuttavia, assolto da un compiacente giudice del podestà (gennaio 1295). Ciò provoca l'indignazione popolare, che si dà a tumulti e incendi, invano contrastati dallo stesso Giano della Bella, che paga questo suo atteggiamento di pacificatore col tramonto del suo astro di agitatore popolare. Un priorato a lui nemico lo condanna come seminatore di discordie e come contravventore agli stessi Ordinamenti di Giustizia da lui introdotti (18 febbraio 1295). Ed egli lascia la città. Ne traggono motivo i magnati per tentare la rivincita (luglio 1295): non riescono a ottenere l'abolizione degli odiati Ordinamenti, ma sì, almeno, una loro sensibile attenuazione: tra l'altro, furono ammessi al priorato anche coloro - purché non magnati - che fossero semplicemente iscritti a un'arte, anche non esercitandola di fatto. Che fu il caso di D., iscritto all'arte dei medici e speziali.

Il quinquennio 1295-1300, durante il quale D. comincia a prendere parte alla vita politica cittadina, fu, relativamente, abbastanza tranquillo, almeno in superficie; ché, sotto sotto, covavano fermenti di future e non lontane agitazioni. A parte contrasti minori, questi fermenti si alimentavano della rivalità fra le due casate magnatizie dei Donati e dei Cerchi, attorno alle quali si venivano schierando, rispettivamente, non soltanto le casate amiche magnatizie, ma anche - diversamente da ciò che era avvenuto per le lotte guelfi-ghibellini - elementi della grassa e media borghesia, giù giù fino alle classi popolari, con attiva partecipazione anche degli ecclesiastici. Vi s'intrecciavano i motivi più vari, non tutti riconducibili a interessi di classe: contrasti fra nobili vecchi (i Donati) e nobili nuovi (i Cerchi); rivalità d'interessi finanziari orbitanti, in contrasto, attorno alla corte e alle finanze papali; odi familiari accumulatisi per ragioni di matrimoni contrastati o rotti, con conseguenti liti patrimoniali ereditarie; incompatibilità fra la sprezzante alterigia, la spregiudicatezza morale, la figura tuttavia affascinante di un Corso Donati da un lato, e la figura dimessa, incerta, piuttosto prosaica, di un Vieri de' Cerchi, entrambi rivaleggianti per acquistarsi e mantenersi il favore popolare. Inoltre le lotte feroci apertesi fra i guelfi pistoiesi, divisi tra le fazioni dei Neri e dei Bianchi, si trasferiscono, con i loro nomi, a F., nel senso che i Donati e consoci prendono le parti dei Neri, e i Cerchi e seguaci quelle dei Bianchi. Negli ambienti popolari, contro queste tensioni fra i gruppi magnatizi rivali, che minacciano di coinvolgere tutta la città, si auspica un ritorno di Giano della Bella, evidentemente come strumento di un'applicazione rigorosa degli Ordinamenti di Giustizia; ma papa Bonifacio VIII, sapientemente lavorato dai banchieri fiorentini di Parte nera, residenti in corte di Roma, si oppone al ritorno del capopopolo fiorentino, dipinto come seminatore di discordie e pietra di scandalo, forse posseduto dal demonio (gennaio 1296). Basta un nulla per far scoppiare degl'incidenti, per correre al sangue; così, nel dicembre 1296, durante una veglia funebre in casa Frescobaldi. Gli animi sono divisi anche di fronte alle sempre maggiori pretese del papa Bonifacio VIII, che intende il guelfismo come sostegno alla sua politica contro i Colonna, politica più della sua casata Caetani che della Chiesa; ma infine, pur fra contrasti, il comune fiorentino accorda al papa gli aiuti militari in questa sua vera e propria crociata contro la casata rivale. I priori penano a tenersi al di sopra della mischia civile. Nel dicembre 1298, in seguito a un ennesimo scontro fra Donateschi e Cerchieschi, ricorrono a condanne poco efficaci, che colpiscono le due parti; poco efficaci anche perché si delinea sempre più chiara la protezione che i Neri hanno da parte del pontefice, e, in uno scandaloso processo contro Corso Donati, anche da parte del giusdicente, il podestà Monfiorito da Coderta (marzo-maggio 1299). L'indebolimento della Parte dei Cerchi va di pari passo con l'attenuazione degli Ordinamenti di Giustizia: nell'aprile 1299 le penalità da essi previste sono ridotte a un ventesimo, ma poi, dopo il processo contro il Monfiorito, sono ripristinate.

La protezione che il papa accorda ai Neri risulta evidente da un'inchiesta condotta a Roma da un'ambasceria guidata dal causidico Lapo Saltarelli. I compromessi, tutti di parte donatesca, sono condannati (aprile 1300), ma il papa esige la cassazione della sentenza; non l'ottiene, perché il comune non ammette l'ingerenza papale in questioni non ecclesiastiche della città. Ne segue una forte tensione fra il governo fiorentino e il pontefice, tensione che, tuttavia, il priorato in carica cerca di non portare agli estremi, tant'è vero che si adopera presso gli altri comuni membri della ‛ taglia ' (lega) guelfa perché aumentino il loro contributo militare a pro' dell'impresa che Bonifacio VIII sta conducendo contro gli Aldobrandeschi di Maremma, nell'interesse più di casa Caetani che della Chiesa. D., per incarico dei priori, compie questa missione presso il comune di San Gimignano (maggio 1300) e forse anche presso altri della Valdelsa. Il momento è molto difficile, grandi l'incertezza e il sospetto circa i fini ultimi della politica papale rispetto a F.: se mirino - come sembra evidente - a mettere al governo della città i Neri, per farsene uno strumento, o anche ad assoggettare addirittura la città e la Toscana al potere papale (o di casa Caetani), approfittando dell'incerta situazione giuridica, essendo l'Impero, se non vacante, tenuto da un re dei Romani (Alberto d'Austria) non ancora confermato. Per porre riparo ai pericoli del momento, i priori fanno approvare dai consigli inasprimenti delle pene contro gli attentatori alla pace pubblica e, prendendo motivo da nuovi tumulti e per mostrarsi superiori alle parti, mandano ai confini (maggio 1300) tanto Neri quanto Bianchi (fra questi Guido Cavalcanti). Ma questi ultimi sono riammessi nel luglio successivo, dal priorato di cui fa parte Dante. Non sono provvedimenti che possano disarmare il pontefice. Questi, in un breve al vescovo di F., anticipando la Unam sanctam, proclama la superiore autorità papale su tutti gli uomini (15 maggio 1300) e manda a F. come suo legato il cardinale Matteo d'Acquasparta, a chiedere balia (cioè i pieni poteri) per pacificare le parti. La pretesa, pur tra forti opposizioni, fra le quali si può congetturare anche quella del priore D.A., viene accolta (27 giugno 1300); ma quando il cardinale propone un nuovo sistema di elezione dei priori che avrebbe favorito i Neri, i priori si rifiutano di presentare la proposta ai consigli, come pure si rifiutano di aprire un processo contro Lapo Saltarelli. I magnati Neri, imbaldanziti, arrivano al punto di malmenare alcuni delle capitudini delle arti. Per ritorsione, un fanatico tira un colpo di balestra, fallito, contro il cardinale, mentre i priori, viste le mire papali, stringono col comune guelfo di Bologna un trattato apparentemente anodino, di " fratellanza, unità e associazione "; in realtà contro le mire papali. Scaduto il priorato di D. (14 agosto 1300), il cardinale, alla fine di settembre, nulla avendo ottenuto, lascia la città e scaglia l'interdetto contro i suoi governanti. Nel novembre il papa sembra ammansito: per l'intervento di membri della lega guelfa (bolognesi, lucchesi, senesi, ecc.) si piega a sospendere, temporaneamente, l'interdetto.

Ma i pericoli per l'indipendenza di F. e per la sorte dei Bianchi sorgono da un'altra parte: si annuncia prossima la venuta in Italia e in Toscana di Carlo di Valois, fratello del re di Francia Filippo il Bello, con lo scopo dichiarato di aiutare gli Angioini a recuperare la Sicilia a sé e alla Chiesa, ma con oscuri progetti sulla Toscana. Egli vi giungerà soltanto nell'agosto del 1301, evitando F. e proseguendo poi per Anagni, dove soggiorna il papa. Il governo fiorentino, in cui prevalgono i Bianchi, non vuole certo prendere di petto il principe francese né irritare maggiormente il papa; anzi, fa un donativo di 5800 fiorini per sovvenzionare la guerra del papa e di Carlo II d'Angiò contro la Sicilia, accede alle richieste papali di concorrervi con propri contingenti militari; misura contro la quale invano D. protesta (marzo-giugno 1301) e, ancora, manda, a sue spese, dei cavalieri assoldati a combattere per il papa contro gli Aldobrandeschi. Ma nello stesso tempo, per premunirsi contro il Valois, consolida con un nuovo prestito forzoso le finanze comunali e si abbandona ad atti contraddittori, che distruggono ogni buona volontà di rabbonire il papa. Così a Pistoia, presidiata da milizie fiorentine, fino a questo momento neutrali tra le fazioni locali dei Bianchi e dei Neri - scoperta una congiura dei Neri pistoiesi - il capitano fiorentino Andrea dei Gherardini, annuenti i priori bianchi di F., fa entrare in città i fuorusciti ghibellini e ne scaccia i Neri, inaugurando contro di essi una vera persecuzione (maggio 1301). Non basta: nel mese seguente, a una richiesta dei Neri fiorentini che anche i loro esiliati fossero richiamati in patria, com'erano stati richiamati i Bianchi, il governo sembra accedere, a patto che i Neri disarmino. Ma ottenuto ciò, li soverchia con il concorso di rinforzi bolognesi e li costringe alla fuga, cioè a riunirsi con i fuorusciti Neri di Pistoia. Perciò non ottiene alcun risultato un'ambasceria di Bianchi fiorentini presso il papa ad Anagni, alla quale partecipò anche D. (settembre 1301). Proprio ad Anagni, in concistoro, Bonifacio VIII proclama Carlo di Valois (5 settembre 1301) paciaro in Toscana fra Bianchi e Neri, rettore della Romagna, della Marca di Ancona, del ducato di Spoleto e capitano generale di tutto il territorio ecclesiastico. Ma come avrebbe esercitato questi poteri così ampi il principe francese rispetto a F. e alla Parte bianca? Gl'indizi erano preoccupanti. Egli era circondato da esuli Neri, potenti in corte papale e da uomini d'affari spregiudicati come un Musciatto de' Franzesi.

I priori, anche su conforme parere delle arti, non ebbero l'ardire d'impedire l'ingresso in F. al Valois, il quale, infatti, vi entrò, il 1° novembre 1301, con una scorta non numerosissima di armati. Il passo fatale era fatto: non si verifcò, infatti, a F. ciò che si verificherà invece, fra non molto, nella molto più piccola Pistoia, la quale chiuse le porte in faccia al principe francese e resisté ai Neri per ben quattro anni e mezzo. Una grande adunata del popolo fiorentino a parlamento, indetta dai priori, attribuiva al Valois i pieni poteri che egli chiedeva come paciaro papale (5 novembre 1301); ma contemporaneamente il capo più violento e audace dei Neri fuorusciti, Corso Donati, era lasciato entrare nella città, dove, con i suoi seguaci, istituì un regime di terrore, dandosi alle uccisioni e agl'incendi contro i nemici Bianchi. Per sei giorni (5 - 10 novembre 1301) la città è in balia di questi scatenati, contro i quali, evidentemente protetti dal Valois, nulla possono i priori, fra i quali Dino Compagni: essi finiscono col dimettersi (7 novembre) e passano i poteri - se così si può dire - a un priorato composto di soli popolani, i quali abbandonano i Bianchi al loro destino. Il nuovo podestà nominato dal Valois, l'eugubino Cante de' Gabrielli, prosegue, sotto colore di apparente giustizia, l'azione persecutrice contro i Bianchi. Il rivolgimento nella situazione fiorentina è tale, e tale il tremore per le violenze dei Neri, che il 24 novembre il consiglio dei Cento autorizza i priori a fare a Carlo di Valois un ricco donativo a titolo di riconoscenza per ciò che il paciaro aveva fatto a pro' della città. Tornò a F. anche il cardinale Matteo d'Acquasparta, anche lui con l'ipocrita veste del paciaro. Ma i Neri, imbaldanziti, si rifiutarono di spartire gli uffici con i Bianchi, mentre il terribile podestà Cante de' Gabrielli continuava a infierire con condanne contro i Bianchi, presenti o contumaci, fra questi ultimi anche D. (gennaio 1302).

Ma la partita, nonostante l'errore di avere ammesso il Valois nella città, non è ancora definitivamente decisa: oltre che a Pistoia, resistono gagliardamente nei castelli del contado i Bianchi fuorusciti. Essi non rifiutano l'alleanza con casate spiccatamente ghibelline, anzi tradizionalmente avverse al comune fiorentino, residui di tempi feudali tramontati (Ubertini, Pazzi di Valdarno, Ubaldini, alcuni rami dei conti Guidi): ciò che li compromette, inevitabilmente, agli occhi dei popolani fiorentini, radicalmente guelfi e gelosissimi delle libertà comunali. I Neri, trionfanti, non rifuggono da mezzi sleali per inasprire, se ce n'era bisogno, Carlo di Valois contro i Bianchi superstiti a F.: inventano una congiura che sarebbe stata tramata dai Bianchi per uccidere il Valois. E il principio di una nuova ondata di persecuzioni e condanne contro i Bianchi (più di mezzo migliaio di condanne, le più alla pena capitale, ma le più in contumacia). Per organizzare la difesa e, se possibile, il ritorno in patria con le armi, convengono a San Godenzo, sulla via fra F. e le Romagne, i capi della Parte bianca in esilio e capi ghibellini. V'intervenne anche D. (fine giugno-primi luglio 1302). Ma l'azione loro si sperperò in minuti scontri, talora anche vittoriosi per i Bianchi (l'ostinata difesa di Montaccianico nell'alto Mugello). In realtà, l'unico punto forte dei Bianchi è ancora Pistoia. Il Valois, ottenuto il suo scopo e largamente foraggiato di donativi dai Neri fiorentini, si disinteressa oramai delle cose toscane e italiane e, anche per le complicazioni sorte fra il fratello Filippo il Bello di Francia e il papa, lascia F. e se ne torna in patria (dicembre 1302).

La lotta fra i fuorusciti Bianchi, uniti con i ghibellini toscani, e il comune di F., guelfo nero oramai, che dapprima aveva fatto capo anche ad Arezzo e al Valdarno superiore, si sposta poi, per il dubbio atteggiamento del podestà aretino Uguccione della Faggiuola, nell'Appenino fiorentino e romagnolo e fa centro da un lato su Pistoia, dall'altro su Forlì, dove il capo ghibellino Scarpetta degli Ordelaffi è nominato capo militare della ‛ università ' (cioè comune) che i fuorusciti hanno organizzato in esilio (gennaio 1303). Nel maggio 1303 l'organizzazione si estende fino a comprendere, oltre Pistoia, Forlì, Faenza, Imola, Bagnacavallo, Cesena, i da Polenta signori di Ravenna. Ma non per ciò ne risulta sensibilmente diminuita la posizione di F., che si vale dell'alleanza di città toscane (Lucca, Siena) e in Romagna degli Estensi signori di Ferrara. Per il gioco delle tradizionali rivalità fra città vicine, le lotte fiorentine si sono così dilatate a lotte coinvolgenti Toscana e Romagna. Per lungo tempo le sorti rimangono incerte e possono non essere infondate le speranze degli esuli fiorentini di tornare in patria, tanto più che il gruppo dominante dei Neri si è scisso e l'ambizioso Corso Donati trama con i superstiti magnati Bianchi rimasti a F. e da buon demagogo agita il basso popolo contro la grassa borghesia dominante. L'agitazione promossa da Corso Donati è giudicata dal governo così pericolosa che, per consiglio di un ex-aderente del Donati, Rosso della Tosa, invoca l'opera pacificatrice di una delegazione lucchese (fine 1303). La quale, però, non riuscendo a combinare nulla, è sostituita, qualche mese più tardi, dal legato cardinale Niccolò da Prato, inviato da papa Benedetto XI. Ma anch'egli raccoglie magri risultati, perché i suoi tentativi di pacificazione sono sabotati da Corso Donati e da Rosso della Tosa, almeno su questo punto concordi, di non cedere nulla del loro potere dispotico ai Bianchi, contro i quali riprendono con violenza inaudita le soperchierie, le uccisioni, gl'incendi, le distruzioni delle case (aprile 1304). Come già il suo predecessore d'Acquasparta, anche il cardinale da Prato abbandona la città lanciando l'interdetto.

Era evidente che solo una vasta congiura o rivoluzione filo-bianca in F., combinata con una sorpresa dall'esterno, avrebbe potuto mutare lo stato delle cose nella città. E la sorpresa esterna fu tentata, ma senza un'adeguata intesa interna: il 20 luglio 1304 i fuorusciti Bianchi, riunitisi alla Lastra, a qualche miglio da F. sulla via bolognese, insieme con ghibellini di Arezzo e di Romagna, riuscirono a penetrare di sorpresa per una porta della città, ma non vi trovarono sostegno interno e dovettero ritirarsi. Fu un colpo grave alle loro speranze; più grave ancora fu, nell'aprile 1306, la resa della ‛ bianca ' Pistoia.

Appartiene alla biografia di D., non alla storia di F., il giudicare, o piuttosto il cercare d'indovinare, quali riflessi avessero su di lui questi avvenimenti che gli precludevano di tornare dignitosamente in patria, o per un atto di giustizia e di grazia, e si direbbe di riparazione, dei governanti fiorentini - come egli avrebbe preferito - o per un capovolgimento della situazione politica, in altre parole, per un ritorno armato e vittorioso dei Bianchi al potere. Questa seconda eventualità, dopo la resa di Pistoia, sembrava sempre più allontanarsi. Si può, ragionevolmente, supporre che la frattura avvenuta fra i Neri fiorentini, per le manifeste ambizioni signorili di Corso Donati, alimentasse qualche speranza fra gli esuli Bianchi, ma questa poi non si realizzò: la tragica fine del " barone " (6 ottobre 1308), tramante, col suocero, il capo ghibellino Uguccione della Faggiuola, contro l'oligarchia nera capeggiata da Rosso della Tosa, seppellì anche questa eventualità. Ancora una volta la manifesta complicità del Donati con i ghibellini aveva schierato contro di lui, unitamente, l'oligarchia nera e le classi popolari.

Non è il caso, qui, di ricordare tutte le vicende politiche che F. attraversò fino alla morte di Dante. E evidente che possono avere un'attinenza con D. solo quelle che potevano, in ipotesi, aprirgli la via del ritorno nella sua città: cioè un indebolimento o, addirittura, la caduta della Parte nera. Ma nessuno degli eventi fiorentini fino alla venuta di Enrico VII poteva essere interpretato in tal senso. La stessa distinzione fra Bianchi e ghibellini si era, praticamente, stemperata, fino quasi ad annullarsi in un'unica avversione al governo guelfo di Firenze. E anche su un piano generale della politica italiana non si poteva dire che il guelfismo avesse avuto gravi scosse, che si potessero ripercuotere sull'interna politica fiorentina. I maneggi di Pisa ghibellina con il re d'Aragona non approdarono a nulla; il guelfismo si affermò a Ferrara nella lotta contro Venezia (agosto 1309); un colpo di mano di fuorusciti Bianchi e ghibellini su Prato (aprile 1309) ebbe successo, letteralmente, solo per una giornata; la scacciata dei guelfi da Spoleto fu largamente compensata dalla vittoria dei guelfi umbri e anche fiorentini contro Todi ghibellina (settembre 1310) e dalla vittoria degli stessi Fiorentini contro gli Aretini uniti ai Bianchi fiorentini, sotto Cortona (febbraio 1310).

Per ben altra via la situazione poteva mutare a favore degli esuli Bianchi, e cioè per effetto dell'annunciata venuta in Italia del nuovo re dei Romani Enrico VII di Lussemburgo, già riconosciuto come tale dal papa Clemente V, e perciò in aspettativa di ricevere a Roma l'incoronazione imperiale. Il 3 luglio 1310 era giunta anche a F. un'ambasceria di Enrico VII, nella quale era compreso anche uno dei Bianchi esuli da Pistoia, a protestare contro le azioni dei Fiorentini a danno delle città fedeli all'Impero e a esigere la cessazione delle ostilità e l'invio a Losanna, per i primi dell'autunno, dei delegati a prestare giuramento al nuovo sovrano. Il governo fiorentino non si piegò a nessuna delle richieste; solo sospese, momentaneamente, le ostilità contro Arezzo, ma allargò e approfondì le intese, già predisposte fin dal marzo, con le città guelfe di Toscana e di Romagna.

Ma il punto capitale era l'atteggiamento del pontefice, in Avignone, il quale, finora, si era mostrato piuttosto favorevole alla venuta di Enrico VII in Italia, dato che il re si presentava, oltre che genericamente pacificatore, anche come restauratore del potere papale nelle terre della Chiesa. Un'intesa sincera e fattiva fra il pontefice ed Enrico VII sarebbe stata estremamente pericolosa per il governo nero di Firenze: onde ogni sforzo per infrangere quell'intesa, che era vista con altrettanto sospetto da Roberto d'Angiò, re di Napoli, come quella che avrebbe posto fine al predominio angioino in Italia, identificantesi con quello del guelfismo. Perciò, sulla fine del 1310, fu mandata ad Avignone un'ambasceria fiorentina, la quale lavorò molto bene quell'ambiente, in cui anche la finanza fiorentina aveva molto peso, mentre già nel settembre (1310) re Roberto era venuto a F. e nelle altre città guelfe toscane, non solo per discettare di teologia dal pulpito di S. Maria Novella (il re da sermone, Pd VIII 147), ma anche per conversazioni sui problemi politici che la prossima venuta di Enrico VII in Italia poneva, unitamente, al re di Napoli e al comune di F., benché, in questo tempo, il re tenesse ancora segrete trattative, tramite Avignone, con Enrico VII, anche in vista di possibili combinazioni matrimoniali. E a ogni buon conto, F. portò avanti sollecitamente il compimento della terza cerchia di mura della città. Nell'ottobre 1310 Enrico VII entrava in Italia con una scorta di truppe assolutamente inadeguata agli alti compiti che si proponeva: di fare opera di pacificatore al di sopra delle parti; di piegare le eventuali resistenze; di restaurare l'autorità imperiale anche nell'ambito di poteri caduti da tempo in oblio. Anche con forze ben superiori, un programma utopistico o realizzabile solo per brevissima durata, perché in contrasto con tutta la situazione reale in Italia, caratterizzata dalle oramai radicate autonomie cittadine, anche in città sedicenti ghibelline, ma per le quali quell'insegna imperiale serviva solo come punto di riferimento per riscuotere appoggi contro città rivali, sedicenti guelfe, non per consentire a un'effettiva diminuzione delle proprie autonomie. E invece il ‛ novello Cesare ', nella sua follia di restaurazione di diritti formali, che due secoli e più di storia avevano seppellito, mirava proprio a restringere, se non ad abolire, le autonomie comunali. Riguardo a F., in elenchi di rivendicazioni tenuti segreti dalla cancelleria imperiale, l'Impero si riprometteva di staccare dal dominio comunale e di sottoporre al diretto dominio e amministrazione imperiali ben 158 castelli e 60 comunità rurali. Questo, D. e i Bianchi esuli entusiasti di Enrico VII non lo sapevano; ma che l'affermazione dell'autorità imperiale si sarebbe accompagnata con un'umiliazione del comune sembrava indubitabile per troppi segni. La pacificazione, l'estirpazione delle fazioni, ammesso che si potesse realizzare, sarebbe stata pagata a ben caro prezzo.

L'esperienza fatta già ai primi passi in Italia avvertì Enrico VII che la sua posizione di sovrano imperiale, superiore alle parti, era insostenibile; che per ridurre i riottosi, di qualsiasi parte fossero, doveva appoggiarsi sulla parte opposta. Fuorusciti Bianchi fiorentini accorsero in gran numero presso il sovrano e ne ebbero onori e uffici a corte e in città disposte ad accogliere le autorità imperiali; e naturalmente, erano presso il sovrano ispiratori di vendetta e rivincita contro la loro città. In Toscana, fra i grandi comuni, solo quelli di Pisa e di Arezzo erano partigiani dichiarati di Enrico VII. Dopo la sua incoronazione a re d'Italia a Milano (6 gennaio 1311) parve che il re volesse scendere direttamente su F.; ma poi, rivolgimenti a Milano, la resistenza di Cremona, il lungo assedio di Brescia lo trattennero nell'Italia settentrionale fino all'autunno del 1311, con grande impazienza dei fuorusciti Bianchi, fra cui D., e grande soddisfazione di F., per la quale ogni ritardo del re dava maggiore possibilità di preparare là difesa sul piano diplomatico e militare. Il re svernò a Genova, molto diminuito nelle sue forze militari per una violenta pestilenza e per la diserzione dalla sua causa di parecchie città padane, Parma innanzi tutte, che dapprima avevano aderito a lui. Anche le promesse a suo favore, raccolte da suoi ambasciatori fra minori città e signori feudali toscani, erano piene di riserve e poco consistenti. Tuttavia le misure per la difesa a F. continuarono; e fra esse va ricordata, alla fine del 1311, l'amnistia (la cosiddetta " riformagione di Baldo d'Aguglione " dal nome del giurista che le dette veste formale) accordata ai meno compromessi fra i guelfi bianchi (non ai membri di famiglie ghibelline) e ispirata da un lato all'intento di diminuire il numero dei nemici e dall'altro a quello di ricavarne un cespite per le finanze comunali, visto che l'amnistia era subordinata al pagamento di una penale. Fra i circa 1500 esclusi dall'amnistia ci fu anche D., non perché di famiglia ghibellina, che non era, ma perché, con gli scritti, eloquente fautore del re tedesco. La messa al bando di F., proclamata solennemente a Genova da Enrico VII il 24 dicembre 1311, se ebbe, certamente, dei riflessi dannosi per il commercio dei Fiorentini, non ne scosse la volontà di resistenza né fece il vuoto attorno alla città né le tolse alcun alleato; anzi, contribuì a stringere ancora più le forze della lega guelfa tosco-romagnola-lombarda, certamente superiori a quelle del re, ridotte a non più di 1500 cavalieri, anche se a Pisa, dove il re era venuto nel marzo (1312), notevolmente accresciute dall'apporto di esuli o comunque partigiani ghibellini. Pisa fu allora, nella primavera del 1312, affollata di ghibellini accorsi da ogni parte attorno al re, da cui speravano o vendetta o giustizia o, comunque, il ritorno in patria. In questa folla anche Dante. Ma anche se rinvigorite dal concorso dei Pisani e dei fuorusciti ghibellini, le forze di Enrico VII non erano tali da fargli sperare di piegare F.: un'infelice puntata su S. Miniato (primavera 1312) gli tolse ogni velleità in questo senso e lo convinse ad affrettarsi verso Roma lungo la Maremma per cogliervi lo scopo primo della sua venuta in Italia, la corona imperiale. Il pericolo si allontanava da F., ma in altro senso si aggravava, perché Enrico VII, una volta consacrato dal titolo imperiale, avrebbe esercitato una presa più profonda sull'animo dei contemporanei, non ancora insensibili essi - ma non gli spregiudicati mercanti fiorentini - al prestigio morale di quel titolo.

Come, fra molti contrasti, si giungesse alla cerimonia dell'incoronazione, non in S. Pietro, ma in S. Giovanni in Laterano, il 29 giugno 1312, è storia non di F., ma, principalmente, dei rapporti fra Enrico VII e Roberto d'Angiò. Ma non senza riflessi anche sulla storia fiorentina, perché vi si rilevò che il papa aveva cessato di fare causa col Lussemburghese e pur con molte cautele e infingimenti, era passato dalla parte dell'Angioino. Lo scopo primo della politica fiorentina, di rompere l'intima intesa fra papa e candidato imperatore, aveva avuto pieno successo. L'imperatore era ora ridotto alle sue sole forze e a quelle dei suoi seguaci e si era scoperto in piena luce l'antagonismo imperiale-angioino, a tutto vantaggio dei Fiorentini, i quali, mandando truppe mercenarie e cittadine a Roma, contribuirono efficacemente alla resistenza di Giovanni di Gravina, fratello di Roberto d'Angiò, contro Enrico VII, e a indebolirne le forze.

Era, tuttavia, prevedibile che l'imperatore avrebbe tentato di punire la tracotanza fiorentina, che era una sfida alla sua autorità. Dopo un soggiorno di due mesi a Tivoli, lentamente egli si avviò verso la Toscana, facendo Arezzo, fedelissima ghibellina, centro per le sue operazioni. Il 12 settembre 1312 entrava in territorio fiorentino, vincendo resistenze di retroguardia dei Fiorentini nel Valdarno superiore, e il 19 investiva la città, ma non con un assedio completo, perché non aveva forze abbastanza per bloccare la città in tutto il suo circuito. Quasi tutti gli esuli ghibellini e moltissimi guelfi bianchi - se è ancora ammissibile questa distinzione - si erano dati convegno nel campo dell'imperatore e agognavano di entrare con le armi in mano nella città che li aveva cacciati. D. non fu tra costoro; e perché non ci fu, è cosa che riguarda la sua biografia, non la storia di Firenze. Il pericolo per la città era, certo, grande e la sorpresa piena, perché non si era prevista un'avanzata così rapida dell'imperatore dopo la sosta estiva, né, tranne un contingente senese, erano ancora giunti i rinforzi di fuori, chiesti fino dai primi di settembre. Non tentato nemmeno, da parte dell'imperatore, un attacco di sorpresa, F. ebbe il tempo di raccogliere a difesa truppe a cavallo e a piedi certamente in numero superiore a quello di cui poteva disporre l'imperatore. In tutti era chiara la consapevolezza che si giocava la carta decisiva per il guelfismo; ma contro le impazienze dei più animosi, fra i quali erano lo stesso vescovo di F. e molti ecclesiastici, si evitò di giocarla in una battaglia campale, di esito incerto, bensì si decise di stancare l'assediante, per il quale il problema degli approvvigionamenti cominciò presto a farsi più grave che per gli assediati. Si aggiunsero piogge autunnali, allagamenti dell'Arno, il pericolo di vedersi tagliata un'eventuale ritirata, per cui, nella notte fra il 30 e il 31 ottobre (1312), dopo sei settimane invano spese, l'imperatore tolse l'assedio, né i Fiorentini osarono attaccarlo durante la ritirata né nei due mesi e mezzo in cui si trattenne nel contado, conducendo azioni più di guerriglia che di guerra contro gli sparsi castelli dei Fiorentini verso la Valdelsa. Svernò a Poggibonsi per poi tornare a Pisa (10 marzo 1313).

L'imperatore rimaneva ancor sempre in Toscana, ma per F. il nembo poteva dirsi scomparso anche perché, avendo accettato re Roberto la carica di capitano generale della lega guelfa, il conflitto si veniva spostando fra il re e l'imperatore, principalmente. Per questo l'imperatore veniva reclamando nuove forze dalla Germania e apriva contro re Roberto, considerato ribelle all'autorità imperiale, un processo che lo condannava alla pena capitale (26 aprile 1313). Fra molte altre ragioni, di equilibrio interno fra magnati e popolani, ci fu anche questa, l'aperto conflitto fra l'Angiò e il Lussemburghese, per cui F., sacrificando ‛ pro tempore ' la propria autonomia, conferì a Roberto d'Angiò (maggio 1313) la signoria della città per cinque anni (in realtà durò 8 anni e mezzo, oltre la morte di D.), accettando il vicario che egli vi avrebbe nominato in luogo del podestà finora eletto dalla città. Nel fatto, fu anche abolito il capitanato del popolo, ciò che caratterizza questa signoria angioina come benevola principalmente verso il ceto magnatizio e grasso borghese, anche se non furono aboliti gli Ordinamenti di Giustizia. Il 1° agosto 1313 Enrico VII usciva da Pisa per una spedizione non contro F., ma contro Roberto d'Angiò nel Mezzogiorno: l'obiettivo F. rientrava in secondo piano, sarebbe stato ripreso, se l'impresa contro il nemico oramai principale fosse riuscita. Non riuscì: la morte colse l'imperatore a Buonconvento, il 24 agosto 1313. I seguaci ghibellini italiani si dispersero; le milizie, tedesche principalmente, tornarono ai loro paesi, salvo un certo numero che si mise al servizio dei Pisani.

Per F., l'incubo era finito. Per quanto presto risorgessero pericoli per F. guelfa e nuove possibilità di un predominio ghibellino, non consta, documentariamente, che questi ulteriori eventi si ripercuotessero nell'animo dell'Alighieri a destarvi nuove speranze. Il suo sogno politico era tramontato con l'alto Arrigo (Pd XVII 82). Dopo la scomparsa di lui non è attestabile un interesse di D. per le vicende fiorentine, benché sia difficile escluderlo in assoluto. Tuttavia, per completezza, è il caso di accennare a queste ulteriori vicende. Intanto, sia pure in scala minore, riapparve per F. un pericolo ghibellino nella persona di Uguccione della Faggiuola, che Pisa, rimasta esposta alle offese dei guelfi trionfanti in Toscana, si affrettò (20 settembre 1313), poche settimane dopo la scomparsa dell'imperatore, a nominare suo capitano di guerra, podestà e capitano del popolo, praticamente signore. Sulle prime una larga parte dei Pisani sarebbe stata incline a fare la pace con re Roberto, che il papa aveva nominato (marzo 1314) vicario dell'Impero, allora vacante, per l'Italia. Ma Uguccione si oppose alla pace, nella quale subodorava una diminuzione dei suoi poteri signorili, mentre fece pace con Lucca (aprile 1314), con una manifesta punta antifiorentina. Una pace che non resse, anche per le atroci rivalità fra i Lucchesi, delle quali Uguccione si valse, per conquistare, con poca difficoltà, la città tradizionalmente nemica di Pisa (14 giugno 1314), e farsene, di fatto, signore. L'unione Pisa-Lucca sotto insegna ghibellina era motivo di forte preoccupazione per F. guelfa, che aumentò quando Uguccione tentò, con un colpo di sorpresa, fallito tuttavia, d'impadronirsi anche di Pistoia (10 dicembre 1314) e strinse alleanze di ampio giro con signori ghibellini dell'alta Italia, gli Scaligeri di Verona e i Bonacolsi di Mantova, oltre che con i più irriducibili ghibellini del contado fiorentino, quali i Pazzi di Valdarno e gli Ubertini. La reazione guelfa era piuttosto fiacca, la rete delle alleanze poco efficiente, mentre Uguccione si faceva sempre più minaccioso, nella primavera del 1315 stringendo da presso la città. Finalmente re Roberto si rese conto che la sua posizione di signore e protettore di Firenze gl'imponeva di uscire dall'inazione: e al fratello Pietro, conte di Eboli, che già era a F., mandò rinforzi sotto il comando dell'altro fratello, Filippo, principe di Taranto, e il figlio di lui, Carlo di Acaia. Ma questi ragguardevoli rinforzi non impedirono che i Fiorentini fossero battuti molto duramente da Uguccione a Montecatini (29 agosto 1315). Rimasero sul campo due principi angioini e molti dei maggiorenti guelfi di F.; e assai più caddero prigionieri. Fu una vera rotta per i Fiorentini, com'era avvenuto a Montaperti, e la disfatta, rapidamente sfruttata dal vincitore, avrebbe potuto portare a un rivolgimento analogo a quello del 1260. Ma nulla avvenne di questo. Uguccione rimase inattivo, o quasi, dopo la vittoria. L'unione sotto uno stesso capo-parte di Pisa a Lucca, secolarmente rivali, era innaturale, o almeno molto difficile da mantenersi; e già questa era una palla al piede per Uguccione, che proprio in Lucca vide nascere e crescere di potenza colui che l'avrebbe sbalzato di sella, Castruccio Castracani. Tutti e due ghibellini, si trovarono in campo avverso, perché dopo la doppia elezione a re dei Romani di chi dovesse essere il successore di Enrico VII, l'uno, Uguccione, parteggiò per Ludovico il Bavaro, l'altro, Castruccio, per Federico d'Austria, dal quale ebbe il titolo di vicario imperiale per un territorio piuttosto impreciso, ma, all'ingrosso, comprendente la diocesi di Luni-Sarzana. Uguccione, un forestiero tanto a Pisa che a Lucca (era originariamente un piccolo feudatario dell'Appennino aretino-marchigiano) si era tirato addosso l'odio dei gruppi già dominanti nelle due città. Così (aprile 1316) le perse contemporaneamente entrambe, e non pare per intesa corsa fra le due città. Alcuni mesi dopo era profugo alla corte di Cangrande della Scala a Verona, dove non è escluso che potesse incontrarsi con Dante. A Lucca s'impose il lucchese Castruccio col titolo di " capitano e difensore della parte imperiale ", di fatto, di signore, titoli e funzioni che gli furono varie volte riconosciuti dai Lucchesi, fino a quello (26 aprile 1320) di capitano generale e signore, che tenne fino alla morte.

Certamente la dissoluzione dell'unione ghibellina Lucca-Pisa rappresentava un alleggerimento per la situazione di F., ma rimaneva il fatto che Lucca, tradizionalmente guelfa, era ora nelle mani di un giovane capo ghibellino (aveva 35 anni) dalle vaste ambizioni. Le quali per ora non si manifestarono, perché il momento non era opportuno. Era generale un senso di stanchezza dopo tante lotte, spesso inconcludenti. In questo clima fu stipulata la pace fra re Roberto e Pisa (12 agosto 1316) a cui seguì (12 maggio 1317), dopo lunghissime trattative, una pace generale fra le città toscane, includente anche i rispettivi fuorusciti, ma, per F., non i fuorusciti Bianchi e ghibellini. Gli anni che seguirono, fino alla morte di D., furono, insolitamente, anni, sostanzialmente, di pace nei rapporti fra le città toscane, anche se, internamente nelle città, ribollivano ancora, sotto la superficie, i vecchi rancori. Ma oramai i protagonisti della lotta, Bianchi e Neri, erano scomparsi o stavano scomparendo; gli stessi nomi di Bianchi e di Neri andranno presto in desuetudine, rimarranno solo quelli di guelfi e di ghibellini a tingere di sanguigno ancora secoli di storia italiana.

La storia di F., quella che si presenta alla mente di D., è, in grandissima parte, storia contemporanea: storia di eventi importanti, come Campaldino, e storia di fatti minuti, quasi cronaca e talora cronaca nera (Gianni Schicchi e simili). Pochissima parte ha la storia di F. dei tempi andati. Naturalmente, questo non vuol dire che D. ne conoscesse solo quei pochi fatti, slegati fra loro, episodici, che il poema o, meno, altri scritti gli danno occasione di menzionare. Negli stessi anni Giovanni Villani si apprestava a scrivere la sua Cronica, ricchissima di dati, e leggendari e storici, in riferimento alla F. dei tempi andati. Si dovrà dire che D. ne sapesse molto meno del suo minore contemporaneo? La questione è improponibile: non offre argomenti né per un'affermazione né per una negazione. Non si hanno elementi per poter dire che il Villani, nei libri I-VI della sua Cronica, rappresentasse la conoscenza media della più antica storia di F., una conoscenza che fosse patrimonio comune dei Fiorentini del tempo, e quindi anche di Dante. E probabile, ma non più che probabile; com'è probabile che D. conoscesse qualcuna delle fonti, orali e scritte, che furono le fonti anche del Villani, per la storia fiorentina.

Che si ‛ favoleggiasse ' d'i Troiani, di Fiesole e di Roma (Pd XV 126), non vuol dire che D. e i suoi contemporanei ritenessero ‛ favole ' le tradizioni sulle origini e i più antichi tempi della città. Erano per essi verità storiche, come tutto quello, del resto, che era contenuto nel mito - anche nel mito classico - e nell'epos: mito, epos, storia, tutto era sul medesimo piano di verità. D. sa poco, o piuttosto dice poco, della F. preromana e romana: sa della discendenza da Fiesole (miserrima Faesulanorum propago, in Ep VI 24; quello ingrato popolo maligno / che discese di Fiesole ab antico, If XV 61-62; le bestie fiesolane, v. 73); sa di F. colonia romana, se questo, come pare, è il senso di quella bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, in Cv I III 4 (e la sementa santa / di que' Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta, If XV 76-78; e vere matrem viperea feritale [Firenze] dilaniare contendit, dum contra Romam cornua rebellionis exacuit, quae ad ymaginem suam atque similitudinem fecit illam, Ep VII 25). ma gliene parlano il simulacro di Marte in capo al ponte, e i sarcofaghi davanti al bel San Giovanni. Sa della distruzione della città per opera di Totila (ma egli l'attribuisce, erroneamente, ad Attila: If XIII 149). Sa dei Longobardi, perfino della loro lontana provenienza dalla Scandinavia (Scandinaviae soboles, Ep V 12); sa di re Liutprando, di re Desiderio, ma nulla di loro rispetto a Firenze. Sa di Carlo Magno, probabilmente parecchio più di quanto ha occasione di dire nei suoi scritti, anche in rapporto a F., secondo la tradizione addirittura ricostruita da Carlo Magno, dopo 350 anni di squallore. E poiché D. non ha occasione di toccare il problema delle origini dell'ordinamento comunale autonomo della sua città, è probabile che quell'ordinamento gli si presentasse come qualche cosa di lontano, affondato nella caligine dei tempi. Anch'egli, come il Villani e come si continuerà a ritenere fino al '700, avrà ritenuto che quell'ordinamento si basasse su privilegi concessi da Carlomagno e da altri imperatori. D. ha, invece, senso storico per lo sviluppo materiale della città: la vede crescere, dalla cerchia antica alla grandezza odierna, per l'inurbamento di gente nuova, di ogni classe, alta e bassa. Un ricordo un po' più preciso, anche se remoto, è quello relativo a Ugo marchese di Tuscia (non di Brandeburgo, come continuano a ripetere, erroneamente, i commentatori), supposto archetipo di un certo numero di famiglie nobili fiorentine, noto, non foss'altro, per essere sepolto nella chiesa di Badia, a due passi dalle case degli Alighieri, e per la celebrazione della sua memoria, ogni anno, per la festa di s. Tommaso (21 dicembre). Ma dal Mille si fa un salto di un secolo e mezzo ai tempi del suo avo Cacciaguida, dell'imperatore Corrado III; e poi un altro salto di mezzo secolo e più ci riporta ai tempi della buona Gualdrada (If XVI 37) e dei conti Guidi, di Semifonte e di Montemurlo e del fatale 1216, in cui sarebbe stato gettato il mal seme delle lotte fra guelfi e ghibellini.

Nel suo sentire aristocratico, la storia di F. è per D., essenzialmente, quella delle sue grandi casate, una quarantina circa, che egli vien nominando nei canti di Cacciaguida (Pd XV e XVI). Esse rappresentano, in compendio, la storia di F., quale la poteva concepire appunto un aristocratico, di scarsa potenzialità economica familiare e personale, in una società evolventesi verso forme di oligarchia plutocratica, mercantile e industriale, e nella quale decadono molte delle vecchie casate e ne emergono delle nuove. Per queste ultime D. ha poca comprensione umana e meno ancora storica. Quella gente di Campi, di Certaldo e di Fegghine, quel puzzo / del villan d'Aguglion, di quel di Signa (Pd XVI 50 e 55-56) era pur quella gente che aveva dato e avrebbe continuato a dare a F. ricchezza e potenza, le linfe di una splendida civiltà. Ma D. non ha occhi per questo processo storico, che a lui si presenta, al contrario, come un processo di decadenza dalla sana, austera F. antica alla F. dei suoi giorni, quella della gente nuova e dei sùbiti guadagni (If XVI 73): parallelismo singolare con l'analogo processo di decadenza e corruzione, che D. vede nella storia della Chiesa romana.

Bibl. - L'opera fondamentale rimane quella del Davidsohn, Storia. Del medesimo Davidsohn importanti anche i 4 volumi di Forschungen. Da non dimenticare, tuttavia, G. Salvemini, Magnati e popolani in F. dal 1280 al 1295, Firenze 1899 (Torino 19602; Milano 19663) e N. Ottokar, Il comune di F. alla fine del Dugento, Firenze 1926 (Torino 19622). Meno importante B. Stahl, Adel und Volk im Florentiner Dugento, Colonia-Graz 1965. Sono sempre da tener presenti i vecchi lavori di I. Del Lungo, D. nei tempi di D., Bologna 1888; Dal secolo e dal poema di D., ibid 1898; Dino Compagni e la sua cronica, Firenze 1879-1887. Inoltre M. Barbi, L'ordinamento della repubblica fiorentina e la vita politica di D., in Problemi I; ID., Guido Cavalcanti e D. di fronte al governo popolare, ibid II; N. Rubinstein, La lotta contro i magnati a F. La prima legge sul " sodamento " e la pace del cardinale Latino, in " Arch. Stor. Ital. " XCIII (1935) II 161-172; O. Zenatti, D. e F., Firenze 1903; G. Salvemini, F. ai tempi di D., in Studi in onore di Armando Sapori, Milano 1957, 1467-482; E. Sestan, D. e F., nel vol. Italia medievale, Napoli 1966, 270-291. Per D. in rapporto con la storia di F. e in genere di fronte alla storia, qualche indicazione in E. Sestan, D. e il mondo della storia, nel vol. cit. Italia medievale, 313-333 e G. Aquilecchia, D. and the Fiorentine Chronicles, in " Bulletin of the Rylands Library " XLVIII (1965) 46-51.

L'Aspetto urbano di Firenze dai tempi di Cacciaguida a quelli di Dante. - La trasformazione profonda fra la Firenze dentro de la cerchia antica di Cacciaguida e la gran villa di D., da D. stesso ripetutamente messa in risalto per il grande divario dei costumi e del modo di vivere del popolo fiorentino nei due diversi momenti, si ebbe, naturalmente, vastissima, anzi quasi totale, anche nell'aspetto esteriore della città; una città che da nucleo abitato come tanti altri, e non tra i maggiori, era divenuta in meno di due secoli, con ascesa prodigiosa, la più ricca metropoli del mondo allora conosciuto. È da notare, però, subito, come entrambi i periodi di anni che c'interessano - la prima metà del XII secolo e la fine del secolo XIII - ebbero una caratteristica comune: Cacciaguida dové esser testimone del principio di quella trasformazione urbana, per il momento ancora discreta e moderata, ma che, divenuta in seguito vertiginosa, quasi frenetica, porterà, in pochi decenni, alla grande F. del Duecento; D. vide l'inizio del modificarsi, in modo radicale, di questa F. duecentesca verso una città di più largo respiro, che poi, pur attraverso il sorgere di nuovi grandi edifici monumentali nel Rinascimento e il cambiarsi di antiche costruzioni secondo il gusto dei tempi, rimarrà, nel suo complesso, inalterata nei secoli, fino agli sciagurati sventramenti dell'antico centro cittadino condotti a termine negli ultimi decenni del secolo scorso - sconvenientemente ricordati ancora da una bugiarda iscrizione - e fino alle disastrose distruzioni dell'ultima guerra.

Quale sia stata la F. dell'età feudale, prima che le libertà comunali cominciassero ad apportare, con i commerci e le risorgenti industrie, ricchezze e prosperità, non è dato di sapere. I rapidi e completi cambiamenti della città, di cui abbiamo già fatto cenno, tutto hanno modificato o distrutto, e si può dire che nulla si sia conservato dei più lontani tempi, se si fa eccezione del Battistero, che aveva però allora un aspetto ben differente dell'attuale, senza il rivestimento di marmi bicromi. Si può tuttavia supporre che case di abitazione ed edifici non molto elevati si addensassero dentro le mura, intorno a due sole piazze di una certa estensione - il mercato vecchio, l'antico forum della città romana, e la piazza del duomo, del battistero, del palazzo vescovile - e vicino a chiese di non eccessiva altezza, se si eccettuano, appunto, la cattedrale di S. Reparata e il bel San Giovanni. Fuori della città, nei borghi, dove lo spazio non mancava, come nel centro murato, dovevano emergere, tra le case, chiese presumibilmente di maggior grandezza, come la vetusta basilica ambrosiana di San Lorenzo, i Ss. Apostoli, S. Ambrogio; oltrarno, S. Felicita, presso un antichissimo cimitero cristiano, e S. Felice.

Il risorgere della città, dal grande decadimento dei secoli dell'alto Medioevo, doveva in ogni modo essere già avanzato nel X secolo, se F. e Pisa - forse per conoscenza dei loro commerci - sono le due sole città della Toscana ricordate nel grande lessico, che va sotto il nome di Suida e che fu compilato circa l'anno 1000, sebbene altre antiche città della regione, come Siena, Arezzo, Pistoia e soprattutto Lucca, non mancassero certo di avere importanza. Del resto una tradizione, già raccolta dai cronisti più antichi, fa risalire al tempo di Carlomagno, e precisamente all'anno 801, quella costruzione della prima cerchia delle mura che fu certo indice della ripresa della città e segnò l'inizio delle nuove fortune; e se è pur vero che a convalida di questo non esiste alcuna testimonianza sicura, è vero anche, d'altra parte, come non si possa non tener conto che qualora questa costruzione fosse avvenuta in tempi ormai maggiormente documentati, quali sono gli anni dal principio del secondo millennio, qualche testimonianza sarebbe giunta a noi, com'è avvenuto, appunto, per la seconda cerchia delle mura. Si può quindi ritenere come probabile una datazione al IX secolo della prima cerchia delle mura medievali (restano però da chiarire perplessità che possono sorgere, a tal proposito, da un documento, a cui per primo fa cenno il Del Migliore - Firenze città nobilissima, 1684, p. 375 - secondo il quale la chiesa di S. Benedetto, che si eleva all'interno della prima cerchia e all'esterno invece della cerchia bizantina, di cui diremo tra breve, sarebbe detta, ancora nell'anno 1002, " extra muros civitatis Florentiae ").

Comunque stiano le cose, è certo che già nel X secolo - e probabilmente anche nel IX - quindi molto più, poi, durante il secolo XI, la città si arricchiva di monumenti di notevole importanza e di grande bellezza; per limitarsi solo ai maggiori, dentro la cerchia delle mura, mentre si rinnovava, in forme che gli scavi odierni ci mostrano magnifiche e grandiose, la cattedrale di S. Reparata, si edificavano altre chiese anche di considerevole ampiezza come la Badia (978) e S. Pier Scheraggio (1068); e vicino a S. Reparata si costruiva il maggior ospedale del tempo dedicato a s. Giovanni Evangelista (circa 1040). Nei borghi, in prossimità delle mura, sorgeva S. Trinita (già costruita nel 1077), mentre venivano rinnovate, in forme di maggiore ampiezza, S. Lorenzo (consacrata nel 1060), S. Pier Maggiore (1067), splendida e importante costruzione andata poi purtroppo distrutta nel XVIII secolo, i SS. Apostoli (prime notizie nel 1075); più lontano era edificata l'abbazia di San Salvi (1048). Oltrarno si rinnovava S. Felicita (1056), e su una collina, nelle immediate vicinanze della città, appariva S. Miniato al Monte (consacrata nel 1018). Ed è inoltre da ricordare che nella vicina Fiesole, la quale, se pur in rivalità e spesso in aperto contrasto, non poteva però non essere partecipe del nuovo benessere e della crescente floridezza fiorentina, si dava inizio, allora, alla costruzione di un edificio dell'importanza del nuovo duomo (consacrato nel 1032), mentre contemporaneamente, più in basso, sulle rovine della vecchia cattedrale, sorgeva la Badia fiesolana.

Non si deve quindi ritenere, come potrebbero far supporre i versi della Commedia - dettati certo più che dalla ragione, dal sentimento e da prevenzioni di parte, come angosciato sfogo di chi, per il nuovo corso degli eventi, aveva perso e patria, e casa, e averi - che la F. di Cacciaguida fosse una città priva, o quasi, di fabbriche monumentali quale poteva ben addirsi a cittadini che trascorrevano una tranquilla esistenza in maniera semplice e frugale; in essa la vita forse si svolgeva ancora ‛ sobria e pudica ', e certo, in ogni modo, ben differente da quella che si ebbe alla fine del Duecento; ma ricchezze già affluivano in riva all'Arno, e con queste il desiderio, almeno per gli edifici di culto, di maggior maestosità, mentre la meravigliosa avventura nell'arte, che avrebbe, nei secoli futuri, fatta la gloria di F., già stava producendo - e proprio negli edifici monumentali - fulgidi germogli. Del resto, se un documento del 1119 ricorda un " Angelus magister marmoreae artis Florentinae civitatis ", vuol dire che in F. fioriva allora la professione dei marmorari, cosa che sarebbe da considerarsi assurda in una città priva d'interessi artistici e di architettura monumentale; e se nello stesso tempo il monaco Donizone chiama " florida Florentia ", con un giuoco eufonico di parole che ricorda il più tardo " Fiorenza fior che sempre rinnovella " di Guittone di Arezzo; e se gli aggettivi ‛ felice ' e ‛ florida ' sono poi più volte ripetuti da altri scrittori per F., e se infine il geografo arabo Edrisi, che visitò l'Italia dal 1139 al 1154 e che nei suoi giudizi fu sempre molto parco di aggettivi laudatori, disse la città " molto popolosa ", tutto questo vuol dire che nella prima metà del XII secolo - proprio al tempo cioè di Cacciaguida - F. si distingueva ormai tra le altre città per particolare floridezza.

Il circuito della prima cerchia delle mura seguiva, salvo lievi varianti e un considerevole ampliamento verso l'Arno, il tracciato delle mura romane; ma al tempo di Cacciaguida si dovevano, presumibilmente, vedere ancora chiare vestigia di un più ristretto cerchio di mura costruito dai Bizantini, se il ricordo della loro esistenza non si era ancora perduto quando scriveva Ricordano Malispini, che ci dà, del tracciato di esse, un'esatta descrizione (poca importanza ha il fatto che egli cada nel facilmente comprensibile errore di credere questa cerchia di minore ampiezza esser quella della città romana, pur facendo presente che " sono di quelli che vogliono dire " - ed erano nella ragione nel dir così - " ch'ella fu di minore cerchio che di prima "; e il Villani, che pur non descrive, e sembra anzi ignorare, questo ristretto giro delle mura bizantine, parlando invece della prima cerchia medievale ci fa sapere [III 1] che era " non però della grandezza ch'era stata in prima, ma di minore sito " di quella romana " ch'ell'era grandissima "). Si conserva dunque, nei tempi in cui venivano scritte le cronache del Malispini e del Villani, un chiaro ricordo di due cerchia di mura, per le quali i due cronisti danno differenti spiegazioni, errando entrambi, ma in modo molto più grave il Villani. (È qui appena il caso di accennare che nessuna importanza ha, per quel che si riferisce al nostro argomento, la polemica sulla priorità o meno della cronaca del Malispini rispetto a quella del Villani; le differenti interpretazioni di un dato di fatto conosciuto, quali si leggono nelle due cronache, non hanno infatti alcuna relazione con il tempo in cui, tali cronache vennero scritte; va detto però come sia invece cosa di eccezionale importanza poter sapere che gl'importantissimi fatti urbanistici accaduti a F. negli ultimi anni del quinto decennio e nel sesto decennio del XIII secolo, dei quali dovremo ampiamente discorrere, ci vengono descritti non come fatti di cui si era tramandato il ricordo, ma da chi, come Ricordano Malispini, ne dové essere testimone oculare).

Il circuito delle mura bizantine, molto più angusto e raccolto rispetto all'antica cerchia romana, fu certo costruito in previsione, o al tempo, delle guerre tra Bizantini e Goti (535-553), quando l'impoverita e disertata città, divenuta uno dei centri di lotta per la sua importanza strategica e resa quindi quasi una roccaforte militare con doppio ordine di mura a protezione, venne contesa a lungo dalle due parti e fu dai due eserciti espugnata e riperduta. Del resto è credibile che ancora oggi residui di questa fortificazione bizantina possano additarsi in una torre cilindrica che s'innalza sulla piazzuola di S. Elisabetta (divenuta poi campanile della chiesa di S. Michele in Palchetto o delle Trombe, e, ancora nel Quattrocento, di altezza molto maggiore di ora come si vede in un disegno di Marco Rustici) e nei resti di altra torre della stessa forma (segnalatami da Giuseppe Marchini) che si può appena intravvedere dal chiasso del Cornino in quell'insieme di costruzioni a cui fu dato il nome di Capaccio; e questo sia per la forma cilindrica delle due torri, forma del tutto inconsueta a Firenze e propria invece dell'architettura romana e romano-bizantina (già le torri delle porte delle mura romane di F. avevano avuto forma cilindrica) sia specialmente per la loro ubicazione concordante con il tracciato di mura che ricorda il Malispini e la cui esattezza è stata di recente accertata.

Ma tornando a parlare della prima cerchia medievale - la cerchia della F. di Cacciaguida - le mura, partendo in prossimità dell'Arno dal castello di Altafronte, che costituiva la roccaforte della città, correvano lungo le attuali vie dei Castellani e dei Leoni e la piazza S. Firenze (in tutto questo tratto, un poco più a ovest del tracciato romano); quindi seguivano la via del Proconsolo, e, dall'angolo di questa via con l'attuale piazza del duomo, formando un angolo ottuso, tagliavano in diagonale questa piazza (divergendo di nuovo, lievemente, dalla rettangolare cerchia romana) a tergo della chiesa di S. Reparata. Il corso riprendeva con il lato nord delle odierne piazze del duomo e di S. Giovanni, quindi per via Cerretani giungeva all'angolo di via Rondinelli, che veniva seguita, formando le mura un nuovo angolo ottuso (con altra lieve divergenza dal tracciato romano) per andare verso l'Arno lungo la via Tornabuoni e la piazza di S. Trinita; di qui volgeva quasi parallela al corso del fiume, lasciando all'esterno il borgo Ss. Apostoli, fino a ricongiungersi, tagliando a mezzo l'attuale fabbricato degli Uffizi, con il castello di Altafronte. E da questo lato si ebbe un notevole ampliamento, rispetto al tracciato romano, che correva più a nord all'altezza del lato settentrionale di via Vacchereccia (ma nella F. romana già erano stati costruiti edifici, da questo lato della città, anche di carattere pubblico, fuori delle mura). Quattro porte principali si aprivano in questa cerchia: ai due capi dell'antico decumano della città romana, costituito dall'odierna via Strozzi e dal Corso, erano la porta S. Pancrazio a occidente e la porta S. Piero verso oriente; a nord, sulla piazza della cattedrale, all'estremità del cardo romano, la porta del Vescovo o del Duomo; dal lato opposto, a mezzogiorno, verso l'Arno, era la porta S. Maria, la sola spostata rispetto alle porte romane, per l'ampliamento, da questo lato, della città. Vi erano inoltre diverse postierle (la toponomastica fiorentina, nel nome di via Portarossa, conserva ancora, di una, il ricordo) che si aprivano, come le porte maggiori, verso i borghi, certo già estesi e dilatati al tempo di Cacciaguida; di alcuni rimane tutt'oggi memoria nei nomi di strade: il borgo S. Lorenzo fuor della porta al Vescovo; il borgo degli Albizzi, detto allora di S. Pietro, che si estendeva al di là della porta omonima; il borgo, detto in seguito dei Greci, fuor di una postierla chiamata Peruzza, e il borgo SS. Apostoli, che, per la vicinanza dell'Arno, non si protendeva, come gli altri, verso la campagna, ma costeggiava le mura. Oltrarno, di là dall'unico ponte allora esistente (quello che fu poi detto, appunto per la sua antichità e in relazione agli altri, ponte Vecchio), in zona dove già al tempo romano esistevano abitazioni, dovevano fiorire, fin da tempi molto antichi, borghi lungo le rive dell'Arno e verso la campagna: quei borghi che si troveranno poi indicati con i nomi di San Iacopo (ne rimane il ricordo nella toponomastica cittadina), le cui case si estendevano parallele al fiume verso occidente; Pidiglioso, lungo il fiume ma verso oriente; di Piazza, che si allungava di là dal ponte, perpendicolarmente, verso l'aperta campagna.

Quale poteva essere l'aspetto della città entro questa cerchia di mura, nella prima metà del XII secolo, al tempo di Cacciaguida? Non vi è dubbio che il rinnovamento edilizio, determinato dal continuo accrescersi della floridezza della città, aveva avuto inizio da oltre cento anni, come già si è accennato. Ma questo rinnovamento non doveva però avere preso ancora quel carattere di vertiginosa e frenetica corsa a ricostruzioni e riedificazioni che sarà particolare e caratteristico degli ultimi decenni del XII secolo e della prima metà del secolo seguente; sembra esserne prova il fatto che quando nel 1170 - quindi oltre venti anni dopo la morte di Cacciaguida - si decretò la costruzione della seconda cerchia delle mura (nell'errore, rivelato dai documenti, in cui caddero il Malispini, il Villani e altri cronisti, che ascrivono questa costruzione all'anno 1078, non incorse D., se considerò giustamente Cacciaguida vissuto al tempo della prima cerchia), venne disposto solo un mediocre aumento della superficie della città murata, limitandosi a includere in essa, oltre i già popolosi borghi, le non molte zone di terra libera tra questi esistenti; e se pur si deve tener conto come fosse opportuno non allargar troppo la cerchia delle mura per ragioni strategiche di difesa, è però certo che un simile provvedimento sarebbe stato assurdo se la crescita della popolazione fosse già stata così imponente come lo fu, appunto, qualche decennio dopo, fino a giungere a essere, a quel che ci fa sapere lo stesso D., ben cinque volte maggiore, al tempo suo, del tempo di Cacciaguida. Non si dové avere quindi ancora, appunto al tempo di Cacciaguida, quel fenomeno, indice e prodotto di un grandioso sviluppo economico, che portò all'innalzarsi a dismisura degli edifici in case torri, fino a raggiungere, dai più elevati, l'altezza di 130 braccia (quasi 76 m.); e questo sia per la mancanza di spazio, nel centro urbano, sia per il sorgere di sanguinose lotte intestine e il loro continuo furente accrescersi, per cui era opportuno che le abitazioni fossero simili a fortezze.

Cacciaguida dové dunque vedere una città che, dentro le mura e nei borghi, si abbelliva di nuovi importanti edifici monumentali, di alcuni dei quali abbiamo già fatto parola; ma non dové essere dei suoi tempi la città irta di ben centocinquanta torri che si alzavano sempre più alte verso il cielo e che doveva avere un aspetto veramente favoloso, quale oggi è difficile anche solamente immaginare, ma che ebbe esistenza brevissima, di appena un mezzo secolo, come vedremo.

Al tempo del bisavolo di D., invece, l'aspetto antico della città non doveva ancora esser molto cambiato; la piazza del Mercato Vecchio, centro della vita economica e cuore della città, già doveva essere sulla via di diventare, economicamente, " al mondo alimento ", come dirà nel Trecento Antonio Pucci; ma nella sua struttura forse non aveva ancora avuto cambiamenti notevoli. Nella piazza della cattedrale, invece, ai tre edifici esistenti del duomo, del battistero e del vescovado, si era aggiunto - già si è detto - l'ospedale di S. Giovanni Evangelista. Per il resto case e palazzi si dovevano allineare lungo strade strette e anguste per la maggior parte. Davanti alle chiese, in genere di mediocre grandezza (simili a quel S. Martino al Vescovo che fu parrocchia di D. e della cui facciata sono tornati alla luce, in questi ultimi anni, notevoli resti, mentre vestigia della muraglia del fianco di sinistra si possono scorgere nell'attuale sede della congregazione dei Buonomini), erano piazzuole quali ancora si vedono davanti a S. Maria Maggiore, o a chiese del secondo cerchio, ma già allora esistenti, come S. Remigio, i SS. Apostoli, S. Stefano al ponte, S. Maria in Campo, S. Pancrazio e altre ancora. Nei borghi la popolazione doveva essere già aumentata notevolmente e le abitazioni, per allora modeste eccetto che nelle vicinanze delle porte, si andavano addensando sempre più intorno alle numerose chiese.

La seconda cerchia delle mura, la cui costruzione, decretata nel 1170, ebbe inizio nel 1172 e fu condotta a termine in appena due anni, partendo, a meridione, dalla porta S. Piero, alquanto spostata rispetto alla vecchia dello stesso nome e situata ora al termine dell'odierno borgo degli Albizi, volgeva verso nord-ovest per le attuali via di S. Egidio, Bufalini, dei Pucci e dei Gori; quindi seguiva il lato settentrionale della piazza S. Lorenzo, dov'era una delle porte principali della città, e giungeva al Canto dei Nelli; di qui, piegava a occidente verso l'Arno, per piazza Madonna, via del Giglio e la via dei Fossi, che però rimaneva all'esterno (e il nome di quest'ultima strada tramanda ancora il ricordo dei fossati che correvano appunto lungo le mura). In questo tratto vi era un'altra delle porte principali della città, la porta a S. Paolo, che prendeva il nome dall'antico monastero esistente poco oltre le mura. La terza delle maggiori porte - la porta alla Carraia - era in prossimità dell'Arno, là dove le mura piegavano verso meridione e correvano in vicinanza del fiume, ad esso, fino al castello di Altafronte, parallele; in tutto questo tratto esse avevano un'altezza minore e lasciavano un varco per passare sul ponte Vecchio, essendo stata demolita l'antica e non più utile porta S. Maria, dato che la città si estendeva, ormai, anche oltrarno. Dal castello di Altafronte le mura, avendo ripresa la loro maggior altezza, volgevano verso oriente e, traversando l'attuale piazza Mentana, giungevano all'odierna via dei Benci, dove, all'incrocio con l'attuale via dei Neri, era l'ultima delle porte maggiori, la porta dei Buoi che fu poi detta da Quona (la chiesa di S. Iacopo tra i fossi ricorda ancora, nella toponomastica fiorentina, che qui correvano le mura). La via dei Benci, il lato nord-ovest della piazza S. Croce, la via Verdi (che aveva in passato il nome di esplicita evidenza di via del Fosso) indicano il tracciato rettilineo di questo tratto delle mura fino a raggiungere la porta S. Piero. Oltre alle cinque porte principali ricordate (una per ognuno dei cinque sestieri di qua d'Arno, in cui era divisa ora la città) si aprivano nelle mura - a eccezione del tratto lungo il fiume - numerose altre postierle, che si andarono sempre più accrescendo con il passare del tempo.

L'ultimo sestiere era costituito dagli abitanti di oltrarno; qui non furono costruite per allora mura, ma gli antichi borghi - considerati ora parte integrale della città, come ci fanno sapere i documenti - ebbero però al loro termine porte, mentre da mura servivano, secondo quanto ci dicono i più antichi cronisti, i " dossi " delle case, e cioè le parti tergali delle costruzioni che si affacciavano sull'aperta campagna. In fondo al vecchio borgo Pidiglioso fu costruita la porta a Roma (posta nell'attuale via dei Bardi, all'altezza della chiesa di S. Lucia dei Magnoli; di qui per il Valdarno e Arezzo si andava appunto a Roma); il borgo di Piazza ebbe, al suo limite, una porta probabilmente dello stesso nome (dove è ora la piazza S. Felice); e infine il borgo S. lacopo fu protetto da una porta che aveva anch'essa, com'è probabile, lo stesso nome, o il nome di S. Frediano, e che era nel luogo dell'attuale piazza Frescobaldi. Ma di là dalle porte già si estendevano altri caseggiati, se nel 1159 si ha ricordo del borgo S. Ferdiano; e abitazioni esistevano, fuori delle mura, anche intorno alla chiesa di S. Niccolò.

Siamo agli ultimi decenni del secolo XII. La gente nuova scende ormai sempre più numerosa nella ricchissima città; e non si tratta solo di artigiani e di operai (di questi, anzi, si cercava di limitare l'afflusso) ma anche di uomini ricchi e potenti, pronti e decisi a entrare nel vivo degli affari e dei commerci, agognanti alle cariche pubbliche e al governo della città. Parte di essi poterono acquistare edifici entro la prima cerchia delle mura, o subito all'esterno, nelle vicinanze delle vecchie porte, da antiche famiglie nobili; ma altri si stabilirono nelle zone della recente seconda cerchia e nell'ormai fiorente sestiere di Oltrarno, dove era possibile avere a disposizione maggior spazio per i nuovi edifici. E ha inizio così la vertiginosa e sbalorditiva trasformazione della città, a cui abbiamo già fatto cenno. Al centro, appunto all'interno della prima cerchia delle mura e nelle immediate vicinanze delle antiche porte, dove, nel poco spazio, le case si addossavano le une alle altre, le costruzioni si eleveranno sempre più in alto, come già si è detto; nelle zone più periferiche della seconda cerchia e oltrarno, dove pur non mancavano torri altissime, si avranno però, anche, ampli palazzi, mentre vicino ai nuovi edifici si conserveranno alle volte larghi spazi a verde (i bellissimi disegni delle chiese fiorentine, eseguiti alla metà del XV secolo da Marco Rustici, ci documentano chiaramente, per questo lato, una ben netta diversità tra le costruzioni comprese nella prima cerchia e quelle della seconda). In quanto agli artigiani e alla plebe, cacciati non infrequentemente dai vecchi borghi di qua e di là d'Arno divenuti ora zone appetibili per i ricchi, si riverseranno in gran parte fuori delle nuove mura, dando così immediatamente inizio alla costituzione di nuovi borghi, divenuti subito intensamente abitati; di diversi la toponomastica fiorentina conserva ancora i nomi: Borgognissanti, borgo la Noce, borgo Pinti, borgo Allegri, borgo la Croce, borgo S. Croce, di qua d'Arno; borgo Stella, borgo Tegolaio e il già ricordato popoloso borgo S. Frediano, oltrarno.

Così la città cresceva a dismisura, e fu necessario pertanto provvedere a congiungere le due zone abitate di qua e di là d'Arno non più con un sol ponte, com'era stato per tredici secoli; di conseguenza al ponte Vecchio si andarono affiancando, in appena trentaquattro anni, il ponte alla Carraia, costruito tra il 1218 e il 1220, il ponte a Rubaconte, detto poi alle Grazie; che è del 1237, e, infine, nel 1252, il ponte a S. Trinita.

Questa F. della prima metà del XIII secolo, con la sua selva di oltre centocinquanta altissime torri racchiuse in piccolissimo spazio (il numero tramandatoci dai più antichi cronisti, se pure con evidente errore, per tempi più remoti, non deve meravigliare quando si rifletta che all'inizio del Cinquecento si contavano in F. ben duecentottantaquattro tra torri e campanili di chiese), doveva apparire come oggi non è facile immaginare neppure affidandosi alla più libera fantasia: " per l'altezza delle molte torri, ch'erano allora in Firenze, si dice ch'ella si mostrava da lungi e di fuori la più bella e rigogliosa città del suo piccolo sito che si trovasse " (G. Villani III 3, e con parole simili il Malispini e altri cronisti); cambiate le proporzioni - le torri, già si è detto, raggiungevano l'altezza di 130 braccia, circa 76 metri - quasi la Downtown Manhattan di New York, però con molte più torri, ristrette in molto più ridotto spazio. Ma come fulminea era stata la sua crescita, brevissima fu la sua vita e improvvisa o quasi la fine, quando nel 1250, al tempo del primo popolo, nel tentativo di porre un limite alle lotte fratricide che dilaniavano la città, fu decretato che tutte le torri fossero abbattute in parte e abbassate, non dovendo superare l'altezza di cinquanta braccia (poco più di 29 metri; nel 1313, per quanto non esistesse ormai più la necessità di costruire sovrastanti torri, essendo venuta meno la loro predominante importanza nelle lotte cittadine, sussistevano però ancora disposizioni che vietavano la costruzione di edifici privati di altezza maggiore, appunto, di cinquanta braccia). D'altra parte la triste usanza di abbattere completamente le abitazioni dei nemici politici aveva già avuto inizio due anni avanti, quando i ghibellini vittoriosi fecero precipitare a terra palazzi e torri dei guelfi " che [come ci dice il Villani VI 33] poiché la città di Firenze fu rifatta, non v'era disfatta casa niuna, e allora si cominciò la detta maledizione di disfarle... ". E così pochi anni dopo, nel 1258, fu la volta delle torri e dei palazzi degli stessi ghibellini a essere rasi al suolo; e tanto fu il pietrame di ricupero ottenuto, sia qualche anno avanti con l'abbassamento delle torri, sia ora con le distruzioni delle case dei ghibellini, che fu possibile con esso provvedere alla costruzione di vere mura a protezione del sestiere di oltrarno.

Queste mura avevano inizio dalla riva del fiume, all'incirca dov'è ora il palazzo Serristori; correvano poi, e ne restano le tracce, lungo quel tratto dell'odierna via del giardino Serristori che è perpendicolare all'Arno, per giungere a una porta che era " di sopra presso a S. Niccolò ", rimanendo quindi la chiesa inclusa dentro la cerchia; salivano quindi il colle di S. Giorgio per evitare che la città, in piano, al basso, potesse rimanere vulnerabile dall'immediatamente sovrastante altura (questo tratto dell'antica cinta, che fu mantenuto anche nella più tarda cerchia, e solo reso più alto, sussiste ancora; in esso la porta a S. Miniato, tutt'oggi conservata, fu però aperta posteriormente). In cima al colle venne costruita, nel 1260, la porta a San Giorgio, ancora esistente, e che è perciò la più antica delle porte della città. Da qui le mura continuavano, prolungandosi sulla cresta del poggio, all'incirca fino a dove è ora il Forte di Belvedere; quindi discendevano per il colle di Boboli per raggiungere l'attuale via Romana " ne' confini del popolo di S. Felice in piazza e quello di S. Piero Gattolino ", dove si aveva una porta detta di Piazza (perciò l'antica chiesa di S. Felice rimase questa volta inclusa nella cerchia); si estendevano poi circa dov'è l'odierna via del Campuccio per raggiungere la via de' Serragli, in questo tratto chiamata allora via Chiara (e qui fu aperta nel 1290 una porta che ebbe il nome da Giano della Bella). La via dei Serragli era da questo punto seguita, rimanendo all'esterno delle mura la zona dove dieci anni più tardi sarebbe stata fondata la chiesa del Carmine; subito dopo si doveva avere una svolta verso ovest, rimanendo probabilmente all'interno della cinta il borgo Stella (così come era restato incluso il borgo Tegolaio) e sicuramente una parte del borgo S. Frediano compresa la stessa chiesa, che è ricordata appunto come " messa dentro ". E qui si ebbe una nuova porta a S. Friano.

Nel centro della città, intanto, veniva innalzato, nel 1255, il primo grande palazzo pubblico, il palazzo del capitano del popolo (poi del podestà e quindi del Bargello) quasi a mostrare l'apice di potenza a cui era giunta la repubblica fiorentina e a dichiarare apertamente l'orgoglioso concetto che di questa dominante potenza i cittadini di F. avevano.

Già dodici anni prima, quando nel 1243 fu rinnovata dalle fondamenta la chiesa di S. Simone - costruita appena da cinquantun anni, nel 1192, ma la trasformazione degli edifici era, come si è detto, continua e rapidissima - si era potuto scrivere, in una lapide ancora oggi esistente, che F. è " prae qualibet urbe latina "; ma ora, nel marmo murato sulla facciata del nuovo palazzo pubblico, in un'iscrizione che si ritiene dettata da Brunetto Latini, la tracotante superbia di chi si sentiva superiore a tutti per dominio economico e finanziario (tre anni avanti era stato coniato il fiorino d'oro, che doveva diventare subito " quasi moneta comune del cristianesimo ", come dirà il Villani) non sembra avere più limiti: " ... cunctorum Florentia plena bonorum; hostes devicit bello magnoque tumultu; gaudet fortuna, signis populoque potenti; firmat, emit, fervens sternit nunc castra salute; quae mare, quae terram, quae totum possidet orbem; per quam regnantem fit felix Tuscia tota; tamquam Roma sedet semper ductura triumphos; omnia discernit certo sub iure conhercens... ". E vittoria il fiero e fiducioso ‛ primo popolo ', inconsapevole di un ben diverso futuro, s'illudeva, allora, di avere ottenuta, innanzi tutto, sulle fazioni cittadine: la torre del palazzo del capitano del popolo - che alcuni anni dopo, nel 1267, sarà chiamata la Volognana - si ergeva ora con i suoi cinquantasette metri (quanta modesta altezza, però, rispetto ai quasi settantasei metri delle tante torri che appena cinque anni avanti germogliavano nella città !) a dominare le scapezzate abitazioni dei cittadini privati.

La F. che D. vide nella sua puerizia e nella prima giovinezza - e riportiamo così quanto finora abbiamo detto all'argomento che più c'interessa - era dunque una città di un'opulenza e di un prestigio fieri e superbi, ma che, nel suo antico centro, aveva perduto, con l'abbassamento di tutte le torri e con la completa distruzione di un gran numero di caseggiati, la peculiare caratteristica del primo periodo aureo della sua grande floridezza. E a tal proposito va tenuto bene a mente che, durante le lotte cittadine, non si abbattevano e si distruggevano edifici di scarsa importanza, ma i palazzi più belli e le più belle torri, appartenenti alle più ricche famiglie, come le parole del Malispini e del Villani per le clamorose rovine, decretate dai ghibellini nelle prime distruzioni del 1248, pur nel non sopito astio di guelfi verso antichi avversari, ci possono testimoniare:

" I ghibellini... feciono disfare da trentasei fortezze de' guelfi [il Malispini dice ventitré], che palagi e grandi torri, intra le quali fu la più nobile quella de' Tosinghi in su Mercato vecchio, chiamato il Palazzo, alto novanta braccia, fatto a colonnelli di marmo; e una torre con esso alta centotrenta braccia. Ancora mostraro i ghibellini maggiore empiezza: per cagione che i guelfi faceano di loro molto capo alla chiesa di San Giovanni [il Battistero], e tutta la buona gente v'usava la domenica mattina, e faceansi i matrimoni, quando vennero a disfare le torri de' guelfi, intra l'altre una molto grande e bella, ch'era in sulla piazza di San Giovanni all'entrare del corso degli Adimari, e chiamavasi la torre del guardamorto, perocché anticamente tutta la buona gente che moria si soppelliva a San Giovanni; i ghibellini faccendo tagliare dal piè la detta torre, sì la feciono puntellare per modo che, quando si mettesse il fuoco a' puntelli, cadesse in sulla chiesa di San Giovanni; e così fu fatto. Ma come piacque a Dio, per reverenza e miracolo del beato Giovanni, la torre, ch'era alta centoventi braccia, parve manifestamente, quando venne a cadere, ch'ella schifasse la Santa Chiesa, e rivolsesi, e cadde per lo diritto della piazza, onde tutti i Fiorentini si maravigliaro, e il popolo ne fu molto allegro " (G. Villani VI 33).

Contemporaneamente a queste distruzioni si aveva però l'inizio di un nuovo importantissimo fenomeno urbanistico, che D., negli ultimi anni del secolo, avrebbe poi veduto sempre più svilupparsi e che venne a dare alla città l'aspetto conservato in seguito per secoli. Nei nuovi borghi, di qua e di là d'Arno, dove si riversava la popolazione sempre crescente, che non poteva esser contenuta nella città murata, non si costruiva più, ora, cercando di sfruttare al massimo il poco spazio a disposizione, così com'era avvenuto nel tempo passato, anche se accanto a edifici della seconda cerchia si erano qualche volta lasciate - già si è detto - zone a verde; adesso palazzi, case, ospedali (la costruzione del famoso ospedale di Sangallo, andato poi purtroppo distrutto per l'assedio di F., è del 1218, e durante il XIII secolo si fabbricarono nella città e nei suoi dintorni non meno di ventiquattro ospedali) sorgevano ai lati di una rete viaria di più largo respiro, con strade non più strette e anguste come quelle di una volta, mentre sempre più numerose e ampie erano le zone lasciate a verde - e i cronisti ci hanno tramandato il ricordo di famosi giardini - a lato di nuove costruzioni. Contemporaneamente si dava inizio all'edificazione di grandi chiese, da parte degli, ordini monastici, di fronte alle quali non si avranno più le piccole piazzuole su cui prospettavano gli edifici di culto di un tempo, ma ampi spiazzati dove il popolo poteva, sostando, riunirsi, e non solo per ascoltare i sermoni che oratori ecclesiastici andavano ora tenendo, frequentemente, davanti alle folle. Già nel 1228 era ceduta ai francescani una piccola chiesa, S. Croce, che subito veniva ampliata, e fu poi ancor più accresciuta, insieme con il convento, nel 1252 (proprio ora stanno tornando alla luce, sotto il pavimento della chiesa arnolfiana, le vestigia di questo primo edificio dei seguaci di s. Francesco); pochi anni dopo, nel 1236, i cistercensi prendevano possesso sia del convento di S. Salvatore a Settimo, nei dintorni della città, sia della chiesa di San Frediano, edifici entrambi che venivano subito rinnovati nelle loro forme. Nel 1246 i domenicani provvedevano ad ampliare l'antica chiesa di S. Maria Novella, che era stata a loro affidata fino dal 1221; due anni dopo, nel 1248, i serviti mettevano mano alla costruzione del loro convento, e di lì a poco, nel 1251, cominciavano a edificare anche la chiesa della Ss. Annunziata. In questo stesso anno gli umiliati ponevano la prima pietra della chiesa di Ognissanti. Nel 1268 i carmelitani fondavano la loro chiesa, ampliata poi alla fine del secolo. L'anno seguente gli agostiniani, che avevano avuta in concessione diciotto anni prima la chiesa di S. Spirito, davano inizio a una nuova più ampia costruzione (andata poi distrutta nel Quattrocento per un incendio e riedificata dal Brunelleschi). Nel 1279 i domenicani rinnovano ancora il loro convento e la loro chiesa, dando a questa le magnifiche forme che ancora oggi si ammirano. E in tale lasso di tempo si ha pure il rinnovamento e l'ampliamento, da parte dei vallombrosani, della chiesa di S. Trinita e la riedificazione di S. Maria Maggiore. Un insieme quindi di costruzioni ecclesiastiche invero stupefacente, anche se questa nostra rassegna si sia dovuta limitare, forzatamente, ai soli edifici di maggiore importanza.

In questo tempo certamente si rinnovarono, o sorsero dalle fondamenta, anche numerosi palazzi, presso i quali si andava diffondendo l'uso di costruire logge - oggi quasi totalmente scomparse - che servivano come luogo di ritrovo e anche, nello stesso tempo, quale manifestazione pubblica di prestigio; ma quasi tutte le abitazioni delle più ricche famiglie furono in seguito rinnovate; e oggi si possono citare solo, per aver conservato la loro struttura duecentesca, se pure con ampi restauri e ripristini, il palazzo degli Spini (rinnovato dopo la rovina avvenuta nel dicembre del 1288 per un'inondazione delle acque dell'Arno) e quello, oltrarno, dei Mozzi, rimasto famoso per aver ospitato, in questo periodo di tempo, principi, cardinali e papi.

Va infine ricordato come nel 1237, al tempo del podestà Rubaconte da Mandello, " si lastricarono tutte le vie di Firenze, che prima ce n'avea poche lastricate, se non in certi singulari luoghi... per lo quale acconcio lavorio la cittade di Firenze divenne più netta e più bella e più sana ". Le lodi del Villani (VI 26) quasi sembrano l'eco di molti altri antichi scrittori - primo fra tutti il Malispini - plaudenti a un fatto che non aveva raffronto in altre città.

L'enorme e rapidissimo espandersi dei nuovi borghi rese presto necessario di prevedere una nuova cerchia di mura che potesse racchiudere, di qua e di là d'Arno, non solo quanto fino ad allora era stato costruito, ma anche ampi spazi per il futuro sviluppo di una sempre più grande città. E così nel 1284 fu decretata la costruzione di quella terza cerchia, di larghissimo respiro, che fu abbattuta in gran parte, purtroppo, nel secolo scorso - e completamente di qua d'Arno - quando al posto delle antiche mura della repubblica vennero tracciati gli odierni viali di circonvallazione. Può sembrare, veramente, che il progetto della terza cerchia peccasse di megalomania, se si pensi che il nuovo circuito di mura fu raggiunto e superato dalle abitazioni solo quando cinque secoli dopo, al tempo in cui F. fu capitale d'Italia, le mura stesse cadevano ormai sotto il piccone demolitore; e qualora si ricordi che, mentre con la seconda cerchia si era passati, dai ventitré ettari di superficie della prima, a ottanta ettari, il territorio della terza cerchia misurava invece ben seicentotrenta ettari. Ma occorre tener conto come si fosse avuto da poco l'ammaestramento di quanto era avvenuto con la costruzione della seconda cerchia, immediatamente risultata insufficiente alle necessità, e non si voleva di conseguenza cadere nello stesso errore. Le previsioni di una città futura che si sviluppasse in breve tempo in estensione molto più di quanto poi, in realtà, avvenne, non dovevano apparire allora avventate; non vi era ancora alcun segno che si potesse avere nel futuro - come poi accadde per essere entrate in competizione altre città e grandi nazioni in Europa - una minore intensità nel prodigioso sviluppo economico; e non si poteva specialmente prevedere che la disastrosa peste del 1348 si portasse via oltre la metà della popolazione. La città appariva invece allora " nel miglior stato e più felice che mai fosse stata da poi ch'ella fu edificata " (Villani VIII 39), tanto - dirà Antonio Pucci - " che par città non è sotto la luna ". Si pensi, per avere un'idea della F. di allora, che, nei primi decenni del Trecento, v'erano in essa, come ci fa sapere il Villani (XI 94) centodieci tra chiese e conventi, nonché trenta ospedali che potevano dar ricovero a più di mille infermi. Ed erano " i casamenti bellissimi, pieni di molte bisognevoli arti, oltre alle altre città d'Italia. Per la qual cosa molti di lontani paesi la vengono a vedere, non per necessità ma per bontà de' mestieri e arti, e per la bellezza e ornamento della città " (Compagni). E il Villani: " ell'era dentro bene situata e albergata di molte belle case, e al continovo in questi tempi s'edificava migliorando i lavori di fargli agiati e ricchi, recando di fuori begli esempi di ogni miglioramento; chiese cattedrali e di frati d'ogni regola, e magnifici monasteri... " (XI 94).

Inoltre si veniva anche a verificare un altro fenomeno che, almeno nell'ampiezza straordinaria avuta, fu particolare di Firenze. Se infatti cessava, per le ampie zone di terreno libero entro la terza cerchia delle mura, la necessità di costruire nuovi borghi fuori delle porte, la cambiata concezione del modo di vivere, tanto differente da quella semplice e austera di una volta, per l'accrescersi continuo di prosperità e floridezza, spronava i ricchi, nella vita di sfarzo e fasto a cui ci si andava sempre più abituando, ad avere, oltre uno splendido palazzo in F., anche una non meno bella e comoda costruzione - e molte volte non una sola - nei dintorni della città, dove poter godere, lontano dagli affanni e dai pensieri di ogni giorno, il riposo della campagna (" la maggior parte de' ricchi e nobili e agiati cittadini con loro famiglie stavano quattro mesi l'anno in contado, e tali più ": Villani XI 94). E sorsero così, sulla collina fiesolana, sugli altri colli che circondano F., e nel piano dell'Arno, dimore magnifiche, mentre le antiche case signorili, belle ma prive di comodità, venivano retrocesse a servire di abitazione per i contadini; il numero di queste nuove splendide residenze di campagna fu tale da destar la stupefatta ammirazione dei forestieri: " non v'era cittadino, popolano o grande, che non avesse edificato o che non edificasse in contado grande e ricca possessione, e abitura molto ricca, e con begli edifici, e molto meglio che in città; e in questo ciascuno ci peccava, e per le disordinate spese erano tenuti matti. E sì magnifica cosa era a vedere, che i forestieri, non usati a Firenze, venendo di fuore, i più credevano, per li ricchi edifici e belli palagi, ch'erano di fuori alla città d'intorno a tre miglia, che tutti fossono della città, a modo di Roma, sanza i ricchi palagi, torri, cortili e giardini murati più di lungi alla città, che in altre contrade sarebbono chiamate castella. Insomma si stimava che intorno alla città a sei miglia aveva tanti ricchi e nobili abituri che due Firenze non avrebbono tanti ". (Villani XI 94).

Questa è la F. che D. conobbe e amò fin dalla sua prima giovinezza; e in essa vide poi sorgere sempre nuovi edifici monumentali e chiese di eccezionale bellezza, o eseguire grandiose opere di utilità pubblica. Nel 1284 veniva rinnovata, probabilmente da Arnolfo, l'antica Badia; nello stesso anno, sull'area di un'antichissima chiesa demolita quasi cinquant'anni prima, si costruiva la loggia di Orsanmichele (andata poi distrutta nel 1304 per un incendio e sostituita dall'attuale cominciata a edificare nel 1337); sempre nel 1284, decretata la costruzione della nuova cerchia di mura, si dava mano a murare le quattro maggiori porte della città di qua d'Arno in forme grandiose e monumentali: la porta al Prato, la porta a Sangallo, la porta alla Croce, tutte ancora esistenti, e la porta a Faenza, che, occultata da soprastrutture nella Fortezza da Basso, sta proprio ora tornando alla luce. Due anni dopo, nel 1286, Folco Portinari fondava l'ospedale di S. Maria Nuova. Nel 1289 si dava inizio a grandiosi lavori per render più ampia la piazza del battistero e della cattedrale di S. Reparata, sia con il provvedere a una nuova lastricatura, rialzando il livello stradale, sia nel 1293, con il togliere " tutti i monumenti, sepolture e arche di marmo ch'erano intorno a San Giovanni, per più bellezza della Chiesa " (Villani VIII 3); in seguito - D. stesso farà udire la sua voce per questi lavori nel consiglio dei Cento - si abbatteranno anche numerosi caseggiati e tra gli altri l'antico ospedale di S. Giovanni Evangelista che fu demolito nel 1298; e certamente fu allora che si gettarono a terra anche le prime campate della cattedrale di S. Reparata, dato che venne stabilito, come ci fa sapere il Villani, " di crescerla " ma anche " di trarla addietro ". Intanto già cinque anni avanti, il battistero - il bel San Giovanni di D., che ogni fiorentino in ogni tempo ha sempre considerato come il simbolo stesso della sua città, e di cui, già nei primi anni del XIII secolo, si diceva che " nessun altra chiesa sorge egualmente gloriosa su tutto l'orbe terrestre ", sì che " più genti che hanno cercato del mondo, dicono che egli è il più bello tempio overo duomo del tanto che si truovi " (Villani) - il battistero, dunque, vedeva rivestiti di marmi bicromi gli otto pilastri angolari esterni (la restante decorazione marmorea, come quella dell'interno del tempio, è già ricordata come esistente nei primi anni del secolo, del qual tempo è anche la costruzione della scarsella). E un anno dopo, nel 1294, avevano inizio i lavori di completo rinnovamento dell'antica cattedrale di S. Reparata (la cerimonia di fondazione del nuovo tempio ebbe però luogo, solennemente, solo l'8 settembre del 1296); e i lavori doverono, in questo primo tempo, esser condotti sollecitamente, se in una provvisione della repubblica del 1 aprile 1300 si poteva dire che " populus Florentiae ex magnifico et visibili principio... habere sperat venustius et honorabilius templum aliquo alio quod sit in partibus Tusciae ". Nello stesso anno 1294 si dava mano alla costruzione della nuova chiesa di S. Croce, mentre nel medesimo tempo, dalla parte opposta della città, s'inaugurava il primo luogo destinato a verde pubblico e a pubblico passeggio: il prato di là dalla chiesa di Ognissanti (la forma di questo antico verziere - per la cui creazione si demolirono diverse case e un ospedale - si conserva ancora nello spiazzo chiamato appunto ‛ il Prato ', che giunge fino all'antica porta della città detta per questo, fin dai primi tempi, porta al Prato). L'anno dopo, nel 1295, i camaldolesi edificavano il loro convento degli Agnoli; e intanto già era stata decretata, nel luglio del 1294, la costruzione del palazzo dei priori o della signoria, ai cui lavori fu dato però inizio solo nel febbraio del 1299; ma certo con particolare ardore, se meno di due anni e mezzo dopo si potevano tenere in esso adunanze e i membri del governo vi avevano già stabilita la loro residenza. Allo scadere del secolo, mentre i salvestrini fondavano il loro convento e la chiesa di S. Marco, si rinnovava anche l'antichissima chiesa di S. Ambrogio e s'iniziava la costruzione delle nuove grandiose carceri (1299-1301) che pochi anni dopo furono chiamate le Stinche; infine si cominciavano anche a innalzare, nel novembre del 1299, con solenne cerimonia, le nuove mura, dalla porta e dal prato di Ognissanti, verso l'Arno, fino alla " torre sopra la gora " (Villani), cioè la torre detta poi della Serpe ancora esistente; quelle mura della terza cerchia, la cui costruzione si protrasse poi, per varie vicende, ancora per circa tre decenni.

In questa rapida rassegna non sono stati elencati, naturalmente, che i monumenti di maggior importanza; ma tutta la città era un fervore di costruzioni di ogni genere. Ed è da tener presente, poi, che se D. potè vedere solo gl'inizi di molte di queste costruzioni (quali, tra le maggiori, S. Croce, S. Maria del Fiore, il palazzo dei signori), non si può però escludere che egli abbia potuto avere anche una precisa cognizione di come esse sarebbero sorte, a sfidare in gloria eterna i secoli, per l'usanza non infrequente, allora, di eseguire in muratura grandi modelli di progettati edifici monumentali, quando questi rivestivano eccezionale importanza.

Tale appariva la propria città ai Fiorentini, e a D., alla fine del XIII secolo e nei primi anni del secolo seguente: ricca, opulenta, magnifica, con un avvenire radioso. Superiore a tutte le altre città conosciute e, rispetto a quelle, veramente la " gran villa ".

Bibl. - Non si hanno ancora studi che considerino, nel loro complesso, l'aspetto urbano di F. nell'alto Medioevo o nei primi secoli del secondo millennio, e fino ai tempi di D., mentre esiste uno studio sulla topografia della F. romana. Non scarse invece le pubblicazioni che riguardano aspetti particolari o parziali del problema urbanistico e topografico; e numerosi gli scritti di carattere divulgativo, senza intenti filologici e scientifici, anche di autori di larga fama. Base e principale fondamento, per studi sulla topografia fiorentina, rimangono in ogni modo le notizie che si traggono dai testi, sempre di eccezionale importanza, dei più antichi cronisti (e specialmente da Ricordano Malispini - miglior edizione, Firenze 1816 - e di Giovanni Villani - miglior edizione, ibid 1823: e v. anche la quasi coeva riduzione in terza rima di A. Pucci, in Delizie degli eruditi toscani, a c. di I. Di San Luigi, III-VI, ibid 1772-1775) e da fonti di vario genere e documenti che sono per la maggior parte riportati da R. Davidsohn nella sua Geschichte e nelle preziosissime Forschungen. Ogni volume della Geschichte ha un'ampia e minuziosa bibliografia - in parte aggiornata nell'edizione italiana - di fonti edite e inedite e di opere a stampa, alla suale si rimanda, limitando perciò qui la citazione solo degli scritti più recenti, di carattere filologico e scientifico: J. Plesner, L'émigration à la ville libre de Florence au XIII siècle, Copenhagen 1934; ID., Una rivoluzione stradale del Dugento, in " Acta Jutlandi " X (1938) 3-103; G. Maetzke, Florentia, Italia Romana, municipi e colonie, s. 1, V, Roma 1941; F.G. Carmody, Florence: projet for a map 1250-1296, in " Speculum " XIX (1944) 34 ss.; G. Maetzke, Scavi nella zona di via Por Santa Maria, in " Notizie degli Scavi di Antichità " s. 8, II (1948) 60-99; ID., Ricerche sulla topografia fiorentina nel periodo delle guerre goto-bizantine, in " Rendic. Accad. Lincei " s. 8, III (1948) fasc. 3-4; ID, Osservazioni sulle recenti ricerche nel sottosuolo di F., in " Atti e Mem. Accad. La Colombaria " n.s., II (1951); W. Braunfels, Mittelalterliche Stadtbaukunst in der Toskana, Berlino 1953; V. Procacci, in A. Sapori, Compagnie e mercanti di F. antica (per il codice di Marco Rustici), Firenze [1955] 101 ss.; G. Mac Cracken, The dedication inscription of the Palazzo del Podestà dating from the period of the first democracy (1250-1260) probably composed by Brunetto Latini, in " Rivista d'Arte " XXX (1955) 183-205; G. Maetzke, F., scavi in S. Felicita, in " Notizie degli Scavi di Antichità " s. 8, XI (1957) 282 ss.; E. Fiumi, Fioritura e decadenza dell'economia fiorentina, in " Arch. Stor. It. " CXV (1957), CXVI (1958), CXVll (1959); C. Hardie, The origin and plan of roman Flotrence, in " Journal of Roman Studies " LV (1965) 122 ss.; Catalogo Mostra di F. ai tempi di D., Firenze 1966 (particolarm. G. Pampaloni, La città, pp. 75-81; le figure 85-86 illustrano un tentativo di riproduzione, in pianta e in plastico, di F. ai tempi di D.); G. Morozzi, Indagini sulla prima cattedrale fiorentina, in " Commentari " XIX (1968) fasc. I-II.

F. nell'opera dantesca. - Nessun'altra città ha mai assunto in un'opera d'arte un ruolo di così intensa e viva presenza, nessun'altra è mai stata caricata del peso di un'esperienza passionale altrettanto drammatica quanto F., indubbia deuteragonista della Commedia e, come tale, luogo dei punti di ogni tensione sentimentale del suo grande cittadino; il quale, exul inmeritus, privato della presenza ‛ fisica ' della città, ad essa - alle sue istituzioni, alle sue miserie, ai suoi splendori, alle sue colpe - sembra voler rapportare ogni altra realtà, storica ideale o morale, manifestando in questo rapporto tutta la carica di una mentalità tipicamente medievale, sensualmente avvinta al microcosmo della città comunale (ma non ciecamente, dal momento che in VE I VI 3 sembra apertamente ammettere i limiti pericolosi di un simile punto focale), assumendo nel contempo quello stesso microcosmo a fondamenta del mirabile edificio della sua opera, in cui la passionalità contingente, i messaggi morale e ideologico, eternati dall'alta poesia, sono superati in una visione universale. Il rapporto tensionale tra D. e F. sorge o almeno si fa dramma soltanto in seguito alla condanna e alle conseguenti vicissitudini del poeta: non già, o non soltanto, i disagi fisici e le umilianti esperienze dell'esule, quanto le acerbe disillusioni, gli accaniti colpi della fortuna: il fallimento della riscossa e perciò del progettato rientro a breve scadenza, l'empietà della compagnia malvagia e scempia, la scarsa decisione e poi l'improvvisa morte di Enrico VII, le condizioni per lui inaccettabili poste a contropartita del rientro in città. Invano cercheremmo la stessa carica polemicamente rappresentativa nelle peraltro scarse citazioni delle opere giovanili.

Nelle Rime F. è infatti una presenza puramente topografica, presupposta più che esplicitamente dichiarata (cfr. CIV 81-86); e solo in un componimento di stile ‛ comico ', compreso nella tenzone con Forese, è citato un luogo preciso della città: le prigioni di San Simone (LXXV 5; il castello d'Altafronte e lo spedale a Pinti sono ricordati in una delle risposte di Forese, LXXVI 7 e 12); unica occorrenza del nome è nel commiato della canzone ‛ montanina ' (CXVI), dei primi tempi dell'esilio; e solo un ricordo (se pure si tratta di F.) è nella canzone ‛ di lontananza ' La dispietata mente (L).

Nella Vita Nuova non è dato un solo riferimento topografico orientativo: quella del libro de la... memoria è solamente la cittade ove la mia donna fue posta da l'altissimo sire (VI 2), la cittade ove nacque e vivette e morio la gentilissima donna (XL 1), la città che per questa morte di lei rimase... quasi vedova dispogliata da ogni dignitade e desolata (XXX 1); il luogo in cui D. incontra Beatrice e la gentile donna di molto piacevole aspetto che gli farà da schermo è unicamente indicato come una parte ove s'udiano parole de la regina de la gloria (V 1); altri luoghi sono una via (III 1), alcuna parte (X 2), una magione adorna di una pintura dove si festeggiavano nozze e in cui molte donne gentili, e Beatrice con loro, erano adunate (XIV 1-4); uno cammino lungo lo quale sen gia uno rivo chiaro molto (XIX 1), una via la quale è quasi mezzo de la cittade (XL 1): ed è tutto, a parte il frequente richiamo alla sopradetta cittade (VII 1, VIII 1, IX 1, XIV 3, XXII 3, XXX 1).

Non è il caso qui di esaminare le ragioni di ordine soprattutto artistico che indussero D. a non dichiarare in modo esplicito nome e luoghi della città di Beatrice (e saranno poi le medesime ragioni per le quali solo eccezionalmente in Cavalcanti e negli altri stilnovisti si trovano precisi riferimenti alla città, frequenti invece nei realistici); s'intende invece sottolineare l'indifferenza, o lo scarso interesse, che D. sembra attribuire al teatro delle sue esperienze, al punto da distorcerlo in una generalizzazione, o meglio in un'indeterminatezza che ha dell'irreale. Il solo centro d'interesse per lui è l'amore per la gentilissima, le cui vicende sono scandite non da un tempo reale ma da una cronologia relativa (nacque e vivette e morio), e la cui collocazione nello spazio è dunque tutta ed esclusivamente rapportata e condizionata, se non schiacciata, dalla vicenda psicologica, che deriva naturalmente la sua necessaria e sufficiente determinazione dalla gentilissima, dalla quale la città sembra persino acquistare il nome (la cittade ove la mia donna fue posta...; la cittade ove nacque...).

F. appare insomma nelle Rime e nella Vita Nuova come un semplice fondale, null'altro che una scenografia, e neppure funzionale; una scena che in nulla partecipa dell'azione, che neanche in minima misura la condiziona o la invera; e sembra lecito qui il paragone con la pittura gotica, e particolarmente con le grandi scene giottesche, in cui sono accentuate le dimensioni della figura umana rispetto a quelle degli ambienti, case piazze o città: che vengono ridotte perciò a una sorta di didascalia, a un accenno necessario di luogo che, in definitiva, non è inteso, se non eccezionalmente, a sottolineare l'intensità della composizione o degli sguardi, cui è affidato invece tutto il significato e tutta la struttura del racconto.

Non così, certo, è nelle opere dell'esilio, e segnatamente nella Commedia; dove la realtà, una realtà quanto mai ‛ storica ' e bruciante, è prepotentemente calata e attuata nel sentimento, che la fa lievitare in accuse e pianti, in condanne, in utopia. Ecco allora la F. drammaticamente ingrata, che fuor di sé... serra il poeta, vota d'amore e nuda di pietate (Rime CXVI 76 ss.; ma nella ‛ montanina ' il dramma non è ancora lancinante), la F. che iniuste condanna all'esilio i suoi figli migliori (Eiecta maxima parte florum de sinu tuo, VE II VI 5); ecco la F. idealizzata nella lontananza, la Fiorenza nel cui dolce seno... nato e nutrito fui in fino al colmo de la vita mia, e nel quale... desidero con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che m'è dato (Cv I III 4), la F. dei primi formativi studi di filosofia, dei luoghi (i conventi domenicani di S. Croce e di S. Maria Novella) dov'ella [la filosofia] si dimostrava veracemente, cioè ne le scuole de li religiosi e a le disputazioni de li filosofanti (II XII 7); ecco la dolente esclamazione Oh misera, misera patria mia! quanta pietà mi stringe per te, qual volta leggo, qual volta scrivo cosa che a reggimento civile abbia rispetto! (IV XXVII 11); ed ecco infine la F. cui D. rivolge gli apocalittici anatemi delle epistole VI e VII: la vulpecula puzzolente il cui muso avvelena Sarni fluenta torrentis (VII 23), quelle stesse acque che il poeta sorseggiò ante dentes (VE I VI 3); la vipera versa in viscera genitricis, che matrem viperea feritale dilaniare contendit (Ep VII 24-25); la languida pecus gregem domini sui sua contagione commaculans, che fumos, evaporante sanie, vitiantes exalat, et inde vicinae pecudes et insciae contabescunt (VII 24 e 26). Dira haec pernicies ha nome Florentia (§ 23); e a lei, amata-odiata, e agli scelestissimis Florentinis intrinsecis (Ep VI), rei di trasgredire divina iura et humana ostacolando la restaurazione imperiale, D. lancia le ingiurie più sanguinose, con la violenza di chi, presso alla disperazione, si aggrappa all'ultima speranza.

La città è dunque divenuta un'entità presente: non è più semplicemente uno sfondo, ma viva materia che sommuove la passionalità dantesca come un reagente. Con accenti polemici meno striduli, ma non meno violenti, le note di questi primi sfoghi dell'esilio tornano in tutta la Commedia, più frequenti e impetuosi nell'Inferno, ma non meno brucianti, pur se impregnati di malinconico rimpianto, nel Purgatorio, nei canti centrali del Paradiso, fino al culmine della toccante speranza di rientrare con altra voce omai, con altro vello nel bello ovile, nella F. che il poeta, con un significativo e suggellante atto d'amore, non dimentica anche nella gioia celeste ormai raggiunta. Centro ideale della Commedia è dunque F., " Firenze antica e moderna, maledetta e adorata, la città di Marte e la città del Batista, di fronte alla quale si drizza ad inveire ed ammonire la figura sempre più grandeggiante del poeta, con tutto il suo amore e il suo dolore e la coscienza di un'altissima missione a lui confidata dal cielo " (Parodi, p. 501).

Già il Serravalle notò la preponderanza numerica dei Fiorentini nell'Inferno, e ne diede una possibile giustificazione: " posuit plures Ytalicos in Inferno... et sic plures de Florentia quam de alia parte totius Tusciae, quia melius cognoscebat virtutes et vitia Florentinorum quam aliorum " (nota a Pg XIV 41). In realtà si può pensare che la scelta di determinati personaggi, oltreché a ragioni di ‛ familiarità ' plausibili fino a un certo punto, sia stata operata da D. al fine di presentare ai lettori nel modo più esauriente la realtà fiorentina, adducendo esempi che riuscissero sì efficaci per l'umanità tutta, ma in particolare modo per i Fiorentini, cui la Commedia era in un certo senso particolarmente destinata sia quale dimostrazione dell'altezza culturale e morale raggiunta dall'exul inmeritus (e perciò prova per lui della sua innocenza), sia come terribile ammonimento di una prossima e terribile punizione.

Non per nulla a una catastrofe, vicina e violenta, fa riferimento il primo grande personaggio che D. introduce a parlare di F., Ciacco (If VI 40 ss.): un inurbato, probabilmente, cui sembra addirittura ripugnare il nome della città, tanto essa è piena / d'invidia sì che già trabocca il sacco (v. 50), tanto in essa superbia, invidia e avarizia... / hanno i cuori accesi; e D. sembra accondiscendere all'idea del dannato nominando anch'egli F. con un'icastica perifrasi: la città partita. La predizione di Ciacco, tutta tramata nel vivo dei rivolgimenti del 1301-1302, costituisce il primo squarcio ‛ fiorentino ' della Commedia, è la prima occasione che D. si offre per bollare le discordie civili e i vizi della città natia, soprattutto i tre più gravi, superbia, invidia e, più obnubilante di tutti, l'avarizia, di certo anche il più appariscente - specie agli occhi di D. - in una città nel pieno dello sviluppo economico e nella piena ascesa di una classe borghese mercantile e finanziaria, giunta praticamente a dominare ormai la vita politica fiorentina. A Ciacco, il primo compatriota da lui incontrato, D. chiede notizie e nomi di altri Fiorentini ch'a ben far puoser li 'ngegni, e che perciò è certo di non trovare dannati; ma Ciacco lo disillude duramente: Ei son tra l'anime più nere, condannati per vizi occulti; a F. anche le apparenze ingannano.

Il primo dei vizi che in F. hanno i cuori accesi è esemplificato da D. nell'episodio di Filippo Argenti (VIII 31-66), personaggio assunto - forse con le tinte di una vendetta personale - a prototipo d'iracondo-superbo che là sù, nella città, si ‛ tenne gran rege ' (e la memoria del lettore va alla descrizione che ne fa il Boccaccio in Dec. IX 8), e che qui, nello Stige, è come porco in brago. F., come presenza ‛ sentimentale ' o più semplicemente ambientale, resta esclusa dall'episodio; chiuso nella sua ringhiosa superbia di violento, l'Argenti, uno dell'oltracotata schiatta degli Adimari (Pd XVI 115), è soltanto l'estremo limite di un vizio che nella sua vasta gamma contamina tutti i Fiorentini.

Con Farinata, invece, F., subito qualificata come nobil patria (X 26), torna prepotentemente alla ribalta; attraverso le parole del grande condottiero fiorentino, D. ribadisce in particolare la drammatica situazione della città partita, continuo campo di sanguinose lotte civili, nelle quali, oltre alla concreta e irreparabile perdita di vite umane e quindi di attive forze (Lo strazio e 'l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso, v. 86), si dissolvono soprattutto i valori più sacri, come quello di patria: sì che qualcuno può giungere a proporne addirittura la distruzione (sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, " vv. 91-92); e il popolo fiorentino è sì empio da non conceder tregua al vinto, lo perseguita accanitamente con editti, dimenticando che proprio Farinata fu l'unico a difendere la città a viso aperto e a stornare da lei la minaccia degli stessi suoi figli.

Nell'episodio, oltre ai precisi cenni di storia fiorentina che emergono dal contrappunto dialogico (le due fiate della diaspora guelfa, febbraio 1248 e settembre 1260, dopo il grande scempio di Montaperti; l'una e l'altra fïata del rientro, gennaio 1251 dopo Figline, estate 1266 dopo Benevento; i tre tentativi degli esuli bianchi di tornare a F., giugno 1302, 1303 e giugno 1304), è dato grandissimo rilievo alla città come utopico punto d'incontro di opposte ideologie, quasi D. volesse esemplare nell'amor patrio il vero rimedio a tante sciagure, rinnovatesi, dopo un illusorio acquetarsi, nella scissione dei guelfi in Bianchi e Neri, replica di una situazione drammatica e dolorosissima, quella delle lotte tra guelfi e ghibellini, dalla quale i Fiorentini non hanno saputo trarre alcuna lezione positiva, se di quel periodo dopotutto glorioso non perpetuano che i difetti. Attraverso Farinata alla F. dei suoi tempi D. oppone per la prima volta nel poema " quella Firenze ideale di un prossimo passato, non scevra bensì di colpe per l'ardore delle sue sfrenate passioni di parte, ma però grande, magnanima, eroica " (Parodi, p. 565). Ci sarà questa volta un Farinata, per altri rispetti forse troppo molesto alla città, che interverrà a salvarla? Il poeta è decisamente pessimista: in F., aveva già detto Ciacco, giusti son due, e non vi sono intesi.

Posto come ‛ intermezzo ' al dialogo di D. e Farinata, l'episodio di Cavalcante, altro eminente fiorentino, riporta indirettamente alla F. degli anni di noviziato poetico di D., all'atmosfera della tenzone con Forese, con Cino, con Cecco, alla lieta temperie della pistola sotto forma di serventese (Vn VI 2, Rime LII 10), rievocata dal lettore per suggestione dal nome di Guido, dal ricordo del sodalizio amicale e intellettuale e dal riconoscimento del valore di lui, ribadito più volte altrove nell'opera dantesca. L'accenno si collega direttamente da un lato alla Vita Nuova, dall'altro ai passi di Pg XI 94-99 e XXIV 49-66, nei quali principalmente D. parla della F. felice fucina di artisti e poeti, e dove torna, appunto, direttamente citato o per implicita evocazione, il nome di Guido, il primo de li suoi amici.

Ancora delle discordie fiorentine, anzi della predisposizione naturale alla discordia, parla lo scialacquatore suicida mutato nel cespuglio di cui invano Giacomo di Sant'Andrea s'è fatto schermo, e che per tante punte soffia con sangue doloroso sermo (If XIII 130-151). Anche qui F. è indicata con una perifrasi (la città che nel Batista / mutò 'l primo padrone) che rievoca un'antica tradizione che vuole la città consacrata a Marte, poi sostituito da s. Giovanni Battista; l'anonimo dannato - forse Lotto degli Agli o Rocco de' Mozzi - volge la leggenda a segno di una fondamentale irreligiosità insita nei Fiorentini, quasi superstiziosamente attaccati a un irriconoscibile troncone di statua pagana che 'n sul passo d'Arno / rimane ancor a far trista la città con l'arte sua (e cfr. Pd XVI 146-147). Il tema della violenza, in cui D. comprende superbia e invidia, già trattato da Ciacco e da Farinata, s'intreccia e si arricchisce qui dell'altro dell'avarizia; infatti l'episodio della " caccia infernale... evoca il più realistico e, alla fantasia di Dante, presente quadro di una società mercantilesca come poteva esser la fiorentina della seconda metà del Duecento, popolata, oltre che di occhiuti finanzieri... di individui rapidamente e avventurosamente arricchiti, preda dello ‛ snob ' del gioco e protagonisti, alcuni, di crolli finanziari seguiti da suicidio " (Mattalia). Unico legame tra il poeta-giudice e il suicida fiorentino non può essere che la carità del natio loco (XIV 1), un sentimento che qui si rivela solo epidermico, non già profondo e ricchissimo di vibrazioni come nell'episodio di Farinata, dove nel nome di Fiorenza sembravano acquetarsi i dissidi che da quello stesso nome si erano generati nell'animo dei due avversari all'inizio del colloquio.

La dialettica opposizione tra l'antica e la nuova F. da cui scaturisce la particolare visione politica e morale di D. nel canto X dell'Inferno e soprattutto nei canti di Cacciaguida, è attuata nell'episodio di Brunetto Latini (canto XV) piuttosto che sul piano diremo cronologico, su quello intellettuale, nel senso che colui " che fu cominciatore e maestro in disgrossare i Fiorentini, e fargli scorti in bene parlare, e in sapere guidare e reggere la nostra repubblica secondo la politica " (G. Villani VIII 10) sembra dare dei concittadini un giudizio che, pur ribadendo le accuse politiche già pronunciate da Ciacco e Farinata, appare orientato più alla definizione della loro ottusità intellettuale: i Fiorentini sono un popolo ingrato e maligno, sono bestie, sono letame; F., dove pure Brunetto trascorse gran parte della vita, e che certamente amò (si veda l'inizio del Tesoretto, per es.), è ancora perifrasticamente evocata come nido di malizia (v. 78), degenerata figlia della sementa santa di Roma; in essa vive gente avara, invidiosa e superba (e si noti qui come Brunetto ripeta chiasticamente le parole di Ciacco); ma la nota ulteriore e più violenta di biasimo consiste nel giudicare i Fiorentini discesi di Fiesole ab antico ancora rozzi e barbari, un popolo... / che tiene ancor del monte e del macigno (vv. 61-63), sulla cui ottusità sono fioriti aneddoti (Vecchia fama nel mondo li chiama orbi, v. 67). D. e il maestro sono le ‛ piante ' nate vigorose dal letame delle bestie fiesolane, sono i ‛ dolci fichi ' cresciuti tra li lazzi sorbi: accomunati da un'affettuosa consuetudine, dal medesimo amore per la cultura, dall'esperienza dolorosa dell'esilio, si oppongono vigorosamente (e vicendevolmente si esaltano, con una punta di aristocratica consapevolezza del proprio valore) ai concittadini sordi a ogni sollecitazione intellettuale e morale. Nel nido di malizia tanta non c'è nessuno che insegni più come l'uom s'etterna e ben pochi disposti a raccogliere il messaggio del sapere, tesi come tutti sono al guadagno.

Il giudizio che emerge dall'episodio di Brunetto è indubbiamente durissimo, e a F. ne deriva una sentenza aspra e difficilmente attenuabile nella sua gravità, soprattutto perché con le continuate metafore tolte alle specie inferiori (monte, macigno, lazzi sorbi, becco, erba, bestie, strame, pianta, letame) D. intende ribadire il suo disprezzo nei confronti dei cittadini; e sembrerebbe, a voler chiudere l'analisi al solo personaggio di Brunetto (l'altro del canto XV, il fiorentino Andrea de' Mozzi, che fu trasmutato d'Arno in Bacchiglione è assolutamente secondario, vittima forse, qui, di una fama unicamente dovuta a maldicente voce fiorentina raccolta e consacrata da D.), sembrerebbe che non sia concessa ai Fiorentini neppure l'attenuante generica di un passato prossimo più glorioso, come avviene nell'episodio di Farinata o in quello di Cacciaguida. Ma ecco quattro personaggi della terra prava, anch'essi come Brunetto rei di sodomia, i cui nomi e le cui opere vivono ancora in buona fama, e che D. mal si trattiene dall'abbracciare: Iacopo Rusticucci, Guido Guerra, Tegghiaio Aldobrandi e Guglielmo Borsiere. Ed ecco un'altra occasione per D. di ribadire la degenerazione di F., quasi paradigmatica sentina di vizi terreni, non solo dei palesi ma soprattutto dei nascosti, cui segue il rimpianto per la F. del buon tempo antico, che torna sul ricordo della buona Gualdrada (XVI 37), nel cui nome è anticipatamente evocata l'epoca felice e la suggestiva atmosfera della F. di Cacciaguida (cfr. Pd XV 112 ss.); ma si effonde soprattutto, in continuo insistito parallelo con le parole del trisavolo, nello sdegno contro la gente nuova, tesa soltanto ai sùbiti guadagni, tra cui non allignano più cortesia e valore, nel grido accorato con cui D. a faccia levata apostrofa F. - ed è la prima apostrofe del poema - confermando ai tre Fiorentini onorati le notizie che essi hanno appreso da Guglielmo Borsiere, ultimo giunto tra loro (If XVI 73-75). Nell'invettiva è sviluppata la visione, restata un po' intrinseca nell'episodio dello scialacquatore suicida, della F. mercantile degli ultimi decenni del sec. XIII: una città in pieno sviluppo demografico e finanziario, nel colmo di una trasformazione economica e sociale che non poteva non recare con sé qualche, anche notevole, aberrazione, quali appunto, per esempio, orgoglio e dismisura (v. 74); una F. della quale però D. accentua esclusivamente lungo tutto il poema i lati negativi, in nome di un conservatorismo che ha i suoi addentellati anche nell'ordine morale, ma trova la sua carica maggiore in una sostanziale incomprensione per i contemporanei. Occorre però aggiungere che D. sprezza la ‛ nobiltà di roba ' del suo tempo perché la riconosce protagonista e arbitra poco abile del gioco politico fiorentino (per es. i Cerchi e i Donati); e tanto più grave è il suo giudizio proprio perché assai pesanti sono le responsabilità di questi superbi parvenus nelle discordie che insanguinano F. e persino nel gioco delle alleanze e degli aiuti, che per alcuni banchieri si allarga oltralpe: quello del potentissimo Musciatto Franzesi, per esempio, che finanzia il re di Francia derivandone titoli e investiture nobiliari, e che si offre come guida a Carlo di Valois in Firenze, e che col mal di Francia, Filippo il Bello, trascorre la Pasqua a Melun. Resta comunque un fatto che D. rimprovera la F. contemporanea rivendicando la validità di valori quasi completamente superati; senza accorgersi che nel giro di qualche lustro appena in seno alla società fiorentina è avvenuto un mutamento nuovo, " straordinario, che è alla radice di tanta parte della civiltà moderna e tipico di una società borghese: nasce il sentimento nuovo del lavoro non come condanna e pena dell'umanità, ma come gioia e orgoglio della vita umana, il lavoro riscattato dalla sua nota servile, esaltato nel suo valore morale e civile ". Ma D. guarda troppo al passato per potersi accorgere del positivo apporto della classe mercantile: " Tutto, la sua austera tempra morale, la sua formazione culturale e dottrinale, ispirata al razionalismo della scolastica, tutto portava Dante ad abbracciare una politica di princìpi, a disdegnare e a rifiutare una politica d'interessi " (Sestan).

Più strettamente contingenti all'uomo D. e senza particolari vibrazioni - se non quelle intensamente sofferte dell'esule, versate negli aggettivi pur usuali e potremmo anche dire banali: bel San Giovanni, bel fiume d'Arno, la gran villa - sono i due cenni a F. in XIX 17 e XXIII 94-95, ambedue fortemente autobiografici, nei quali la città è ricordata nel suo battistero - che per D. rappresenta, oltre al luogo in cui ricevette il primo sacramento e in cui spera di ottenere la corona di poeta (cfr. Pd XXV 8-9), il simbolo stesso della città -, e nelle rovine intorno del Gardingo, i ruderi delle case degli Uberti distrutte dalla furia guelfa durante il governo dei due ipocriti Frati Godenti Catalano e Loderingo.

A nuove lotte fratricide a F. e in Toscana, che toccheranno assai da vicino e dolorosamente D. (E detto l'ho perché doler ti debbia!, XXIV 151), si riferisce la profezia di Vanni Fucci che, aggiungendosi alle precedenti, accenna al colpo di stato dei Neri dell'autunno 1301 (poi Fiorenza rinova gente e modi, v. 144).

Son tutti cenni brevi e circoscritti, non richiami carichi d'intensità, neppure quello all'esilio; ma costituiscono, legati al blasfemo gesto di Vanni Fucci, ai nomi dei cinque ladri fiorentini di illustri casate - Agnel Brunelleschi, Cianfa Donati, Buoso, Puccio Sciancato, Francesco Cavalcanti - e soprattutto alle mirabili e orrende trasformazioni cui D. assiste nella settima zavorra, elementi del crescendo che sbocca nella dirompente invettiva che apre il canto XXVI: Godi, Fiorenza, poi che se' sì grande / che per mare e per terra batti l'ali, / e per lo 'nferno tuo nome si spande!; dove ancora una volta D. condanna la sete di guadagno che domina come un astro malefico la sua città, al punto da distruggere poco a poco ogni aspirazione agl'ideali e ogni rispetto per la proprietà altrui, conducendo a violenze di ogni genere; e ancora una volta egli pronostica per F. l'ormai prossima punizione (vv. 7-12).

Tra i seminatori di discordie, accanto a nomi certamente più illustri (Maometto, Alì, Curione), D. pone Mosca Lamberti, già nominato nell'episodio di Ciacco come uno di coloro ch'a ben far puoser l'ingegni; egli è per D. il primo responsabile della scissione in guelfi e ghibellini avvenuta in F. e poi dilagata in tutta Toscana. È questo un altro di quegli icastici accenni di storia comunale fiorentina con cui D. riesce a immergere il lettore nell'atmosfera delle lotte di parte e di orgogliosa consorteria tipiche della F. duecentesca, di cui così ampiamente trattano i cronisti fiorentini, in particolare, naturalmente, il Compagni e G. Villani. E pure a quest'atmosfera di vendette riporta (XXIX 18 ss.) la figura di Geri del Bello veduta da Virgilio a piè del ponticello mostrare e minacciar, forte col dito D., colpevole di non averlo vendicato. La vendetta personale e familiare era in F. un dovere d'onore, e l'inclinazione naturale dei Fiorentini vi trovava certo buon fertile terreno, se " cum omnes homines naturaliter tendant ad vindictam, fiorentini maxime ad hoc sunt ardentissimi et publice et privatim " (Benvenuto). Ma D., che pure ha mostrato con Mosca tutta la carica dell'orgoglio partigiano (E morte di tua schiatta!), qui fa intendere di aver superato certi costumi di ascendenza barbarica dei suoi concittadini, Geri compreso (e compreso Forese, è della mancata vendetta ad accusare D. in Rime LXXVIII); Geri vaga dolente nella bolgia accusando col dito il consanguineo di viltà: ma D. sembra nutrire nei suoi confronti " un senso di alta e pur distaccata pietà,... che non... rinunzia a un ideale etico superiore " (Sapegno); e in Purgatorio elogerà Marzucco degli Scornigiani proprio per non aver accondisceso a vendicare il figlio.

F. torna solo come sfondo novellistico nella presentazione del folletto Gianni Schicchi (XXX 34-35); è richiamata nell'accenno di Mastro Adamo alla lega suggellata del Batista (v. 74), il fiorino, la moneta che sarà esplicitamente maledetta da Folchetto (Pd IX 127-132); ancora più indirettamente (se tosco se', ben sai omai chi fu) nella citazione di Sassol Mascheroni (XXXII 63-66); ma è presente ancora una volta come patria comune nell'episodio di Bocca degli Abati, patria da Bocca tradita e da D. vendicata con un atto di sprezzante violenza. Ancora nel quadro delle lotte fiorentine s'inseriscono Tesauro di Beccheria (vv. 119-120) e Gianni Soldanieri (v. 121), nulla più che due nomi sui quali subito s'innestano le terribili visioni di Ugolino e di Lucifero, che drammaticamente chiudono la cantica.

Pur se tramato sulle medesime requisitorie e sostenuto da una carica polemica altrettanto agguerrita, il quadro che emerge dalle diverse citazioni di F. introdotte nel Purgatorio ha toni differenti, è improntato a una pacatezza che D. rende intenzionalmente consona all'atmosfera complessiva della seconda cantica attraverso la nota dominante di un sentimento che non poteva effondersi nell'Inferno, l'amicizia. La F. del Purgatorio è infatti la F. dei sodalizi di D.; i nomi che, più o meno esplicitamente, recano con sé il ricordo (e naturalmente il rimpianto) per la città lontana sono sempre quelli di cari amici: Casella, Belacqua, Forese, Guido Cavalcanti, Giotto. Non che questa nota diversa mitighi la drammatica visione che D. ha e dà della situazione fiorentina; ma la dominante dell'Inferno, il rigore anche violento del giudice che può, certo, ammirare la grandezza di un imputato senza per questo modificargli la condanna, è qui sostituita da un più misurato senso delle dimensioni ‛ umane ' del peccato: la F. fossa di ogni vizio, evocata a tinte plumbee dall'esule nel segno di una violenza verbale ‛ immediata ', dettata dall'offesa ancora bruciante perché recentissima, quasi a voler convincere sé stesso che il doloroso prezzo dell'esilio ben compensa la perdita di una simile culla, diviene ora la F. della nostalgica evocazione di tempi lieti, allorché giovinezza e amicizie riuscivano a quetar tutte le voglie, a consolar alquanto il giovane poeta, a nascondergli i vizi della sua città, così come il dolce canto di Casella fa smemorare le anime dell'alto compito che esse debbono assumere (e il richiamo di Catone all'ordine non sarà un rimprovero a D. per non essersi assunto prima, tutto perso nel cantare d'amore e nella filosofia, la funzione di moralista?).

Pochissimo si conosce di Casella, e pochissimo di Belacqua: sono due figure che vivono solo come creazioni artistiche di D., perciò non presentano alcun rapporto ‛ storico ' con F., né s'inseriscono nel suo paesaggio, a meno che per Belacqua non si voglia prendere in considerazione la " fiorentinesca capacità di pronte battute " (Mattalia) o le non si sa quanto fantasiose costruzioni dell'Anonimo, che lo rappresenta seduto tutto il tempo al banco della sua bottega di liutaio. Invece nel drammatico quadro della situazione politica italiana tracciato da D. nella dolente digression del canto VI, un inno alla fratellanza e alla concordia in nome della comune patria, non è naturalmente trascurata F., bollata (vv. 127-151) col marchio dell'ironia, un'arma retorica che qui D. dispiega in tutta la sua forza nella dolorosa constatazione dell'incoscienza con la quale i Fiorentini ‛ si sobbarcano ' lo comune incarco; il risultato è catastrofico: F. è somigliante a quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore scherma (vv. 149-151).

Incentrata su considerazioni strettamente politiche - probabilmente con riferimenti anche specifici al priorato di Parte bianca, eletto nell'ottobre e dimesso nel novembre 1301 (vv. 142-144) -, l'apostrofe alla città non ha tuttavia i caratteri di torbida animosità che distinguono le invettive dell'Inferno, e la visione appare in certo senso più obiettivamente orientata, fors'anche perché qui le accuse, pur circostanziate, non si sviliscono in una colpevolezza individua che ha talora il sapore di una vendetta personale, o in una generalizzazione che trova le sue basi in un risentito campanilismo spinto alle estreme conseguenze di considerare villani corrotti e corruttori persino i più prossimi abitanti del contado inurbatisi. L'invettiva, una lucida disamina della situazione italiana e fiorentina, si stempera poi nella rassegna dei principi fatta da Sordello con una sorta di pacata tristezza nel canto seguente, dove la visione dei diversi mali dell'Italia e di F. si generalizza a un'amara disamina della decadenza di quasi tutte le case regnanti. Ma poco dopo, nelle parole di Oderisi, torna la violenza verbale di alcuni passi della prima cantica, spinta anzi nel caso della specifica citazione di Montaperti (quando fu distrutta / la rabbia fiorentina) alla mancanza di un'attenuazione anche soltanto ‛ umanitaria ' (come velatamente appare nel X dell'Inferno, dove Montaperti è lo strazio e 'l grande scempio / che fece l'Arbia colorata in rosso; e non basta che qui sia D. personaggio, un Bianco, a parlare, mentre Oderisi è ghibellino); non solo: F. è bollata come putta, qualifica che risulta assai più pungente dall'insieme del contesto: dimessa, giocoforza, la superbia dopo la gravissima sconfitta, F. non ha trovato altra strada di riscossa e di rinsavimento che quella della prostituzione.

Il pensiero di D. va costantemente, e il suo cuore ne torna amareggiato, alla patria che ha dovuto abbandonare; e anche laddove potrebbe limitarsi a usufruire di un ricordo unicamente per costruire un paragone - come in Pd XXIX 103-104, dove le favole ‛ gridate ' in pergamo sono più numerose dei Lapi e Bindi viventi in Fiorenza; o come forse, a voler ascoltare Benvenuto, nei versi 67-69 di Pg XXVI, dov'è rappresentato lo montanaro... / rozzo e salvatico che s'inurba restando stupido davanti ai monumenti e alle persone della città; " Hunc actum " commenta Benvenuto " viderat poeta aliquando in ipsa patria sua " -, la sua amarezza trabocca ora nell'ironia, ora nell'invettiva esplicita, sempre nel rimpianto: così avviene nel passo (XII 100-105) in cui è ricordata la scalinata che dalla città conduce a San Miniato, la chiesa che sopra Rubaconte... soggioga F., la ben guidata; ma l'ironia non si ferma alla perifrasi: quelle scalee... si fero ad etade / ch'era sicuro il quaderno e la doga. Il riferimento ai due scandali del 1283 e del 1299 non possiede alcuna carica evocativa tale da riscattarne il sapore di mera cronaca cittadina, né assume alcuna forza dal contesto in cui è innestato; risponde evidentemente all'ansia di denuncia, e si può unicamente spiegare con il desiderio costante di additare la cancrena che sgretola F., che ne intacca le pur gloriose istituzioni.

Di ben altra forza la lunga invettiva di Guido del Duca (XIV 1-129): dove tra l'altro si può trovare esplicita conferma del fatto che in D. la perifrasi quasi mai è puro artificio retorico, ma si carica di un preciso significato. Sdegno e dolore, insomma una reticenza di ordine morale, pienamente avvertita e denunciata da Rinieri de' Calboli (Perché nascose / questi il vocabol di quella riviera, / pur com'om fa de l'orribili cose?, vv. 25-27), inducono D. a non nominare esplicitamente né l'Arno - che è un fiumicel che nasce in Falterona -, né F. - soltanto un avverbio: Di sovr'esso [fiume] -; e il personaggio-Guido del Duca raccoglie l'intenzione designando i Casentinesi come porci, gli Aretini botoli... ringhiosi, i Fiorentini lupi, volpi i Pisani: ognuno degli abitanti di quella che è insieme misera valle e maladetta e sventurata fossa (i due poli del sentimento di D. sono qui palesemente evidenziati) è rappresentato dall'animale che ne incarna il vizio eminente. I Fiorentini son dunque posseduti dall'avidità, dall'invidia; F. è dunque la trista selva tana di feroci lupi, sulla quale incombe ormai prossima una terribile strage che farà colorare in rosso l'Arno che l'attraversa. La predizione delle aspre vendette dei Neri per mano di Fulcieri de' Calboli, tutta contrappuntata di tonalità bibliche, è tanto più apocalittica in quanto evocata da D. alla lente deformante della lontananza, forse esagerata dai racconti di altri esuli. La scelta del lupo a emblema dei Fiorentini, quasi a volerli consacrare figli dell'antica lupa, vale a sottolinearne i vizi capitali, cupidigia e violenza. L'evocazione della caccia in su la riva / del fiero fiume (vv. 58 ss.) ne richiama alla mente del lettore un'altra, meno provvidenzialmente vendicatrice: quella sognata da Ugolino. Pietà e amarezza vibrano, anche se meno intense e quindi meno evidenziate, anche in questa visione del Purgatorio, e valgono a temperare il rigore biblico della maledizione: D. intende forse ricordare che tra quei lupi il cui sangue andrà ad arrossare le acque dell'Arno ci sono anche dei lupicini; non può comunque esimersi dal provare umana pietà per vittime dell'odio civile, che sono oltretutto di sua Parte. Il pianto con cui Guido del Duca suggella il proprio discorso (vv. 124-126) è chiaramente il pianto di Dante.

Altre disgrazie si addensano all'orizzonte di F., e le preconizza Ugo Capeto: un altro Carlo, Carlo di Valois, avido assai più dei Fiorentini, a Fiorenza farà scoppiar la pancia, valendosi di menzogna e di tradimento (della lancia / con la qual giostrò Giuda, XX 73-74). È un martellare di accuse e di minacce che apertamente dimostra la carica di malinconica disperazione di cui è preda il poeta (nell'Inferno la malinconia impregna generalmente di sé solo le laudationes temporis acti, la violenta passionalità non ammettendo chiaroscuri), un tono che è presente ancora nella requisitoria di Forese Donati contro i corrotti costumi delle donne fiorentine, che hanno dimenticato l'esempio e il nome della buona Gualdrada e vanno mostrando con le poppe il petto, nonostante spiritali o altre discipline (XXIII 102-105). Due sono i leitmotiv che tornano nei canti di Forese (XXIII-XXIV): particolare del Purgatorio quello dell'amicizia, proprio di tutta la Commedia quello della dialettica tra corruzione contemporanea e virtù del passato. La forte carica autobiografica che caratterizza l'episodio fa sì che i due temi si arricchiscano di risonanze e di significati più complessi, più articolati tra loro: con il compagno di traviamenti - anch'egli però, ora, salvo - D. ritrova la F. degli anni giovanili, un'epoca e una città vicine nel tempo ma così lontane nella memoria e nelle sensazioni, cui si contrappone la presente consapevolezza degli errori commessi. È la stessa dialettica opposizione di passato e presente più volte già ribadita nel poema, inferita qui all'ambito più esclusivamente autobiografico. La palinodia degl'insulti a Forese, a Nella, a monna Tessa profusi nella tenzone giovanile, tanto più gravi se, come pare, gratuitamente ossequenti a un puro assunto letterario, si situa agevolmente nella polemica contro il malcostume delle impudiche donne fiorentine; e le parole elogiative di Buonagiunta (XXIV 55-62), non a caso inserite a intarsio proprio nell'episodio di Forese, sono anche la palinodia per quei versi composti in un'epoca di ‛ cecità ', quando lo smarrimento morale aveva indotto D. a dimenticare persino le dolci rime d'amor. La corruzione di F. è dunque ora ragione soprattutto di malinconica stanchezza: il poeta desidera riposo però che 'l loco u' fui a viver posto, / di giorno in giorno più di ben si spolpa, / e a trista ruina par disposto (vv. 79-81). Lo sdegno e la condanna sono quasi esclusivamente concentrati nella drammatica sequenza della morte di Corso Donati (vv. 82-87); ma la visione di quel corpo vilmente disfatto è peraltro temperata dallo sguardo col quale D. segue Forese che si allontana. " Per Dante, scacciato da Firenze quando la prima gioventù era finita da poco, il rimpianto della città è una sola cosa con quello dell'età nuova. Firenze è giovinezza; tutto l'episodio... è una rievocazione di quell'età, col suo male e col suo bene " (Bosco).

L'incontro con Beatrice nel Paradiso terrestre (XXX-XXXI) si presenta come punto di approdo del processo evolutivo in direzione etico-razionale della spiritualità dantesca, sviluppo che ha i suoi momenti diversi ma unitariamente radicati nella Vita Nuova, nelle Rime, in alcuni passi del Convivio; il racconto è eco e risonanza, e nello stesso tempo sublimazione, delle particolari atmosfere delle opere giovanili, segnatamente della Vita Nuova, con rispondenze anche puntuali. È perciò naturale che F., mai esplicitamente citata nel libello, non trovi qui ragioni di un ricordo che, più che nell'opera giovanile, renderebbe indubbiamente troppo concrete le allusioni a luoghi e tempi della vita terrena, o troppo tangibili le passioni di D., ostacolando in un certo senso il suo rifarsi sì come piante novelle / rinovellate di novella fronda (XXXIII 143-144).

La raggiunta purificazione ammette invece nel Paradiso un particolare ricordo della vita terrena anche negli spiriti beati. Piccarda, la sola donna fiorentina che apparirà nella terza cantica (III 34 ss.) narra la propria vicenda, con straordinario riserbo, rimuovendo ogni personale rancore dal giudizio che pronuncia. La città, il convento delle clarisse sui colli di San Gaggio, i ‛ rapitori ', persino il ricordo della familiarità con D. (se la mente tua ben sé riguarda, / non mi ti celerà l'esser più bella, vv. 47-48) sono uno sfondo mnemonico in cui la sofferenza della cronaca viva si è decantata alla luce della visione celeste. La stessa atmosfera di amichevole sodalizio che il nome di Piccarda Donati rievoca nel lettore della Commedia si ritrova intatta nell'incontro con Carlo Martello (VIII 31-148), secondo e ultimo dei personaggi notevoli del Paradiso, a parte Cacciaguida, ad essere con F. e con D. in qualche rapporto.

" Era già venuto da Napoli [a Firenze]... Carlo Martello... re d'Ungheria, e con sua compagnia duecento cavalieri a sproni d'oro, Franceschi, e Provenzali, e del Regno, tutti giovani, vestiti col re d'una partita di scarlatto e verde bruno, e tutti con selle d'una assisa a palafreno rilevate d'ariento e d'oro, co l'arme a quartieri a gigli ad oro, e accerchiata rosso e d'argento, cioè l'arme d'Ungheria, che parea la più nobile e ricca compagnia che avesse uno giovane re con seco. E in Firenze, stette più di venti dì, attendendo il re Carlo suo padre e' fratelli, e da' Fiorentini gli fu fatto grande onore ed egli mostrò grande amore a' Fiorentini, ond'ebbe molto la grazia di tutti ". Ciò che colpì D. a differenza del Villani (Cronica VIII 13) non fu evidentemente l'apparato scenografico dell'ingresso e soggiorno del giovane re in F. nella primavera 1294: il fatto che nel passo dantesco (VIII 49-57) nulla ne sia rimasto e che non vi sia né direttamente né implicitamente ricordata F. risponde, certo, alle esigenze narrative coerenti con l'atmosfera del Paradiso (cui peraltro, se necessario, D. viene anche meno), ma è piuttosto ulteriore dimostrazione che al di là delle apparenze esteriori, D. coglie il nucleo delle cose e delle persone. Ciò che più dovette colpirlo nel giovane sovrano, a giudicare anche da come egli presenta il personaggio e l'induce a parlare - ed è comunque questa l'immagine che ne tramanda -, furono i doni naturali di lui, le sue qualità umane e intellettuali, forse i suoi atteggiamenti (o, chissà, le sue promesse) di mecenate, che assai probabilmente D. ebbe opportunità di saggiare in occasioni e colloqui meno ufficiali, se fa pronunciare a Carlo l'incipit della canzone Voi che 'ntendendo. È naturale quindi che D. isoli Carlo Martello dalla coreografia che a F. lo circondò, per fasciarlo di ben altra seta, in modo da rilevarne le doti di amore e d'intelletto.

Non così i Fiorentini, sensibili ai soli valori più appariscenti, anche falsi, delle persone. Figlia di Satana (La tua città, che di colui è pianta / che pria volse le spalle al suo fattore, IX 127-128), F. pone sconsideratamente a suo gran titolo di merito il conio esclusivo del maladetto fiore, il fiorino, vero seme di discordia e di odio, il cui potere è tale che ha disvïate le pecore e li agni, mutando in lupo il pastore (vv. 130-132). Torna nelle parole di Folchetto la polemica contro l'insaziabile avidità dei Fiorentini; ma la simbolica lupa non resta qui rinchiusa nelle mura di F.: si spande a corrodere e sconvolgere gli animi e la moralità degli ecclesiastici, che hanno ormai abbandonato l'Evangelio e i dottor magni per scrutare nei libri di diritto canonico sottigliezze giuridiche da cui trarre vantaggi pratici. Il fiorino è il simbolo della prosperità fiorentina, la moneta accettata in ogni nazione; ma per D. è soprattutto - ma talora, parrebbe, soltanto - il simbolo tangibile e immondo della potenza di una nuova classe che cambia e merca, pone il denaro a misura di ogni giudizio, dimentica la virtù.

È su questo punto che s'innesta l'amplissimo, poeticamente straordinario - anche se storicamente inesatto - quadro che Cacciaguida traccia della F. sobria e pudica del suo tempo. Convergono in esso quasi tutti i motivi polemici che hanno sollecitato D. dalla selva oscura al cielo di Marte.

La descrizione dell'antica città inizia ex abrupto nel nome - nel verso anche in prima posizione - di Fiorenza (XV 97; il nome sarà ripetuto altre volte; XVI 84, 111, 146, 149, XVII 48); il panorama che si apre è una visione limpida, in quanto è il risultato di una complessa operazione del poeta, che alla visione ‛ archeologica ' della città impone come catalizzatori le cariche sentimentale, morale, polemica. Non quindi una rappresentazione obiettivamente storica (la F. di Cacciaguida è oltretutto un'utopia), ma una visione tutta tesa sul filo di un'opposizione accanita e lucidissima tra presente e passato, tra moralità, equilibrio antichi e corruzione attuale, un quadro dove entrano con tutto il loro peso passioni di diversa natura e condizionante educazione intellettuale e di costume: a una gran villa travolta da superbia, invidia e avarizia (If VI 74) è opposta una cittadina in pace, sobria e pudica (e si noti come puntualmente si corrispondano i concetti); alla corruzione delle donne fiorentine condannata da Forese è opposta l'onestà e la pudicizia delle antiche donne; al riposato... bello / viver di cittadini, alla fida / cittadinanza, al dolce ostello di Cacciaguida (XV 130-132) è opposta la cittadinanza... mista dei villani del contado, la maladetta e sventurata fossa nella quale i buoni cittadini sono costretti a sostener lo puzzo / del villan d'Aguglion, di quel da Signa, ottuso e avido di denaro (XVI 55-56).

Le insistite opposizioni hanno evidentemente la funzione di accentuare la tensione drammatica del confronto, e l'alone di purezza primitiva prestato da D. alla sua città una sorta di età dell'oro non esclusivamente leggendaria - vale a rivestire persone e cose della F. patriarcale di una straordinaria carica poetica. D. ricostruisce nel lungo monologo di Cacciaguida la F. di due secoli prima, non limitandosi - e sarebbe espediente banale - a citarne i monumenti al tempo suo già scomparsi o ricostruiti diversamente o comunque modificati (la cerchia antica, XV 97; l'antico,.. Batisteo, v. 134, e 'l Batista, XVI 47; il sesto di Por San Piero, vv. 41-42; il mercato Vecchio, v. 121; porta... de la Pera, vv. 125-126; la chiesa benedettina di Badia, ov'è sepolto Ugo di Toscana, vv. 127-130; l'inquieto Borgo Santi Apostoli, v. 134; la statua di Marte v. 47, la pietra fessa, che guarda 'l ponte Vecchio, per influsso della quale conveniesi... / ...che Fiorenza fesse / vittima ne la sua pace postrema, vv. 146-147), e a ricordarne le famiglie più note che, invece di arrossare di sangue 'l giglio, vivevano in perfetta concordia, fiorian Fiorenza, sì che Fiorenza in sì fatto riposo / ...non avea cagione onde piangesse (vv. 149-150): tutto questo infonderebbe nel lettore soltanto il senso della prospettiva cronologica. È invece soprattutto la prospettiva morale a premere D., a imporgli lo straordinario rilievo da concedere alle virtù spontaneamente frequentate nella F. del buon tempo antico: nessuna ostentazione di lusso (XV 100-105, 112-116); dall'alto dell'Uccellatoio non si scorgeva il panorama di una città più ricca di Roma (vv. 109-111); la sete di guadagno, esiziale alla F. di D., non spingeva i Fiorentini ad abbandonare patria e famiglia per recarsi oltralpe (vv. 106, 119-120); le donne filavano favoleggiando di Fiesole e di Roma (vv. 117, 124-126) o vegliavano a studio de la culla (v. 121); la corruzione e la leggerezza dei costumi erano sconosciute, sì che una Cianghella sarebbe stata considerata tal meraviglia quale oggi sarebbe una donna virtuosa come Cornelia, un Lapo Salterello avrebbe stupito come un Cincinnato (vv. 128-129): e si noti come il confronto iperbolicamente impostato dia perfettamente il tono della ricostruzione dantesca che, ricchissima di particolari anche cronachistici - quei ch'arrossan per lo staio, i Chiaramontesi, XVI 105; sì che non piacque ad Ubertin Donato / che poï il suocero il fé... parente degli Adimari, vv. 119-120) -, risulta tuttavia perfettamente funzionale alla diagnosi tante volte ribadita nel poema: la corruzione è nei Fiorentini perché presumono troppo di sé e si sono votati ai soli beni materiali.

Finora accostati dicotomicamente come avversari anche nella sfera sentimentale di D., sensualmente avvinto, col campanilismo dell'uomo comunale e con la coscienza del cittadino attivamente partecipe delle vicende politiche, all'apparenza ‛ fisica ' della sua città, e feroce fustigatore dei suoi concittadini, F. e i Fiorentini sono invece presentati in unità perfetta nell'elegiaco discorso di Cacciaguida, e anche visivamente: come per esempio gli abitanti non portano catenella, non corona, e vanno cinti di cuoio e d'osso (XV 100, 113), così l'aspetto dell'ovil di San Giovanni (XVI 25) è altrettanto sobrio e dignitoso. È proprio quell'armonia e quella sobrietà che occorre ritrovare e restaurare, sono le virtù dell'antico ceppo che dovranno essere riaccolte in F. (l'utopia del passato si sposta dunque al futuro); l'ingrandirsi tumorale della città oltre la prima cerchia, l'aumentata ricchezza di nuovi ceti non originari di quel colle di Fiesole (VI 53-54) sotto 'l qual nacquero e Cacciaguida e D., - uomini perciò stesso impreparati, secondo D., a sostenere onorevolmente il peso dei fiorini e del governo democratico - ha stravolto il giusto rapporto tra i cittadini e la città, in un circolo vizioso (la confusion de le persone conseguente all'immigrazione principio fu del mal de la cittade, XVI 67-68; la corruzione genera lotte civili; la ricchezza della città attira sempre in maggior numero villani avventurieri), che potrà essere spezzato o dall'estrema rovina o da una restaurazione dell'autorità (e qui s'innesta l'idea dantesca dell'imperatore come unica autorità capace di superare la caotica situazione delle democrazie comunali). La visione si allarga a questo punto a tutta l'Italia, con panoramica inversa a quella dell'invettiva del VI del Purgatorio; e ancor più spazia poi, imputando, senza acrimonie, al superiore principio della Fortuna (XVI 82-84) l'arbitrio di ogni montar sù e di ogni calo dei destini umani. La fida / cittadinanza di Cacciaguida sarà a D. spietata e perfida noverca e lo costringerà a partir... di Fiorenza lasciando ogne cosa diletta / più caramente (XVII 47-56); e nei gravi e lunghi disagi del profugo, F., il luogo nel quale egli sentì di prima l'aere tosco (XXII 117), sarà in lui un nucleo di affetti che continuamente lo urgerà senza poter mai acquetarsi, nonostante la predizione augurale del trisavolo (XVII 97-99), nella visione delle perfidie dei concittadini finalmente punite.

Vive sempre nel poeta, nella sua virile accettazione del dolore, la speranza di ritornare a F., speranza ribadita con accenti di straordinaria forza poetica nell'esordio del canto XXV, dove alla profonda carica umana di malinconia e di desiderio s'aggiunge la ferma coscienza del proprio valore: il bello ovile ove dormì agnello lo accoglierà, forse, per onorarlo della corona di poeta proprio in sul fonte del... battesmo (vv. 8-9; ed è speranza espressa anche in Eg I 42-44 Nonne triumphales melius pexare capillos / et patrio, redeam si quando, abscondere canos / fronde sub inserta solitum flavescere Sarno ?); F. resta pur sempre un nido di malizia tanta, un covo di lupi agguerriti: ma in essa D. ha lasciato ogne cosa diletta / più caramente, e perciò in essa, riconosciuto innocente, desidera tornare e vivere.

La presenza di F. nel poema non si conclude però sulla nota elegiaca, ma su quella polemica: Fiorenza (XXXl 37-39) è posta in antitesi col popol giusto e sano dell'Empireo; la città è dunque considerata, implicitamente, ingiusta (Giusti son due, e non vi sono intesi, If VI 73) e malata (quella inferma / che non può trovar posa in su le piume, Pg VI 149-151); dunque " Firenze è ancora una volta assunta a simbolo della corruzione e dell'ingiustizia terrena; e quel nome proprio... basta per un istante a riassumere, come in un supremo compendio, tutte le ragioni polemiche e le note più amaramente personali del poema, al tempo stesso che le colloca in uno sfondo remoto, le rimpicciolisce e le vanifica, dando risalto al trionfo della giustizia nel divino e nell'eterno " (Sapegno).

La doppia triade in opposizione (divino, eterno, popol giusto e sano; umano, tempo, Fiorenza) sembra voler indicare, smarritasi nel poeta ogni speranza di attuazione terrena, la nuova altissima meta. F. assume in questo luogo tutto il peso di una più universale simbologia: non più soltanto città noverca di D., ma città matrigna dell'uomo, selva oscura da cui scampare, Babilonia opposta a Gerusalemme, città terrena opposta a città di Dio. È dualismo, questo, che persiste nell'intimo di D.: se il theologus Dantes ha raggiunto faticosamente la verità e condanna F. perché trista selva di peccato, D. uomo non vede in essa che un bello ovile temporaneamente negatogli, un riposato ostello nel quale desidera con tutto lo cuore di riposare l'animo stancato e terminare lo tempo che gli è dato.

Bibl. - Si vedano anzitutto i commenti delle opere di D. e della Commedia in particolare - tra i quali si dovranno soprattutto tener presenti quelli di I. Del Lungo, T. Casini, G.A. Scartazzni, N. Sapegno, D. Mattalia - e le migliori ‛ lecturae ' dei canti più intensamente ‛ fiorentini ' (If VI, X, XV; Pg VI, XIV, XXIII; Pd XV-XVII). Con qualche utilità si potranno inoltre consultare - sottintendendo il rinvio a ciascuna delle voci in questa Enciclopedia dedicate ai diversi personaggi, alle istituzioni, alla storia fiorentina, e fermo restando il riferimento alle rispettive bibliografie specifiche -: I. Del Lungo, La gente nuova in F., in D. ne' tempi di D., Bologna 1888, 3-132; ID, La figurazione storica del Medio Evo italiano nel poema di D., in Dal secolo e dal poema di D., ibid 1898, 147-308; ID, D. e Italia nella vita e nel poema di D., Firenze 1929; E. Pistelli, Per la F. di D., ibid 1921; E.G. Parodi, Farinata, in Poesia e storia nella D.C., Napoli 1920, 535-566; A. Doren, Florenz zur Zeit Dantes, Weimar 1934; U. Bosco, Il c. XXIII del Purgatorio (1963), in Lect. Scaligera II 865-885 (rist. in Dante vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 150-161); E. Sestan, D. e F., in " Arch. Stor. It. " CXXIII (1965) 149-166 (rist. in Italia medievale, Napoli 1966, 270-291).

Fortuna di D. a Firenze. - È impossibile, mancandone documenti specifici, conoscere quanto in F. fossero conosciute le opere di D. negli anni antecedenti l'esilio e nei primi lustri della sua lontananza: nessun notaio fiorentino, per quanto ne sappiamo, utilizzò mai versi danteschi per chiudere un documento, come avvenne invece a Bologna, e nessuno, tranne i corrispondenti in tenzone, citò mai il nome o l'opera di D. in modo esplicito.

La prima testimonianza di un fiorentino sembra perciò essere quella di Francesco da Barberino, che nei Documenti d'Amore (cfr. codice Vaticano Barberiniano lat. 4076, c. 63) cita, invero con scarsa conoscenza di causa, la Commedia; la data della citazione è controversa, ma non sembra possa fissarsi posteriormente al 1314-15, e comunque è relativa a un periodo, in cui Francesco era in esilio in Italia settentrionale. Notevole è anche la testimonianza di Andrea Lancia nel compendio volgare dell'Eneide (1316), segnalata dal Folena (La tradizione delle opere di D.A., in Atti del Congresso Internaz. di Studi danteschi, Firenze 1965, 42).

La morte del poeta fu pianta in sonetti e canzoni da molti rimatori toscani, amici e corrispondenti (e citeremo la canzone di Cino da Pistoia, e i sonetti a lui attribuiti; il sonetto attribuito a Pietro dei Faitinelli; le non poche citazioni che ne fa Antonio Pucci); la sola voce fiorentina, accorata, è Pieraccio Tedaldi, che nel Sonetto pien di doglia dichiara D. " dolce nostro maestro " e " sommo autor ". Indubbiamente l'opera di D. più conosciuta fu la Commedia, che già a un anno dalla morte dell'autore ebbe il primo commento, quello del figlio Iacopo, il primo commento in ordine di tempo e il primo di un fiorentino; cui seguirono (sempre per restare nell'area della cultura fiorentina) quello dell'anonimo designato come Ottimo, - forse attribuibile al notaio Andrea Lancia (1334 circa) -, quello di Pietro Alighieri (prima redazione 1340); le Esposizioni del Boccaccio (1373-74) e il commento del cosiddetto Anonimo fiorentino (della fine sec. XIV o degl'inizi del XV) che con i suoi ampi (spesso dilatati) racconti su personaggi danteschi si può dire inauguri la tradizione più propriamente novellistica, il cui apice sarà rappresentato dalle cinque novelle del Sacchetti.

La condanna dell'uomo D. pesò per molti decenni a F. sul D. poeta e prosatore, in particolare sulla Monarchia, ma non meno sulla Commedia, tacciata anche di contenere proposizioni eretiche. Ciò non impedì che l'opera dantesca, e il poema in particolare, si diffondesse: del che fanno fede i non pochi codici (ma quanti ne andarono perduti?) esemplati da singoli copisti o in vere e proprie officine scriptorie; basterà citare i più antichi (rinviando per la più ampia trattazione dell'argomento alla voce Commedia), tra cui quello composto dal 15 ottobre 1330 al 30 gennaio 1331 da un Forese Donati piovano di Santo Stefano in Botena, oggi perduto ma noto per la collazione eseguitane su un esemplare dell'Aldina del 1515 (Milano, Bibl. Braidense, Aldina AP XVI 25) da Luca Martini; il Trivulziano 1080 e il Gaddiano 90 sup. 125, rispettivamente del 1337 e del 1347, di mano di Francesco di ser Nardo da Barberino; il gruppo cosiddetto Vaticano (1340-1350), il gruppo dei cosiddetti " Cento ", impropriamente attribuito al predetto Francesco, ma comunque legato al suo nome e databile intorno al 1350; il n. 88 della Biblioteca Comunale e dell'Accademia Etrusca d Cortona, opera del fiorentino Romolo Lodovici, anteriore alla metà del secolo.

La provvisione del 13 agosto 1373, con la quale si approvò l'elezione di " unum valentem virum, in huiusmodi poesiae scientia bene dictum [e il primo prescelto fu Giovanni Boccaccio]... ad legendum librum qui vulgariter appellatur El Dante in civitate Florentiae ", per il fatto di esser stata promossa " pro parte quamplurium civium civitatis ", mostra la devozione e l'interesse insieme che il poema suscitava nella cittadinanza; l'istituzione veniva probabilmente a consacrare ufficialmente un'usanza già stabilitasi di leggere e commentare pubblicamente la Commedia (e tra queste letture saltuarie e irregolari potrebbe porsi quella dell'inquisitore di Toscana, frate Accursio Bonfantini). Non osta naturalmente all'ipotesi la deliberazione che il capitolo provinciale dei domenicani approvò l'8 settembre 1355, proibendo ai giovani " lectio librorum poeticorum, seu libellos per illum qui Dante nominatur in vulgari compositos ". La lettura allo Studio fiorentino fu ripresa dopo la morte del Boccaccio; e tra i più illustri ‛ lectores ' sono da ricordare nel Quattrocento Filippo Villani, Giovanni Malpaghini, Giovanni da Prato, Lorenzo da Pisa, Francesco Filelfo, Gerolamo di Giovanni.

Il culto di D. si propagò con l'opera e i ricordi del Boccaccio (oltre alle Esposizioni, il Trattatello e la Vita), devoto copista dell'opera dantesca e non solo della Commedia; ma si riconobbe a D. più la dottrina che le qualità di sommo artista: tale appare anche il giudizio che di lui dà G. Villani (IX 36); e tale resterà anche nel secolo successivo, fondamentalmente chiuso a un'esatta comprensione e valutazione dell'opera dantesca. Ma ormai il culto fiorentino e toscano di d. s'identifica con la storia della dantologia italiana; si deve pertanto rinviare alla trattazione che del problema è stata offerta alla voce COMMEDIA e anche analizzata nelle varie voci dedicate alle opere minori; agli imitatori, ai critici e ai lettori di D.; all'accademia fiorentina; alle riviste bullettino della società dantesca; al problema della edizione nazionale, ecc. per la struttura e l'ordinamento degli studi a F., v. SCUOLA.

Impossibile in questa sede, inoltre, anche soltanto accennare alla notevole copia di manoscritti danteschi esemplati a F. o posseduti dalle biblioteche fiorentine; se ne veda l'elenco nel regesto in appendice a Petrocchi, Introduzione 509-531.

Lingua. - Della parlata fiorentina D. fa una prima menzione generica in VE I IX 4: Romani e Fiorentini sono citati come esempio di popolazioni che, pur abitando relativamente vicine nel settore di destra dell'Italia, discrepant in loquendo, come nella metà di ‛ sinistra ' Milanesi e Veronesi. In VE I XIII 2 il dialetto fiorentino viene citato al primo posto tra le parlate municipali e popolari di Toscana di cui viene smontata la pretesa d'identificarsi col volgare illustre; e la polemica riprende lo spunto antimunicipale di VE I VI 3, dove sono esplicitamente addotte, sia pure in senso diverso ma che implica la, prospettiva linguistica, la Toscana e Firenze (v. Toscana).

La frase che caratterizza il fiorentino suona, nella lezione tratta dal cod. B, Manichiamo introque che noi non facciamo altro, mentre i mss. G e T omettono che. Varie le letture e interpretazioni di editori e studiosi del trattato. Sulla base del ms. Berlinese, che sembra offrire senz'altro il testo migliore - facile pensare a caduta meccanica del che, contiguo a (intro)que -, si può collocare virgola dopo introcque (ché così sarà da correggere, giusta la fonetica fiorentina e l'attestazione di If XX 130, la forma dei codici), intendendolo come avverbio e interpretando, come fa anche il Marigo: " mangiamo intanto, che null'altro abbiamo da fare "; oppure, e probabilmente meglio, inserire la virgola dopo Manichiamo e intendere introcque che come congiunzione temporale, " mentre ", " finché " (Pellegrini, Schiaffini). Entrambe le letture possono appoggiarsi a riscontri, benché rari (cfr. il vocabolario Tommaseo Bellini): introcque avverbiale è, oltre che in D. stesso, nel Patafio, e come tale è spiegato nelle Annotazioni del Salvini; introcque che, " mentre ", figurava, secondo gli spogli di M. Adriani, in un codice del volgarizzamento della prima Deca di Livio (cfr. ediz. Dalmazzo, 1206). Poiché l'exemplum è parso linguisticamente poco caratterizzante, si è pensato di correggere, per renderlo più idiomatico, facciamo in facciano (Cittadini, Rajna e altri), e altro in ailtro (Cittadini) o atro (Rajna ecc.). Interventi arbitrari e superflui, poiché il fatto che il carattere plebeo del fiorentino risulti documentato sul piano lessicale soltanto, e non anche fonetico e morfologico, non fa nessuna meraviglia: per l'ultima congettura, in particolare, va osservato che il fiorentino antico opponeva (un) altro l'atro con riduzione di -lt- a -t- solo in questo caso, per dissimilazione, e gli esempi di estensione analogica fuori di questo tipo erano rari (cfr. A. Castellani, in " Lingua Nostra " XI [1950] 31 ss.; E. Poppe, ibid XXIV [1963] 97 ss.); e sarebbe difficile, trattandosi del dialetto natio, pensare a ipercaratterizzazione.

Secondo il Marigo, che riprende in particolare l'opinione del D'Ovidio, la frase fiorentina, come le successive per gli altri dialetti toscani, andrebbe vista come frammento poetico: due settenari, o meglio un doppio settenario, con dieresi o iato nel primo " secondo l'esigenza dell'accompagnamento musicale ", probabilmente una citazione di " qualche triviale canto fiorentino " (e per l'accostamento al genere popolaresco delle ' canzoni da tavola ' v. A. Del Monte, La poesia popolare nel tempo e nella coscienza di D., Bari 1949, 108 ss.). Ma sembra preferibile pensare che si tratti di frase prosastica, dato che, mentre va senz'altro esclusa la possibilità di dieresi in Manichiamo, non è neppur facile ammettere la dialefe tra questa parola e introcque, e dato pure che, degli esempi successivi, quello lucchese e quello senese riluttano anche più decisamente a un'interpretazione metrica (v. Lucca; Siena).

A caratterizzare il ‛ turpiloquio ' fiorentino restano dunque, oltre al complessivo carattere triviale dell'enunciato (per la consueta interferenza del giudizio morale in quello linguistico), i vocaboli ‛ manicare ' e introcque. Il primo, con la variante non ridotta manducare, era la forma indigena, contrastata dal francesismo ‛ mangiare ' che poi ha prevalso confinando l'allotropo a usi sporadici nel moderno contado toscano (caratteristica la coppia pleonastica lucchese ‛ mangiare e manicare ': v. A. Ronconi, Interpretazioni grammaticali, Padova 1958, 69). L'uso di ‛ manicare ' e ‛ manducare ' è frequentissimo negli antichi testi toscani, con una certa tendenza ad affiorare in contesti di tipo ‛ realistico ' (per es. Rustico Filippi V 10 e XVIII 11; Folgore XIII 7), ma senza che sia sempre possibile e opportuno rilevarne una connotazione differenziale rispetto al teoricamente più nobile ‛ mangiare ' (cfr. G. Petronio, in " Lingua Nostra " III [1941] 83-84). Ma per D. parla chiaro l'attestazione del De vulg. Eloquentia. Coerentemente ad essa, nella prosa dantesca ‛ mangiare ' è quasi esclusivo (un unico manuca di Cv I I 7 è subito variato da due ‛ mangiare ', ed è forse indotto dalla cadenza di cursus: de li àngeli si manùca), e prevale nella Commedia (tre esempi, ovviamente tutti dell'Inferno): appunto per ciò le varianti ‛ plebee ' restano disponibili per utilizzazioni espressivamente più vibrate, in contesti stilistici appropriati, nella petrosa Così nel mio parlar (Rime CIII) co li denti d'Amor già mi manduca, e, sempre in rima, a presentare il cannibalismo del conte Ugolino nel canto delle rime aspre e chioccie (If XXXII 127) cui si allinea infine manicar, sempre nell'episodio di Ugolino (XXXIII 60, replicato al v. 62 dal più ovvio mangi). Così introcque, la cui caratterizzazione plebea è ribadita anche dall'impiego nel Pataffio, compare, pure in rima e in un contesto di canti particolarmente ‛ bassi ' e risentiti, in If XX 130 Sì mi parlava, e andavamo introcque: e proprio questo verso, certo per via dell'avverbio, citerà il Machiavelli nel Dialogo della lingua come esempio tipico di " goffo " dantesco. I due casi, soprattutto quest'ultimo, sono altamente sintomatici e della ‛ fiorentinità ' della Commedia e della distanza della sua prassi stilistica dalla teorizzazione del De vulg. Eloq. (per esempi analoghi v. VOCABOLI, TEORIA dei).

A rappresentante per Firenze di una poesia non curiale ma municipale D. pone in questo stesso capitolo (§ 1) Brunetto Latini (v.); gli fanno da contraltare i pochi che, mentre quasi tutti i Toscani sono ‛ intronati ' nel loro turpiloquio, hanno conosciuto l'eccellenza del volgare: i fiorentini Guido (Cavalcanti), Lapo e " un altro " (D. stesso), accanto al pistoiese Cino (§ 3).

Bibl. - F. D'Ovidio, Sul trattato ‛ De vulg. Eloq. ' di D.A. (1873), poi in Versificazione romanza. Poetica e poesia medioevale (Opere, IX II), Napoli 1932, 285, 320 ss.; P. Rajna, Editio maior del De vulg. Eloq., 71-72; A. Marigo, De vulg. Eloq., 112 (e rec. di G. Contini, in " Giorn. stor. " CXI [1939] 286); Contini, Rime 168; S. Pellegrini, D. e il volgare illustre italiano (Testo del De vulg. Eloq. I X-XIX), Pisa 1946, 6; A. Schiaffini, Interpretazione del De vulg. Eloq. di D., Roma 1963, 91-92.

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