Filosofia e societa

Enciclopedia delle scienze sociali (1994)

Filosofia e società

Carlo Augusto Viano

I termini del problema

Se si considera la filosofia come una forma di sapere, simile alla matematica o alle scienze della natura, il rapporto con la società potrebbe non sembrare rilevante per spiegare il suo contenuto o il suo sviluppo storico: infatti a quelle scienze si attribuisce di solito un 'nocciolo teorico' relativamente insensibile alle circostanze storiche. È vero che anche gli storici della scienza discutono di storia interna e storia esterna della scienza, cioè del peso che si debba dare ai condizionamenti extrateorici per spiegare lo sviluppo del pensiero scientifico; ma perfino chi è disposto a riconoscere l'importanza dei condizionamenti esterni ammette che le teorie scientifiche posseggono una struttura interna abbastanza resistente. Il grado di somiglianza della filosofia con la conoscenza scientifica è un tema molto controverso, e tuttavia, anche supponendo che la filosofia sia essenzialmente una forma di conoscenza con regole e procedure organizzate, bisogna riconoscere che nel suo sviluppo storico essa ha risentito delle circostanze esterne in misura significativa e certamente più rilevante di quanto non sia accaduto per la famiglia di tecniche intellettuali generalmente designate come 'le scienze'. D'altronde si ritiene comunemente che la filosofia sia una parte caratteristica e importante della storia intellettuale dell'Occidente e che sia difficile comprendere le nostre società senza riferirsi anche alle dottrine enunciate dai filosofi. Queste hanno contribuito a delineare il quadro dei nostri sistemi educativi e parti rilevanti del loro contenuto, hanno permeato le credenze religiose più diffuse, hanno generato ideologie politiche e sono penetrate nelle nostre istituzioni fondamentali. Perciò si può dire che il rapporto tra filosofia e società è bilaterale, perché la società ha condizionato la filosofia e viceversa la filosofia ha condizionato la società che la ospitava.

Tuttavia non disponiamo di una teoria che dia il quadro generale dei rapporti tra filosofia e società, né di una ricostruzione storica completa dedicata specificamente a questo tema. Esistono teorie sociologiche che hanno indagato le condizioni sociali entro le quali si delineano particolari forme di sapere e prodotti intellettuali. Esse si sono tuttavia concentrate sulla conoscenza scientifica, studiata dalla 'sociologia della conoscenza', sui tipi di razionalità presupposti dall'organizzazione sociale o sulle credenze religiose, mentre alla filosofia non viene assegnato un posto specifico nella componente intellettuale o simbolica della struttura sociale, individuata dalle teorie sociologiche, o comunque a essa non sono state dedicate indagini particolari. Pertanto tutti i tentativi di correlazione tra filosofia e società appartengono a dottrine filosofiche e cioè a uno dei termini della relazione che si dovrebbe studiare. Infatti le 'spiegazioni' filosofiche che pretendono di dar conto della genesi, della collocazione e della funzione della filosofia nella società (e che si possono trovare, per esempio, nella filosofia di Platone come in quella di Hegel) il più delle volte dipendono dai principî filosofici generali propri delle dottrine che le hanno prodotte, e non solo non sono attendibili come spiegazioni dei rapporti tra filosofia e società in generale, perché fanno parte di teorie che possono esse stesse risentire di condizioni sociali locali, ma spesso non chiariscono neppure i rapporti tra le dottrine filosofiche dalle quali derivano e le società nelle quali esse sono nate, ché anzi a volte li occultano o li travisano.

Il sistema delle alternative

Non è facile selezionare i tratti della filosofia che possono avere un rapporto significativo ed efficace con la società, come non è facile stabilire che un certo tipo di società genera un tipo particolare di dottrine filosofiche. I contenuti più metafisici o addirittura mistici del platonismo, per esempio, hanno avuto sulla società un'influenza maggiore di quella esercitata dalla Repubblica di Platone. Forse si può dire in generale che le dottrine filosofiche hanno sempre cercato di disporre le attività sociali in una gerarchia, costruendo esse stesse una loro descrizione oppure prendendo classificazioni tradizionali o costruite da altre forme di sapere, e che in quella gerarchia hanno riservato alla filosofia il primo posto: questo attribuisce alla filosofia una pretesa di primato all'interno della società. Talvolta la pretesa di primato presuppone la tesi che la filosofia sia una forma di conoscenza superiore, prodotta dai poteri umani più importanti, come l'intelligenza o la ragione, o capace di mettere in contatto con la realtà dell'essere o delle cose, al di là delle immagini parziali, se non addirittura distorte, che ne danno le altre forme di sapere. In questo senso la filosofia ha potuto pretendere di essere l'attività alla quale tutte le altre attività devono sottomettersi e verso la quale devono mirare, configurandosi come il fine diretto o indiretto di tutte le attività sociali. Questa ambiziosa pretesa ha trovato scarsa rispondenza nelle società entro le quali veniva enunciata e spesso ha provocato reazioni improntate alla diffidenza. A sua volta, in risposta a questa reazione, la filosofia si è organizzata in gruppi o scuole abbastanza ristretti, tenuti insieme anche dal fondamentale rifiuto della società circostante, che non riconosceva il primato della filosofia. Ovviamente questo rifiuto poteva essere espresso in forma più o meno radicale, e i filosofi potevano mettere in moto diversi meccanismi per trovare delle mediazioni. D'altra parte la società che rifiutava quelle dottrine filosofiche nei loro contenuti più impegnativi poteva tuttavia tenerne conto, adottando anch'essa una qualche forma di mediazione o 'depurando' quelle dottrine dalle loro prescrizioni più rigorose.

È questa la relazione tra filosofia e società che si instaurò al sorgere stesso della filosofia nella società antica. Il 'carattere filosofico' attribuito a questa società, ma soprattutto alla città greca e in particolare ad Atene, ha qualcosa di vero non perché quella società fosse ampiamente 'compenetrata di filosofia', ché anzi questa viveva quasi isolata nelle scuole, ma perché la filosofia antica pretendeva di esercitare un primato assoluto anche contro la società nella quale era nata.I filosofi trovarono un altro modo di sostenere il primato della propria disciplina, anche quando dovettero rinunciare alla pretesa che essa fosse il fine cui tutte le altre attività dovrebbero tendere: le affidarono il compito di stabilire o accertare le condizioni nelle quali le altre attività si svolgono. Anche in questo caso era possibile seguire strade diverse. Si poteva sostenere che le condizioni messe in luce dalla filosofia sono mezzi necessari per raggiungere fini superiori alla filosofia stessa. Questa fu la via attraverso la quale la filosofia entrò nel patrimonio dottrinale del cristianesimo: così, declassandosi da fine a mezzo, essa poté uscire dal chiuso delle scuole dell'età classica e inserirsi nel sistema educativo occidentale. Quando volle ricuperare una qualche forma di primato, affrancandosi dalla subordinazione alla fede religiosa e dai vincoli del sistema universitario medievale, la filosofia partì pur sempre dallo statuto che aveva ricevuto passando da fine a condizione, ma pretese di essere la condizione necessaria di qualsiasi attività e conoscenza. A questo modo essa continuava a mettersi al servizio di scopi diversi da se stessa; ma questa volta sarebbe stata proprio la filosofia a indicarli. Gli scopi additati furono essenzialmente due, connessi alle vie diverse seguite dalla trasformazione dell'università medievale: l'aumento del sapere coltivato nelle accademie e nelle istituzioni culturali diverse dall'università oppure l'educazione del popolo attraverso una nuova funzione da dare all'università.Nell'età contemporanea questi due modi di intendere la collocazione della filosofia si sono variamente intrecciati.

Dopo l'età napoleonica la filosofia si è sistemata all'interno delle università, che però nel frattempo erano diventate la sede principale della produzione e dell'insegnamento della scienza moderna. Questa sistemazione ha spinto la filosofia a trovare una forma di convivenza con il sapere scientifico, il quale da un lato aveva sempre meno bisogno dell'intervento della filosofia per creare le condizioni sociali favorevoli alla propria crescita e dall'altro diventava una componente essenziale e autonoma dell'educazione del popolo, nella quale la filosofia aveva precedentemente trovato una funzione sua propria. Concependo la propria disciplina come chiarimento delle condizioni alle quali il sapere scientifico deve soddisfare, i filosofi hanno indicato una linea di compromesso e convivenza tra le due componenti della cultura ufficiale contemporanea, favorendo una forma di normalizzazione della filosofia in tutto il mondo occidentale e il suo assorbimento nella cultura accademica. Questo processo ha generato tuttavia la produzione di una filosofia extraccademica, che proponeva l'educazione del popolo in forme alternative rispetto a quelle delineate dall'università contemporanea. In parte questa filosofia si è sviluppata fuori delle università, in istituzioni come movimenti e partiti o, quando il socialismo ebbe preso il potere prima in Russia e poi nell'Europa orientale, in Stati che si contrapponevano allo Stato liberale o capitalista; ma è stata coltivata anche da filosofi che a titolo individuale si opponevano alle istituzioni filosofiche ufficiali. Infine la cultura universitaria ha assorbito anche questa forma di filosofia alternativa, attenuando la tendenza dei filosofi a collocarsi fuori del sistema accademico e inducendoli a esercitare all'interno di esso una funzione di alternativa al sapere scientifico.

Il primato della filosofia

Fin dagli inizi, come dicevamo, in opere come la Repubblica e le Leggi di Platone o la Politica di Aristotele, i filosofi assunsero immagini diffuse della città, che ritenevano condivise dai cittadini. Di qui essi partirono per spiegare come la filosofia fosse sorta quando gli uomini avevano smesso di fare i pastori e i contadini ed erano diventati 'civili', stanziandosi nelle città. Ma su quell'immagine essi pretesero di proiettare una gerarchia, nella quale assegnavano alla filosofia il posto più alto: per questo essa, pur arrivata per ultima, era capace di spiegare la nascita propria e quella della società e di indicare anche il modo in cui la città avrebbe dovuto garantirsi il proprio equilibrio interno. Infatti, stando al culmine della gerarchia sociale, la filosofia poteva pretendere di ricavare le proprie dottrine sociali da fonti indipendenti dalla società stessa, da 'principî' e 'verità' superiori alle 'opinioni' correnti tra i cittadini.

A questa immagine che i filosofi greci avevano di sé e della città non corrispondevano l'apprezzamento della città nei confronti dei filosofi né la posizione che essi avevano nella comunità. I filosofi erano dei privati, spesso non erano neppure 'cittadini' in senso tecnico e non godevano di uno status particolare: talvolta conseguivano prestigio e popolarità, ma talvolta erano guardati con sospetto dalla comunità cittadina e venivano cacciati o perseguitati. Ciò avveniva perché in generale essi stessi si contrapponevano alla città greca e molto spesso manifestavano un'aperta nostalgia per un passato non greco o per un mondo orientale in gran parte inventato. La filosofia greca non esprimeva neppure particolari tendenze politiche: non era il prodotto di una cultura aristocratica insidiata dalla formazione della città, ché anzi molti dei temi filosofici erano una risposta a problemi caratteristici della vita cittadina, e molti filosofi che assumevano atteggiamenti popolareschi non avevano nulla che fare con le tendenze democratiche della società greca. In generale i filosofi greci offrivano ai propri concittadini soprattutto una via di salvezza dalla loro stessa città, un modo di vita al quale ci si doveva convertire.

Alcune scuole però, come quella platonico-aristotelica o quella stoica, offrivano insegnamenti aperti anche a un pubblico al quale non si chiedeva un'adesione totale alle credenze fondamentali dei maestri e delineavano un percorso scolastico, con un programma di studi vero e proprio. I maestri di queste scuole ottenevano successo come insegnanti, mentre altre scuole, come quella epicurea, avevano il carattere di vere e proprie sette.I tiranni della fine dell'età classica e i sovrani ellenistici mostrarono interesse per i filosofi, nei quali videro un prodotto tipico della civiltà greca, ma è azzardato ritenere che i filosofi abbiano esercitato una vera e propria influenza politica e che re e tiranni si siano rivolti a loro per avere consigli politici. Nelle corti ellenistiche, soprattutto ad Alessandria, si formò però l'idea che esistesse una tradizione greca, nella quale fu assegnato un posto di rilievo alle scuole filosofiche. E anche i Romani, quando incontrarono la cultura greca, videro nella filosofia un suo tratto caratteristico, al quale da principio si sentirono non poco estranei. Poi i filosofi diventarono di moda a Roma, dove comparvero ospiti delle grandi famiglie, considerati come conoscitori del mondo greco o consiglieri e addirittura come veri e propri 'direttori spirituali'. Ma i tentativi di stabilire legami precisi tra filosofia e società ellenistica o romana non hanno dato buoni frutti. Non c'è alcuna corrispondenza tra dottrine filosofiche ed eventuali indirizzi della società romana, o tra le filosofie dominanti e il 'sistema dell'impero'. C'erano grandi famiglie che ospitavano maestri epicurei, c'erano membri dei gruppi repubblicani che erano stoici, ma era stoico anche Seneca che fu più che maestro di Nerone. Un'imperatrice era devota di Plotino, ma la vedova di Traiano si interessava della nomina dei maestri epicurei e Marco Aurelio istituì ad Atene cattedre delle principali scuole filosofiche.

La scuola platonica fu la più vitale, perché continuò a usare i testi canonici del fondatore, commentandoli e reinterpretandoli. I neoplatonici però intesero la filosofia soprattutto come salvezza, e persero ogni interesse per le teorie politiche contenute nelle opere stesse di Platone, in quelle di Aristotele, ma anche nelle dottrine degli stoici e degli epicurei. Così ebbe fine la pretesa della filosofia di dare una spiegazione della società e dei propri rapporti con la società, e il neoplatonismo si configurò come una vera e propria religione. Tuttavia nelle comunità filosofiche in senso stretto, ma anche nelle scuole letterarie, continuarono a essere coltivate l'idea che la filosofia fosse un'attività superiore e l'immagine, in parte fittizia, di una tradizione filosofica unitaria, vanto della cultura antica.Il modo in cui la filosofia sorse e si inserì nella società antica ha avuto un peso notevole sul rapporto tra filosofia e società nella nostra tradizione. La cultura antica aveva finito con l'accettare l'idea che la filosofia occupasse un posto alto nel sistema scolastico ed educativo, e così anche chi non riconosceva ai filosofi la capacità di dettare direttamente norme alla società ammetteva che lo studio della filosofia, soprattutto della tradizione filosofica e dei suoi testi canonici, dovesse costituire il coronamento dell'educazione e avesse conseguenze positive sul funzionamento della società. Ciò portava da un lato ad accogliere, ma solo in modo indiretto e con molte limitazioni, il primato della filosofia, che i filosofi veri e propri sostenevano con ben maggiore decisione; dall'altro ad assegnare una funzione sociale anche alle dottrine filosofiche che alla società non facevano riferimento diretto.

La filosofia nell'enciclopedia cristiana

Fu questa l'immagine della filosofia che permise il suo inserimento nella tradizione cristiana. Anche il cristianesimo proponeva una forma di salvezza, e in questo poteva mettersi in competizione con la filosofia. Ma già i dotti ebrei di Alessandria, che avevano imparato dai gentili a considerare la filosofia come uno dei prodotti culturali più alti dell'antichità, vi videro una specie di equivalente greco del vero sapere contenuto nella Bibbia, alla quale i Greci l'avrebbero 'rubata'. Ciò autorizzava l'uso della filosofia neoplatonica per interpretare la Bibbia e presentarla al mondo ebraico. A partire di qui gli gnostici sarebbero addirittura arrivati a pensare che l'interpretazione filosofica della Scrittura, o anche semplicemente una riformulazione della filosofia neoplatonica, potesse soppiantare i testi sacri. E questa minaccia si fece sentire non solo tra gli ebrei, ma anche tra i cristiani. La difesa dagli gnostici mise i cristiani in contatto con la filosofia, che in origine era stata loro estranea. Per un altro verso la filosofia diventò un problema nel momento in cui personaggi colti del mondo pagano si avvicinarono al cristianesimo o gli rivolsero critiche proprio dal punto di vista filosofico. Infine, soprattutto in Oriente, i cristiani di lingua greca utilizzarono la filosofia per difendere il cristianesimo anche dalle divisioni interne, le cosiddette 'eresie'. In Occidente invece la tradizione filosofica era sospetta ai cristiani di lingua latina, che vi vedevano l'origine non solo dello gnosticismo, ma di tutte le eresie. Del resto gli scrittori cristiani occidentali arrivavano alla filosofia quasi sempre attraverso gli studi letterari e la retorica.

Tra le dottrine filosofiche antiche quella neoplatonica si mostrò come la più adatta a essere assorbita nel cristianesimo, ma anche a presentarsi fino alla fine come un'alternativa. I filosofi platonici gareggiarono con i cristiani nella fedeltà ai propri testi e nella capacità di esibire confidenza con il soprannaturale. Ma fu il cristianesimo a entrare stabilmente nelle istituzioni della società antica. Del resto i filosofi non avevano mai fondato da nessuna parte la propria città. Platone e i cinici l'avevano progettata, gli epicurei vi avevano rinunciato e vivevano all'interno delle proprie chiesuole, gli stoici pensavano che i saggi appartenessero tutti a un'unica città senza mura, che 'attraversa' le città reali; ma nessuna città reale del mondo antico si sentì mai una 'città filosofica' né diede importanza alle città delle quali disputavano i filosofi. Fino a quando i neoplatonici presero atto della cosa e smisero di coltivare sogni di questo genere. Alla fine, nel 529, l'imperatore Giustiniano chiuse la Scuola d'Atene, la sola 'istituzione filosofica' sopravvissuta.

Molti dei suoi contenuti erano in realtà confluiti dentro la cultura cristiana, soprattutto in quella orientale; ma è difficile dire quali di essi avessero un qualche significato per il rapporto tra filosofia e società. Si è spesso sostenuto che la filosofia neoplatonica riflette la struttura dell'Impero romano perché fa dipendere l'universo, concepito come una successione gerarchica di livelli, da un principio strettamente unitario, che sarebbe la metafora dell'imperatore, una metafora sviluppatasi soprattutto nell'Impero romano d'Oriente, dove il cristianesimo platonizzato avrebbe concepito lo stesso ordine divino sul modello della corte imperiale. Queste interpretazioni non trovano sostegno nei testi disponibili. La teoria dell'uno è un vecchio tema che risale a Platone stesso e che è sorto nella civiltà cittadina, e l'Impero romano non sempre ebbe di sé un'immagine accentrata e gerarchica. Gli imperatori romani non mostrarono interesse per la filosofia, ma certamente non mostrarono un interesse particolare per il neoplatonismo rispetto alle altre sue forme. E quando l'Impero si fu cristianizzato i filosofi pagani sostennero la teoria dell'uno più sistematicamente dei cristiani. Bisogna arrivare a Dionigi l'Areopagita per trovare un'interpretazione filosofica della gerarchia ecclesiastica messa in parallelo con la gerarchia degli angeli; ma, servendosi della filosofia neoplatonica, Dionigi si proponeva di conciliare la tradizione ebraica e la sua demonologia con l'angelologia e la dottrina della Chiesa, proprie della tradizione cristiana, assai più che di dare un'immagine dell'ordine divino modellato sulla corte imperiale.

Uno dei tratti caratteristici del rapporto tra filosofia e società antica è costituito dal fatto che i filosofi non tennero quasi conto del diritto, che era uno dei contenuti più importanti della civiltà romana, in continuo sviluppo anche nel passaggio tra la fase pagana e quella cristiana dell'Impero. Perfino i cristiani di lingua latina, che talvolta avevano cultura giuridica, utilizzarono la filosofia più che il diritto per immaginare i rapporti tra la Chiesa e l'Impero. La filosofia aveva preparato alcuni degli strumenti necessari per interpretare l'Antico Testamento come premessa del cristianesimo; anche l'Impero poté essere considerato come la premessa voluta dal governo divino del mondo per preparare l'avvento del cristianesimo, perché era stato il posto in cui la filosofia aveva raggiunto il massimo sviluppo e poteva esser fatta propria dai cristiani.In Occidente l'unità della Chiesa si affermò con maggior forza e le eresie ebbero minor vitalità e minor libertà che in Oriente. Alla fine la caduta dell'Impero d'Occidente diede alla Chiesa un potere autonomo e ne fece il sostituto dell'autorità imperiale. Nei regni romano-barbarici, come quello degli Ostrogoti in Italia o quello dei Visigoti in Spagna, si formarono i principali strumenti della cultura filosofica medievale occidentale, legati ai nomi di Boezio, Cassiodoro, Isidoro di Siviglia. Essi diedero forma all'enciclopedia cristiana, e in essa trovò spazio la filosofia antica, considerata come la parte più alta del sapere, ma sempre subordinata all'interpretazione della Scrittura e all'illustrazione delle credenze fondamentali della Chiesa. Attraverso questa mediazione la filosofia entrò nella formazione del clero occidentale, che avrebbe assicurato alla società medievale gran parte della cultura dotta della quale aveva bisogno, e ispirò l'organizzazione delle scuole attraverso le quali il clero si formava e si rinnovava.

Pur restando all'interno dell'enciclopedia canonica, la filosofia introduceva nella cultura cristiana fermenti teologici, riflessioni sulle regole linguistiche con le quali si interpretavano i dogmi cristiani, discussioni sull'immagine del mondo trasmessa dai testi antichi confluiti nell'enciclopedia. Questi fermenti ebbero sviluppi nelle scuole, soprattutto quando esse si trasferirono dalle abbazie nelle città e si resero sempre più indipendenti dal controllo episcopale. Erano però fermenti tutti interni all'enciclopedia cristiana, e perciò la filosofia non si presentava come un'attività indipendente, che avesse un qualche collegamento diretto con la società. Non elaborava teorie significative della società o del proprio rapporto con essa, né si configurava come un fattore autonomo di trasformazione sociale. Da questo punto di vista erano molto più importanti la cultura giuridica, che si sviluppava dall'incontro del diritto romano e delle regole interne della Chiesa, o la cultura politica direttamente ispirata dalla teologia, nella quale la filosofia non aveva un posto di rilievo.Utilizzandola come strumento per l'interpretazione della Scrittura, la cultura cristiana diede alla filosofia un forte assetto istituzionale e un legame stabile con la società, come non era mai avvenuto nella società pagana e come mai i filosofi antichi avrebbero osato sperare: il più audace in questo senso, Platone, pensava che la città filosofica potesse contare su circa cinquemila famiglie. Ora la filosofia faceva parte del patrimonio intellettuale del clero, cioè di sacerdoti che erano funzionari e in parte anche guerrieri, e sembravano gli eredi dei filosofi-guardiani di Platone.

Il ritorno della filosofia

La minaccia all'enciclopedia cristiana venne dall'Oriente, dove le scuole filosofiche erano state più vivaci e originali, soprattutto ad Alessandria e ad Atene, e dove anche il cristianesimo aveva elaborato in modo autonomo il patrimonio platonico. Questi fermenti filosofici furono conservati presso gli eretici monofisiti e nestoriani che, esiliati ai margini dell'Impero, portarono con sé la conoscenza dei testi filosofici antichi, interpretandoli in modo relativamente indipendente dalla loro incorporazione nel neoplatonismo cristiano ufficiale. Furono questi eretici a trasmettere alle scuole arabe testi filosofici non integrati nell'enciclopedia cristiana occidentale; e quando questi testi arrivarono in Occidente, attraverso le traduzioni dall'arabo del XII secolo, in essi si scoprì una 'filosofia' che, non piegata all'interpretazione della Scrittura, pretendeva di avere in se stessa la propria giustificazione.Dall'enciclopedia cristiana era nato l'ordinamento delle università medievali, nelle quali la filosofia era inserita nella facoltà delle arti, una facoltà minore al servizio delle facoltà di teologia, diritto e medicina. In particolare la filosofia doveva servire ai teologi. Con l'arrivo dei nuovi testi greci e arabi i maestri della facoltà delle arti incominciarono a rifiutarsi di considerare la filosofia che essi insegnavano come un sapere diretto soltanto alla comprensione della Sacra Scrittura. La facoltà delle arti pretese di avere una funzione autonoma e di non essere soltanto una tappa verso il fastigio teologico, e l''artista' diventò un personaggio 'irregolare' perché non si sentiva più legato alla gerarchia degli studi universitari. Tutto questo fu complicato dal fatto che la Chiesa reagì alla penetrazione della filosofia araba in Occidente in primo luogo con divieti, poi cercando di inglobarla nella tradizione cristiana. A questo scopo immise nell'insegnamento universitario maestri di teologia appartenenti ai nuovi ordini mendicanti, domenicani e francescani, che non avevano l'obbligo di seguire gli studi della facoltà delle arti: anch'essi perciò erano 'irregolari' in modo complementare a quello in cui lo erano gli artisti. E questo contribuì ad approfondire l'opposizione tra la filosofia che si insegnava nella facoltà delle arti e quella che faceva parte dell'enciclopedia cristiana.

L'opposizione tra artisti e ordini mendicanti metteva in gioco anche un altro elemento. Già prima della 'rinascita della filosofia' i maestri medievali avevano una posizione speciale. Essi infatti facevano parte di una corporazione ed erano pagati per la prestazione che offrivano. La Chiesa aveva difficoltà ad ammettere che i maestri potessero ricevere una mercede come i mercanti o i salariati, perché vedeva nell'insegnamento qualcosa di diverso dalle altre prestazioni sociali, e perché la retribuzione dava ai maestri una certa indipendenza dall'autorità, in origine soprattutto ecclesiastica ma poi anche civile, al controllo della quale doveva sottostare soprattutto chi insegnava filosofia o teologia. Del resto quei maestri facevano parte anche di una comunità molto più ampia di quella locale cui appartenevano le singole università, di una comunità in un certo senso 'internazionale', perché insegnavano la cultura cristiana, che pretendeva di essere la cultura universale. L'ingresso nell'università degli ordini mendicanti complicò le cose, perché i teologi domenicani e francescani impartivano gratuitamente i propri insegnamenti, in quanto facevano della povertà e della mendicità una professione esplicita, proprio mentre i 'filosofi' della facoltà delle arti mostravano l'orgogliosa sicurezza di esercitare un mestiere. D'altra parte, armati della rinata filosofia aristotelica, gli artisti concepirono la propria posizione nella società secondo i canoni dell'etica aristotelica, e si considerarono i rappresentanti della virtù che avevano trovato descritta in Aristotele. Videro allora nella magnanimità il culmine delle virtù filosofiche, un ideale in netto contrasto con quello della mendicità proprio dei nuovi ordini.

L'ideale della magnanimità però non solo si contrapponeva alla mendicità praticata da domenicani e francescani, ma sembrava mal adattarsi anche alla concezione dell'insegnamento filosofico come mestiere stipendiato: al filosofo sembrava più conveniente una rendita che un salario. In questo senso la filosofia ereditava la netta contrapposizione tra funzione propriamente umana e funzione servile che i filosofi antichi avevano espresso. Si dice spesso che la filosofia antica contiene una svalutazione del lavoro manuale perché è il prodotto di una società che ha una bassa considerazione per quel tipo di attività, solitamente affidata agli schiavi. Effettivamente le dottrine filosofiche antiche a noi note in gran parte contrappongono le attività considerate intellettuali a quelle produttive, e tra le prime collocano l'esercizio della filosofia. Ma quelle dottrine non 'rispecchiano' affatto lo stato reale di una società nella quale produzione e commercio e lo stesso lavoro manuale erano ampiamente svolti da uomini liberi. I filosofi antichi lo sapevano benissimo e non ritenevano, a differenza di quello che filosofi e storici moderni hanno creduto, di rappresentare il 'pensiero implicito' dell'uomo antico. D'altra parte nella filosofia incorporata nell'enciclopedia cristiana quelle opinioni dei filosofi antichi non avevano più un'importanza centrale, perché testi come la Repubblica e le Leggi di Platone o la Politica di Aristotele, nei quali erano contenute le valutazioni negative del lavoro manuale, erano diventati meno importanti e perché il cristianesimo aveva cercato l'adesione anche di coloro che esercitavano le attività disprezzate dai filosofi. Le cose cambiarono quando rientrarono in circolazione le opere etiche e politiche di Aristotele: allora il disprezzo per i lavori servili, ma anche per la mendicità, venne utilizzato dai maestri che si sentivano soprattutto filosofi e che tenevano a distinguersi sia dai membri delle corporazioni mercantili e produttive sia dai frati mendicanti. C'era però una differenza fondamentale. Nel mondo antico, soprattutto nel mondo romano, la valutazione filosofica delle attività produttive e del lavoro manuale aveva contribuito a far sì che le comunità dei filosofi fossero gruppi ristretti, relativamente isolati e marginali. Invece la struttura feudale della società medievale poteva riconoscere concretamente la 'magnanimità filosofica', trasformando l'insegnamento universitario in un beneficio e liberandolo dai vincoli del 'mestiere': si realizzava così quello che Platone e Aristotele avevano pensato potesse accadere solo in una città retta da filosofi.

6. Il rinnovamento della politica

La riscoperta dei testi greci non si limitava a cambiare l'ambiente istituzionale in cui avveniva lo studio della filosofia, a delineare un nuovo status del filosofo e a configurare un suo diverso rapporto con la società. La lettura della Politica di Aristotele offriva un'interpretazione del mondo politico diversa da quella che pretendeva di rifarsi ad Agostino e che vedeva nella società umana un prodotto dell'uomo caduto: diventava possibile assegnare alla comunità politica un proprio fine positivo e considerare apprezzabili in sé tutte le attività che concorrono al raggiungimento di quel fine.

La riscoperta della Politica cambiava profondamente il contenuto perfino di quella cultura cristiana nella quale la filosofia continuava a mantenere una posizione subordinata rispetto alla teologia. Ma soprattutto la ripresa di contatto con il pensiero politico aristotelico cadeva in una tradizione già profondamente segnata dall'attenzione per il diritto: perché il diritto romano era diventato una componente rilevante della cultura filosofica e teologica medievale. Esso aveva posto qualche difficoltà al cristianesimo medievale, che trovava nella Bibbia la legge divina. Per lungo tempo il potere legislativo attribuito alla Chiesa servì a risolvere il problema: nell'Antico Testamento Dio stesso aveva dato le leggi al proprio popolo e la Chiesa aveva ereditato il suo potere. Ma la Chiesa succedeva anche al potere imperiale che era stato dei Romani, e il loro diritto poteva costituire un modello per l'attività legislativa ecclesiastica. La ricomparsa della Politica di Aristotele introduceva un elemento nuovo, descrivendo una società dotata di un ordine interno, nel quale le funzioni sono subordinate le une alle altre e tuttavia sono complementari, nel quale non c'era molto posto per una legge divina che garantisse l'ordine politico. Gli autori che cercavano di utilizzare il 'nuovo' Aristotele per tenere in piedi la vecchia enciclopedia cristiana conciliavano la tradizione romanistica con quella aristotelica: facevano della legge divina la garanzia dell'ordine politico descritto da Aristotele e ponevano nella gerarchia politica e nella cooperazione un limite ai poteri umani profani, dei singoli come del popolo o dell'imperatore. Questo era un tratto sconosciuto al diritto romano che non aveva fatto gran conto di un diritto naturale superiore a quello degli uomini, un'idea entrata nella tradizione cristiana come eredità della legge divina data da Dio agli Ebrei. Ora diritto divino e immagine aristotelica della comunità politica potevano andare insieme, configurandosi come modi diversi, ma compatibili, di porre limiti all'arbitrio umano.

Questa sistemazione era però minacciata dall'ideale cristiano della povertà del quale erano portatori gli ordini mendicanti, proprio quelli che cercavano di attutire il ritorno di Aristotele: infatti la città aristotelica aveva come fine il benessere e una vita agiata. Per i francescani Dio aveva dato la Terra agli uomini perché la usassero e a questo scopo rispondevano le leggi civili, che non contribuivano affatto alla salvezza delle anime. I francescani cercarono di recuperare l'agostinismo, dopo che i domenicani avevano tentato di inserire il nuovo Aristotele nella cultura cristiana. Naturalmente era un agostinismo che teneva conto dell'impresa dei domenicani: anche i francescani descrivevano la società politica come un organismo autonomo, dotato di un fine proprio, ma lo facevano non tanto per darne un'immagine positiva quanto per negare che essa avesse un valore religioso in se stessa. Interpretando l'impero medievale nei modi con i quali Aristotele aveva descritto la comunità politica, essi intendevano farne lo strumento per l'uso umano della Terra, un uso privo di ogni significato salvifico. Qualche volta si è vista qui la 'nascita dello spirito laico', paradossalmente attribuito proprio a un francescano come Guglielmo d'Ockham. In realtà si trattava dell''esplosione' dell'enciclopedia cristiana, che aveva difficoltà a tenere insieme le proprie componenti: la tradizione ebraica con la sua esaltazione della legge divina, quella latina che subordinava la filosofia alla retorica, quella cristiana che considerava la cultura antica come preparazione al cristianesimo, quella romanistica che dava tanta importanza alle decisioni degli individui e quella aristotelica che faceva della comunità politica un'unità organica e onnicomprensiva.

7. Le lettere, la scolastica e la politica

Se il teatro del dotto medievale che si occupava di filosofia era stato prima la scuola ecclesiastica e poi l'università, quello del dotto rinascimentale era un luogo vicino al potere, e poteva trattarsi tanto del potere cittadino quanto di quello principesco: amministrazioni cittadine e corti facevano sempre più uso di letterati, mentre nelle stesse università tradizionali entrava in crisi la subordinazione delle altre facoltà (in particolare della facoltà delle arti) a quella di teologia. Ma la cosa non avveniva in nome della filosofia. Il tentativo di dare autonomia alla facoltà delle arti attraverso la filosofia era fallito nel Duecento e non venne più ripreso; dopo di allora furono semmai gli studi letterari quelli in nome dei quali si mise in dubbio il primato della facoltà di teologia. Francesco Petrarca espresse assai bene l'avversione umanistica per l'aristotelismo averroistico nel quale si erano riconosciuti gli artisti medievali. E in generale i nuovi letterati manifestarono fastidio per tutta la struttura universitaria tradizionale, anche per le facoltà di diritto e di medicina.Tuttavia, bene o male, la filosofia rimase catturata all'interno delle università. I letterati che assumevano come modello gli scrittori romani conoscevano la filosofia e spesso pretendevano di comprenderne i testi meglio degli scolastici medievali o anche dei professori loro contemporanei che insegnavano nelle università; ma la filosofia non aveva per loro un'importanza particolare ed era semplicemente un aspetto dell'enciclopedia costruita dai retori romani. In un certo senso la filosofia aveva per gli umanisti meno importanza e meno autonomia che per gli scolastici. Soprattutto gli umanisti che più direttamente avevano rapporti con la società, o che parlavano esplicitamente della società, guardavano non tanto ai filosofi antichi quanto agli oratori e agli storici: valga per tutti il caso di Machiavelli. Quando gli umanisti esprimevano una filosofia propria, come nel caso di Marsilio Ficino, si trattava di una dottrina che rifuggiva da ogni riferimento alla società e semmai riprendeva i temi mistici della tradizione platonica. Questa esperienza derivava dal fallimento dell'aristotelismo politico degli scolastici, dalla riscoperta della religiosità di Eckhart e di Cusano e dall'arrivo in Occidente dei dotti bizantini, i quali portavano con sé l'immagine di una filosofia del tutto disinteressata ai rapporti con la società.

Nel corso del Cinquecento la cultura umanistica finì con il penetrare nelle facoltà delle arti di quasi tutte le università, interrompendo la tradizione che le collegava alla scolastica e facendo ulteriormente diminuire l'importanza della filosofia rispetto agli studi storici e letterari.

Tuttavia la filosofia scolastica recuperò vitalità nel mondo cattolico che, contro il nominalismo e la teologia mistica e anche in risposta alla Riforma protestante, riscoprì l'aristotelismo di Tommaso. Fu una rinascita interna all'università, che diede i frutti più cospicui in Spagna, dove il tomismo si congiunse con la cultura umanistica arrivata attraverso Erasmo. In questi ambienti venne elaborata un'immagine filosofica della società politica fondata insieme sulle teorie morali e politiche di Aristotele e sui testi antichi frequentati dagli umanisti, un'immagine nella quale la comunità diventava il centro di tutto il sistema politico e la fonte dell'autorità.L'immagine filosofica della società ereditata dalla scolastica e rielaborata dalla cultura spagnola passò, attraverso l'Università di Lovanio e le scuole gesuitiche, dapprima in Olanda e poi, soprattutto per opera di Ugo Grozio, nella cultura europea. Neppure Grozio, che aveva una formazione umanistica e giuridica, era propriamente un filosofo, ma le sue idee esercitarono una funzione decisiva per la nascita dell'interpretazione filosofica moderna della società e perfino della figura del filosofo nella società moderna. Attraverso la scolastica spagnola e belga Grozio si rifaceva alla dottrina medievale della legge di natura: la stessa pretesa di elaborare una teoria del diritto valida indipendentemente dall'assunzione che Dio esista era la ripresa di una questione medievale posta dalla tarda scolastica, e con strumenti scolastici Grozio affrontò la crisi del progetto di rinascita dell'Impero promosso da Carlo V, una crisi che ebbe in Olanda uno dei suoi epicentri. Grozio la visse personalmente in termini anche drammatici e dovette abbandonare l'Olanda, diventando così uno dei campioni della nuova figura di umanista che entrava in conflitto con il proprio paese. La saldatura tra umanesimo e filosofia, che in Spagna era avvenuta nell'università e accanto al potere, con Grozio segnava la rottura del legame tra il letterato-giurista e il principe: il dotto doveva cercare una collocazione fuori dalle istituzioni.

Tramontata l'idea di un impero come insieme di comunità che costituiscono la base del potere politico, Grozio continuava a concepire la società umana come un insieme di comunità distinte, ma non più sottomesse in linea di principio a nessuna autorità suprema e sottoposte solo alla legge di natura. Partendo da una specie di storia naturale della società umana egli affidava al potere il compito specifico di rendere sicura la vita dei membri della comunità. Se la tradizione cristiana aveva visto nel potere politico il frutto insieme della caduta e del governo divino del mondo, se l'aristotelismo aveva ripreso l'idea che la comunità politica ha per fine 'il ben vivere', Grozio faceva della sicurezza il fine principale della società politica. Si è spesso detto che Grozio intende applicare i criteri della 'razionalità moderna' alla società politica o ricondurre il potere politico alla 'tutela della proprietà'. Queste interpretazioni derivano dall'applicazione di schemi arbitrari: a Grozio importava che in ogni comunità il potere politico fosse ben identificabile, anche se comunità diverse lo potevano condizionare con patti diversi, perché solo un potere certo sarebbe stato in grado di dare protezione e sicurezza.La filosofia stabilì un nuovo rapporto con la società anche riprendendo la critica umanistica all'educazione universitaria tradizionale. Questa volta la filosofia usciva dalle università nelle quali l'umanesimo si era affermato e, a differenza degli umanisti delle origini, Francesco Bacone e Cartesio potevano criticare, oltre la scolastica, anche i programmi della nuova cultura umanistica. La critica non era più una specie di 'antifilosofia', ché anzi era formulata in linguaggio filosofico e doveva servire come premessa per la costruzione di una nuova filosofia. L'aspetto più rilevante della filosofia baconiana non era certamente la politica e Cartesio si astenne scrupolosamente dal formulare interpretazioni filosofiche della società. E tuttavia c'era qualcosa che accomunava questi personaggi a Grozio: esprimevano tutti una cultura che si sviluppava fuori dalle università, qualche volta addirittura contro di esse, e avevano tutti un rapporto difficile con il potere.

Fu però Hobbes che collegò il rifiuto del sistema universitario, la costruzione di un sapere che, come quello cartesiano, avesse per oggetto la natura e un'interpretazione politica della società suggerita dalle dottrine di Grozio. L'idea groziana che la comunità debba essere retta da un'autorità certa e che questa debba garantire soprattutto la sicurezza dei suoi membri veniva immessa in un modello di società intesa come una macchina, un orologio. L'assunzione groziana che i rapporti diretti tra gli uomini sono la cosa più importante della società umana restava vera anche per Hobbes, ma nel senso che gli uomini sono sostanzialmente minacce, anziché aiuti, gli uni per gli altri, perché ciascuno agisce tenendo conto solo di un orizzonte limitato e senza avere il controllo del futuro. A differenza di Grozio, Hobbes interpretava la società servendosi di una filosofia depurata dai temi umanistici e anzi memore dei modi della tradizione scolastica. Anche nel caso di Hobbes si è sostenuto che la sua filosofia politica 'rappresenta' o 'riflette' la società del suo tempo, una società che si stacca dalla tradizione, si 'secolarizza', pone al proprio centro la proprietà privata e così via. Non c'è nessuna prova effettiva di un nesso di questo genere, che è stato immaginato dagli storici della filosofia dell'Ottocento e del Novecento. Nonostante che Hobbes tenga conto della letteratura politica molto abbondante nell'Inghilterra del suo tempo, è impossibile collegarlo a un partito preciso. Il legame più forte fu con la famiglia Cavendish al cui servizio era entrato e della quale seguì le fortune politiche. Qualcosa del genere accadde anche a Locke, che pure non diede basi meccanicistiche alle proprie teorie politiche e non le fece dipendere da una filosofia, neppure dalla propria. Nei contenuti le sue posizioni erano diverse da quelle di Hobbes, ma anch'esse erano maturate in una storia politica molto particolare e nel legame con un uomo politico come il primo conte di Shaftesbury.

Hobbes e Locke avevano in comune il modo di costruire la filosofia politica: entrambi attingevano alla dottrina del diritto naturale formulata da Grozio e davano alle proprie teorie una generalità che le faceva apparire indipendenti dalle vicende politiche inglesi, apriva loro la cultura europea e ne faceva un corpo abbastanza estraneo al dibattito politico corrente in Inghilterra.Hobbes e Locke erano due incarnazioni della figura del filosofo moderno, non inquadrato in una facoltà universitaria e non appartenente al clero: essi realizzarono nel campo della filosofia politica il modello cartesiano del filosofo, che metteva sotto il segno della ragione privata le idee che proponeva. Di fatto tennero conto non solo dell'atteggiamento cartesiano, ma anche dei contenuti della filosofia cartesiana, della sua interpretazione della conoscenza e del quadro della natura che essa aveva costruito, anche se di quella filosofia davano interpretazioni e valutazioni diverse. Il più caratteristico dei filosofi di questo tipo fu Spinoza: egli pretendeva assai più degli altri di aderire alla filosofia cartesiana nel suo complesso, ma nello stesso tempo incarnò con più determinazione il modello del filosofo solitario geloso della propria libertà, che vede nell'organizzazione politica della società una garanzia di sicurezza per tutti e una garanzia di libertà per chi esercita il pensiero.

8. Filosofi naturali e philosophes

La nuova filosofia si connetteva sempre più strettamente alle 'nuove scienze' della natura, originariamente l'astronomia e la meccanica, come le aveva presentate Galileo, ma poi a tutti i tentativi di estendere quel tipo di scienza agli altri campi della natura. Queste forme di sapere erano spesso coltivate presso gruppi non formali dai quali presero vita le due principali istituzioni culturali seicentesche che sorsero in alternativa all'università: la Royal Society, nata in Inghilterra di fatto poco prima del 1648 e riconosciuta nel 1660 e 1662, e l'Académie Royale des Sciences, nata in Francia di fatto anch'essa intorno al 1648 ma riconosciuta nel 1665-1666. Entrambe le istituzioni godevano della protezione diretta del potere politico, secondo la tradizione che era stata del Collège Royal o del Gresham College, anch'essi al loro tempo centri di diffusione di culture alternative a quella delle università. Il modello dell'Académie ebbe molto successo in Europa e accademie simili sorsero in molti paesi. I membri delle nuove società culturali ebbero rapporti intensi tra loro e anche con membri delle università che si dimostrarono disponibili al nuovo sapere, arrivando a costituire una vera e propria 'comunità scientifica internazionale'. Le accademie si proponevano non tanto di insegnare, trasmettendo il sapere tradizionale, quanto di raccogliere nozioni, promuovere scoperte, favorire la comunicazione di quello che si scopriva, sottoporre a prova le conoscenze e mettere tutto a disposizione dei governanti: insomma di perseguire un sapere utile. In questo ambiente si diffuse il cartesianesimo inteso talvolta come dottrina filosofica in senso stretto, talvolta come una cornice generale entro la quale si elaboravano le spiegazioni dei fenomeni naturali. Emergeva così la figura del 'filosofo naturale', un matematico o un investigatore della natura, abile anche nel fare esperimenti, un 'virtuoso', che si muoveva entro un quadro di fondo generalmente meccanicistico, ma che era anche convinto della possibilità di trovare nella costituzione meccanica del mondo conferme delle fondamentali verità religiose. Il cartesianesimo costituì quasi sempre un tratto del suo patrimonio intellettuale, anche se non sempre si trattò di un'adesione totale alla filosofia cartesiana, considerata soprattutto come la fonte di problemi e spiegazioni, ma anche fortemente criticata per le sue pretese di dare un sapere totale e definitivo.

Il filosofo naturale aveva una collocazione precisa entro la società seicentesca: godeva della protezione del re o di qualche personaggio potente, poteva essere al servizio di una grande famiglia, frequentava circoli privati semiufficiali o era addirittura membro di un'accademia ufficiale. La 'filosofia' vera e propria che coltivava, ricavata da correzioni al patrimonio aristotelico-scolastico, come nel caso di Cartesio, Hobbes, Locke o Spinoza, o da filosofi antichi riabilitati, come faceva Gassendi con Epicuro, serviva a proteggere la conoscenza naturale in senso stretto dai conflitti con la religione; e comunque non era una dottrina insegnata nell'università. La filosofia diventava insomma una specie di 'strategia culturale' per proteggere lo spazio di libertà che i dotti riservavano a se stessi. Per molto tempo si è attribuita all'intellettuale seicentesco una condotta di 'dissimulazione', cioè una serie di accorgimenti atti a nascondere in parte il proprio pensiero, soprattutto in fatto di religione, o a lasciarlo filtrare attraverso 'codici impliciti', in modo che fosse comprensibile soltanto a chi faceva parte della medesima confraternita intellettuale. Oggi la categoria storiografica di 'dissimulazione' è guardata con sospetto; comunque essa si adatta soprattutto ai letterati, che dovevano maneggiare testi più espliciti, mentre i filosofi avevano per le mani dottrine da tempo addomesticate al cristianesimo, con margini di libertà assai ampi. Il prezzo che dovevano pagare era semmai un altro: astenersi dagli arcana imperii, cioè dalla politica. Il filosofo naturale era un personaggio importante della società seicentesca: coltivava un sapere utilizzabile dai governanti, ma la sua libertà, per essere protetta, doveva essere rispettosa. Come Gassendi e Hobbes, poteva perfino suggerire un'interpretazione dei comportamenti individuali tratta più da Epicuro che da Aristotele e Tommaso, ma non doveva formulare dottrine che apparissero come minacce al potere. Qualcuno di quei filosofi naturali corse qualche rischio politico, come Spinoza o Locke, ma lo fece all'ombra di personaggi potenti, per difendere le loro posizioni politiche e comunque a favore di una 'libertà di credere' che si ingegnavano di dimostrare compatibile con comunità politiche sicure.

Il cartesianesimo era anche un programma di conciliazione della nuova scienza con la tradizione religiosa, un programma che si poneva, come si era sempre posto nella cultura cristiana, in termini di rapporto tra ragione e fede. La separazione della concezione meccanicistica della natura dalla 'filosofia prima' cartesiana, alla quale soprattutto era affidata la conciliazione con la fede, e i dubbi e le critiche che investirono questo aspetto del cartesianesimo cambiarono il rapporto tra filosofia e religione e finirono con il fare della filosofia una forma di critica delle credenze religiose. In questo senso agì soprattutto la revisione in chiave soggettivistica e scettica del cartesianesimo, unita alla filosofia che si prendeva a costruire sulla fisica newtoniana. I rappresentanti di questa cultura filosofica furono i deisti e Bayle, e i suoi centri di diffusione l'Inghilterra e l'Olanda, paesi nei quali si era stabilita assai presto un'ampia libertà di stampa. Da questi centri un flusso di idee antireligiose o di scetticismo religioso si diffuse in Francia e in Germania. In Francia incontrò dapprima una rigida censura, che produsse un'ampia letteratura clandestina nella quale i toni antireligiosi diventarono molto più aspri che nei testi deistici inglesi. La censura si allentò nel 1740 e fu praticamente soppressa nel 1750, e proprio dall'accettazione del deismo e dall'acclimatazione della cultura clandestina nacque la figura del philosophe illuminista.Il philosophe in parte derivava dal filosofo naturale seicentesco: come lui godeva spesso di protezioni ufficiali o semiufficiali, e perfino di posizioni di prestigio, e le sue idee avevano corso in società culturali e accademie a Parigi come in provincia. Ma l'accademia ufficiale non era più il luogo preferito per la costruzione e la diffusione del sapere utile, né i governanti erano i destinatari principali di quel sapere. Gli scritti dei philosophes circolavano talvolta con qualche difficoltà, ma talvolta con grande successo e perfino con un ritorno economico significativo; e il pubblico, cioè i singoli lettori, era il vero destinatario del loro contenuto. Questo faceva anche venir meno il 'patto' che aveva tenuto il filosofo seicentesco lontano dai misteri della politica, ché anzi religione e politica erano spesso i temi che suscitavano maggior interesse.Gli illuministi non costruirono un'immagine unitaria della società né proposero un sistema politico organico. Il loro era piuttosto un programma, che doveva promuovere l'educazione dell'umanità diffondendo il sapere.

La filosofia in quanto disciplina autonoma non aveva una posizione preminente in questo programma: era una specie di quadro generale dell'universo entro il quale inserire conoscenze particolari utili. Su questo quadro gli illuministi potevano anche non essere perfettamente d'accordo tra loro: Diderot pensava che il tempo della metafisica fosse tramontato, ma apprezzava Condillac che aveva il coraggio di condurre analisi metafisiche adeguate alle nuove conoscenze. Il più delle volte comunque gli illuministi convergevano sui fini della filosofia e sulla valutazione del suo compito nella società: come sapere unitario la filosofia poteva essere contrapposta alla religione, e così gli illuministi potevano riprendere l'antica dualità di ragione e fede e rivendicare il primato della prima sulla seconda.Il programma illuministico conteneva una forte fiducia nella possibilità di cambiare la società attraverso l'educazione e il sapere, e gli illuministi videro nella conoscenza della storia e dell'uomo le premesse per realizzare una riforma della società. Essi costruirono un quadro della natura umana riprendendo la critica del naturalismo seicentesco al finalismo aristotelico e dando un'interpretazione sostanzialmente epicurea dei moventi delle azioni umane, ricondotti al piacere e al dolore. In realtà questo fu soprattutto un punto di partenza, ché il Settecento assistette a una gran discussione sui moventi dell'azione: dentro all'illuminismo e intorno a esso si cercarono altri moventi 'meno egoistici' di quelli, ma comunque tali da offrire un accesso ai comportamenti umani e una possibilità di cambiarli.Quanto alla storia i philosophes, che non erano storici professionali in senso stretto, facevano uso della storia più di quanto la costruissero essi stessi. A questo scopo essi applicavano i motivi ereditati dall'antropologia filosofica e gli schemi derivati dalla critica alla tradizione cristiana, dando un'interpretazione della storia del tutto svincolata dalla Bibbia. Uno dei risultati più importanti di questa impresa fu quella che Voltaire chiamò 'filosofia della storia', che entrò in conflitto con alcune delle teorie politiche appartenenti alla matrice culturale dell'illuminismo, in particolare con la dottrina del diritto naturale e in generale con le dottrine contrattualistiche. La cosa fu avvertita soprattutto da Hume, che fece una miscela originale dei diversi motivi presenti nell'antropologia illuministica e della concezione della storia elaborata in Francia per mettere da parte le teorie del contratto e del diritto naturale.

9. Al servizio del principe

Il rapporto tra filosofia e società si configurò in modi completamente diversi in Francia e in Inghilterra, dove la filosofia si esprimeva soprattutto in forma saggistica, fuori dalle istituzioni, rivolgendosi direttamente al pubblico, e in Germania, dove la filosofia trovò modo di rinnovarsi pur restando all'interno delle università; anzi essa svolse una funzione importante nel rinnovamento delle università tedesche, che ebbe luogo alla fine del Seicento e nel corso del Settecento. In Francia, soprattutto a Parigi, l'università si chiuse subito alla filosofia seicentesca e assunse una funzione di controllo e censura delle novità; altrove i rapporti tra la cultura esterna e le università continuarono, anche se talvolta in modo precario, e solo il Settecento segnò la decadenza delle antiche università europee. In Germania le cose andarono diversamente. Le università rimasero centri intellettuali assai vivi, nei quali le innovazioni culturali trovarono modo di coabitare con la tradizione scolastica. Su questa base si innestarono poi le trasformazioni introdotte dapprima nelle università di nuova fondazione, come Halle (1694) e Gottinga (1734), e poi in tutte le altre. I professori smisero di essere membri dell'antica corporazione medievale e diventarono funzionari del principe incaricati dell'educazione. Impartivano lezioni pubbliche per la trasmissione del sapere, ma anche lezioni private di addestramento scientifico, perché dovevano non solo insegnare ma anche costruire il sapere. In questa veste e sotto la protezione del principe essi godevano della libertà di insegnamento.Nel nuovo sistema universitario la facoltà delle arti trovò la posizione di prestigio che invano aveva cercato nell'università medievale, perché diventò il luogo in cui si elaboravano e si insegnavano le basi dell'ordine intellettuale di tutto il sapere. Questo era possibile perché la tradizione scolastica, anche nella rielaborazione dei riformatori luterani, si era conservata, e in essa erano confluiti tanto il ramismo quanto il cartesianesimo.

Ma fu soprattutto Christian Wolff che, erede di tutte queste esperienze oltre che delle idee di Leibniz, alle quali si era convertito, cercò di mettere sotto il segno di una filosofia sistematica la cultura che le università tedesche elaboravano. Wolff riprendeva le idee politiche e giuridiche di Pufendorf e di Thomasius, e così l'immagine della società nata dalle riflessioni groziane sulla dissoluzione dell'idea imperiale, innestandosi nella tradizione scolastica, diventava in Germania una vera e propria istituzione. D'altra parte il diritto naturale era diventato materia di insegnamento anche della facoltà di diritto, dove per altro i cameralisti studiavano discipline che un tempo facevano parte della facoltà delle arti: per questo la filosofia poteva davvero apparire come il quadro generale della cultura appresa dalle classi superiori al servizio del principe.

Tuttavia la rinascita filosofica delle università tedesche aveva radici lontane e si connetteva alla tradizione medievale. Alla base della chiusura in se stessa dell'Università di Parigi c'erano state, prima ancora che la reazione alla filosofia meccanicistica, le vicende dell'occamismo e dello scotismo. Era partito da Parigi e dalla reazione al nominalismo lì imperante Francisco de Victoria per dare vita a una seconda scolastica. Questa fu una componente importante della fioritura filosofica spagnola del Cinquecento, animò l'Università di Salamanca, come quella portoghese di Coimbra e quella belga di Lovanio, e penetrò la cultura gesuitica; ma influenzò anche l'Olanda e in particolare Grozio. Era affine a questa, e in parte le era direttamente collegata, soprattutto attraverso la dottrina del diritto naturale, la cultura che presiedeva al rinnovamento delle università tedesche. La persistenza della tradizione scolastica trovava del resto piena rispondenza nella filosofia di Leibniz il quale, anche lui, cercava di collegare la filosofia moderna con quella scolastica. Le idee di Leibniz penetrarono largamente nelle università tedesche e furono alla base delle accademie che anche in Germania andavano diffondendosi. C'erano perciò in Germania le condizioni per le quali la filosofia potesse mantenere una funzione pur restando dentro le università, e anzi contribuisse a rinnovare le università, introducendo nella vecchia facoltà delle arti contenuti propri della cultura moderna e facendone uno strumento efficace per la formazione della classe colta.

10. L'educatore del popolo

Il buon rapporto instauratosi in Germania tra il sistema universitario e la cultura delle accademie sotto gli auspici del potere politico entrò in crisi con l'arrivo della filosofia della storia volterriana. Allora l'appoggio dei principi tedeschi agli illuministi francesi parve sospetto e lo stesso sistema fondato sul binomio università-accademia sembrò uno strumento di dominio. La rottura interna alla cultura filosofica tedesca corrispondeva però a una frattura che si era prodotta all'interno della cultura illuministica anche in Francia e in Inghilterra. In Francia Rousseau considerava la critica della tradizione e i progetti educativi dei philosophes come un allontanamento dalla natura, lungo le linee sulle quali del resto ormai correva la società europea.

Anche Rousseau, come i philosophes, apprezzava un sapere utile, che mettesse in contatto con la natura e avviasse al lavoro, ma si proponeva di inserire questa riforma del sapere in una rivoluzione prima di tutto morale, che facesse riscoprire la virtù. Gli illuministi volevano promuovere una 'grande società' essenzialmente urbana, nella quale il sapere potesse crescere e diffondersi, liberando gli uomini da superstizioni e pregiudizi e rendendo la vita sempre più piacevole, mentre Rousseau coltivava l'ideale della piccola comunità retta dalla volontà generale, cioè da una volontà unanime se possibile, altrimenti dalla maggioranza del popolo, che rappresenta pur sempre il tutto. E la volontà generale non può sbagliare, perché male ed errore consistono appunto in una volontà particolare che devia dall'ordine generale. Poiché per lui i temi religiosi erano molto più importanti di quanto non lo fossero per gli illuministi, Rousseau rifiutava il primato della conoscenza razionale e si affidava al sentimento, all'insegnamento diretto della natura e all'interpretazione della ragione non tanto come una facoltà conoscitiva quanto come motivazione del comportamento, l'unica motivazione capace di garantire la libertà dell'uomo: perché la libertà è soprattutto indipendenza dalle cose e sovranità della volontà. In Inghilterra Hume sosteneva su linee diverse cose analoghe a quelle di Rousseau: anche lui mostrava l'impossibilità di orientare il volere con semplici conoscenze e contrapponeva l'idea delle piccole comunità ai grandi Stati moderni. Hume non aveva il senso religioso di Rousseau, ma anche lui riteneva che la critica razionale non potesse annullare negli uomini le paure dalle quali nasce la religione.Le idee di Rousseau ebbero un grande successo non solo in Francia e non solo tra i dotti. Esse esprimevano un rifiuto, che gli illuministi condividevano, della società tradizionale ma anche della società presente, compresa la sua componente illuministica.

In Germania questo rifiuto dell'illuminismo ebbe efficacia nella cultura letteraria, in quella religiosa e anche in quella filosofica e universitaria. Ma qui quel rifiuto fu utilizzato anche per rispondere alla filosofia della storia illuministica rivendicando, sia pure in maniera indiretta, la storicità della Bibbia messa in dubbio dai deisti e da Voltaire: la Bibbia venne considerata non come un libro di storia vero e proprio, ma come un libro scritto per l'educazione del genere umano, e Herder cercò addirittura di ricavare dalla Bibbia uno schema di sviluppo storico alternativo a quello delineato dagli illuministi, nel quale i momenti positivi erano rappresentati dalla Grecia antica, dal cristianesimo nascente e dai Germani, non certo dalle società moderne. Herder rifiutava quello che cominciava ad apparire come il grande Stato moderno, dominato da una corte, ed esprimeva la nostalgia della piccola comunità o la speranza riposta nei 'nuovi barbari', gli slavi.Anche Kant utilizzò la filosofia di Rousseau per dare una risposta all'illuminismo e al dispotismo del quale gli sembrava l'espressione, ma cercò di immetterla nella tradizione accademica tedesca che, da Pufendorf in poi, aveva distinto le leggi morali da quelle politiche e aveva ricavato le seconde dalle prime.

Kant modellò le leggi morali sulla piccola comunità russoviana, una comunità che può essere retta da una volontà generale, identica in tutti, e nella quale i problemi di differenziazione di ruolo non sono rilevanti. Senonché Kant estese il modello della piccola comunità a tutta l'umanità, sostenendo che ci sono alcuni tipi di norme che valgono per tutti gli uomini, mentre alle comunità reali, che sono locali, sono affidati i compiti connessi alle specializzazioni sociali. Una comunità insieme russoviana e universale si collocava ovviamente all'infinito, era un ideale costituito da una repubblica comprendente tutti gli uomini nella quale si sarebbe realizzata la pace perpetua.Kant inseriva però tutto questo nel sistema universitario tedesco. Pur nel rinnovamento delle università tedesche del Settecento, la filosofia, che si insegnava nella facoltà delle arti, era intesa come parte di studi preparatori per le facoltà professionali di medicina, teologia e giurisprudenza. Ma Kant sosteneva che gli studi filosofici, proprio perché preparatori, insegnano i modi nei quali la ragione si esercita in generale. La filosofia di Kant trasformava in generalità l'inferiorità della filosofia rispetto alle discipline professionali e al sapere positivo che costituiva il contenuto del programma illuministico, e pretendeva che la filosofia insegnata nelle università tedesche, con il suo linguaggio un po' scolastico, un po' ramista e un po' wolffiano, esponesse le condizioni del sapere di qualsiasi tipo. Solo coloro che praticavano discipline professionali, il sapere utile tanto ricercato dai sovrani, potevano essere sottoposti al controllo dell'autorità, perché essi agivano direttamente sul popolo. Ma questo non vale per i dotti che discutono solo di condizioni delle conoscenze e non delle loro applicazioni: essi devono godere della totale libertà, fino a quando parlano come dotti. E Kant cercava di collocare a questo livello anche le regole generali di comportamento valide per tutta l'umanità.

Nella cultura illuministica la filosofia era concepita come il quadro entro il quale si collocavano forme di sapere che dovevano promuovere la riforma della società. Gli illuministi avevano insistito soprattutto sui contenuti di quel quadro. Era stato Kant a puntare l'attenzione sulle strutture del quadro per ricavarne regole generali. Egli però si era mosso all'interno degli ordinamenti universitari tradizionali, mantenendo una separazione tra sapere filosofico e sapere professionale. Eppure alla filosofia kantiana si ispirava Wilhelm von Humboldt fondando nel 1809 l'Università di Berlino con un programma di rinnovamento radicale degli studi. Ma mentre per Kant la filosofia aveva semplicemente illustrato le condizioni generali del sapere, per Humboldt le università dovevano essere il luogo in cui la filosofia produce direttamente sapere, e non sapere utile, come quello richiesto alle università settecentesche, per persone preparate al servizio del principe, ma sapere disinteressato, cioè un sapere nel quale il momento filosofico non è mai separato da quello professionale e applicativo. Il primo rettore dell'Università di Berlino fu Fichte, ed era proprio Fichte a ritenere che la filosofia potesse produrre essa stessa sapere, un sapere dinamico, mai circoscrivibile in una formula, del quale si è sempre in cerca e che non si possiede mai interamente. Inoltre l'università doveva provvedere direttamente all'educazione del popolo e non lasciare più che essa fosse affidata ai 'professionisti' sotto la guida di governi. Se Kant aveva fatto della piccola comunità di Rousseau un ideale collocato all'infinito, Fichte voleva promuovere direttamente la costruzione di una comunità reale sul modello della comunità russoviana. La morale kantiana poteva diventare lo strumento per la produzione del nuovo Stato.Hegel diede una forma più moderata al programma di Humboldt e di Fichte, pur sostenendo in tutti i modi il primato della filosofia e la sua capacità di produrre sapere, come aveva detto Fichte. In realtà Hegel fece 'produrre' sapere dalla filosofia solo nel campo della natura, per affermare la superiorità della filosofia sugli scienziati di tradizione illuministica, mentre si mantenne più prudente verso le istituzioni storiche della società e le sue espressioni culturali maggiori, come il diritto, l'arte e la religione. In questi casi il primato della filosofia, che viene ultima, consiste semplicemente nel fatto che essa accetta e riformula quello che la storia ha prodotto.

All'idea di Kant, per il quale la filosofia parlava in nome della ragione, ma attraverso i dotti e accettando che fossero i professionisti al servizio del principe a parlare al popolo, e alla convinzione di Fichte, che i filosofi potessero parlare essi stessi al popolo, Hegel opponeva che la filosofia comprende razionalmente quello che la storia produce: i principi e i loro servitori sono tutti funzionari della storia ed esecutori di un piano che la filosofia conosce dopo che si è realizzato, ma non produce essa stessa.In Germania il primato della filosofia nei progetti di costruzione e di controllo della società era dovuto in gran parte alla persistenza dell'università e alla sua capacità di modificarsi, adattandosi prima al governo del principe settecentesco, poi alle condizioni della società uscita dalla Rivoluzione francese. Altrove la decadenza delle università come sedi primarie di elaborazione intellettuale e la loro opposizione ai centri di produzione della scienza avevano favorito lo sviluppo di un sapere non strettamente legato a cornici filosofiche e la fioritura di dottrine filosofiche fuori da sedi istituzionali precise. In Francia gli illuministi e Rousseau, in Inghilterra i deisti e Hume avevano costituito casi di questo genere: si trattava di personaggi fortunati, largamente conosciuti in una cultura diffusa, nella quale però la filosofia aveva spesso una fisionomia imprecisa e una collocazione incerta. Il progetto tedesco di 'educazione del popolo' non era però il solo in Europa, e anzi la riforma dell'università promossa da Humboldt presupponeva i piani di educazione nazionale messi in cantiere dalla Rivoluzione francese. Senonché questi piani, soprattutto quelli realizzati dal Direttorio e da Napoleone, erano ispirati dal programma enciclopedico dell'illuminismo, nel quale la filosofia aveva una portata modesta. Era assai più forte l'eredità dell'Académie des Sciences, cioè di un'istituzione che aveva praticato una 'filosofia minima', soprattutto una filosofia meno interessata ai propri rapporti con la società, ed era sempre stata alternativa all'università. Semmai nella cultura postrivoluzionaria la filosofia stessa si specializzava e si trasformava in una scienza dell'uomo, che in parte ereditava i programmi di riforma dell'illuminismo.

Eppure qualcosa di analogo a quello che accadeva in Germania accadde anche in Francia e in Inghilterra, ma fuori delle istituzioni ufficiali, soprattutto fuori delle università. Gli utilitaristi in Inghilterra, i positivisti soprattutto in Francia costituirono dei veri e propri movimenti, più o meno organizzati, ma soprattutto elaborarono un progetto preciso di costruzione di una società nuova o di riforma della società esistente. La posizione della filosofia in questi movimenti non era sempre la stessa e non era sempre ben definita: più vaga per gli utilitaristi, che collocavano al primo posto la 'scienza della società', più netta per i positivisti che, anch'essi, pretendevano di costruire una scienza della società, ma davano un posto e una funzione precisi alla filosofia.Le università europee continentali acquistarono rapidamente una posizione importante nell'Ottocento per l'effetto congiunto delle riforme scolastiche introdotte dopo la Rivoluzione francese e del modello universitario tedesco. Ma non si trattava più del progetto humboldtiano originario. Nelle università tedesche la filosofia si stava integrando con le altre discipline e stava perdendo le pretese di primato totale che erano state proprie di tanta parte della filosofia che si richiamava a Kant. Le università tedesche e francesi dell'Ottocento si rivelarono ben presto importanti centri di sviluppo delle scienze matematiche e naturali, ma il primato della filosofia come produttrice di sapere fu minacciato dalle stesse discipline aventi per oggetto il mondo umano. Anzi la filosofia fu spinta sempre di più a trovarsi un posto tra le scienze storiche, con le quali la filosofia hegeliana aveva mantenuto un legame più stretto; e questo la indusse a ripiegarsi sulla propria storia. Del resto una delle reazioni della cultura ottocentesca alla Rivoluzione francese era stato il ritorno alla tradizione. La cosa era avvenuta in molti modi e in molti campi. In filosofia essa avvenne attraverso la ricostruzione della tradizione filosofica intesa come un tutto unitario. Schleiermacher diede questa interpretazione della storia della filosofia, utilizzando i metodi con i quali l'ermeneutica biblica si proponeva di trovare il significato del testo scritturale, indipendentemente dal fatto che il suo contenuto fosse o non fosse vero. Attraverso i significati, che appartengono in modo primario ai testi, e non attraverso le cose, che sono sempre finite, l'uomo ha accesso alla verità infinita: e questo vale anche per la filosofia che è una sequenza di testi, nei quali conta il significato più che la verità e che devono essere interpretati collocandoli nella loro tradizione. Schleiermacher promuoveva l'edizione dei grandi classici della filosofia, a partire dai filosofi antichi, Platone e Aristotele, perché alla tradizione della filosofia classica bisognava ritornare; e la stessa cosa faceva in Francia Cousin.

11. Le filosofie alternative

Via via che la filosofia si acclimatava come una forma di sapere tra le altre, assumendo l'aspetto di una disciplina speciale e chiudendosi nella propria tradizione, si apriva uno spazio per la diffusione di altre forme di filosofia fuori delle istituzioni ufficiali. Una varietà di filosofia che si delineava in questo spazio aveva un carattere nettamente individualistico e risaliva a Schopenhauer, per il quale la filosofia non si realizzava nella storia e nei programmi di educazione del genere umano, ma mostrava che tutto il sapere disponibile è soltanto apparente e che esiste una realtà diversa al di là delle apparenze. Solo arte, sentimento e religione potevano però mettere in contatto con questa realtà, mentre sia il sapere positivo generato dall'illuminismo, sia il sapere storico caro a Hegel, sia i programmi di riforma sociale facevano parte del mondo dell'apparenza. Di qui partì Nietzsche per elaborare una filosofia della vita intesa come accettazione della volontà di dominio alla quale non ci si può sottrarre, perché la stessa morale tradizionale è un tentativo di sottomettere i forti ai deboli, capaci solo di far valere il predominio numerico delle masse. Le filosofie di Schopenhauer e di Nietzsche si diffusero rapidamente e rappresentarono quella che, fuori delle università, si intendeva popolarmente per 'filosofia', alimentando una cultura di rifiuto e protesta contro la società che veniva emergendo. La cultura che tornava alla tradizione per respingere l'illuminismo e la Rivoluzione francese si opponeva alla società nata dalla Rivoluzione stessa; la nuova filosofia del rifiuto si riferiva alla società industriale, di cui respingeva soprattutto il carattere di massa. Ma questa filosofia alternativa era importante anche per l'interpretazione della società che dava. Nella società moderna non si poteva vedere un prodotto della ragione, come avevano creduto i giusnaturalisti o Hegel, ché invece essa era il prodotto della competizione e della volontà di dominio, come avevano visto Schopenhauer e Nietzsche. Inoltre giusnaturalismo e idealismo avevano interpretato l'azione umana rifacendosi alla filosofia aristotelica, sia pure depurata dal finalismo, e perciò l'avevano ricondotta a moventi elementari semplici. Ora invece l'azione umana appariva come un processo complesso e ambiguo, non riconducibile a moventi elementari chiaramente distinguibili, nel quale gli scopi espliciti erano spesso soltanto apparenti. L'agire umano non poteva più essere osservato direttamente e la sua struttura profonda poteva emergere solo se esso veniva sottoposto a un processo di interpretazione.

Attraverso la filosofia della vita, nella quale Dilthey riformulava temi che derivavano in parte da Schleiermacher e in parte da Hegel, anche la filosofia alternativa venne assorbita nella cultura accademica. La filosofia della vita perdeva i contenuti drammatici che aveva assunto in Nietzsche e anzi prendeva aspetti kantiani: solo mettendosi dal punto di vista della vita si poteva ottenere una conoscenza attendibile, fondata sull'identità di soggetto e oggetto, capace di far emergere le motivazioni autentiche dei comportamenti umani. Queste non sono le motivazioni esplicite che la psicologia empirica e associazionistica tentava di ridurre a cause semplici, affini alle cause meccaniche dei processi materiali, e non possono essere osservate direttamente, ma vanno ricondotte a valori. Intesa come vita, la storia perdeva l'unità che le avevano attribuito Hegel e Schleiermacher e si presentava come un ventaglio di visioni del mondo, complessi di credenze dominati da valori che permettono di spiegare i contenuti delle culture, ma nessuno dei quali consente di dare una spiegazione unitaria del processo storico. Nella formulazione di Dilthey la filosofia alternativa era in gran parte disinnescata, tanto da potersi presentare come una variante del kantismo e come uno dei tanti tentativi di riportare il mondo del sapere sotto il primato della filosofia. Il tema che semmai si accentuava era il contrasto tra la filosofia e le scienze, soprattutto le scienze della natura, ritenute del tutto inadatte alla comprensione dell'uomo e della società. In questo modo la cultura alternativa a base individualistica diventava un conflitto intraccademico tra due diversi contenuti culturali.

La filosofia alternativa a base individualistica raffigurava la società come un campo di lotta, dalla quale la filosofia stessa offriva una via di salvezza: un'interpretazione non tanto diversa da quella delle filosofie della società a base darwiniana, che tuttavia vedevano nella selezione la garanzia che la vittoria sarebbe andata al più forte o al più adatto. Qualche volta la filosofia darwiniana si trasformava in un'interpretazione ottimistica della concorrenza economica e del libero mercato mondiale, e il positivismo evoluzionistico cercava addirittura di collegare quelle idee con valori morali tradizionali, come la cooperazione, la solidarietà o addirittura l'altruismo. Allora metteva capo a un esito contrario a quello che costituiva il contenuto principale della filosofia alternativa, formulando vere e proprie esaltazioni della società industriale.

Anche il socialismo partiva da una visione conflittuale della società, soprattutto della società industriale moderna, della quale sottolineava gli aspetti di massa; ma nelle masse vedeva non una minaccia bensì le vittime dell'industrialismo. Perciò una parte della cultura socialista tentava di adattare alla società industriale le teorie politiche tradizionali che avevano esaltato la collaborazione sociale e avevano visto nella comunità una forma di protezione dei cittadini; senonché ora quelle teorie venivano riformulate tenendo conto dei nuovi gruppi deboli sorti nella società industriale. Tuttavia proprio nella cultura socialista si faceva strada anche l'idea che occorressero una critica radicale dell'industrialismo, almeno nella sua condizione presente, e il riconoscimento che esso produce difficoltà insolubili nei modi tradizionali. Fu proprio questo aspetto che generò la variante del socialismo che presenta maggiore interesse dal punto di vista filosofico. Essa è costituita dal marxismo, che nacque dall'innesto della filosofia hegeliana sulla cultura socialista, della quale riprendeva le critiche allo stato presente della società industriale. Quell'innesto conduceva però anche a riformare la filosofia hegeliana, facendone non tanto il coronamento di uno Stato concepito secondo i modi della cultura settecentesca, soprattutto tedesca, quanto lo strumento per l'analisi e la modificazione della società industriale. Questa trasformazione doveva però condurre a un esito apparentemente singolare, cioè all'abolizione della filosofia stessa. Infatti Marx riteneva che l'interpretazione filosofica della società fosse adatta alla società divisa in classi, mentre sarebbe stata inadeguata nella nuova società senza classi. La filosofia hegeliana, quella che più di ogni altra conteneva un progetto di educazione istituzionale dall'alto, appariva così uno strumento transitorio per instaurare una società nella quale la filosofia non sarebbe più stata necessaria: in questo modo Marx poteva riprendere la convinzione di Hegel, che considerava la propria come l''ultima filosofia'.

La filosofia marxista fu il quadro entro il quale si formò il progetto di una cultura istituzionale anch'essa, ma alternativa rispetto a quella ufficiale dello stato esistente e della società borghese. Nelle intenzioni doveva essere una cultura destinata soprattutto alla classe operaia, per favorire la transizione dal capitalismo al socialismo e per preparare la stessa classe operaia al potere che avrebbe conquistato. Questo tipo di educazione non sempre si ispirò in modo rigoroso al marxismo, il quale del resto subì molte trasformazioni e cercò alleanze e conciliazioni con altre forme di filosofia e con il sapere positivo, quale si andava sviluppando nelle università borghesi. Il marxismo come quadro istituzionale di un'educazione alternativa agì soprattutto in Germania. Ma in tutti i paesi industriali il socialismo generò sistemi di cultura e di educazione più o meno alternativi, nei quali la filosofia esercitò una qualche funzione, anche se non così esplicita e dominante come nel socialismo marxista, al quale l'eredità hegeliana offriva una teoria unitaria della storia e della società.Il socialismo come sistema culturale alternativo interno allo stesso mondo industriale fu messo in crisi dalla prima guerra mondiale e dalla Rivoluzione d'ottobre. Da quel momento, con la realizzazione del socialismo in un solo paese, il marxismo diventò la filosofia ufficiale di uno Stato e pretese di esercitare, come materialismo dialettico, il controllo di tutto il sapere e di ogni forma di cultura. Ma esso perdette del tutto la capacità di rappresentare un'alternativa alla società esistente, e anzi divenne uno strumento di apologia dello Stato comunista e del movimento comunista internazionale. In un certo senso si realizzò così il progetto filosofico che aveva animato Fichte e Hegel, e perfino Rousseau e Kant: la costituzione di uno Stato dominato dalla filosofia. Nel frattempo i contenuti erano cambiati, anche perché quelle dottrine filosofiche erano state riempite con temi propri della tradizione socialista. Ma era rimasta l'idea di una società universale retta da una legge puramente filosofica.

12. La critica accademica

Il successo del marxismo come filosofia ufficiale degli Stati socialisti dopo la Rivoluzione d'ottobre e la seconda guerra mondiale poteva sembrare assai più della realizzazione delle idee hegeliane o marxiane: sembrava che si fosse avverato uno dei progetti fondamentali della tradizione filosofica da Platone in poi, cioè la costruzione di una società sotto la guida di un sapere universale, capace di dominare tutti gli aspetti della vita intellettuale e sociale, pubblica e privata. Era un progetto che aveva incominciato a prendere corpo nella cultura tedesca del Settecento, perché in Germania l'università aveva continuato a ospitare la filosofia come parte essenziale del proprio insegnamento, mentre in Francia e in Inghilterra l'opposizione tra università e accademia aveva generato una forma di filosofia non istituzionale e diffusa, in parte collegata con la cultura delle accademie e comunque con pretese modeste di controllo sulle altre attività. Tuttavia proprio il successo del marxismo determinò importanti contraccolpi. Una parte della stessa tradizione marxista non si riconobbe nella filosofia ufficiale dei regimi socialisti, che anzi fu considerata una travisazione del marxismo autentico, perché accettava i caratteri della società industriale, e anzi li esasperava, con l'instaurazione di un capitalismo di Stato e il rifiuto totale delle istituzioni liberali. Per queste ragioni, in contrapposizione al materialismo dialettico, si sviluppò un 'marxismo occidentale' che però, più che riprendere la critica al capitalismo di tradizione marxiana, preferì rifarsi alla critica della società industriale che risaliva a Schopenhauer, a Nietzsche e a parte dello storicismo tedesco.Questa trasformazione del marxismo ne ha favorito la penetrazione nella cultura ufficiale e accademica dei paesi occidentali a regime liberale. Infatti il marxismo depurato del materialismo dialettico è parso un'efficace correzione del liberalismo tradizionale, che non teneva conto della propria dipendenza dall'industrialismo capitalistico. Del resto, se da un lato la disciplina rigorosa del materialismo dialettico sembrava incompatibile con il pluralismo della cultura scientifica contemporanea e con le condizioni di ampia libertà di ricerca vigenti nel mondo contemporaneo, molti filosofi di tradizione liberale erano propensi a considerare 'apparente' una libertà dipendente dal capitalismo e un fatto negativo l'anarchia delle credenze prodotta dallo sviluppo disordinato delle conoscenze.

La critica marxiana alla società moderna ha potuto così congiungersi con la critica del primato del sapere scientifico positivo e con l'opposizione tra filosofia e scienze positive, che stavano alla base della filosofia contemporanea.L'opposizione tra filosofia e scienze positive era emersa fin da quando, attraverso la riforma dell'hegelismo e il ritorno alla tradizione 'classica' promosso da Schleiermacher e da Cousin, la filosofia aveva abbandonato ogni pretesa di elaborare una conoscenza diretta della natura o anche solo di promuovere l'estensione della conoscenza scientifica, e aveva preferito rivendicare metodi propri e alternativi rispetto al sapere positivo. In questa prospettiva essa aveva stabilito rapporti particolarmente stretti con il mondo della storia e in generale della società. Fin dal Settecento, in risposta alla filosofia della storia volterriana, filosofi tedeschi come Lessing, Herder o Kant avevano cercato di individuare un disegno unitario del corso storico, e l'impresa era continuata con l'idealismo ottocentesco. Una svolta in questo indirizzo avvenne quando il primato del sapere scientifico, lo sviluppo tecnologico e l'organizzazione economica del mondo occidentale furono considerati tratti negativi della storia dell'Occidente: allora i filosofi si misero a elaborare una visione pessimistica del futuro e a porsi domande sul 'destino della nostra società'.

La filosofia della storia, dapprima debolmente con Dilthey, poi in modo sempre più esplicito con Simmel, Weber, Spengler, Sombart ecc., elaborò teorie che scorgevano nella storia umana non il delinearsi di un progresso verso esiti positivi, come ancora avevano fatto gli idealisti, ma la comparsa di minacce di esiti negativi.Nella filosofia contemporanea questa linea di pensiero è stata in parte ripresa, sia pure con una certa prudenza, dal marxismo, mentre molti altri filosofi hanno evitato di disegnare un percorso troppo circostanziato della storia, limitandosi a interpretarla in modi alternativi a quelli che in essa vedevano un aumento progressivo di sapere e di benessere e a presentare lo stato attuale dell'uomo come il prodotto di un decadimento, di un distacco dall'essere o da una condizione originaria, non necessariamente identificata con uno stadio storico preciso. Le filosofie dell'esistenza o le filosofie dell'essere, che hanno sviluppato questi temi, hanno incorporato molta della critica tradizionale alla società industriale, ma hanno anche utilizzato la filosofia dei valori e lo storicismo per costruire una specie di 'antropologia filosofica' che permetta di interpretare le azioni umane secondo scale di valori diverse da quelle attribuite al 'modo corrente di pensare', inteso come una manifestazione del decadimento umano dal quale la filosofia deve indicare una via di salvezza.Se Gentile in Italia aveva potuto aderire al fascismo, Heidegger in Germania al nazismo e Sartre in Francia accostarsi al movimento comunista, per citare solo alcuni casi significativi, dopo la crisi dei regimi e dei movimenti organizzati di destra e di sinistra è diventato difficile per i filosofi dare precise indicazioni sui modi concreti nei quali sia possibile salvarsi dalla società capitalistica e tecnologica contemporanea.

Le filosofie che hanno conservato una maggiore sensibilità per la tradizione marxista hanno continuato a identificare nelle classi sociali oppresse i destinatari principali del messaggio filosofico di salvezza o coloro che potevano realizzarlo. Eventualmente ai gruppi tradizionali interni alla società capitalistica si sono sostituiti gruppi esterni, come i popoli oppressi dall'ordine capitalistico mondiale, o gruppi interni non tradizionali, come le donne o gli emarginati. In generale la filosofia contemporanea ha però preferito svincolare l'opposizione alla società industriale da precisi programmi politici, proponendo un'interpretazione dei rapporti sociali che non presupponga il primato della scienza e della tecnologia o delle esigenze di efficienza economica. Già lo storicismo e la filosofia dei valori avevano ribadito questo punto, e molte delle filosofie 'profetiche' si erano industriate di mostrare, sia pure indirettamente, la presenza dei valori nella società o le conseguenze negative della loro assenza. Molte di queste istanze sono confluite in quelle che oggi si configurano come teorie filosofiche della tradizione, intesa come l'orizzonte entro il quale soltanto sono possibili rapporti di comunicazione autentica tra gli uomini. Infatti tutti i processi che mirano alla spiegazione dei fenomeni concorrono allo sfruttamento tecnologico delle cose, occultano i valori in gioco e sottomettono gli uomini stessi allo sfruttamento, rendendo difficile l'instaurazione di rapporti effettivi di comprensione. Gli uomini si comprendono solo in quanto fanno parte di una tradizione comune perché, come diceva Schleiermacher, la comprensione passa attraverso i significati, che sono prodotti culturali di una tradizione, non attraverso le cose materiali ed esterne. Perciò la comunicazione è possibile solo se gli uomini si affrancano dagli orizzonti limitati imposti dallo sfruttamento e dall'efficienza e si riferiscono alle proprie tradizioni storiche di appartenenza.

Ma c'è una 'grande tradizione filosofica', quella che secondo le indicazioni di Schleiermacher unirebbe il pensiero classico tedesco a Platone e Aristotele, e ricollegandosi a essa si può instaurare una società fondata su rapporti di autentica comunicazione, un programma che l'ermeneutica filosofica contemporanea addita come via di salvezza dalla società industriale. Le teorie filosofiche contemporanee che vedono nel riferimento alla tradizione culturale il presupposto per l'instaurazione di una società fondata su rapporti di comprensione e comunicazione tra persone hanno contenuti talvolta disparati: alcune si rifanno all'etica antica della virtù, altre alla morale universalistica kantiana, altre ancora additano nell'arte lo strumento per l'instaurazione di rapporti umani autentici; e spesso questi motivi vengono variamente assortiti.Queste dottrine filosofiche hanno avuto il proprio centro di irradiamento nella tradizione filosofica tedesca, ma hanno esercitato un'influenza rilevante anche nel mondo anglosassone, soprattutto negli Stati Uniti. Qui tuttavia è rimasta viva una forma di filosofia meno interessata al recupero della tradizione. La filosofia tedesca è sempre stata vista in Inghilterra e negli Stati Uniti come un'attendibile critica del liberalismo anglosassone, dei suoi limiti e dei suoi presupposti economici, e a essa molti filosofi inglesi e americani si sono rifatti per proporre riforme del liberalismo, soprattutto per 'arricchire i suoi valori'. In questo senso si è sviluppata la critica dell'utilitarismo. La filosofia utilitarista si era tradizionalmente proposta di costruire regole che permettessero di perseguire l'interesse collettivo compatibilmente con il perseguimento dell'interesse individuale. Un programma del genere poneva in primo piano i rapporti tra filosofia ed economia. E proprio qui la filosofia utilitarista trovò gli ostacoli maggiori, perché non solo la conciliazione dell'interesse collettivo con l'interesse individuale, ma perfino la determinazione non autoritaria dell'interesse collettivo poneva problemi tecnici difficilmente risolvibili.

Dalle difficoltà dell'utilitarismo ha preso l'avvio un altro modo con il quale una parte della filosofia contemporanea ha cercato di precisare la propria posizione all'interno della società. I filosofi si sono attribuiti il compito di costruire un'etica pubblica, cioè le regole di comportamento che garantiscano il perseguimento dell'interesse collettivo. C'è qualche punto di contatto tra questa interpretazione della funzione della filosofia nella società e quella proposta dalla tradizione filosofica tedesca attraverso l'ermeneutica e la teoria della comunicazione, nel senso che tutte queste filosofie propongono un 'supplemento' rispetto ai criteri dettati dalla semplice 'razionalità economica'. Ma c'è anche una differenza, perché le filosofie che si propongono la costruzione di un'etica pubblica ritengono di dover procedere in base a regole che o siano simili alle regole della razionalità economica o almeno non siano incompatibili con esse. L'accettazione di questo vincolo rientra nella tradizione filosofica inglese quale si era configurata fin dal Seicento, perché stabilisce un certo ancoramento della filosofia, soprattutto della filosofia con un esplicito contenuto sociale, a quelli che vengono ritenuti procedimenti del pensiero scientifico in generale. Nel delineare il contenuto del benessere collettivo le filosofie interessate all'etica pubblica spesso divergono, perché non sempre le teorie etiche preoccupate di rispettare nella misura massima le esigenze dell'efficienza sono compatibili con quelle che invece puntano sull'equità distributiva. Comunque le une e le altre tentano soprattutto di inserire nelle regole del calcolo economico e nei temi derivati dall'utilitarismo classico motivi ricavati dall'universalismo kantiano.

Dalla fine della seconda guerra mondiale, anche sull'onda dei disastri imputati ai nazionalismi dell'Ottocento e del primo Novecento, la filosofia ha sempre più perseguito piani 'universalistici', presentandosi come una dottrina dell'umanità: questo valeva tanto per i progetti di liberalismo internazionale, fondato sul libero scambio e sull'instaurazione di un ordine designato come 'democratico', quanto per i progetti di socialismo internazionale. Poi le speranze nell'internazionalismo socialista si sono attenuate e l'unica forma di internazionalismo è rimasta quella legata all'idea di umanità intesa in senso kantiano, che si dovrebbe realizzare attraverso il riconoscimento di appartenere tutti o a una grande tradizione, come consigliano le filosofie ermeneutiche, oppure a una sorta di 'città universale'. Tuttavia in questi anni i progetti universalistici sono in difficoltà un po' ovunque, mentre stanno risorgendo i nazionalismi tradizionali e a essi si aggiungono nuovi micronazionalismi e fondamentalismi religiosi. Il 'patto universale implicito', che dovrebbe permettere a ciascun individuo e a ciascun gruppo di proporre le proprie 'utopie' senza mai imporre comportamenti che altri individui o gruppi non siano disposti ad accettare, rischia di essere rotto in nome della fedeltà al gruppo ristretto di appartenenza o alle credenze religiose, che per nessuna ragione si vogliono sottomettere a qualche vincolo esterno di convivenza. Nella sua storia la filosofia ha spesso identificato entità storiche con entità ideali: potrebbe rifarlo al servizio di questa o quella comunità, di questa o quella religione e risostituire al sapere relativamente vago, ma di tipo universalistico, che oggi persegue, dottrine che pretendano di avere contenuti molto determinati, dominati dalle tradizioni storiche.

(V. anche Intellettuali; Università).

Bibliografia

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