Filosofia analitica

Enciclopedia del Novecento (1977)

Filosofia analitica

JJames O. Urmson

di James O. Urmson

Filosofia analitica

sommario: 1. Le origini. 2. Russell e l'analisi classica. a) Le tecniche dell'analisi classica. b) L'analisi classica e la matematica. c) L'analisi classica e la conoscenza empirica. d) Le attrattive dell'analisi classica. e) L'insostenibilità dell'analisi classica. 3. Le alternative all'analisi classica. a) L'ultimo Wittgenstein. b) Ryle e la cartografia concettuale. c) Austin e la fenomenologia linguistica. 4. Sviluppi recenti. □ 5. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Le origini

Quando si parla di filosofia analitica, si pensa solitamente a un indirizzo di pensiero sviluppatosi nel corso del sec. XX e derivante dall'opera di autori come B. Russell, G. E. Moore o L. Wittgenstein. Non bisogna pensare, però, che questi filosofi si siano proposti obiettivi o abbiano adoperato metodi completamente nuovi nella storia della filosofia. Essi hanno piuttosto perseguito questi obiettivi in modo più sistematico e hanno tentato di rendere più rigorosi i propri metodi. La più generale caratterizzazione della filosofia ‛analitica', nella sua opposizione a quella ‛sintetica' o ‛costruttiva', si esprime nel suo tentativo di rendere esplicitamente chiara la natura di quei concetti e giudizi che ci sono familiari già anteriormente alla riflessione analitica, mentre la filosofia costruttiva cerca di offrire concetti più adeguati (la forma platonica, la monade leibniziana o l'assoluto hegeliano) e di formulare verità nuove basate sulla riflessione filosofica (le forme sono più reali dei particolari sensibili; il mondo è costituito da monadi; c'è una sola realtà ultima). Intesa in questo modo, la filosofia analitica è antica quanto qualunque altra forma di indagine filosofica.

Infatti, nei dialoghi platonici troviamo Socrate che cerca di indurre i suoi interlocutori a spiegare che cos'hanno in mente quando parlano di virtù, o di bellezza, o di santità, o di coraggio; il Sofista è, dal punto di vista formale, un tentativo di chiarire esplicitamente la natura del sofista, e contiene una celebe analisi del giudizio negativo. Nella Repubblica, con la dimostrazione che la giustizia è un bene per chi la possiede, Platone va al di là dell'analisi, ma chiarisce che, prima di fondare una tale affermazione, è indispensabile chiarire che cosa sia la giustizia. Gran parte dell'opera di Aristotele è d'indole analitica; l'esame ch'egli fa del piacere nel decimo libro dell'Etica nicomachea è talmente conforme allo spirito e al linguaggio della moderna filosofia analitica, che lo si cita ed esamina nelle discussioni moderne sul tema come se Aristotele fosse un nostro contemporaneo. È indubbiamente superfluo dimostrare che siffatto lavoro analitico può essere riscontrato, in proporzione maggiore o minore, nell'opera di filosofi di tutti i tempi e di tutte le scuole.

Ma, per quanto siffatta distinzione tra filosofia sintetica e filosofia analitica paia abbastanza chiara, nella pratica non sempre è facile tracciarla. In particolare, non ad ogni filosofia che asserisca esplicitamente di essere analitica può essere immediatamente riconosciuta una tale qualifica. I filosofi hanno molto spesso presentato posizioni metafisiche nuove qualificandole come mere dilucidazioni di verità ben note. Il vescovo Berkeley, ad esempio, asserì che il suo idealismo soggettivo altro non era che una riformulazione di quanto l'uomo comune già conosce; che così stessero le cose lo si sarebbe potuto capire da una semplice riflessione su quel che intendiamo quando formuliamo giudizi fondati sul senso comune. Ci sono molti esempi di filosofi che, poco disposti a denunciare come infondate convinzioni comunemente accettate, sostengono però che noi ‛intendiamo veramente' qualcosa di assai diverso da ciò che ognuno supporrebbe. Indubbiamente è difficile tracciare una linea di separazione tra un'analisi scorretta e una ‛metafisica riformatrice'; ed è sempre difficile stabilire fino a che punto un'analisi proposta come tale possa essere considerata fondata su un semplice desiderio di maggior chiarezza, e fino a che punto essa sia distorta dalle teorie filosofiche su ciò che i concetti e i giudizi sottoposti ad analisi dovrebbero essere.

La maggior parte delle analisi, per ragioni evidenti, hanno avuto come loro oggetto concetti e giudizi accettabili per il filosofo che, assoggettandoli ad analisi, si sforzava per questa via di rendere più profonda, se non più estesa, la sua comprensione del mondo. Ma non sempre l'analisi è stata condotta in uno spirito siffatto. Il filosofo inglese F. H. Bradley, ad esempio, dedica la prima metà del suo libro Appearance and reality (1893) ad analizzare i concetti tipici del senso comune. Sennonché l'intento di quest'analisi è radicalmente polemico, in quanto Bradley ritiene che, una volta sottoposti ad analisi, tutti questi concetti si rivelino incoerenti e contraddittori; ciò giustifica la seconda parte del libro, in cui egli presenta una più soddisfacente sistemazione concettuale del mondo, destinata a sostituire quella che, in seguito all'analisi, è apparsa insoddisfacente.

L'analisi, anche se spesso distorta da preconcetti e pur muovendo da intenti disparati, è quindi comune nella storia della filosofia. A cosa pensiamo allora quando diciamo che un filosofo, nell'accezione più moderna e ristretta, è un filosofo analitico? In parte si tratta, senza dubbio, di un'etichetta di comodo per designare un gruppo di pensatori storicamente collegati. In parte è una questione di proporzioni: quando si dice che qualcuno è un filosofo analitico, si allude al fatto che l'analisi, intesa in senso lato, occupa un posto centrale nella sua produzione. Questo è tuttavia un aspetto superficiale, benché reale, del problema. Tutti i filosofi ammetterebbero che, in quanto dilucidazione, l'analisi è essenziale alla filosofia ed è suscettibile di notevoli sviluppi. I filosofi che indichiamo con l'etichetta di ‛analitici' sono contraddistinti anche da una o più opinioni specifiche, e quindi non universalmente condivise, circa la risposta da dare a uno dei seguenti quesiti (o a entrambi): 1) qual è la funzione dell'analisi in filosofia? 2) quale forma deve assumere un'analisi filosofica? Questo articolo si propone di chiarire quali risposte abbiano dato a tali quesiti i maggiori rappresentanti delle diverse scuole analitiche.

2. Russell e l'analisi classica

Nonostante non siano mancati molti precursori, possiamo ragionevolmente considerare Russell come il fondatore del movimento analitico in filosofia, benché la filosofia di Russell non abbia avuto un carattere monolitico e malgrado non tutta la sua opera possa venir considerata come analitica. Russell iniziò la sua carriera filosofica sviluppando una varietà inglese di hegelismo come reazione a un realismo estremo di tipo meinonghiano, ed elaborò le sue tipiche teorie analitiche solo negli anni immediatamente precedenti la grande guerra. Da allora egli rimase un analista, seppure con continui e notevoli mutamenti di prospettiva. È però possibile, all'interno della sua opera, individuare una dottrina analitica sufficientemente definita in quel periodo della sua attività, storicamente assai importante, che va dal 1911 al 1921 circa.

Al primo dei nostri quesiti (qual è la funzione dell'analisi in filosofia?) Russell e altri analisti classici, come il primo Wittgenstein, rispondevano che la filosofia è esclusivamente analisi. Solo le scienze - essi sostenevano - possono fornirci nuove conoscenze: le scienze empiriche possono fornirci conoscenze a posteriori del modo in cui il mondo è, mentre la logica e la matematica ci forniscono conoscenze delle verità a priori valide per tutti i mondi possibili. Non c'è posto per la filosofia accanto alle scienze (o in concorrenza con esse). Se ci chiediamo su quali elementi Russell fondasse questa opinione, ne troviamo due: anzitutto il fatto che, secondo Russell, tutti gli argomenti filosofici noti e destinati a fornire nuove conoscenze appaiono, ad un esame attento, privi di validità. Egli non forniva alcuna dimostrazione che non potessero darsi siffatti argomenti validi, ma sosteneva che, dato il loro costante fallimento, questa fosse una buona ragione induttiva per supporre la cosa impossibile. In secondo luogo riteneva che, qualora un argomento filosofico presentasse qualcosa di contrario alle conclusioni delle scienze, si era tenuti, anche nel caso non si trovasse alcun elemento di debolezza nell'argomento, a preferire le conclusioni della scienza. Infatti - egli affermava - una qualche pecca nell'astruso e astratto argomentare filosofico era più probabile che non l'esistenza di seri errori nella scienza. Se si vuole correggere la scienza, ciò deve avvenire solo attraverso progressi della scienza stessa. Per Russell era una verità empirica, e non una verità necessaria, che la natura del mondo debba essere determinata empiricamente e mai in base ad argomentazioni filosofiche; a quanti avessero negato questo assunto egli avrebbe risposto richiedendo un esempio di argomentazione capace di realizzare ciò che egli riteneva impossibile, e avrebbe poi cercato di mostrarne la non validità.

Così, secondo Russell, la visione del mondo fornita dalla scienza è il dato che bisogna accettare quale oggetto dell'indagine filosofica. Ma questa indagine deve costituire una dilucidazione analitica e non un esame di credenziali. Se quanto la scienza ci dice del mondo è, in linea di principio, adeguato, possiamo sperare, attraverso l'indagine, di approdare a una concezione adeguata della struttura della scienza e di determinare quali siano le premesse ultime o i dati primari della scienza. Armati di una siffatta concezione adeguata, potremmo procedere oltre e rispondere al fondamentale interrogativo circa la natura della realtà ultima: la realtà ultima sarebbe infatti costituita dalle entità che sono necessariamente menzionate nelle premesse fondamentali della scienza.

Non è ancora chiaro, però, perché dobbiamo compiere questa discriminazione: perché dobbiamo, cioè, riconoscere carattere di realtà ultima solo alle entità che sono menzionate nelle premesse fondamentali della scienza, e non anche a quelle che sono menzionate nelle inferenze che derivano dalle prime. La cruda risposta a questo quesito è che, a parere di Russell, le premesse fondamentali della scienza devono essere conosciute nell'esperienza: egli presentava una riluttanza tipicamente empiristica ad ammettere l'esistenza di cose non rientranti nell'ambito dell'osservazione. Una risposta più significativa dal punto di vista della teoria dell'analisi è che, secondo Russell, il compito dell'analisi consiste nel mostrare che, in definitiva, la scienza non richiede entità ottenute mediante inferenza. Secondo Russell infatti (e questa è la sua versione del ‛rasoio di Occam') è possibile mostrare come quelle che a prima vista paiono essere inferenze da altre entità siano riducibili ad asserzioni complesse su entità di base e non frutto di inferenze. La realtà ultima sarebbe data da quelle entità il riferimento alle quali non può essere eliminato dalle tecniche analitiche. Per capire questa tesi è necessario esaminare in modo più dettagliato la concezione russelliana della natura dell'analisi.

a) Le tecniche dell'analisi classica

Secondo Russell e il primo Wittgenstein le asserzioni della scienza e del senso comune, nella loro forma convenzionale, possono essere fuorvianti in due modi del tutto diversi. Un'asserzione può essere fuorviante anzitutto in quanto, nella sua grammatica superficiale, appare avere una determinata forma logica mentre in realtà ne ha un'altra. Per dilucidare asserzioni di questo tipo è necessaria un'analisi logica (di eguale livello). In secondo luogo, un'asserzione, nella sua forma convenzionale, può riferirsi all'esistenza (e quindi implicare l'esistenza) di entità che non sono realtà metafisiche ultime. Per dilucidare asserzioni siffatte occorre un'analisi metafisica (o di livello superiore), che elimini i riferimenti manifesti a tali entità.

I caratteri dell'analisi logica (o di uguale livello) possono essere illustrati dalla teoria russelliana delle descrizioni. A prima vista, e in accordo con la logica classica, un'asserzione come ‟il maestro di Platone era camuso" attribuisce un predicato a un soggetto. Se essa è vera, deve presumibilmente esserci un tale soggetto, e il predicato deve applicarsi ad esso. Se restiamo a quest'esempio non ci imbattiamo in difficoltà evidenti. Ma le cose si fanno più difficili se consideriamo insieme le due asserzioni ‟l'attuale re di Francia è camuso" e ‟l'attuale re d'Italia è camuso". Si tratta chiaramente di giudizi diversi; ma, se non esistono né un re di Francia né un re d'Italia, potrebbe parere che entrambe le asserzioni vertano sulla stessa cosa, cioè su nulla. Oppure dobbiamo (con Meinong) attribuire a questi due re una sorta vaga di essere, priva di esistenza piena. Analogamente, potrebbe parere che ‟i draghi non esistono" sia un giudizio in cui il predicato della non-esistenza viene attribuito a un soggetto non-esistente.

Russell sosteneva che questi problemi e altri analoghi sorgono dall'uso di una forma grammaticale fuorviante. Asserzioni generali complesse vengono rappresentate come se fossero asserzioni singolari del tipo soggetto-predicato. Se modifichiamo la prima coppia, ad esempio, in modo da avere: a) c'è almeno un'entità che è il re di Francia (d'Italia); b) c'è al più un'entità che è il re di Francia (d'Italia); c) tutto ciò che è re di Francia (d'Italia) è camuso, troviamo che la congiunzione di a), b) e c) produce un'asserzione equivalente in cui si afferma (falsamente, l'asserzione di partenza essendo falsa) che di certe caratteristiche si danno degli esempi concreti. Ora, tale asserzione è bensì falsa, ma da essa è scomparso l'enigmatico riferimento a oggetti non esistenti.

Alcuni seguaci di Russell si spinsero molto oltre nella pretesa rettificazione della sintassi logica. Alcuni affermarono che la presenza di tre parole nell'enunciato ‟questo è rosso" è fuorviante in quanto il fatto asserito contiene solo due elementi, la cosa e il suo colore; essi volevano scrivere solamente ‟questo rosso". Questo atteggiamento si spiega con l'influsso della teoria wittgensteiniana del significato come raffigurazione. Per Wittgenstein un'asserzione fattuale dotata di significato è tale in quanto è una raffigurazione del fatto; ed essere la raffigurazione di un fatto equivale ad essere collegati a quel fatto da una qualche legge di proiezione. Il difetto delle nostre asserzioni ordinarie non sarebbe quello di non esser raffigurazioni, e quindi di esser prive di significato, ma quello di avere regole di proiezione eccessivamente complicate e ad hoc. Così, tra gli ideali dell'analisi logica è compreso l'uso di una proiezione in cui ogni elemento dell'asserzione sia collegato a un qualche elemento del fatto; nell'asserzione non devono esserci nè più nè meno parole di quanti siano gli elementi del fatto.

Ma quest'analisi logica (o di uguale livello) non bastava da sola. Consideriamo l'asserzione (probabilmente inesatta) che ‟la coppia sposata francese media ha 2,13 figli"; un'asserzione del genere si può senza dubbio trovare in rispettabili testi di statistica. Ora, possiamo rettificarne la forma grammaticale fuorviante, in accordo con la teoria russelliana delle descrizioni, scrivendo: ‟C'è almeno una cosa e al più una cosa che è una coppia sposata francese media, e tutto ciò che è una coppia sposata francese media ha 2,13 figli". Ma, per quanto si debba ammettere che un'asserzione del genere è in qualche modo vera, siamo anche propensi a sostenere che in realtà non c'è niente che soddisfi il predicato ‟è una coppia sposata francese media", e che nulla potrebbe soddisfare il predicato assurdo ‟avere 2,13 figli". L'asserzione è quindi in qualche modo vera, ma ascrive un predicato metafisicamente impossibile a un oggetto metafisicamente improbabile. La soluzione di Russell, abbastanza ovvia nel caso dell'esempio infantilmente semplice che abbiamo scelto, consiste nel dire (per usare il suo linguaggio tecnico) che la coppia sposata francese media è una costruzione logica; vale a dire, con un'abbreviazione tecnica, che le asserzioni concernenti la coppia sposata francese media possono essere sostituite da asserzioni logicamente equivalenti da cui siano stati espunti tutti i riferimenti alla coppia sposata francese media. Così, per tornare al nostro esempio, abbiamo la seguente asserzione logicamente equivalente: ‟Se si divide il numero dei bambini francesi per il numero delle coppie francesi sposate, il quoziente è 2,13". Quindi la coppia sposata francese media è una costruzione logica ottenuta a partire dalle coppie sposate francesi; e forse, proseguendo nell'analisi, apparirà che anche la coppia sposata francese è una costruzione logica ottenuta a partire da singole persone. Forse, se Hume è più preciso di Cartesio per quanto concerne l'identità personale, questa singola persona apparirà anch'essa una costruzione logica a partire da idee. Ma a un qualche livello l'analisi deve terminare e allora ci troveremo dinanzi le entità metafisicamente fondamentali.

I motivi generali dell'attrazione esercitata sui filosofi dai procedimenti dell'analisi classica dovrebbero essere immediatamente evidenti. Tutti i filosofi riscontreranno che alcuni degli oggetti, cui essi fanno riferimento con ovvia plausibilità nei contesti pratici ordinari, presentano tuttavia un carattere astratto, rarefatto o filosoficamente paradossale, che li induce a negar loro la dignità di vera realtà. In tale dilemma, alcuni hanno risolutamente negato l'esistenza di tutte queste entità sospette, rendendosi quindi ridicoli agli occhi dell'uomo comune. Altri, certamente con riluttanza, hanno ammesso una giungla meinonghiana di entità dotate di vari tipi di esistenza. Russell consente di sfuggire ai corni di questo dilemma. Se possiamo sottoporle a un'analisi logica e metafisica soddisfacente possiamo anche, per comodità pratica, arrivare a designare queste entità rarefatte nella consapevolezza che, tuttavia, non ci stiamo assumendo alcun impegno metafisico.

Ma l'analisi classica, evidentemente, ha avuto anche un impiego più sistematico e costruttivo, oltre a consentirci di evitare numerosi ostacoli metafisici. Se prendiamo un qualunque campo in sé conchiuso di conoscenze e di convinzioni umane, possiamo sperare di determinare, mediante l'analisi, quali delle entità cui in esso si fa riferimento siano fondamentali e quali siano invece costruzioni logiche, individuando, probabilmente, intere gerarchie di costruzioni logiche: acquisiremo in tal modo un'idea altrimenti inattingibile delle connessioni logiche esistenti fra le varie credenze. Questa astratta affermazione risulterà più comprensibile facendo riferimento ad alcuni esempi concreti.

b) L'analisi classica e la matematica

I filosofi hanno costantemente visto nella matematica una sfida. Ogni filosofia che sia in grado di dare plausibilmente conto del fondamento e della natura delle verità matematiche, come anche dello statuto dei numeri e delle altre entità utilizzate dalla matematica, ha superato un problema capitale. Sulle prime, Russell si applicò alla filosofia della matematica, e fu anzi in rapporto ad essa che elaborò i suoi metodi analitici. Egli si trovò dinanzi a questa situazione: il matematico italiano G. Peano aveva già mostrato che tutta quanta l'aritmetica e l'algebra classiche potevano essere derivate da un insieme di assiomi (cinque per la precisione) che si servivano solo di tre concetti non definiti: quelli di zero, di numero naturale e di successore. Russell poté quindi concentrarsi sulla determinazione dello statuto logico di questi assiomi e di quello ontologico dei tre concetti fondamentali adoperati da Peano. Possiamo facilmente definire 1 come il numero che è il successore di zero, e lo statuto di 1 non presenterà problemi se saremo in grado di determinare quello di zero. Dobbiamo supporre che zero e gli altri numeri siano realtà metafisiche ultime? E, in caso affermativo, in che modo spiegheremo la nostra conoscenza a priori delle loro relazioni? Russell (anticipato in ciò da G. Frege) asserì che le cose non stavano così, e cercò di mostrare che i numeri sono costruzioni logiche; più specificamente, cercò di mostrare che qualunque asserzione concernente i numeri potrebbe essere sostituita da un'asserzione, logicamente equivalente, in cui non si faccia menzione di numeri ma solo di classi. Le asserzioni sul numero 3, ad esempio, potrebbero essere sostituite da asserzioni sulla classe delle classi tali che ci siano un w, un x e un y non identici tra loro (che sono i membri della classe) e, se z è un membro della classe, sia identico a w o a x o a y. Russell asseriva che tutti i concetti da lui adoperati nell'analisi degli assiomi di Peano erano concetti della logica (classe, similarità) e che quindi tutti gli assiomi di Peano potevano essere riformulati come proposizioni logiche. In questo modo, e solo in questo modo, si poté aprire la via alla sua celebre risposta al quesito sulla natura delle verità matematiche. Nei Principia mathematica, scritto in collaborazione con A. N. Whitehead, Russell tentò esplicitamente di provare che gli assiomi di Peano possono essere formalmente dedotti da assiomi chiaramente di natura logica e che la matematica, checché possa averne detto Kant, è analitica. Questo programma sarebbe stato impossibile senza la preliminare analisi dei concetti di Peano, e molte delle tecniche analitiche russelliane, compresa la teoria delle descrizioni, vennero elaborate nel corso di questo lavoro.

c) L'analisi classica e la conoscenza empirica

Il programma classico dell'analisi non presentava connessioni necessarie con l'empirismo. Ma che Russell fosse un empirista lo rivelava la sua convinzione che i soli oggetti conoscibili sono i dati sensoriali, che per lui diventavano così le realtà metafisiche ultime. Il progetto analitico consisteva perciò nel mostrare che le asserzioni concernenti gli oggetti fisici potevano essere sostituite, senza alterazioni di significato, da asserzioni concernenti i dati sensoriali, o, in altre parole, che gli oggetti fisici erano costruzioni logiche ottenute a partire dai dati sensoriali. Russell non tentò mai seriamente di realizzare tale progetto in modo completo e particolareggiato; si limitò a indicare le linee principali del programma generale in Our knowledge of the external world (v., 1914). Una cosa fisica è costituita da una serie di dati sensoriali che hanno luogo in accordo con le leggi della fisica. Lo spazio fisico è una costruzione logica ottenuta a partire dagli spazi o prospettive sensibili. Un punto dello spazio viene analizzato come il limite di una serie decrescente di volumi. Solo se il programma dell'analisi potrà essere portato a termine, potremo concludere che la scienza ci fornisce conoscenze empiriche; e, una volta completato, il programma ci mostrerebbe le connessioni logiche tra i concetti della scienza e le relazioni inferenziali tra le sue asserzioni (che altrimenti rimarrebbero oscure).

La forma più avanzata e più pura assunta dall'analisi classica è quella che ha ricevuto il nome di ‛atomismo logico'. Questa teoria generale dell'analisi venne formulata da Russell in una serie di conferenze tenute nel 1918 e pubblicate in ‟The monist" nel 1918-1919, col titolo The philosophy of logical atomism. In una forma più astratta e radicale, la stessa teoria venne formulata da Wittgenstein nel suo Tractatus logico-philosophicus, scritto in trincea durante la prima guerra mondiale e pubblicato nel 1922. Nella sua forma più radicale questa teoria sosteneva che tutti i fatti ultimi o fondamentali constano di un qualche carattere semplice inerente a qualche oggetto semplice (un fatto della forma fa), oppure di qualche relazione semplice sussistente tra un numero qualsiasi di oggetti semplici (fatti della forma R(a,b), R(a,b,c), eccetera). Tutti i fatti meno semplici e non ultimi saranno analizzabili in funzioni di verità di fatti aventi la forma suddetta. Così, se (cosa che Wittgenstein non credeva) i fatti costituiti da dati sensoriali sono i fatti ultimi, allora (come sosteneva Russell) i fatti costituiti da oggetti fisici saranno funzioni di verità dei fatti costituiti da dati sensoriali. Analogamente, Wittgenstein sosteneva che i fatti generali della forma ‛Tutto è f', oppure (x)fx, potrebbero essere analizzati come congiunzioni infinite di fatti singolari ‛fa e fb e fc...'; e fatti generali della forma ‛Qualcosa è f', o (∃x)fx, potrebbero essere analizzati come disgiunzioni infinite di fatti semplici ‛fa o fb o fc...'. Le verità empiriche in quanto tali asseriranno una funzione di verità contingentemente vera; le verità necessarie saranno funzioni di verità tautologiche. In generale, Russell avrebbe accettato volentieri questa teoria così netta, ma nella versione che egli ne dette si trovano frequenti concessioni alla plausibilità, a spese della nettezza. Ad esempio, Russell non poteva accettare la teoria wittgensteiniana delle proposizioni universali come congiunzioni infinite, e quindi propendeva a considerare i fatti generali come ultimi. I particolari dell'atomismo logico esorbitano dai limiti di questo articolo. Ci basti notare che si tratta di una teoria generale di indole metafisica, che presuppone la possibilità dell'analisi classica. Nessuno potrebbe immaginare che la conoscenza e le credenze umane siano effettivamente formulate come funzioni di verità di proposizioni fondamentali; quel che la teoria sosteneva era che la conoscenza e le credenze umane avessero implicitamente una tale natura, e che potessero essere convertite in funzioni di verità esplicite di quel tipo mediante le tecniche dell'analisi classica.

d) Le attrattive dell'analisi classica

La teoria classica dell'analisi venne salutata con notevole entusiasmo da un piccolo gruppo di filosofi in Inghilterra e in America, oltre che dai positivisti di Vienna; gruppo piccolo ma importante, poiché riuscì a conquistarsi un'influenza sempre maggiore. Non è difficile capire i motivi dell'attrazione esercitata dal procedimento generale dell'analisi. Tradizionalmente, i filosofi si sono trovati in una sorta di dilemma. Da una parte c'è un vasto insieme di opinioni, condivise dal senso comune e dalla scienza, che è molto difficile porre sinceramente in dubbio. È molto difficile dubitare che ci siano persone, sedie, tavoli e alberi, o anche protoni ed elettroni; è difficilè dubitare che ci siano stati eventi anteriori alla nostra nascita o che altri seguiranno la nostra morte, e così via. Eppure i filosofi hanno trovato argomentazioni scettiche, molto difficili da respingersi, secondo cui queste manifeste banalità sono al di là della portata della conoscenza umana. Posti dianzi a questo dilemma, alcuni - incapaci di ripudiare il senso comune e la scienza - hanno rifiutato l'argomentare filosofico considerandolo meramente verbalistico; altri l'hanno baldanzosamente accettato fino alle estreme conseguenze (rappresentate talvolta dallo scetticismo, talvolta da sistemi metafisici in disaccordo col senso comune). Ma anche questi spiriti audaci hanno di rado evitato il compromesso; lo scettico Hume riconosce di non poter sostenere il suo scetticismo al di fuori del suo studio; l'audace metafisico giunto alla conclusione della irrealtà del tempo, elaborerà probabilmente una dottrina dei gradi di verità che gli permetta di sostenere che, per quanto falsa, l'asserzione secondo cui Platone è precedente a Kant è tuttavia meno falsa dell'inversa.

Ora, l'analisi classica si sottrae decisamente ai corni di questo dilemma. Invece di scegliere tra i risultati della filosofia e le credenze del senso comune e di quello scientifico, possiamo dire che tanto i primi quanto le seconde sono corretti. Naturalmente ci ritroveremmo nello stesso dilemma se persone, sedie, alberi ecc. fossero entità al di là dell'esperienza, cose in sé. Ma gli analisti possono affermare che le verità del senso comune sono versioni non analizzate delle verità della filosofia. Se la filosofia ci dice che abbiamo esperienza solo delle idee o dei dati sensoriali, l'analista risponde che possiamo, naturalmente, vedere alberi, ma che questa verità deve essere analizzata ricorrendo al vaglio di serie coerenti di idee. Oppure, se le argomentazioni filosofiche suggeriscono che non ci siano ‛veramente' i numeri, possiamo pur sempre dire che abbiamo due mani, in quanto questa affermazione può essere così analizzata: per ogni persona c'è un x che è una mano e un y che è una mano, e x non è identico a y; ma se z è una mano, allora z è identico o a x o a y.

e) L'insostenibilità dell'analisi classica

Tra quanti si opposero all'analisi classica, alcuni muovevano da posizioni filosofiche radicalmente diverse da quelle di Russell o di filosofi a lui vicini. Naturalmente le loro critiche ebbero scarso effetto, proprio perché partivano da premesse inaccettabili per gli analisti. Ma altre critiche, provenienti da settori meno ostili, sortirono risultati di maggiore importanza.

Un bersaglio della critica fu il supporto metafisico su cui poggiava l'esercizio dell'analisi. Il presupposto era che l'analisi portasse a proposizioni rappresentanti in modo adeguato la forma logica dei fatti fondamentali. Ma in che modo si poteva determinare la forma logica dei fatti? Forse mediante una qualche intuizione metafisica? Questa difficoltà non fu avvertita soltanto dai positivisti logici. Molti ritenevano che quella tesi andasse messa in relazione con un sistema linguistico, in modo che, ad esempio, i termini delle proposizioni fondamentali non fossero più considerati come metafisicamente fondamentali, ma piuttosto come termini non-definiti del vocabolario della lingua. Il programma russelliano mirante a scoprire le realtà empiriche fondamentali e la struttura dell'empirico andrebbe quindi piuttosto considerato come un'indagine sul linguaggio della scienza.

Ma questo indirizzo critico, spinto all'estremo dai positivisti logici, costituiva un attacco alla giustificazione metafisica dell'analisi classica addotta da Russell e non all'esercizio dell'analisi. La meta che Russell cercava di raggiungere era pur sempre giusta; egli aveva semplicemente descritto male quel che faceva. Più sconfortante era il fatto che si ottenessero successi così limitati nella concreta pratica dell'analisi.

Si potrebbe plausibilmente affermare che Russell aveva attuato, con successo, e in modo particolareggiato, almeno una parte del suo programma, quella che riguardava la matematica. Ma, al di fuori della matematica, tutto restava allo stato di programma. L'analista sosteneva che, ad esempio, gli oggetti fisici erano costruzioni logiche a partire da dati sensoriali, o che gli Stati erano costruzioni logiche ottenute a partire da persone e da aree della superficie terrestre. Ma proclamare questo significa semplicemente asserire che gli oggetti fisici possono essere analizzati in un certo modo e gli Stati in un certo altro. Restava da completare l'analisi, riscrivendo, ad esempio, un'asserzione concernente un oggetto fisico in termini di dati sensoriali. Ma nonostante un enorme dispendio di ingegnosità nessuno riuscì in questo intento. Dapprima si era affermato che la difficoltà fosse semplicemente di ordine pratico; il linguaggio ordinario non disponeva delle risorse lessicali e sintattiche necessarie allo scopo. Sennonché i filosofi, anche quelli animati da simpatia verso l'analisi, si convinsero che il progetto era impossibile per ragioni di ordine teorico. Questo punto è di importanza decisiva per lo sviluppo dell'analisi e dobbiamo quindi chiarirlo. Se si tratta di analizzare un'asserzione concernente oggetti fisici in un insieme di asserzioni concernenti dati sensoriali, allora la prima, che chiameremo P, dev'essere equivalente a un insieme di asserzioni su dati sensoriali A1, A2, A3, ..., An; perché sussista tale equivalenza, ciascuna delle A1, A2, ecc., deve essere implicata da P. Inoltre, se una qualunque delle asserzioni dell'insieme A è falsa, sarà falso P. Ora, sembra impossibile trovare un'asserzione sull'esperienza sensoriale che sia implicata da un'asserzione P. Così, poniamo che P sia ‟C'è una sedia nella stanza" e che A1 sia ‟se entro nella stanza, avrò un dato sensoriale del tipo della sedia". Trascuriamo pure il fatto che A1 contiene un riferimento a me e alla stanza e descrive il dato sensoriale in termini presi a prestito dal linguaggio degli oggetti fisici. Resta comunque che P non implica logicamente A1. Se io entro nella stanza, è almeno logicamente possibile (ed è tutto quello che qui si richiede) che io non abbia un dato sensoriale del tipo della sedia, in quanto posso essere cieco, o ipnotizzato, o non accorgermi della sedia, e così via senza fine. Il solo modo per cercare di sfuggire a questa difficoltà consiste nel tentare un'analisi di altro tipo. Possiamo illustrare lo stesso punto con l'altro esempio, quello dell'analisi degli Stati in quanto costruzioni logiche ottenute a partire dalle persone. Chiaramente l'asserzione che la Francia ha dichiarato guerra all'Inghilterra non richiede un unico insieme di rapporti tra persone; quell'atto politico può essere compiuto in molti modi, in un numero indefinito di modi; mentre la presunta analisi dell'asserzione finirebbe per portare, molto implausibilmente, a una serie di narrazioni assurdamente minuziose dei particolari di quei rapporti tra persone.

Guardando le cose retrospettivamente, non e difficile vedere quale fosse l'errore. La teoria russelliana delle entità fondamentali e delle costruzioni logiche costituisce una versione moderna e tecnicamente raffinata della teoria delle idee semplici e complesse, tanto spesso presente, esplicitamente o implicitamente, nel pensiero dei secoli XVII e XVIII. Secondo questa teoria tutte le idee possono essere definite a partire da (o essere analizzate in) un insieme fondamentale di idee semplici; la teoria di Russell afferma che tutte le asserzioni contenenti termini non fondamentali possono essere sostituite, senza alcuna perdita, da asserzioni equivalenti contenenti termini fondamentali. Ora, se abbiamo a che fare con un sistema deduttivo rigoroso e formale, non è insensato attendersi di trovare una siffatta gerarchia di termini precisamente correlati; ogni buona esposizione di una geometria elencherà esplicitamente i termini fondamentali di essa, definendo poi tutti gli altri sulla loro base. Non sorprende perciò che il programma analitico di Russell abbia ottenuto un buon successo quando venne applicato alla matematica, come accadde all'inizio. Ma la maggior parte dei filosofi (quando pure non se ne fosse già convinta per altre ragioni) dallo scacco dell'impresa analitica al di fuori delle discipline formali concluse che le lingue naturali non consentono analisi fondate su siffatte gerarchie di concetti.

3. Le alternative all'analisi classica

Se stabiliamo che le lingue naturali non consentono il tipo di analisi richiesto da Russell (salvo forse nel caso delle scienze esatte) possiamo, senza abbandonare completamente il programma analitico, prendere due diverse vie. La prima consiste nell'affermare che l'impossibilità dell'analisi classica deriva da difetti delle lingue naturali; i loro termini, ad esempio, sono mal definiti e imprecisi, la loro sintassi è asistematica ed esse stesse sono in un costante fluire. Wittgenstein aveva asserito che le lingue naturali sono a posto così come sono; semplicemente, esse si servono di complicate convenzioni semantiche. Egli supponeva però che le lingue fossero assoggettabili all'analisi classica; poiché, invece, non lo sono, non possiamo attribuir loro alcun tipo di adeguatezza.

Secondo questo primo orientamento dobbiamo, quindi, accantonare ogni tentativo di analizzare le lingue naturali. Per quanto riguarda la filosofia, dobbiamo anzi accantonare completamente le lingue naturali. Dovremo, in linea di principio, sostituirle con qualche linguaggio adeguato, analizzabile, dotato di termini precisamente definiti e di una sintassi regolare. In pratica, ci si è resi conto che la concreta costruzione di un linguaggio siffatto era un compito immane, almeno a volerlo affrontare di petto. Persuasi di ciò, i filosofi si sono infatti limitati a studi preparatori meno ambiziosi, quale l'invenzione di ‛linguaggi' formalizzati semplici, come se ne possono trovare, ad esempio, nella Logische Syntax der Sprache di Carnap (v., 1934). Anche se non è possibile la costruzione completa di un siffatto linguaggio logicamente adeguato, si potrebbe sostenere che studi di tal genere sono in grado di rivelare come un linguaggio adeguato dovrebbe presentarsi. Gran parte del lavoro di Quine e dei suoi seguaci americani rientra nello spirito generale di questo orientamento. Così, se accettiamo la prima delle due possibili risposte allo scacco dell'analisi classica (in quanto applicata alle lingue naturali), conserviamo bensì l'ideale dell'analisi classica, abbandonando però il tentativo di applicarla alle lingue naturali. L'altra alternativa consiste nel sostenere che le lingue naturali sono, in generale, a posto così come sono, e che il difetto era nel metodo di analisi. Le lingue non sono, e non potrebbero nè dovrebbero essere, calcoli formalizzabili, ed era un errore degli analisti classici il supporle tali. Le lingue e gli apparati concettuali richiedono bensì uno studio analitico, ma non di tipo classico. Questo indirizzo di pensiero consente svariate linee di sviluppo.

a) L'ultimo Wittgenstein

Wittgenstein era stato uno dei più importanti analisti classici. La sua produzione tarda può essere sensatamente considerata, in parte, come un attacco alle sue stesse precedenti posizioni, accusate di comportare una fondamentale incomprensione della natura del linguaggio. Egli infatti aveva considerato il linguaggio come avente l'unico ufficio di asserire proposizioni fondamentali e funzioni di verità - tautologiche o contingenti - delle prime. L'ultimo Wittgenstein sostenne non solo che le proposizioni non si conformano a questo rigido schema ‛vero-funzionale', ma che l'asserzione fattuale costituisce solo uno degli svariatissimi ed eterogenei usi del linguaggio, da lui chiamati ‛giochi linguistici'. In un passo famoso egli afferma: ‟Ma quanti tipi di proposizione ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? - Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi diversi di impiego di tutto ciò che chiamiamo ‛segni', ‛parole', ‛proposizioni'". Dopo averne dato un campione, egli aggiunge: ‟È interessante confrontare la molteplicità degli strumenti del linguaggio e dei loro modi d'impiego, la molteplicità dei tipi di parole e di proposizioni, con quello che sulla struttura del linguaggio hanno detto i logici. (E anche l'autore del Tractatus logico-philosophicus.)" (v. Wittgenstein, 1953; tr. it., p. 22). L'autore del Tractatus era, naturalmente, lui stesso.

Secondo l'ultimo Wittgenstein, il linguaggio va quindi considerato non come un calcolo unitario ma come una scatola di attrezzi, o come una varietà di scatole di attrezzi eterogenei. Gli usi del linguaggio, questa serie di attrezzi, sono molti e svariati, e non si limitano solo a quello consistente nel riferire come è il mondo. Quindi, formulare un'intenzione, fare una promessa, dire una battuta, significa usare il linguaggio in quanto parte della vita; ognuno di tali usi costituisce un'attività distinta, solo lontanamente legato agli altri e all'asserzione fattuale. Ai fini della vita quotidiana noi siamo allenati a usare il linguaggio in questi vari modi, e non troviamo in ciò maggiori perplessità che nell'uso di altri strumenti. I problemi filosofici sorgono solo quando cominciamo a riflettere su questi usi linguistici, particolarmente perché tendiamo a interpretarli tutti sul modello dell'asserzione fattuale.

Così, secondo Wittgenstein, tutti i problemi filosofici hanno la caratteristica di nascere da un fraintendimento. Sono quindi fraintendimenti o perplessità che vanno dissolti, e non domande a cui rispondere. Nella pratica noi sappiamo come formulare le nostre intenzioni e come interpretare e rispondere alla formulazione delle intenzioni altrui. Ma se, riflettendo, interpretiamo ‟intendo fare così e così" secondo il modello dell'asserzione fattuale, supporremo forse che essa debba asserire che si stanno verificando taluni processi mentali, e quindi resteremo perplessi in quanto non potremo isolarli e individuarli. Quel che il filosofo deve fare, in circostanze del genere, è semplicemente ricordare ai perplessi i modi in cui il verbo ‟intendere" viene usato, nella speranza di riuscire a eliminare il fraintendimento e quindi vanificare l'enigma filosofico.

Quindi, secondo Wittgenstein, nell'ambito di un legittimo filosofare non rientrerà la proposta di teorie o ipotesi. Tutte le teorie metafisiche e le altre teorie filosofiche sono il prodotto di fraintendimenti. Tutto ciò che può fare un filosofo, che operi nello spirito di Wittgenstein, consiste nel ricordare al metafisico i fatti che, in un modo o nell'altro, gli sono già noti, come ad esempio i fatti relativi al modo in cui annunciamo le nostre intenzioni e le conseguenze che da un tale comportamento derivano. In caso di successo, il metafisico cesserà di proporre la sua vecchia teoria o qualsivoglia altra teoria. Per usare la poco amena metafora di Wittgenstein, si sarà mostrato al metafisico come la mosca può uscire dalla bottiglia.

Data questa concezione della specificità del filosofare da lui elaborata, è chiaro che Wittgenstein non si lascerà più disturbare dall'incapacità di produrre risultati, tipica dell'analisi classica. Possiamo imparare in che modo inserire nella nostra vita l'attività (o il gioco linguistico) del parlare di persone, e in che modo inserire il gioco linguistico del parlare delle interrelazioni tra gli Stati. Non c'è da essere né sorpresi né dispiaciuti né da provare orrore metafisico se questi due giochi linguistici non possono essere assimilati e ridotti l'uno all'altro. Analogamente, quando l'analisi classica sia ben riuscita, non si è acquistato alcun risultato metafisico positivo. Così, se è esatta l'analisi logica russelliana di proposizioni come ‟l'attuale re di Francia è camuso", essa mostrerà solo che ci sono due modi ugualmente legittimi di dire la stessa cosa. Se si ritiene che essa abbia un qualche valore filosofico, questo valore non consisterà - come pretendeva l'analisi classica - nella riduzione della proposizione a una forma capace di mostrare la forma del fatto; il valore di una siffatta riduzione consisterà invece nel fatto che essa è uno tra i vari possibili metodi di eliminare la perplessità filosofica. I perplessi non supporranno cioè di dover porre un re di Francia davvero esistente, del quale si predichi una caratteristica.

Si può chiedere per quale motivo questo orientamento di Wittgenstein debba essere chiamato analitico. Chiaramente esso non è analitico nel senso dell'analisi classica, nel senso, cioè, che tenta di ridurre un complesso ai suoi elementi più semplici. In una certa misura l'impostazione wittgensteiniana è stata annessa alla filosofia analitica sulla base di ragioni puramente storiche, o per la circostanza storica di essersi sviluppata a partire dall'analisi classica. Ma essa può essere considerata analitica anche per la ragione, puramente negativa, che è una concezione della filosofia il cui scopo è la miglior comprensione delle vecchie conoscenze piuttosto che l'acquisizione di conoscenze nuove. Wittgenstein non definiva però analitici i suoi procedimenti. Considerava come originale la propria impostazione, senza tuttavia darle alcun nome. Sarebbe errato ritenere che tutto quanto è stato convenzionalmente compreso nella filosofia analitica sia opera di una scuola consapevolmente fondata su un insieme di assunti. Tutto quanto possiamo trovare è una certa continuità storica, un certo grado di influsso reciproco e una comune avversione alla proposta di tesi sostanzialistiche di tipo metafisico.

L'influsso di Wittgenstein sulla filosofia anglosassone è stato molto grande, specialmente su quanti ebbero contatti personali con lui. Molti dei suoi allievi tendevano a considerarlo infallibile. Tra quanti furono fortemente influenzati da lui, pur senza seguirlo passivamente, è particolarmente importante J. Wisdom, per una sua modificazione della posizione wittgensteiniana.

Wittgenstein riteneva che la metafisica non fosse che una forma di confusione intellettuale, derivante dal fraintendimento della funzione del linguaggio; il metafisico sarebbe uno psicopatico intellettuale, sicché fu spesso tracciato un paragone tra il lavoro dello psicoterapista che cura i disturbi emotivi e il filosofo wittgensteiniano che cura i disturbi intellettuali. Wisdom, pur concordando con Wittgenstein nel negare che la metafisica possa fornire nuove conoscenze sostanziali e nell'accettare che il metafisico è vittima di confusione quando ritenga di incrementare o correggere effettivamente la nostra comprensione del mondo, non fece però propria una concezione della metafisica così negativa.

Wisdom sosteneva che qualunque sistemazione concettuale del mondo, compresa quella custodita nelle lingue naturali, è in qualche misura arbitraria. Per portare un esempio semplice e filosoficamente insignificante, è arbitrario che noi classifichiamo le sedie e le poltrone distinguendole dai divani. Potrebbero esserci buone ragioni per riclassificare questi oggetti di mobilio in sedie e divani, facendo rientrare tra i divani tanto i divani a un posto (quelli che precedentemente erano considerati poltrone) quanto quelli a più posti. Ora un metafisico potrebbe convenire sulla teoria che le poltrone siano davvero un tipo di divano. Egli sarebbe però vittima di confusione - secondo la tesi di Wittgenstein - qualora pensasse di aver scoperto un errore effettivo nelle credenze comuni e di dirci la verità ultima a proposito delle poltrone. Ma, se si esaminassero le ragioni che stanno alla base di una simile pretesa, si potrebbe trovare che il metafisico richiamava l'attenzione sulle somiglianze tra poltrone e divani e sulle loro differenze e somiglianze rispetto alle sedie, differenze e somiglianze che quanti si servono della classificazione convenzionale potrebbero forse trascurare. Così, malgrado l'elemento di confusione, il lavoro di un buon metafisico ci darà nuove conoscenze sul mondo. È infatti possibile che risulti una conoscenza dal dire, ad esempio: benché le poltrone e le sedie siano entrambi oggetti per sedersi, le poltrone sono più somiglianti ai divani sotto i seguenti rispetti... Il guaio è che in realtà molte di siffatte preziose conoscenze sono state fornite nella fuorviante forma della metafisica dogmatica. L'esempio che abbiamo usato, benché insignificante, può tuttavia illuminare la natura di certe tesi, come quella secondo cui i dolori fisici sono in realtà mentali, o l'altra secondo cui gli oggetti fisici hanno in realtà qualità primarie ma non qualità secondarie.

Un aspetto essenziale dell'orientamento di Wittgenstein e di quanti possono essere considerati suoi allievi consiste in un interesse preminente per i tradizionali problemi fondamentali della metafisica. Essi non avevano alcun interesse all'indagine delle lingue e dei sistemi concettuali come tali. Si dilucidavano gli usi linguistici e i sistemi concettuali solo quando ciò si dimostrava importante in vista della soluzione, o della dissoluzione, di problemi metafisici, e solo nella misura in cui era necessario a tale scopo. Se un filosofo ha il problema di determinare esattamente quali sfuggenti processi mentali siano indicati dalle espressioni ‛io conosco' e ‛io credo', il seguace di Wittgenstein deve allora dire quanto occorra per chiarire che nessuna delle due espressioni è usata per indicare un processo, sia esso mentale o fisico (se fosse invece così, esse dovrebbero poter costituire, talvolta, una risposta appropriata alla domanda ‛che fai?' o ‛che succede?', il che è chiaramente assurdo). Ma quando si sia eliminato l'enigma in questo modo, non c'è più alcuno scopo filosofico nel proseguire la precisazione dei concetti di conoscenza e di credenza.

A quanti appaia completamente inaccettabile la concezione dell'analisi e della metafisica ora descritta, bisogna dire che il prestigio di Wittgenstein non dipende affatto da essa soltanto. Molti di quanti non potrebbero accettarla hanno, peraltro, considerato estremamente illuminante il suo modo di trattare problemi particolari; ma su ciò non possiamo soffermarci in questo articolo. Per questa ragione la sua concezione della filosofia analitica ha ottenuto un'attenzione più rispettosa di quel che sarebbe stato se essa non fosse stata accompagnata da queste brillanti elaborazioni di temi speciali. In ogni caso, sarebbe difficile negare che esistono taluni problemi filosofici che si prestano a un trattamento di tipo wittgensteiniano.

b) Ryle e la cartografia concettuale

Abbiamo visto che (per usare le parole di O. E. Moore) Wittgenstein si occupò del linguaggio solo ‟perché riteneva che certi particolari errori filosofici o ‛confusioni del nostro modo di pensare' fossero dovuti a false analogie suggerite dall'uso corrente di certe espressioni. E insisteva a dire che era necessario che egli discutesse unicamente quelle questioni linguistiche le quali, altrimenti, se non chiarite, avrebbero condotto a suo avviso a quei particolari errori o ‛confusioni'" (v. Moore, 1959; tr. it., p. 280). G. Ryle, a volte, è parso accettare una posizione alquanto simile. In Dilemmas (v. Ryle, 1954), infatti, egli ha suggerito che il problema filosofico tipico ci si presenta in forma di dilemma. Ci sono svariate credenze, profondamente radicate e poco suscettibili di essere veramente accantonate, che possono parere in urto tra loro. Ad esempio, noi crediamo che quel che siamo dipenda dai fattori ereditari e dall'ambiente, ma d'altra parte crediamo di essere liberi di scegliere e responsabili delle nostre scelte; i fisiologi costruiscono le loro teorie sulla base dei dati dei loro sensi, eppure le loro teorie sembrano screditare i dati sensoriali. Può sembrarci di dover scegliere fra queste posizioni in contrasto. Ma in realtà si tratta di una confusione: questi dilemmi sono apparenti e non reali, e la dilucidazione dei concetti in gioco farà svanire il dilemma. Se è vero che la concezione ryliana al riguardo è meno ‛patologica' di quella di Wittgenstein - Ryle afferma che i dilemmi si presentano a ogni uomo intelligente e non sono aberrazioni - c'è però una chiara somiglianza tra le posizioni di Ryle e quelle di Wittgenstein, sebbene non sia vero, come alcuni hanno pensato, che la prima sia storicamente derivata dalla seconda.

Talvolta, però, Ryle ha assunto una più positiva concezione del compito dell'analisi filosofica, quella cioè cui ha dato il nome di ‛cartografia concettuale'. Secondo tale concezione la demarcazione esplicita dei concetti e la rappresentazione su carta dei loro confini avrebbe un valore intellettuale, e ciò indipendentemente dal fatto che in questo modo possiamo salvarci dalla confusione intellettuale. Ryle ha manifestato un costante interesse verso le condizioni delle espressioni dotate di senso, in quanto opposte al nonsenso. Capire un concetto equivale a sapere quel che si può fare con esso in modo sensato; per trovare che cosa si può fare con esso in modo sensato, dobbiamo scoprire quando e perché il suo uso può produrre nonsenso. Anzi, uno dei migliori metodi di dilucidazione concettuale consiste nel costruire espressioni le quali, benché corrette sotto l'aspetto della grammatica superficiale, siano evidentemente assurde.

Così, per adattare un esempio di Aristotele ripreso da Ryle, possiamo bensì dire che qualcuno cammina (o parla) rapidamente o lentamente, ma non che gode qualcosa (o dorme) rapidamente o lentamente. Aristotele usò questo esempio contro Platone e i suoi seguaci, per mostrare che il godere non è un processo; questo risultato negativo rientra nella cartografia del concetto di godere. Al livello filosofico, una rappresentazione cartografica scorretta di un concetto è quello che Ryle ha chiamato, con manifesta indeterminatezza, un errore categoriale.

Ryle ha affermato che uno degli scopi della sua opera più famosa, The concept of mind, è quello di presentare la sua concezione del metodo filosofico. Troviamo qui, inestricabilmente intrecciati, gli aspetti positivi e negativi della sua posizione analitica. Da un lato si attacca una concezione tradizionale del rapporto mente-corpo, combattuta sistematicamente con l'accusa di comportare una serie di errori categoriali: nell'insieme il metodo consiste qui nel mostrare che la concezione ‛cartesiana' genera necessariamente non-senso e quindi comporta l'abuso dei concetti. Dall'altro lato, Ryle è chiaramente interessato a caratterizzare in termini positivi il concetto, poniamo, di uno stato d'animo, distinguendolo da quello di un'emozione. Non c'è dubbio che egli abbia avuto un grande influsso sul metodo analitico, anche tra quanti non possono accettare tutte le sue posizioni.

c) Austin e la fenomenologia linguistica

J. L. Austin è l'unico filosofo analitico che abbia avuto un'influenza paragonabile a quella di Russell, Wittgenstein e Ryle. Egli ha operato appartato da queste grandi figure subendone solo scarsamente l'influenza.

Austin subì assai più l'influsso di G. E. Moore, che aveva avuto una formazione classica, che non quello degli atomisti logici della Scuola di Cambridge, che erano invece di formazione scientifica. Moore si era interessato molto da vicino alla specifica tematica analitica del suo tempo (senza però mai sottoscrivere le teorie metafisiche dell'analisi classica) e aveva mostrato sempre un sensibile interesse, non condiviso dagli analisti classici, per le sfumature delle lingue naturali. Anche Austin era un eccellente classicista e, anche indipendentemente dalla filosofia, aveva un profondo interesse per i problemi del linguaggio. Questi fatti storici hanno probabilmente una loro importanza.

Austin mostrò sempre scarsissimo interesse per i tradizionali problemi metafisici, alla cui soluzione miravano principalmente, anche se in modi assai diversi, i metodi analitici degli analisti logici, di Wittgenstein e Ryle. La ragione di ciò risiede, in parte, nel suo temperamento. Inoltre Austin sosteneva anche che questi grandi problemi metafisici non soltanto erano irrisolti, ma che nessuno aveva idea di come impostarli sistematicamente per risolverli. Se molti grandi filosofi del passato non erano riusciti a risolverli mediante metodi intuitivamente escogitati e con il loro genio spontaneo, era improbabile che proprio lui, Austin, potesse risolverli ricorrendo al medesimo metodo dell'assalto frontale. Egli avrebbe preferito occuparsi di qualcosa di più congeniale alle sue capacità. Ma benché pensasse che né lui nè alcun altro sapesse in alcun modo come accostarsi a questi problemi, Austin riteneva di poter chiaramente individuare una delle ragioni per cui tutti i tentativi metafisici erano fino ad allora falliti. I filosofi che si erano posti quei problemi avevano mostrato un'incauta, sconsiderata negligenza dei significati normali delle parole-chiave da essi usate, e avevano fornito spiegazioni grossolanamente semplicistiche dei concetti fondamentali in gioco. Nella misura in cui potevano essere considerati degli innovatori sul piano concettuale, le loro innovazioni erano state raggiunte senza un appropriato esame preliminare delle risorse concettuali già fornite dal linguaggio non filosofico ordinario, ed erano formulate in termini di gran lunga più rozzi e poveri di quanto le risorse già disponibili non consentissero. Austin non sosteneva di sapere in che modo sarebbero stati finalmente risolti i grandi problemi metafisici; la prudenza esigeva però che, prima di tentare un attacco frontale, si impostasse uno studio preciso e ravvicinato dei concetti centrali in gioco. E fu appunto in un esame siffatto che Austin si impegnò. Ma sarebbe errato ritenere che questo studio ravvicinato delle risorse concettuali del linguaggio non filosofico ordinario - questa fenomenologia linguistica (come Austin l'avrebbe chiamata) - fosse motivato principalmente da un interesse per la metafisica tradizionale. A questo studio Austin fu indotto da un altro motivo che aveva per lui un peso assai maggiore.

Per ragioni puramente empiriche, Austin riteneva che il vocabolario e le espressioni idiomatiche di qualunque linguaggio naturale esistono in quanto sono il risultato di una selezione naturale. La lingua esiste, principalmente, per essere usata nella vita delle persone. Di conseguenza le distinzioni operate dalle lingue emergerebbero (e sopravviverebbero) in quanto si dimostrano utili nella vita. Il vocabolario e le espressioni idiomatiche di ogni lingua naturale sarebbero quindi un repertorio di tutte le distinzioni e operazioni che sono state considerate necessarie ai vari possibili scopi (anche se non a quelli filosofici). Perciò lo studio del vocabolario e delle espressioni idiomatiche di una lingua naturale rivelerebbe non già tutte le distinzioni che potrebbero essere fatte o che qualche volta potrebbe essere necessario fare, ma tutte quelle che l'umanità ha avuto bisogno di fare. Austin sosteneva anche - e riteneva la cosa assai importante - che un siffatto studio ravvicinato rivelerebbe come le risorse concettuali disponibili nelle lingue naturali evolute, e le distinzioni da queste operate, siano di gran lunga più ricche e più sottili di quanto i filosofi abbiano mai immaginato. In particolare, Austin riteneva che le risorse delle lingue naturali siano molto più ricche e sottili di quelle di qualsivoglia sistemazione concettuale del mondo i filosofi abbiano mai elaborato, o possano elaborare in futuro, per il proprio uso. I filosofi che hanno inventato nuove sistemazioni concettuali, considerate raffinati miglioramenti di un rozzo strumento elaborato dai nostri progenitori dell'età della pietra, si sono limitati in realtà a scheggiare delle asce primitive per il proprio uso personale mentre, se solo se ne fossero avveduti, potevano già disporre di strumenti estremamente raffinati.

Poiché Austin su questo punto è stato spesso frainteso, va sottolineato che egli non negò l'esigenza di creare termini tecnici. Ai fini specialistici, per la filosofia come per la scienza, può ben presentarsi l'esigenza di una nuova terminologia tecnica. Ma una siffatta opera di integrazione del linguaggio comune è del tutto diversa dal comportamento di quanti, ignorando le sue risorse, si distacchino completamente da esso. Lo stesso Austin inventò un vocabolario tecnico, riservato però ad ambiti in cui si ponevano problemi solitamente non richiedenti un vocabolario ricco. Inoltre, anche se un filosofo usa concetti tecnici, ciò che egli deve studiare sono i concetti ordinari della vita quotidiana. Così, se ci sforziamo di capire la portata e i limiti della conoscenza umana, il nostro problema riguarderà la conoscenza nel senso comune del termine; non si tratta cioè di scoprire quel che potremmo conoscere secondo un qualche nuovo significato della parola ‛conoscenza' escogitato da questo o quel filosofo.

Austin asseriva che, approdando a questa più esplicita e dettagliata comprensione del linguaggio, noi giungiamo anche, automaticamente e inevitabilmente, a una comprensione più profonda del mondo. Così, per usare uno dei suoi esempi, se ci chiariamo la differenza di significato tra le due parole ‛incidente' e ‛errore', ci chiariremo nello stesso tempo due diversi modi in cui le cose possono andare male: modi abbastanza importanti per essere rilevati dalla lingua. Per quanto alcune aree della lingua (compreso il linguaggio filosofico) possano essere confuse e poco chiare, e comprendano distinzioni non applicabili al mondo, non c'è ragione di supporre che ciò sia generalmente vero, mentre sussistono buone ragioni per supporre il contrario. Infatti, soltanto le distinzioni vitali hanno probabilità di sopravvivere nella lotta per l'esistenza linguistica.

Austin non aveva alcuna teoria filosofica riguardo al modo in cui si dovesse condurre questo studio del linguaggio. Disponeva però di una tecnica di ricerca accuratamente elaborata. Bisogna scegliere, sulla base dei propri interessi, una qualche area maneggevole del vocabolario di una lingua: ad esempio, il linguaggio delle scuse. Bisogna quindi raccogliere il vocabolario di questo settore con la massima completezza possibile mediante la libera associazione, la consultazione del dizionario, la lettura di documenti pertinenti per il linguaggio delle scuse (saranno importanti i libri a carattere giuridico). Bisogna poi inventare delle narrazioni capaci di fornire sfondi disparati, contro i quali poter individuare quali termini noi useremmo con naturalezza e quali altri (il che è ugualmente importante) non potremmo usare con naturalezza. Occorre infine tentare di fornire descrizioni generali dei termini del vocabolario, in modo da spiegare e chiarire le ragioni per cui abbiamo scelto, nei vari contesti, proprio quei termini. Si tratta di un metodo empirico, che non garantisce un successo completo e immediato; è però possibile raggiungere una sufficiente precisione, continuando a perfezionare i nostri risultati come si fa nelle scienze empiriche. Lo stesso Austin ha sempre sostenuto che ricerche del tipo di quelle descritte non dovrebbero essere condotte da una sola persona, ma da un piccolo gruppo, per eliminare le idiosincrasie individuali e le zone cieche; e in effetti egli stesso ha condotto indagini secondo tali criteri.

Si potrebbe obiettare che il lavoro di Austin era in realtà lessicografico piuttosto che filosofico, e che comunque non rappresentava una novità. Egli non si sarebbe lasciato turbare dalla prima osservazione e avrebbe senz'altro convenuto sulla seconda. Avrebbe però affermato che le sue indagini venivano svolte in modo più completo e sistematico di quelle dei lessicografi e filosofi precedenti, i quali - a suo giudizio - avevano proceduto in modo sciatto e impreciso. Se questa dovesse esser chiamata filosofia era una questione che non gli interessava granché; nè egli pretendeva che tutti i filosofi facessero come lui; di ciò che faceva parlava come di ‟un modo di fare una specie di filosofia". È questa una pretesa notevolmente minore di quella avanzata dagli analisti precedenti.

Questo genere di lavoro non si adatta facilmente al modello tradizionale del libro o dell'articolo di filosofia. Esso si mostra nella sua forma più pura nel saggio di Austin dal titolo A plea for excuses (1961); nell'altro suo lavoro dal titolo Ifs and cans (1961) c'è uno studio particolareggiato sull'espressione idiomatica inglese ‟I can if I choose". Nel libro Sense and sensibilia (un titolo che richiama intenzionalmente quello del romanzo di J. Austen, Sense and sensibility) è interessante l'uso polemico dei suoi metodi. Si ricorderà che Austin sosteneva come la tradizionale elaborazione delle teorie filosofiche sia inficiata dalla costante incapacità di cogliere gli aspetti più sottili delle lingue naturali. In questo libro egli attacca in modo sistematico la teoria secondo cui la percezione sarebbe fondata su dati sensoriali, tentando di mostrare che le argomentazioni su cui tale teoria si fonda dipendono in ogni momento da un'errata interpretazione dei concetti. Si può dubitare del completo successo di questa polemica, ma non delle doti di vivacità e di spirito mostrate dall'autore.

Un ultimo aspetto dell'opera di Austin va posto in evidenza. Assai per tempo egli era giunto alla conclusione che tra le convinzioni più ciecamente semplicistiche dei filosofi c'era l'idea che ogni enunciato dichiarativo venga usato per formulare un giudizio, vero o falso. Respingendo questa posizione, egli aveva individuato quelle che chiamava ‛espressioni performative'. Esempi di queste espressioni sarebbero: ‟Prometto di pagarti cinque sterline", ‟Chiamo questa nave ‛Regina Elisabetta'" e ‟Ti scomunico". Di queste espressioni Austin affermava, anzitutto, che esse non sono mai né vere né false; in secondo luogo, che sono esecuzioni (performances) di azioni (ad esempio, dell'azione di fare una promessa, di dare il nome a una nave, e di scomunicare una persona); e in terzo luogo, che sono azioni convenzionali, che hanno o non hanno effetto secondo che le convenzioni siano o non siano state correttamente seguite. Non possiamo, ad esempio, fare una promessa se la persona cui ci rivolgiamo non la ode; non possiamo scomunicare se non siamo autorizzati a farlo; non possiamo dare il nome a una nave se questa è già stata battezzata. Sebbene la nozione austiniana di espressione performativa sia stata molto apprezzata e largamente adottata, egli finì per esserne insoddisfatto, considerandola solo come una verità parziale fondata su una inadeguata teoria generale del linguaggio e dei suoi usi. Ritenendo che non esistesse alcuna classificazione degli usi delle lingue atta a soddisfare le esigenze dei filosofi, tentò di fornirne una nel suo How to do things with words. Di estrema importanza è la sua distinzione, entro l'atto linguistico globale consistente nel fare una comunicazione, di più atti linguistici di ordine inferiore. Sono di importanza centrale l'atto locutorio, cioè l'emissione di un enunciato dotato di un senso e di un riferimento precisi; l'atto illocutorio, quello cioè che può accompagnare l'esecuzione di un atto locutorio; e l'atto perlocutorio, cioè il porre in essere qualcosa producendo un'espressione. Così, se io compio (riferendomi a una qualche specifica distesa di ghiaccio) l'atto locutorio di dire ‟questo ghiaccio è pericoloso", posso, così facendo, compiere l'atto illocutorio di porre in guardia il mio ascoltatore e posso quindi dissuaderlo dall'andare sul ghiaccio. Queste distinzioni, così come vennero elaborate da Austin, hanno suscitato una massa enorme di discussioni negli ambienti analitici. Non tutti sono persuasi che esse siano in definitiva soddisfacenti, o che Austin avesse ragione ad abbandonare la teoria delle espressioni performative, fondendola nella teoria delle forme illocutorie; ma l'opera di Austin è stata certamente un fecondo punto di partenza per le discussioni nell'ambito della filosofia del linguaggio.

4. Sviluppi recenti

Oggi rimangono probabilmente pochi analisti classici (o forse nessuno): l'analisi classica appartiene ormai alla storia. Sono relativamente pochi quanti accettano nel suo pieno rigore la teoria wittgensteiniana dell'analisi intesa come eliminazione delle confusioni concettuali; sono pochi anche quanti tenterebbero di portare avanti il programma iniziato in modo tanto brillante da Austin. Ma, nell'ambito di quelli che in modo vago possiamo chiamare i circoli analitici - i quali sono inclini all'eclettismo - l'influsso di Wittgenstein e di Austin è stato notevole. Moltissimi filosofi analitici accetterebbero una posizione wittgensteiniana modificata; un gran numero di problemi filosofici, cioè, sarebbero stati effettivamente generati, o almeno distorti, da confusioni intellettuali del tipo indicato da Wittgenstein. Diffuso e profondo è stato anche l'influsso di Austin nello stabilire ed esigere più elevati standard di consapevolezza delle sfumature concettuali. Così, in epoca pre-austiniana, i termini ‛giusto', ‛obbligatorio' e ‛doveroso' erano considerati regolarmente sinonimi in filosofia morale senza alcun bisogno di distinguerli; oggi, nessun filosofo che li trattasse in tal modo potrebbe ottenere ascolto. L'influsso di Austin può essere facilmente riscontrato anche in ricerche affatto estranee ai problemi linguistici. Ad esempio, l'importante opera di teoria del diritto di H. L. A. Hart, The concept of law, rivela spesso l'influsso austiniano nelle distinzioni concettuali tracciate.

Uno sviluppo molto interessante e singolare può essere illustrato dall'opera di P. F. Strawson. Accettando la tesi di Austin secondo cui gran parte della metafisica, come ad esempio la teoria leibniziana delle monadi, può essere considerata ‛metafisica riformatrice' - cioè un tentativo di offrire un nuovo schema concettuale generale per la comprensione del mondo - ed accettando altresì il valore degli studi particolari compiuti da Austin sui concetti incorporati nelle lingue naturali, Strawson sostiene che esiste la possibilità di quella che egli chiama ‟metafisica descrittiva", la quale tenta di descrivere i caratteri generali del sistema concettuale incorporato nelle lingue naturali. Strawson non pretende che si tratti di un'iniziativa completamente nuova; a suo avviso, la Critica della ragion pura di Kant potrebbe essere utilmente considerata un'opera di metafisica descrittiva. Strawson ammetterebbe che Kant non avrebbe presentato la propria opera in termini strawsoniani; ma afferma che quello che Kant elabora nei termini di una psicologia trascendentale può essere più felicemente formulato in termini strawsoniani. Egli stesso ha pubblicato un'opera (Individuals) da lui definita ‟saggio di metafisica descrittiva". In questo libro tenta di dimostrare che l'identificazione e reidentificazione di tutti gli altri fenomeni, compresi gli eventi, i suoni, i gusti, gli odori, deve essere effettuata, in definitiva, mediante il riferimento a persone e oggetti fisici identificabili e reidentificabili. Occupando quindi una posizione primaria nella mappa che ci tracciamo del mondo, le persone e gli oggetti fisici possono essere giustamente considerati, secondo Strawson, ‛ontologicamente anteriori' rispetto ad altre classi di entità, per quanto egli non sarebbe disposto a definirli ‛più reali', nell'accezione ontologica tradizionale. Pur essendo di intonazione chiaramente metafisica, questi atteggiamenti ed altri analoghi rientrano in senso lato nella tradizione analitica; infatti, la metafisica è più esplicativa che sostanzialistica, e i metodi adoperati sono linguistici. Strawson si chiede continuamente quale schema concettuale fondamentale sia implicito nel fatto di potere usare il linguaggio nei modi in cui lo usiamo.

Tutte le indagini analitiche comportano una stretta attenzione al linguaggio. Nel passato recente i filosofi analitici son venuti sempre più volgendo la propria attenzione verso l'analisi del linguaggio stesso, verso i problemi di filosofia del linguaggio. Ad esempio, vengono compiuti tentativi sistematici di chiarire i vari concetti di significato che noi adoperiamo - che cosa intenda dire (means) chi parla, che cosa significhi l'espressione linguistica, che cosa significhi una parola - e di stabilirne le interconnessioni. Questa tendenza è stata accelerata dal crescente interesse verso le ricerche della nuova grammatica trasformazionale elaborata dal linguista N. Chomsky in America. Tra le ricerche di alcuni filosofi analitici e quelle dei linguisti interessati alla teoria generale della grammatica si è avuta in larga misura una fusione; di molti di questi lavori è difficile dire se rientrino nell'ambito della filosofia o in quello della linguistica.

5. Conclusione

Da questa rassegna sarà apparso che non c'è una unità molto rigorosa all'interno di quello che viene indicato come il movimento della filosofia analitica. Uno studio più ravvicinato rivelerebbe divergenze ancora maggiori, e non sempre su questioni di dettaglio, tra i filosofi che vengono considerati analisti. Abbiamo visto che una qualche forma di analisi è stata adoperata a fini disparati, quali la fondazione di conclusioni metafisiche, l'eliminazione della metafisica, la costruzione di linguaggi nuovi - forniti di una adeguatezza che si pretende maggiore - mediante tecniche formali, e lo studio dettagliato delle risorse delle lingue naturali. E svariate sono state le concezioni del linguaggio presupposte nell'analisi: dal linguaggio come struttura gerarchica messa in opera in modo sistematico al linguaggio come insieme di strumenti disparati da usare nelle diverse attività della vita.

I filosofi analitici non si sono mai considerati una scuola dotata di un insieme di teorie fondamentali comuni. Forse i soli caratteri comuni sono stati una sorta di sfiducia nella speculazione e una tendenza a usare argomentazioni fondate su considerazioni linguistiche. In vecchiaia Russell riteneva che l'opera dell'ultimo Wittgenstein fosse non una continuazione della filosofia analitica, ma una forma di irrazionalismo; dell'opera di Austin pensava che fosse un abbandono della filosofia. Wittgenstein non mostrò alcun interesse o ammirazione per le ricerche di Austin, e quest'ultimo trovava incompiuta e oscurantistica l'opera di Wittgenstein. Un filosofo esperto, forse, non concorderà completamente con nessuno di questi autori; ma sarà filosofo arrogante chi ritenga che dallo studio delle loro opere non si possa apprendere nulla e che nulla si possa ricavare dall'uso dei loro metodi.

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