Filosofia analitica

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Orientamento di pensiero sviluppatosi soprattutto in Inghilterra dagli inizi del 20° sec., e volto prevalentemente allo studio del linguaggio nei suoi vari aspetti (scientifici, quotidiani, etici, logici ecc.), privilegiando l’analisi di problemi specifici rispetto all’elaborazione di sistemi ampi e comprensivi.

Dalla scuola di G.E. Moore al Tractatus di L. Wittgenstein

Portando fino alle ultime conseguenze le premesse dell’empirismo inglese tradizionale, G.E. Moore fondò a Cambridge, dove con un insegnamento trentennale (1911-39) influenzò profondamente tutta la filosofia inglese, una scuola destinata a svilupparsi.

L’accettazione di un consapevole realismo conduce Moore ad assumere come compito essenziale della filosofia la chiarificazione delle assunzioni implicite, sul piano linguistico, del senso comune, nell’intento di garantire più rigorosamente i presupposti realistici (anche se il suo metodo è composito e risente ancora di suggestioni psicologistiche). Per altra via, partendo da indagini di tipo matematico e riprendendo spunti dall’opera di G. Frege e G. Peano e dall’insegnamento matematico di A. Whitehead, senza tuttavia trascurare teorie come quelle di A. Meinong sugli ‘oggetti’, B. Russell perviene a un’indagine logica e linguistica delle proposizioni matematiche, che sfocia da un lato nella teoria delle descrizioni definite, dall’altro nella teoria dei tipi. Il Tractatus logico-philosophicus (1922) di L. Wittgenstein, in cui confluiscono i risultati e i problemi delle ricerche sia di Frege sia di Russell, oltre all’introduzione di tecniche logiche originali (calcolo proposizionale con metodo delle matrici), pone l’esigenza di giungere a formulare una filosofia del linguaggio in cui vengano a riassorbirsi i tradizionali problemi gnoseologici, metafisici ed etici.

Alla f. si è soliti ricondurre il positivismo logico che, traendo spunto da alcune affermazioni del Tractatus, con M. Schlick elabora il cosiddetto principio di verificazione («Il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica empirica»), proponendo un radicale riduzionismo antimetafisico. L’incontro fra il positivismo logico e le correnti pragmatiste statunitensi, in seguito al trasferimento negli USA di gran parte degli esponenti del movimento neopositivista (come R. Carnap, H. Reichenbach, C.G. Hempel), determina una confluenza di interessi e crea uno stimolo reciproco. I prodotti più significativi si possono ritenere i saggi di W.V. Quine sui problemi ontologici e semantici, le ricerche di N. Goodman sui linguaggi fenomenisti e sull’inferenza induttiva, gli studi di H. Putnam sui problemi del significato, della verità e del realismo, nonché quelli di S. Kripke sulla logica modale e il riferimento dei termini linguistici.

Nuove ipotesi di analisi del linguaggio

Frattanto, nella seconda fase del suo pensiero, Wittgenstein, il cui insegnamento a Cambridge (1929-47) si era rivelato estremamente fecondo, e aveva influenzato tutto l’ambiente culturale inglese, rivolge l’attenzione al linguaggio non tanto nella sua struttura, quanto nella molteplicità e nella varietà dei suoi usi e del suo funzionamento, proponendo la teoria dei giochi linguistici. Viene così abbandonata la concezione platonico-aristotelica del linguaggio sostenuta da Wittgenstein nel Tractatus e implicante una corrispondenza speculare linguaggio-realtà; cadono i presupposti per la costruzione di un linguaggio ideale rigorosamente formalizzato, nonché il modello dell’analisi di tipo riduzionistico, e l’indagine si sposta sul problema dei diversi livelli linguistici, sui diversi ruoli delle varie parti grammaticali del discorso nei vari contesti, sulla possibilità di individuare sintassi varie. A queste tesi si ricollegano gli esponenti della filosofia oxoniense i cui rappresentanti più significativi, oltre a A.J.T.D. Wisdom, sono G. Ryle, che lega a spunti comportamentistici le sue analisi sulla mente, J.L. Austin, P.F. Strawson, che sviluppa particolarmente il tema dei rapporti fra logica formale-logica informale e analisi linguistica, M. Dummett, che riformula la disputa ontologica tra realismo e idealismo in termini di teorie del significato rivali, e S. Toulmin, R.M. Hare e P.H. Nowell-Smith per i problemi etici, preceduti su questo terreno dall’importante studio dello statunitense C. Stevenson (Ethics and language, 1944).

A partire dalla seconda metà degli anni 1960 è sempre più diffusa nella f. la prospettiva di analisi inaugurata da Austin con il postumo How to do things with words (1962). Tale prospettiva concepisce il discorso come un insieme di atti linguistici caratterizzati da una loro particolare forza. È stata accolta con interesse la proposta di Austin del concetto di enunciati performativi ovvero di enunciati che non descrivono un atto, ma servono a compierlo. Dalla medesima prospettiva rivolta a dare spiegazione del linguaggio in termini pragmatici discende anche l’opera di H.P. Grice, che propone una definizione del significato non relativa a parole o frasi ma alle ‘intenzioni’ del parlante di produrre effetti sull’uditorio. Una sistematica presentazione della concezione del linguaggio e dei problemi filosofici iniziata da Austin si trova poi nell’opera di J.R. Searle Speech acts (1969), dove il parlare viene presentato come una forma di comportamento e ci si impegna nel descriverne compiutamente le regole. In D. Davidson, forse l’autore che ha goduto di maggiore fortuna a partire dagli anni 1970, lo studio del significato, coerentemente con le posizioni del suo maestro Quine (di cui rifiuta tuttavia lo stretto comportamentismo), equivale soprattutto a un’indagine empirica sugli enunciati ritenuti veri dai parlanti di una comunità e sulle connessioni intercorrenti tra tali enunciati e il più ampio sfondo di credenze dei parlanti stessi.

A cavallo tra 20° e 21° sec., la novità forse di maggiore rilievo è costituita dall’attenzione per le questioni di tipo psicologico e ‘mentale’. L’interesse per la filosofia della mente (o psicologia filosofica) non è naturalmente nuovo nella f.: esso risale quanto meno a Ryle e Wittgenstein, i quali erano comunque interessati a privare di qualsiasi fondamento, sulla base delle loro analisi linguistiche, il tradizionale dualismo mente-corpo di origine cartesiana. Nel corso degli anni, benché non sia venuto meno l’orientamento monistico della maggioranza dei filosofi analitici, si è comunque dato sempre più spazio agli aspetti tipicamente mentali e psicologici che sovraintendono alle principali attività umane. Lo studio degli aspetti mentali legati al significato ha finito per rendere spesso sovrapponibili le indagini di filosofia del linguaggio in senso stretto con quelle di filosofia della mente, e un rilievo particolare ha acquisito, in questo ambito di intersezione tra le due sottoaree della f., la problematica dell’intenzionalità, cioè la caratteristica (teorizzata nel Medioevo, ma riscoperta da F. Brentano) delle asserzioni linguistiche e degli stati mentali di essere tipicamente rivolti a oggetti extralinguistici o extramentali, cioè di avere un intrinseco contenuto (➔ intenzionalità). L’intenzionalità è al centro dell’attenzione di numerosi filosofi analitici, da Searle e D.C. Dennett a J. Fodor, e costituisce probabilmente l’argomento che più di ogni altro rivela l’ampliamento dell’interesse della f. verso quel tipo di questioni psicologiche e mentali un tempo ritenute analizzabili in termini esclusivamente linguistici.

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