SOLARI, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 93 (2018)

SOLARI, Filippo

Aldo Galli

– Figlio di Baldassarre (il nome della madre non è noto), nacque a Carona, sulle rive del lago di Lugano, nel Ducato di Milano (oggi in Svizzera), in una data che con molta approssimazione può indicarsi tra l’ultimo decennio del Trecento e i primi anni del secolo successivo.

Da una carta del 13 giugno 1446, relativa a una cessione di affitti a Carona (Biscaro, 1912, doc. XVI), si apprende che era «affinis» di Pietro di Marco Solari, ovvero parente (anche se non è dato precisare per quali vie) del più noto ramo di quella schiatta che conta un gran numero di architetti e scultori di fama, a partire da Marco (che nel 1387 dirigeva i lavori del cantiere del duomo di Milano) e dai tre figli di lui (Alberto, Giovanni e – appunto – Pietro), per giungere ai più noti esponenti: da un lato lo scultore Francesco e l’architetto Guiniforte (figli di Giovanni), dall’altro lo scultore Cristoforo, detto il Gobbo, e il pittore Andrea (nipoti di Alberto). A un terzo ramo dell’articolata compagine dei Solari appartennero infine Pietro Lombardo (Pietro di Martino Solari da Carona) e i suoi discendenti, protagonisti della scultura veneziana tra il secondo Quattrocento e la prima metà del Cinquecento. A differenza di quei suoi congiunti, che a un certo punto trasferirono la residenza chi a Milano chi a Venezia, Filippo mantenne sempre l’abitazione in riva al Ceresio, tra Carona e Melide, pur trascorrendo per ragioni di lavoro lunghi periodi lontano da casa.

La documentazione di archivio sinora rintracciata sullo scultore è estremamente ridotta e perlopiù relativa a transazioni fondiarie (ibid., pp. 63, 68 e docc. VIII, XII, XVI, XXVII). Il suo catalogo è stato pertanto ricostruito a partire dall’unica opera che le carte gli riferiscono con certezza e che costituisce peraltro il suo capolavoro: il mausoleo Borromeo già in S. Francesco grande a Milano, dal 1843 rimontato nella cappella di palazzo Borromeo all’Isola Bella, nel lago Maggiore. Per questo monumento, «tra i più fastosi, affascinanti e meno noti del nostro Quattrocento» (Gentilini, in Scultura lombarda del Rinascimento, 1996, p. 47), i libri contabili Borromeo relativi agli anni 1445 e 1446 registrano pagamenti congiunti a Filippo e ad «Andrea da Carona» (Biscaro, 1914, pp. 76-108; più di recente Buganza, 2008, pp. 325-340, docc. VIII-IX). Sulla scorta di quest’opera, dai caratteri di stile estremamente peculiari e riconoscibili, gli studi degli ultimi quarant’anni (a partire dai cenni di Wolters, 1976, pp. 235 s., 257, 285 s.; quindi Pulin, 1984, passim; Stemp, 1992, in partic. pp. 80-109; e soprattutto Gentilini, in Scultura lombarda del Rinascimento, 1996, pp. 69-78) hanno associato ai nomi dei due maestri ticinesi – non sappiamo se solo conterranei o anche parenti – un nutrito catalogo che testimonia di un’attività estremamente vasta, estesa a un’area che copre l’intera Italia settentrionale, da Udine a Savona. I nuclei più significativi, per mole di lavoro e per livello di committenza, si rinvengono a Venezia, Verona, Castiglione Olona (Varese), Milano, Genova. All’interno del corpus pare arduo, allo stato delle ricerche, distinguere il ruolo di Filippo da quello di Andrea, né è escluso (ed è anzi probabile) che altri collaboratori siano intervenuti su singoli lavori, contribuendo a quello che si configura come l’operato di un’articolata e ben organizzata officina a più mani, sempre inconfondibile, tuttavia, negli esiti formali. Per indicare una tale struttura collettiva, nella quale Filippo e Andrea dovettero ricoprire le posizioni apicali, si è talora preferito adottare l’etichetta: ‘maestri caronesi’.

Sul piano delle attribuzioni, un elemento di orientamento è fornito dall’ancona marmorea raffigurante il Cristo in gloria tra i ss. Giovanni Battista e Margherita proveniente dalla chiesa di S. Giovanni Battista di Savona e oggi nelle raccolte del Metropolitan Museum di New York, datata 1434 e firmata «Andreas de Giona». È stato infatti avanzato da tempo il sospetto che costui sia il compagno di Filippo Solari nell’impresa per i Borromeo (Castelnuovo-Tedesco, 1992, p. 456). Tale ipotesi si fonda da una parte sulla sostanziale compatibilità stilistica tra l’altare ligure e il monumento milanese, dall’altra sulla circostanza che Giona (o Ciona, o Chiona) è un minuscolo sobborgo della stessa Carona. Il recente rinvenimento di un documento genovese del 1448 in cui gli scultori «Andrea da Ciona» e «Filippo da Carona» agiscono congiuntamente (v. oltre) sembra giungere a conferma di tale identificazione. Il livello qualitativo dell’ancona di Savona, leggermente ma sensibilmente inferiore rispetto alle parti più felici dell’opera oggi all’Isola Bella, ha spinto diversi studiosi a riconoscere in Filippo Solari il maestro più talentuoso all’interno della coppia (Gentilini, in Scultura lombarda del Rinascimento, 1996, p. 73; Beuing, 2010, pp. 94-96; Markham Schulz, 2017, p. 111).

Lo stile del monumento Borromeo e degli altri lavori riferiti a Filippo e ad Andrea ha caratteri di grande originalità nel panorama della scultura italiana del terzo quarto del Quattrocento. Venato di retaggi tardogotici, segnato da eleganti e ricorrenti sigle grafiche e connotato allo stesso tempo da una spiccata impronta di gusto umanistico nella profusione di ignudi, spiritelli e profili imperiali, tale linguaggio non ha rapporti con quello dominante nella prima metà del XV secolo al cantiere del duomo di Milano, orientando l’indagine sulla formazione dei ‘maestri caronesi’ piuttosto in direzione di Venezia (Galli, in Lo specchio di Castiglione Olona, 2009, pp. 67-70; Id., 2014, pp. 201-203; per una diversa opinione: Markham Schulz, 2017, pp. 111 s.). In quell’ambiente reso particolarmente vivace e stimolante dalla presenza di scultori fiorentini quali Niccolò Lamberti, suo figlio Pietro e Nanni di Bartolo, trovano spiegazione anche i riflessi dell’arte di Lorenzo Ghiberti (a sua volta presente in laguna nell’autunno del 1424, e forse in altre circostanze) che improntano opere quali la lunetta con la Madonna col Bambino e due angeli che corona l’ingresso alla cappella Corner, all’esterno della basilica dei Frari (edificata nel corso degli anni Venti e già in essere nel 1430: A. Sartori, Il reliquiario della lingua di S. Antonio di Giuliano da Firenze, in Rivista d’arte, XXXIV (1959), pp. 123-149, in partic. pp. 132 s.), o le sculture all’altare della ‘cappella nuova della Madonna’ (poi detta dei Mascoli) in S. Marco, fondata nel 1430. A Venezia, oltre a questi due lavori di altissima qualità, collegati tra loro fin dai primi del Novecento e talora significativamente attribuiti a un artista fiorentino della cerchia del Ghiberti (Wolters, 1976, pp. 107-111), sono stati ricondotti alla paternità dei ‘maestri caronesi’ alcuni capitelli del portico e della loggia dell’ala occidentale di palazzo ducale, eretta tra il 1424 e il 1435 circa (Galli, 2014, p. 202), il fonte battesimale della chiesa di S. Giovanni in Bragora, due figure di angeli a rilievo in S. Stefano e le due belle statue della Madonna col Bambino e di S. Francesco che coronano il portale maggiore della basilica dei Frari (A. Markham Schulz, The sculpture of Giovanni and Bartolomeo Bon and their workshop, Philadelphia 1978, p. 8). Il catalogo veneziano dei Caronesi, che testimonia di una bottega molto ben inserita nel contesto di committenza cittadino e impegnata in cantieri della massima rilevanza, si completa infine con due ulteriori monumenti che Filippo Solari e bottega realizzarono in laguna ma destinandoli, rispettivamente, a Ferrara e a Udine. Il primo e più importante è il monumento funebre di Giacomo Sacrati, opera di tipologia prettamente veneziana, già in S. Domenico, i cui elementi figurati sono oggi divisi tra il Museo di casa Romei (Madonna col Bambino) e il Museo del duomo di Ferrara (i Ss. Giacomo maggiore, Giorgio, Filippo e Antonio abate); l’opera recava nell’epigrafe, oggi non più esistente ma trascritta nel Seicento (M. Guarini, Compendio historico [...] delle chiese e luoghi pij della città e diocesi di Ferrara, Ferrara 1621, p. 104), la data 8 gennaio 1428, verosimilmente relativa alla morte di Sacrati (Stemp, 1992, pp. 43-58). Di minore impegno è lo stemma di Marco Dandolo, luogotenente veneziano di Udine, già murato sulla porta di Poscolle e oggi nel locale museo, la cui esecuzione fu deliberata dal Maggior Consiglio della città friulana nell’ottobre del 1429 e che certamente era finito nel maggio del 1430, quando un pittore venne pagato per averlo dipinto (Gallo, 1928).

Nello stesso torno di anni l’efficientissima bottega era però già in grado di espandere il proprio raggio di azione anche su altri fronti, come documentano alcune precoci e importanti commissioni giunte da Verona e da Castiglione Olona.

Nella città che era stata scaligera, ma ormai posta sotto lo stabile dominio di Venezia, si deve ai ‘maestri caronesi’ il gruppo di figure in pietra dipinta che compone il Seppellimento di Cristo nella basilica domenicana di S. Anastasia. L’opera fu realizzata in esecuzione delle volontà testamentarie espresse nel 1424 da Gianesello da Folgaria, uno tra i cittadini più autorevoli del suo tempo, che ne dispose l’allestimento nelle immediate adiacenze del proprio monumento funebre, a ridosso della controfacciata. L’esecuzione andrà dunque datata a breve distanza dalla morte di Gianesello, sopravvenuta tra il 1426 e il 1427 (Franco, 2007, p. 40). Reca invece inscritta la data 1428 la lunetta con la Madonna col Bambino, i ss. Lorenzo, Clemente, Ambrogio, Stefano e il committente Branda Castiglioni sul portale della collegiata dei Ss. Lorenzo e Stefano a Castiglione Olona, un edificio significativamente eretto, negli anni immediatamente precedenti, dai fratelli Alberto, Giovanni e Pietro Solari, ovvero dai già rammentati parenti di Filippo (G. Sironi, I fratelli Solari, figli di Marco da Carona: nuovi documenti, in Arte lombarda, 1992, voll. 102-103, pp. 65-69, in partic. doc. 11). Tanto Verona quanto Castiglione Olona rimasero sedi privilegiate dell’attività della bottega anche nel corso degli anni Trenta. Per Beatrice da Bussolengo, priora del monastero agostiniano di S. Martino ad Avesa, alle porte della città veneta, Filippo e soci scolpirono un altare, poi smembrato, di cui si conserva ancora in un ambiente della chiesa il coronamento tricuspidato, mentre lo scomparto centrale del registro principale con L’elemosina di s. Martino, datato 1436, è esposto nel Museo di Castelvecchio (Franco, 2007). Si propone in questa sede d’integrare il complesso con lo scomparto di sinistra: un S. Girolamo perfettamente congruente per misure, stile e repertorio decorativo, acquistato nel 1976 dalle collezioni di scultura dei Musei di Berlino (Schlegel, 1989, p. 16, con la giusta attribuzione a «Filippo und Andrea da Carona»). Non disponiamo invece di appigli cronologici utili per altre imprese veronesi della bottega, tra le quali spiccano un articolato complesso in S. Fermo maggiore, comprendente un Compianto sul Cristo morto, due Angeli ploranti e il Redentore (oggi distribuiti in punti diversi della chiesa), forse in origine integrato da affreschi di Stefano da Verona, e un grande trittico con la Crocifissione e il donatore, attualmente murato nella hall dell’hotel Due torri (Franco, 2007, pp. 40 s., 44).

Nel corso dello stesso decennio dovette concentrarsi anche il grosso dei lavori a Castiglione Olona, che si risolsero presto in un autentico monopolio esercitato dai Caronesi sull’arredo scultoreo delle chiese e dei palazzi del borgo natale del potente cardinale Branda Castiglioni. Esso comprende due pale di altare per la Collegiata (un trittico per l’altar maggiore con le statue della Madonna e dei due diaconi titolari entro nicchie e un’ancona a più registri con il Cristo redentore e i dodici apostoli, a rilievo), il tabernacolo eucaristico e il monumento funebre del cardinale nella stessa chiesa; il fonte battesimale per l’adiacente Battistero; l’intero arredo scultoreo della chiesa del Corpo di Cristo, detta di Villa, tanto all’esterno (i due portali e una coppia di colossali figure ad altorilievo dei Ss. Cristoforo e Antonio addossata alla facciata) quanto all’interno (il Cristo morto sotto la mensa dell’altare e le statue dell’Angelo annunciante e della Vergine annunciata). Oltre a questa nutrita compagine di sculture lapidee, Filippo e la sua équipe lasciarono a Castiglione molte testimonianze nel campo – a quell’epoca ancora assai poco praticato a nord degli Appennini – della terracotta, sia a modellazione diretta, come nel caso di due stupende figure acefale, probabilmente Apostoli, nell’atrio del battistero e dei quattro Padri della Chiesa nella chiesa di Villa, sia a stampo, come nella cornice del finestrone del cosiddetto palazzo dei Famigliari (Pulin, 1984; Caldara e Galli, in Lo specchio di Castiglione Olona, 2009).

A dispetto di un’esistenza girovaga, Filippo Solari – come detto – non interruppe mai i rapporti con la patria, dove continuò a investire in case e terreni. Nel corso delle sue prolungate assenze agivano in sua vece i fratelli Donato (che il 18 gennaio 1438 acquistò per sé e per Filippo alcune terre a Maroggia, sempre sulle sponde del lago di Lugano) e Alione (menzionato in un ulteriore atto notarile del 1442; dei due non è nota la professione: entrambi i documenti in Biscaro, 1912, docc. VIII, XI). A testimonianza del perdurare delle relazioni di Filippo con Carona, rimangono nella locale chiesa di S. Giorgio un piccolo fonte battesimale (assai simile a quello veneziano di S. Giovanni in Bragora) e un notevole altare eucaristico in pietra di Saltrio, non del tutto integro e solo recentemente ricomposto presso la parete destra della chiesa, la cui pertinenza al corpus che andiamo illustrando è stata da tempo riconosciuta (a partire da un dimenticato contributo di Salmi, 1931, pp. 278-280). È molto verosimile che dell’altare facessero originariamente parte anche i due angeli reggicero recentemente rinvenuti nello stesso tempio (Galli, in Nelle terre del marmo, 2018, p. 12).

Dopo il 1440 l’attività di Filippo e compagni sembra spostare il proprio baricentro più a occidente, tra Milano e Genova (ma senza dimenticare la già rammentata ancona savonese, firmata da Andrea da Ciona sin dal 1434). La data della morte di Francesco Spinola, 9 febbraio 1442, è il solo riferimento utile per datare il monumento funebre del valoroso capitano, in origine murato nella cappella maggiore della chiesa di S. Domenico a Genova. Si trattava di un complesso insolito entro il quale convivevano un sarcofago romano del II secolo con un Corteo dionisiaco e un grande altorilievo con il ritratto equestre di Spinola sotto un padiglione da campo (Toesca, 1908; Müller, 2002; Beuing, 2010). Quest’ultima immagine, del tutto estranea alla tradizione funeraria ligure, è indubbiamente (e significativamente) esemplata su prototipi veneti, e specialmente veronesi: i monumenti di Cortesia da Serego in S. Anastasia e di Spinetta Malaspina già in S. Giovanni in Sacco (oggi, molto manomesso, al Victoria and Albert Museum di Londra). Il complesso genovese, smembrato già alla fine del Cinquecento, vide il rilievo quattrocentesco approdare con l’epigrafe nel cortile di palazzo Spinola di Pellicceria, mentre il sarcofago è oggi esposto nel Museo di S. Agostino, dove si conserva altresì una statuetta di S. Giorgio, da riconoscere nella figura apicale del monumento (Galli, 2014, p. 200).

È molto probabile che proprio a Genova sia avvenuto l’incontro di Filippo e Andrea con Vitaliano Borromeo, che nella metropoli ligure coltivava interessi ingenti e che nel 1445 ottenne, insieme alla cittadinanza genovese, l’appalto del commercio del sale destinato al Ducato di Milano; allo stesso anno risale inoltre il conferimento a Vitaliano del titolo comitale da parte di Filippo Maria Visconti. In tale felice congiuntura si collocava la commissione del sontuoso mausoleo, concepito in prima istanza – come è stato di recente chiarito (Buganza, 2008, p. 49) – quale monumento alla memoria di Giovanni Borromeo, zio di Vitaliano, nonché suo padre adottivo e primo artefice delle sue fortune. Interamente realizzato in candido marmo carrarese, il sepolcro rimase interrotto allorché la morte di Filippo Maria Visconti (13 agosto 1447) precipitò Milano in una fase di grave instabilità politica che ebbe tra i più controversi protagonisti proprio Vitaliano, a sua volta scomparso nell’ottobre del 1449. L’arca venne infine terminata da altri artefici e inaugurata in S. Francesco grande solo nel 1478 per volontà del nipote di Vitaliano, Giovanni. È grazie a un atto notarile del 27 giugno 1446, relativo alla cessione di un censo livellario, in cui agisce l’«intaliator lapidum» Filippo del fu Baldassarre Solari da Carona, residente a Melide ma in quel momento appunto domiciliato a Milano presso i Borromeo, che Girolamo Biscaro poté recuperare l’identità anagrafica dell’artefice, chiamato nelle carte milanesi sempre e solo «Filippo da Carona» (Biscaro, 1914, pp. 107 s.).

Una volta rimasti privi d’impiego a Milano, Filippo e Andrea fecero ritorno a Genova, dove non tardarono a riguadagnare una posizione di assoluto spicco tra gli scultori attivi in città. Un documento solo di recente portato all’attenzione degli studiosi rivela infatti come l’8 maggio 1448 Andrea da Ciona, Filippo da Carona, Giovanni da Campione e Jacopo «da Barchino» (verosimilmente Barclaino, frazione di Claino, sempre sulle rive del Ceresio), s’impegnavano a realizzare un monumentale tabernacolo eucaristico, alto più di sei metri, per la cattedrale di Genova (Falcone, in Nelle terre del marmo, 2018). È molto ragionevole credere che facessero parte dello smembrato complesso i rilievi con figure di Evangelisti, Dottori della Chiesa e altri santi attualmente murati all’esterno del tamburo della cupola del duomo (pp. 92-96), che erano già stati riconosciuti alla bottega caronese (B. Astrua, in La cattedrale di San Lorenzo a Genova, a cura di A.R. Calderoni Masetti - G. Wolf, Modena 2012, pp. 228 s., nn. 167-174). È altresì degno di nota che l’atto genovese sia stato rogato nel cortile del palazzo del banchiere Brancaleone Grillo, in vico Mele, il cui sontuoso portale marmoreo è certamente opera di Filippo Solari e soci, ai quali era già stato restituito (Cavazzini - Galli, 2007, p. 27; su Grillo: Falcone, in Nelle terre del marmo, 2018, pp. 97 s.).

L’ultimo lavoro di data certa eseguito dall’impresa caronese ci riporta, un po’ a sorpresa, a Venezia. L’anno 1449 si legge inciso sul cartiglio ai piedi del trono nel rilievo in pietra d’Istria con la Madonna col Bambino tra i ss. Pietro e Paolo, oggi murato su un palazzo di via Porta Dipinta a Bergamo ma proveniente dall’altare di Piero Franco in S. Pietro di Castello. L’opera, insieme all’intero sacello, era stata in realtà commissionata ai fratelli veneziani Pantaleone e Giovanni di Paolo, che tuttavia decisero evidentemente di subappaltare la pala di altare all’officina caronese, come certifica inequivocabilmente lo stile (Markham Schulz, 1997) e come è stato unanimemente riconosciuto.

La morte di Filippo Solari dovette sopraggiungere non molti anni più tardi. Egli risulta in ogni caso già defunto il 19 settembre 1453, come si ricava da un atto relativo a suo fratello Donato e a suo figlio (ed erede) Francesco (Morscheck, comunicazione orale in Markham Schulz, 2017, p. 110 nota 39).

Fonti e Bibl.: P. Toesca, Lo scultore del monumento di Francesco Spinola, in Scritti di storia, di filologia e d’arte (Nozze Fedele - De Fabritiis), Napoli 1908, pp. 173-180; G. Biscaro, I Solari da Carona, in Bollettino storico della Svizzera italiana, XXXIV (1912), 7-12, pp. 61-77; Id., Note di storia dell’arte e della cultura a Milano dai libri mastri Borromeo (1427-1478), in Archivio storico lombardo, s. 5, XLI (1914), pp. 71-108; C. Cipolla, Ricerche storiche intorno alla chiesa di Santa Anastasia in Verona. Il monumento di Gianesello da Folgaria, in L’arte, XIX (1916), pp. 122-124; R. Gallo, L’arma di Marco Dandolo sulla porta di Borgo Poscolle a Udine, in Rivista della città di Venezia, VII (1928), pp. 15-26; L. 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