LIPPI, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 65 (2005)

LIPPI, Filippo

Luca Bortolotti

Nacque intorno al 1406 a Firenze, figlio di Tommaso di Lippo, di professione macellaio, e di Antonia di ser Bindo Sernigi.

Secondo le indicazioni di Vasari (1568, p. 612), il L. proveniva da una famiglia particolarmente povera, e molto presto era rimasto orfano di padre. La sua data di nascita viene convenzionalmente desunta facendo riferimento al 18 giugno 1421, allorquando, dopo un anno di noviziato, il L. pronunciò i voti nel convento carmelitano del Carmine, assumendo che egli avesse allora appena compiuto il quindicesimo anno, l'età minima per accedere all'abito religioso, come già aveva fatto il fratello Giovanni, entrato nello stesso convento nel 1419.

Al Carmine il L. rimase per più di dieci anni, come risulta da vari documenti che lo nominano quasi ininterrottamente tra il 1422 e il 1432: fra essi, il registro dei donativi annuali per il vestiario e le menzioni di brevi trasferte a Pistoia (1424), Pisa e Prato (1426). Nella chiesa del convento fiorentino il L. poté con continuità osservare all'opera Masaccio e Masolino da Panicale, intenti, all'incirca tra il 1424 e il 1428, alla grande impresa decorativa della cappella Brancacci, il che inevitabilmente lo avrebbe segnato in profondità, qualificandosi come l'evento chiave del suo, invero nebuloso, periodo di formazione.

In effetti, intorno al suo apprendistato e alla produzione giovanile non sussiste alcun riferimento documentario (in quanto religioso, il L. non sottostava all'obbligo di iscrizione alla locale gilda dei pittori ed egli è citato per la prima volta come pittore solo nel gennaio del 1431) e neppure alcuna chiara indicazione delle fonti contemporanee: dunque, ancor oggi, su tali questioni si registrano divergenze da parte degli studiosi. Da ultimo, è stata anche ipotizzata una diretta collaborazione del L. con Masaccio nella realizzazione del polittico di Pisa, dipinto nel corso del 1426 (di cui sarebbe testimonianza il pannello raffigurante un Santo carmelitano senza barba conservato alla Gemäldegalerie di Berlino, di recente attribuito al L.), e perfino, subito dopo, negli affreschi della cappella Brancacci. Peraltro, a causa delle lacune documentarie che ne accompagnano l'opera, permangono sostanziose controversie critiche anche relativamente alla sistemazione del catalogo lippesco degli anni Trenta e in parte degli anni Quaranta, confermando al corpus e alla successione dei suoi dipinti una certa condizione di incertezza, che potrà essere sormontata solo con l'emergere di ulteriori puntelli cronologici certi.

L'importanza dell'esempio masaccesco risulta con chiarezza in un affresco, oggi lacunoso, che il L. realizzò nel chiostro del convento, probabilmente sul finire del terzo decennio e comunque prima del 1432.

Il suo soggetto, di non facile interpretazione, viene prevalentemente inteso come il Conferimento della regola carmelitana ai frati sul monte Carmelo da parte del patriarca di Gerusalemme Alberto di Avogadro. Ma intorno a questo riferimento iconografico di base sono fiorite sottili varianti di lettura (Scene di vita carmelitana agli albori dell'Ordine, Confermadella regola da parte di Onorio III, Mitigazione della regola da parte di Eugenio IV ecc.); mentre alcuni studiosi hanno ritenuto preferibile riconoscere nell'immagine frammentaria una raffigurazione di episodi di vita eremitica relativa ai monaci della Tebaide. L'affresco riemerse sotto lo scialbo solo nel 1860, a seguito di una specifica indagine effettuata da Seymour Kirkup. Con tutte le ingenuità e le irresolutezze che l'immagine esibisce, è evidente lo sforzo di richiamarsi a Masaccio nella spoglia monumentalità della composizione, nell'essenzialità del racconto, nella ricerca di caratterizzazione espressiva dei volti e di razionalizzazione dello spazio.

Oltre che nell'affresco del Carmine, l'influenza masaccesca si può evincere in primo luogo nella Madonna dell'Umiltà con angeli e santi carmelitani (detta Madonna Trivulzio), oggi a Milano, Castello Sforzesco, ma anche in una serie piuttosto omogenea di intense rappresentazioni sacre, di piccolo formato a destinazione devozionale, riconducibili al primo periodo fiorentino: la Madonna col Bambino in trono fra angeli e santi del Museo della Collegiata di Empoli; la Madonna col Bambino, angeli, santi e un donatore della collezione Cini di Venezia; il piccolo tabernacolo di analogo soggetto del Fitzwilliam Museum di Cambridge; il S. Giovanni Evangelista già nella collezione Piasecka Johnson di Princeton; il Cristo in pietà fra santi (Gerolamo e forse Francesco) nel palazzo arcivescovile di Firenze.

Molte di queste immagini riflettono anche l'acuta reattività del L. nei confronti delle varie tendenze della pittura centroitaliana legate all'estrema stagione tardogotica, incarnate da Lorenzo Monaco, Gherardo Starnina, Spinello Aretino e Gentile da Fabriano: una sensibilità aperta, ma guidata da una personalità artistica assolutamente originale, che colloca il L. in una posizione di cerniera nella pittura fiorentina del secondo quarto di secolo, ancora divisa fra il ripensamento dell'eredità trecentesca e l'apertura verso le nuove istanze rinascimentali.

Nel novembre del 1428 il L. si trasferì temporaneamente nel monastero carmelitano di Siena, dove rimase per circa un anno con la carica di sottopriore. Ciò gli diede l'opportunità di conoscere in profondità le vestigia dell'arte locale, sia quelle pittoriche, sia, e forse ancor più, quelle scultoree (Lorenzo Ghiberti, Donatello, Iacopo della Quercia). Dal 1° genn. 1433 nei documenti del convento carmelitano di Firenze, per la prima volta dal 1422, non risultano riferimenti al Lippi. L'anno prima, infatti, o al più tardi al principio dello stesso 1433, egli dovette recarsi a Padova.

Secondo la testimonianza di Marco Antonio Michiel, il L. fu impegnato nella basilica del Santo (p. 27) e nella cappella del Podestà ("fu dipinta da Ansuin da Forlì, da Fra Philippo et da Nichola Pizzolo", p. 34). Fra gli impegni padovani del L. attestati dai documenti (Ruda, p. 515) spiccano la decorazione dell'armadio delle reliquie nella sagrestia del Santo e un arbitrato assolto in collaborazione con Francesco Squarcione il 15 ott. 1433, relativo alla stima di un'ancona che Iacopo e Niccolò Mireto avevano dipinto per la cattedrale (testimonianza eloquente del felice ambientamento del L. nella realtà artistica locale). Nessuna delle opere che egli realizzò nella città veneta si è conservata.

Taluni studiosi hanno proposto di avvicinare al periodo padovano opere come il Cristo di pietà del Museo di Castelvecchio a Verona, la Natività della National Gallery di Washington, il Cristo nel sepolcro del Museo cristiano di Esztergom o la Madonna col Bambino dello Utah Museum of fine arts di Salt Lake City, nonché più d'una delle tavole che sono state considerate del primo nucleo fiorentino, entro il 1432. Ma al di là della difficoltà di ricostruire con adeguato margine di sicurezza un sia pur minimo corpus di opere compiute in quegli anni, resta che l'esperienza padovana fu fertile di conseguenze sulla pittura del L., e ancor più sugli artisti di formazione locale, soprattutto di ambito squarcionesco (Giorgio Schiavone, Marco Zoppo, Nicolò Pizolo, lo stesso Squarcione), rappresentando una di quelle rare, ma tutte incisive, iniezioni quattrocentesche di cultura figurativa toscana in Veneto, fra le quali spicca eccezionalmente l'attività di Donatello a Padova fra il 1443 e il 1454.

Una lista di frati residenti nel convento del Carmine, datata 24 ott. 1434, sembra comprendere il suo nome ("Lippus tomasi": Ruda, p. 514), indicando così il suo avvenuto rientro a Firenze. Di sicuro il L. portò a termine nel 1437 la Madonna col Bambino in trono (la cosiddetta Madonna di Tarquinia, datata nel cartiglio posto alla base del trono della Vergine, conservata a Roma, Galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini), per Giovanni Vitelleschi, arcivescovo di Firenze.

La tavola, che si presenta nella sua cornice originale, era destinata alla chiesa di S. Maria di Castello a Corneto (l'attuale Tarquinia), città natale dell'arcivescovo, dove questi decise di rientrare appunto nel 1437, di stabilirvi la residenza e iniziare l'edificazione del suo sontuoso palazzo. Il dipinto del L. si impone per la sua particolare elaborazione formale, che presenta un gran numero di elementi d'interesse: l'ambientazione nell'interno domestico accuratamente descritto; l'intenso abbraccio che lega le due figure, quasi fissandole al trono, e il gesto così realistico e fragrante del Bimbo che stringe la mano destra sul collo di Maria; e ancora l'ardita prospettiva, la ricchezza di scorci, l'attenta resa luministica. L'opera evidenzia l'acume con cui il L. guardava alla coeva pittura fiamminga (Jan van Eyck, Robert Campin, Rogier van der Weyden), ma anche al poderoso plasticismo di Donatello.

Di poco successiva (dipinta quasi certamente fra il 1437 e il 1439) è la Madonna con Bambino, angeli e i ss. Frediano e Agostino (Parigi, Louvre), commissionata al L. dai capitani di Orsanmichele dando corso a un lascito testamentario del 12 giugno 1411 di Gherardo di Bartolomeo Barbadori (morto nel 1429 senza discendenti), finalizzato all'edificazione di una cappella dedicata a S. Frediano (patrono del quartiere del Barbadori) nella chiesa fiorentina di S. Spirito (Ruda, p. 516).

A tale opera si riferì Domenico Veneziano in una lettera indirizzata da Perugia a Piero di Cosimo de' Medici il 1° apr. 1438, quando elogiò le qualità del L. collocandolo tra i migliori e più attivi maestri sulla scena fiorentina, allo stesso livello del Beato Angelico: una considerazione che dovette incontrarsi felicemente col giudizio del destinatario della missiva, se i Medici restarono i principali sostenitori dell'arte del L. lungo tutto l'arco della sua attività. Esiste anche un altro documento relativo alla pala del L., precedente alla lettera di Domenico Veneziano: una nota nel registro degli stanziamenti dei capitani di Orsanmichele, datata 8 marzo 1437 (ibid., p. 518). L'imponente macchina d'altare propone una Maestà della Vergine opportunamente monumentale, rigorosa e geometrica nell'impaginazione, ma anche viva e dinamica, grazie alla composizione affollata in cui si trovano felicemente combinati gesti solenni, movenze leggiadre e pose di realismo decisamente non convenzionale. Nel frate che fa capolino sulla sinistra, col mento appoggiato alla balaustra, si è soliti riconoscere l'autoritratto del Lippi. Gli ormai consolidati punti di riferimento del L., costituiti dall'arte di Masaccio e di Donatello, vengono qui stemperati da un ricco e fantasioso gusto decorativo e architettonico, non meno che da un lirismo al contempo classico e pieno di grazia, nel quale è dato cogliere echi dell'Angelico e di Luca Della Robbia. La predella, di fattura squisita per quanto alcuni studiosi abbiano ritenuto di riconoscervi l'intervento di aiuti, presenta, da sinistra verso destra, Storie di s. Frediano, della Vergine e di s. Agostino. Salvatasi dalle spoliazioni napoleoniche, essa si trova oggi nella Galleria degli Uffizi a Firenze.

Ancora sul finire del quarto decennio dovrebbero essere collocate - per la loro vicinanza stilistica con la Madonna di Tarquinia e la Pala Barbadori - la Madonna in trono con Bambino e due angeli del Metropolitan Museum di New York e le due tavole coi Quattro dottori della Chiesa dell'Accademia Albertina di Torino, opere che di quella vengono in genere considerate gli sportelli laterali.

All'inizio del quinto decennio, il L. condusse a termine uno dei suoi capolavori, l'Annunciazione per la cappella Martelli della chiesa fiorentina di S. Lorenzo.

Intorno a quest'opera, sorprendentemente, non sussiste alcuna certezza di ordine documentario, salvo ch'essa è testimoniata nello stesso posto dov'è ora da tutte le fonti più antiche, sino a Vasari (1568, p. 618). Perfino la pertinenza della predella con Storie di s. Nicola di Bari che attualmente l'accompagna, realizzata con la larga partecipazione di qualche aiutante (forse Giovanni di Francesco), non può essere affermata in via definitiva, in primis per la difficoltà di stabilire un nesso iconografico pienamente persuasivo fra le due parti del dipinto. La spiegazione migliore del soggetto della predella fa leva sul riferimento a Niccolò Martelli, le cui spoglie si trovavano effettivamente nella cappella (che peraltro solo dalla fine del Cinquecento venne comunemente riferita al patronato dei Martelli). Nell'Annunciazione l'ampia gestualità della Vergine esprime efficacemente il turbamento e lo sconcerto susseguenti all'annunzio dell'arcangelo Gabriele, creando un sottile contrasto coi lineamenti purissimi dei volti. Può darsi che il L. si sia qui richiamato al tabernacolo dello stesso soggetto che Donatello aveva realizzato poco prima, se non proprio contemporaneamente, per la cappella della famiglia Cavalcanti nella chiesa di S. Croce. La prospettiva rigorosamente impostata su un unico punto di fuga; l'ordinato hortus conclusus, con la fontana, il pergolato di tralci di vite e le aiuole di rose, che si aprono dietro l'elegante loggiato, proscenio all'azione principale; le sontuose architetture rifinite in ogni dettaglio; il cielo luminoso ma striato da nubi sottili; il dettaglio illusionistico, squisitamente fiammingo, dell'ampolla trasparente di limpida acqua virginale nel primissimo piano: l'insieme di queste soluzioni originali, perfettamente calibrate sul piano simbolico, contribuisce a dare vita a uno dei frutti più alti e seducenti del primo Rinascimento fiorentino.

Il L. è documentato nel convento del Carmine sino all'8 ott. 1441. Il 23 febbraio successivo con una bolla di Eugenio IV era nominato rettore e abate commendatario a vita della chiesa di S. Quirico a Legnaia, poco lontano da Firenze, presso la quale già si trovava il fratello Giovanni.

Negli anni Quaranta si succedettero diverse fra le opere più riuscite del L., a cominciare dall'Incoronazione della Vergine (Firenze, Galleria degli Uffizi), a lui commissionata nel 1439 in esecuzione delle volontà testamentarie di Francesco di Antonio Maringhi, governatore e procuratore della chiesa di S. Ambrogio, nonché canonico di quella di S. Lorenzo, che sarebbe morto nell'agosto del 1441.

La grande pala del L., con la relativa predella (della quale rimane soltanto il segmento con un Miracolo di s. Ambrogio alla Gemäldegalerie di Berlino), fu terminata certamente dopo il 1444. Essa fu saldata il 9 giugno 1447 dai tre esecutori testamentari del committente, fra i quali il nipote Domenico Maringhi e Lorenzo Ghiberti, per l'esorbitante compenso complessivo di 1716 lire (poco più di 400 fiorini), indice inequivocabile della brillante affermazione ormai ottenuta dal L. sul mercato artistico fiorentino (Ruda, pp. 423 s.). Il dipinto era destinato all'altare maggiore di S. Ambrogio, collocazione nella quale è descritto da tutte le fonti, compreso Vasari (1568, p. 615), e dove rimase sino al 1585. Fu allora che venne spostato dapprima in prossimità di una porta che conduceva al convento adiacente alla chiesa, e poi in sagrestia, da dove fu trafugato prima del 1810, sfortunata evenienza che però lo preservò dal saccheggio napoleonico. La pala testimonia in modo spettacolare la luminosità e la brillantezza coloristica ormai raggiunta dal L., nonché la sua padronanza, si può dire senza eguali in ambito toscano, nella modulazione della luce sui volti e sui corpi, sugli abiti e sulle superfici di oggetti e architetture. Nonostante il L. si fosse avvalso della collaborazione dei suoi aiuti, in particolare nelle figure laterali dello sfondo (i pagamenti riportano i nomi di fra Diamante [Diamante di Feo] - monaco carmelitano, poi divenuto vallombrosano, che fu a lungo assistente del L. - di un Piero di Lorenzo e di Bartolomeo Corradini, il fra Carnevale in cui oggi viene riconosciuto il Maestro delle Tavole Barberini, il quale lavorò presso il L. fra il 1445 e il 1446), l'opera ottenne un immediato, entusiastico consenso e secondo il racconto di Vasari valse all'artista un particolare apprezzamento di Cosimo il Vecchio de' Medici.

Al principio del decennio viene in genere fatta risalire l'Annunciazione con due donatori della Galleria nazionale di arte antica a Palazzo Barberini: un'opera di superba fantasia decorativa e luminosissimo colorito, originariamente nell'oratorio della famiglia Bardi Larioni in Pian di Ripoli, presso Firenze, ciò che ha permesso di riconoscere nelle due figure di devoti inginocchiati Andrea de' Bardi e Lorenzo di Ilarione de' Bardi. Sempre a cavallo del 1440 si dovrebbe collocare anche l'anomalo Ritratto di donna di profilo, con un uomo che si affaccia dal davanzale del Metropolitan Museum di New York.

Lo stemma di stoffa appoggiato al davanzale è certamente quello di famiglia del committente, ma non è stato ancora possibile scioglierne l'appartenenza in termini definitivi. Spicca nella piccola tavola la soluzione dei due impassibili profili affrontati, forse sposi promessi, certamente stretti da qualche vincolo reciproco (sottolineato dal motto "Lealtà" che si può leggere sul ricamo di perle nel bordo della manica del vestito di lei), eppure misteriosamente lontani, con quella trama vagamente metafisica di sguardi che non si incontrano (ciò che, in alternativa, potrebbe indicare che uno dei due è in realtà defunto). Anche la finestra dietro la dama che si apre su un civilizzato paesaggio di campagna coltivata, di chiara suggestione fiamminga, contribuisce a definire l'atmosfera del quadro, tanto densa di connotazioni quanto impenetrabile e segreta.

Il tondo con l'Adorazione dei magi della National Gallery di Washington, di fattura squisita e composizione originale e vivacissima, viene identificato abitualmente (ma non con assoluta certezza) con quello descritto nella camera di Lorenzo de' Medici dall'inventario mediceo del 1492, con l'attribuzione all'Angelico e una stima molto elevata, di 100 fiorini (Ruda, p. 437).

Molti elementi relativi a quest'opera, oltre alla sua committenza, sono oggetto di opinioni largamente diversificate: la sua destinazione funzionale (se si tratti di un desco da parto, magari in onore di Lorenzo de' Medici nato nel 1449, oppure di uno dei più antichi esemplari di tondo realizzato come dipinto autonomo); la sua cronologia, circa la quale si sono succedute ipotesi oscillanti tra la fine del quarto e la metà del sesto decennio (ma si può privilegiare perlomeno una generica collocazione negli anni Quaranta); e infine la sua attribuzione, intorno alla quale si è sviluppata una complessa querelle filologica che ha visto alternarsi, oltre a quello del L., i nomi dell'Angelico e, oppure, di un suo seguace, di Benozzo Gozzoli, di Sandro Botticelli e di Filippino Lippi. Essendo sempre stata sottolineata la particolare vicinanza del tondo alla maniera dell'Angelico, più di uno studioso ha avanzato varie, e a volte assai articolate, ipotesi di compartecipazione all'opera del L. e del frate domenicano.

Fra il 1444 e il 1445 il L. fu impegnato nell'Incoronazione della Vergine fra angeli, santi benedettini e due donatori (Pinacoteca Vaticana).

Stando a Vasari (1568, p. 618) l'opera fu commissionata da Carlo Marsuppini, cancelliere della Repubblica fiorentina in Arezzo, e destinata - forse in concomitanza con la morte del padre, Gregorio, avvenuta nel 1444 - alla cappella di S. Bernardo nella chiesa del convento aretino degli olivetani (qui Vasari commise un errore, poiché non era una cappella ma la stessa chiesa, soppressa nel 1785, a essere intitolata a S. Bernardo). Originariamente il dipinto, oggi diviso in tre tavole centinate, si presentava come un unico pannello, probabilmente comprensivo di predella. Sostanzialmente tutti gli studiosi hanno riconosciuto nell'Incoronazione Marsuppini la collaborazione della bottega.

Intorno alla metà degli anni Quaranta (ma a tale riguardo le opinioni non sono perfettamente concordi, perché contemplano escursioni cronologiche spinte sino a circa il 1450) il L. compì un'Annunciazione per l'altare maggiore della chiesa conventuale delle murate a Firenze, che fu ceduta alle collezioni reali bavaresi all'inizio dell'Ottocento ed è oggi nell'Alte Pinakothek di Monaco.

Dell'opera si trova una menzione piuttosto precisa in Vasari, il quale indica l'esistenza di due tavole del L. nella chiesa delle murate, fra cui "una dell'Annunziata, posta allo altar maggiore" (1568, p. 617), presenza confermata e ulteriormente dettagliata da Richa (p. 109). Pur se oggi si è fatta strada la tendenza a vedere nel dipinto una significativa partecipazione di aiuti (forse il Maestro della Natività di Castello), esso risulta comunque congegnato magistralmente sotto il profilo dell'articolazione concettuale dello spazio, nella ragionata suddivisione degli ambienti, nella raffinatezza delle architetture e nella sottigliezza degli attributi allegorici e delle soluzioni simboliche, ben esemplificando, inoltre, il momento di maggiore tangenza del L. allo stile dell'Angelico, in particolare nelle figure e nei luminosi accordi cromatici. La collocazione alla metà del quinto decennio sembra trovare conferma nel fatto che gli altari della chiesa furono edificati nel 1443, a seguito di una donazione di Giovanni Amerigo Benci.

Pochi anni dopo la tavola di Monaco, il L. tornò al tema prediletto dell'Annunciazione nell'esemplare conservato in palazzo Doria Pamphili a Roma, anch'esso caratterizzato dalle opinioni discordanti degli studiosi circa l'entità di eventuali, e più che probabili, interventi di aiuti. In questa redazione del soggetto si segnalano comunque la rigorosa compostezza della scena, nonché le due varianti compositive costituite dalla decisa orizzontalità dell'impaginazione (assai poco praticata nelle Annunciazioni toscane del Quattrocento) e dall'inversione della collocazione delle due figure rispetto alla configurazione standard attuata dal L., con la Vergine a sinistra e l'angelo annunziante a destra.

Nella seconda metà del quinto decennio il L. realizzò la Madonna col Bambino e i ss. Francesco, Cosma, Damiano e Antonio da Padova (Firenze, Galleria degli Uffizi), che corrisponde quasi certamente al dipinto commissionato da Cosimo il Vecchio per l'altare della cappella del Noviziato nel convento francescano di S. Croce.

Secondo quanto indicava un'iscrizione oggi perduta, l'edificazione della cappella era stata finanziata dallo stesso Cosimo nel 1445 (Ruda, p. 414). Nonostante il dipinto sia da considerare largamente autografo, la minuziosa descrizione dello sfondo architettonico si accompagna a una resa prospettica piuttosto malcerta, e anche le figure, pur nella brillante esecuzione degli indumenti e dei panneggi, esibiscono pose poco fluide ed espressioni insolitamente inerti.

Stando a Baldinucci (p. 101) - il quale attinge al libro dei provveditori di Camera di Firenze relativo agli anni 1446-48, oggi perduto - il 16 maggio 1447 il L. ricevette un pagamento di 40 lire per una Vergine con s. Bernardo che, d'accordo anche Vasari (1568, p. 617), era posta come sovrapporta in una stanza del palazzo della Signoria, di fronte alla porta della Cancelleria (che a sua volta presentava un pannello sovrapporta raffigurante un'Annunciazione, solitamente identificato, ma senza alcun riscontro certo, nell'esemplare conservato alla National Gallery di Washington).

Il dipinto citato da Baldinucci è comunemente riconosciuto nell'Apparizione della Madonna a s. Bernardo (Londra, National Gallery), opera non agevole da valutare a causa del mediocre stato di conservazione, ma che per la sua fattura apparentemente corriva e poco ispirata si direbbe realizzata con un intervento particolarmente ampio degli aiuti, in primis fra Diamante.

Sul finire degli anni Quaranta, il L. dipinse anche la tavola con S. Lorenzo fra i ss. Cosma e Damiano, donatori e santi (New York, Metropolitan Museum) per il mercante fiorentino Alessandro Alessandri.

Alessandri era un personaggio strettamente legato alla corte medicea. Il L. lo ritrasse in ginocchio, da solo, sulla destra del quadro, mentre nella parte sinistra effigiò i figli di lui, Iacopo e Antonio, come risulta da un'accurata descrizione di Vasari (1568, p. 626). Il dipinto si trovava nella cappella intitolata a s. Lorenzo della villa che la famiglia Alessandri possedeva a Vincigliata, nei pressi di Fiesole. Anch'esso originariamente era composto di un solo grande pannello mentre l'attuale disposizione a trittico costituisce un'arbitraria sistemazione.

Oltre che da realizzazioni artistiche di primaria importanza, sin dall'inizio degli anni Cinquanta la vita del L. fu punteggiata da una serie di problemi con la legge che in più di una circostanza sfociarono in iniziative e provvedimenti giudiziari.

Nel 1450 il L. fu accusato dal pittore Giovanni di Francesco (che era già stato suo collaboratore fra il 1440 e il 1442) del mancato versamento di un compenso a lui spettante di 40 fiorini. Per respingere tale rivendicazione, il L. produsse una ricevuta di pagamento falsa, sulla quale aveva apposto la firma fittizia del suo assistente: per ciò nel 1455 subì un processo, fu imprigionato e sotto tortura decise infine di confessare la sua colpa. In conseguenza di questa poco edificante vicenda, il 19 maggio 1455 il L. fu rimosso dalla sua carica nella chiesa di S. Quirico a Legnaia dal vicario dell'arcivescovo di Firenze (Ruda, pp. 534-536). Un'altra disavventura giudiziaria derivò, nel 1451, dall'insoddisfazione di un committente, il perugino Antonio del Brancha, che ritenne il L. reo di aver fatto realizzare dagli aiutanti un'opera da lui commissionata, in violazione di quanto espressamente stabilito nel contratto. Sembra, peraltro, che in questa circostanza il tribunale abbia dato ragione al L., giacché in conclusione egli fu regolarmente saldato (ibid., pp. 524-526). Nel luglio 1453, infine, il L. subì la rivalsa di un altro committente, Lorenzo Manetti, il quale lo accusò di avere sovrapprezzato esageratamente un dipinto raffigurante S. Gerolamo, e pretese un arbitrato che definisse la cifra adeguata da elargire al Lippi. La questione fu così sottoposta al vicario arcivescovile della curia di Firenze, Ugolino Giugni, il quale diede soddisfazione alle richieste di Manetti, ipotizzando addirittura una scomunica per il L. (ibid., pp. 532 s.).

Nel 1452 il L. fu nominato cappellano delle monache di S. Nicolò dei Frieri, a Firenze, e con quella carica, di lì a poco, fu trasferito a Prato, presso le monache agostiniane di S. Margherita.

Tra il 1452 e il 1453 il L. dipinse il tondo raffigurante la Madonna con Bambino e storie di s. Anna (Firenze, Galleria Palatina), se questo, com'è generalmente ammesso, corrisponde a quello che, giusto il documento pubblicato nel 1888 da Guasti (p. 110), gli venne commissionato dal gentiluomo fiorentino Leonardo Bartolini nel 1452.

Nell'aprile del 1453 il dipinto non era stato ancora ultimato, giacché il 16 di quel mese Bartolini riscosse una penale di 22 fiorini fissata l'8 ag. 1452 con gli operai del duomo di Prato, indennizzo previsto nel caso in cui il L. non avesse consegnato l'opera entro l'8 dicembre dello stesso anno (Ruda, pp. 531 s.). Il tondo della Galleria Palatina è sempre stato stimato come una delle composizioni più limpide ed equilibrate del L., nella quale si fondono armoniosamente le sue migliori prerogative: senso plastico e gusto decorativo, fantasia architettonica e padronanza narrativa. La linea disegnativa, particolarmente sciolta e aggraziata, è esaltata da una logica prospettica mai tanto articolata e sapiente, messa al servizio di un racconto che dietro l'immagine principale fa scorrere una canonica Natività della Vergine, in cui è particolarmente rimarchevole il celebre, classico gruppo delle donne in visita, nonché un'anomala rappresentazione, davanti la porta di casa, dell'Incontro di Gioacchino e Anna.

Ma l'impresa di gran lunga più importante alla quale attese il L., tra gli anni Cinquanta e la prima metà del decennio successivo (e forse la sua maggiore in assoluto), fu il ciclo di affreschi nella cappella maggiore del duomo di Prato, superba testimonianza della sua maturità, del suo magistero disegnativo e delle sue capacità di resa realistica della narrazione, in cui si rinviene la memoria dei più alti esempi della tradizione pittorica toscana, da Giotto a Masaccio.

La delibera con cui si decise di procedere alla decorazione fu promulgata al principio del 1452 dal Comune, patrono della cappella maggiore, che fissò un tetto massimo di spesa di 1200 fiorini, comprensivo della grande vetrata centrale (il 5 apr. 1456 sarebbe stato stipulato un nuovo accordo che alzava il compenso a 1725 fiorini per i soli affreschi, purché fossero ultimati di lì a due anni: condizione che in effetti non ebbe a verificarsi). La Compagnia del Ceppo Vecchio, quella del Ceppo Nuovo e l'Opera del Sacro Cingolo (le più importanti associazioni caritatevoli e religiose attive a Prato, nonché principali finanziatori degli affreschi), su consiglio del preposto Geminiano Inghirami, tentarono vanamente di affidare gli affreschi al Beato Angelico, il quale, pur recatosi a Prato a fine marzo, dovette declinare l'impegno a causa della sua incompatibilità con l'incarico ricevuto in Vaticano per la cappella Niccolina. L'accordo con il L. fu raggiunto nel maggio del 1452: nel giro di poche settimane lui e la sua bottega diedero avvio all'imponente cimento (il primo pagamento al L. si ebbe l'11 luglio del 1452) e furono impegnati negli affreschi con relativa continuità (e sia pure fra svariate interruzioni, anche per mancanza di fondi, e non pochi ritardi) sino alla fine del 1465. Il saldo fu versato al L. il 28 nov. 1465. La grande vetrata, con al centro la Vergine che porge la cintola a s. Tommaso (la sacra cintola, o sacro cingolo, costituisce la più importante e venerata reliquia custodita nel duomo pratese, portata in città da Gerusalemme nel 1141), fu ultimata dal maestro vetraio Lorenzo da Pelago nel dicembre del 1459 e montata nella parete di fondo della cappella maggiore nel maggio del 1460. I dipinti murali raffigurano sul lato destro Storie di s. Giovanni Battista (contitolare della chiesa e protettore della città) con i principali episodi canonici che lo riguardano, dalla Nascita all'Orazione nel deserto, dalla Predica alla Decollazione, e sul lato sinistro Storie di s. Stefano (il santo titolare della chiesa), dalla Nascita sino alla Lapidazione e alle Esequie (probabilmente l'ultimo episodio a essere compiuto). Il L. fu abile nell'evidenziare le analogie e l'ideale relazione fra i due santi, facendo procedere il racconto delle loro vite in una sorta di serrato parallelismo. Ai lati del finestrone, le due nicchie dipinte contengono le immagini di S. Giovanni Gualberto, il fondatore dell'Ordine vallombrosano, e del carmelitano S. Alberto da Trapani (interpretato anche come S. Alberto patriarca di Costantinopoli, colui che dettò la regola dei carmelitani). Infine sulla volta sono rappresentati gli Evangelisti. Il L. integrò abbondantemente la realizzazione in buon fresco con frequenti interventi a secco, ciò che spiega i guasti estesi che le pitture ebbero a subire nel corso del tempo, e già a partire dal Cinquecento. Per quest'opera monumentale il L. si avvalse di cospicui interventi dei suoi aiutanti: il suo principale collaboratore fu l'inseparabile fra Diamante, ma possono essere associati all'impresa anche i nomi di Domenico di Zanobi (nel quale viene oggi prevalentemente risolta l'identità del cosiddetto Maestro della Natività Johnson) e del pittore locale Giannino della Magna.

Nei primi mesi del 1453, quasi contemporaneamente all'inizio dei lavori nel duomo, il L. dipinse la Madonna col Bambino in trono e santi, con Francesco di Marco Datini che presenta i provveditori della Pia Casa del Ceppo.

L'opera, detta Madonna del Ceppo, fu saldata il giorno 28 maggio per un totale di 85 fiorini comprensivo del tabernacolo che doveva contenerla, e venne posta nel cortile di palazzo Datini a Prato, dove fu vista da Vasari e rimase sino al 1858, quando fu donata al Comune ed esposta nel locale Museo civico (dove si trova tuttora). Vasari (1568, pp. 621 s.) specificò come nella tavola fosse presente il ritratto di Francesco di Marco Datini, morto da quarant'anni e fondatore della Pia Casa del Ceppo Nuovo, che nel palazzo di famiglia aveva sede. La critica conviene nel ritenere che le altre quattro figure di devoti, effigiati in scala minore rispetto a Datini, corrispondano ai provveditori in carica nel 1452-53: Andrea di Giovanni Bertelli, Filippo Manassei, Pietro Pugliesi e Iacopo degli Obizi.

Nel sesto decennio, forse immediatamente prima dell'inizio dei lavori nel duomo e comunque entro la metà degli anni Cinquanta, il L. dipinse la grande tavola raffigurante Le esequie di s. Gerolamo, già nella cattedrale e attualmente nel Museo dell'Opera del duomo di Prato, ancora accompagnata dalla cornice trilobata originale.

Dalla metà del Cinquecento l'opera fu collocata nel braccio meridionale del transetto del duomo, e lì la vide Vasari, il quale ne diede una descrizione assai efficace (1568, p. 622) e apertamente elogiativa (sia pur confondendo il s. Gerolamo con s. Bernardo). Secondo una vecchia ipotesi formulata da Oertel (p. 76), il dipinto potrebbe essere stato realizzato per l'oratorio dedicato a s. Gerolamo, fatto edificare nel proprio palazzo da Gemignano Inghirami, il potente preposto della cattedrale di Prato fra il 1451 e il 1460, che si trova effigiato dal L. in veste di donatore e il cui simbolo araldico fa bella mostra al centro della tavola, giusto sopra il giovane mendicante storpio, esplicito riferimento alle sue attività caritatevoli.

Al principio del 1456 il L. fu nominato cappellano del convento di S. Margherita a Prato, dove conobbe Lucrezia Buti, da poco monacata, di cui si innamorò e che convinse a fuggire con lui.

Dalla loro unione illegittima, probabilmente nel 1457, nacque segretamente a Prato il figlio Filippino. Alla fine del 1458 Lucrezia tornò nel convento, dove fu riammessa come novizia e pronunciò i voti, nel dicembre dell'anno successivo, pur continuando la sua relazione col Lippi. Per questo, nel maggio 1461, entrambi furono accusati da una denuncia anonima, nella quale veniva svelata anche la nascita del figlio. Grazie ai buoni uffici di Cosimo de' Medici presso papa Pio II, il L. e la sua compagna furono sciolti dai voti e uniti legittimamente in matrimonio. (G. Milanesi, Commentario alla vita di fra Filippo Lippi, in Vasari, Le opere…, II, Firenze 1906, p. 638). Tale romanzesca vicenda amorosa espose il L. a un giudizio piuttosto severo da parte di Vasari (1568, pp. 620 s.). I due sposi nel 1465 ebbero un'altra figlia, Alessandra.

Intorno alla metà del sesto decennio si dovrebbe collocare l'Adorazione del Bambino, con angeli, e i ss. Maria Maddalena, Gerolamo e Ilarione, della Galleria degli Uffizi di Firenze, realizzata, giusta la sua identificazione con un esemplare descritto da Vasari (1568, p. 619), per il convento domenicano di S. Vincenzo Ferrer, detto di Annalena dal nome di colei che l'aveva fondato nel 1453, Annalena Malatesta. Un'altra tavola dello stesso soggetto, in stretta relazione con la precedente e forse di pochi anni successiva, proviene dall'altare della cappella di palazzo Medici Riccardi a Firenze - dove fu descritta dall'inventario mediceo del 1492 e successivamente da Vasari (1568, p. 615) - e si trova oggi alla Gemäldegalerie di Berlino.

È una delle pochissime opere su cui il L. appose la propria firma, lungo il manico della scure conficcata su un ceppo d'albero nel primo piano ("Frater Philippus p[inxit]"). Si tratta, in effetti, di uno dei capolavori dell'artista, con il suo paesaggio boscoso e fantastico, le ampie gradinate di roccia, il prato pieno di fiori che fa da soffice manto al Bambino, l'ambientazione quasi notturna che esalta la luminosità straordinaria delle figure principali: tutti elementi di una costellazione particolarmente fitta di significati simbolici e allegorici, che attraverso la suggestione visiva dell'esperienza eremitica (in questo senso vanno lette le presenze di s. Bernardo e del giovane Battista, nonché la tipologia del paesaggio aspro e inospitale) insistono sul valore del sacrificio e della penitenza in quanto strumenti privilegiati di redenzione.

Il 12 maggio 1456, il Comune di Prato diede il permesso al L. di sospendere i lavori nella cappella maggiore, per dipingere "unam imaginem Virginis Mariae" (Ruda, p. 537) secondo quanto gli era stato richiesto da Giovanni di Cosimo de' Medici. Si trattò, in effetti, della realizzazione di un trittico che questi intendeva donare ad Alfonso d'Aragona, re di Napoli.

Il L. non portò a termine l'opera entro la scadenza del 20 ag. 1457, come aveva promesso al committente in una lettera piuttosto confidenziale del precedente 20 luglio (nella quale, tra l'altro, avanzava una richiesta di compenso di 60 fiorini), ma sicuramente qualche tempo prima del 27 maggio 1458. A quella data, infatti, come si sa da una missiva inviata da Giovanni de' Medici a un suo agente in missione a Napoli, il trittico risulta essere stato ricevuto e assai gradito dall'Aragona. Due tavole che si trovano al Museum of art di Cleveland, rispettivamente con S. Antonio Abate e S. Michele Arcangelo (i santi patroni di Alfonso), costituivano gli sportelli laterali del trittico, la cui anta centrale è da considerare perduta. Stando, però, a un elementare schizzo preparatorio del L. (ripr. in Ruda, tav. 15) contenuto nella lettera a Giovanni di Cosimo del 20 luglio, la tavola centrale doveva rappresentare una Madonna che adora il Bambino con angeli e un santo: ciò che ha permesso di riconoscere in una piccola serie di analoghe opere quattrocentesche altrettante copie dell'originale lippesco, la migliore delle quali (forse uscita direttamente dal milieu fiorentino del maestro, fra il settimo e l'ottavo decennio) è a sua volta conservata al Museum of art di Cleveland.

All'incirca contemporanee al trittico per Alfonso d'Aragona dovrebbero essere due lunette, raffiguranti rispettivamente l'Annunciazione e Sette santi, che fino a circa il 1848 si trovavano a palazzo Medici Riccardi, e che furono acquistate dalla National Gallery di Londra nel 1861.

Le due tavole pendants, di identica grandezza, costituivano probabilmente una coppia di sovrapporta, oppure di testate di letto. A riprova della committenza medicea, l'Annunciazione presenta in primo piano e in bella evidenza l'arme gentilizia di famiglia, mentre i Sette santi, tutti agevolmente riconoscibili, sono chiaramente eponimi di figure maschili della casata. Di qualità squisita, le due tavole sono sempre state considerate totalmente autografe.

Il 31 ott. 1458 il L. fu incaricato dalla Compagnia della Trinità di Pistoia di portare a termine la pala raffigurante la Ss. Trinità e santi (Londra, National Gallery), che la morte, sopraggiunta nel luglio del 1457, aveva impedito di ultimare al Pesellino (Francesco di Stefano), al quale era stata affidata il 10 sett. 1455.

Il 5 nov. 1458 la pala fu portata presso la bottega pratese del L., dalla quale uscì il 5 giugno 1460 per tornare a Pistoia compiuta. L'opera fu collaudata tre giorni più tardi dal vescovo Donato de' Medici, e saldata per la cifra massima prevista, di 200 fiorini. Ai 100 spettanti al L. ne furono aggiunti 15, relativi alla commissione della cortina e del paliotto dell'altare (commissione che sarebbe stata evasa solo sette anni più tardi). Dai documenti risulta che nella circostanza il L. fu assistito da fra Diamante e da un Domenico (probabilmente Domenico di Zanobi).

Ancora sul finire del sesto decennio fu dipinta la Madonna Assunta che consegna la cintola a s. Tommaso, tra i ss. Margherita, Gregorio, Agostino, l'arcangelo Raffaele con Tobiolo e la committente (forse Bartolommea Bovacchiesi), la pala d'altare per la chiesa del monastero agostiniano di S. Margherita a Prato (Prato, Museo civico).

L'opera dovette essere realizzata quasi integralmente dall'atelier del L. di stanza a Prato per gli affreschi del duomo, a partire da uno schema ideato dal maestro, e ben esemplifica lo standard e i caratteri stilistici dei dipinti di bottega che venivano licenziati con il suo imprimatur.

Al periodo tra il 1463 e il 1465 risale l'Adorazione del Bambino e santi (Giovanni Battista e forse s. Romualdo), Firenze, Galleria degli Uffizi (replica variata di quella dipinta per la cappella di palazzo Medici Riccardi).

L'opera fu compiuta sempre per conto dei Medici, ma non della Contessina de' Bardi moglie di Cosimo il Vecchio, come ritenne erroneamente Vasari (1568, p. 616), bensì del loro figlio Piero. Da questo la tavola del L. fu destinata all'eremo di Camaldoli, per essere posta in una cella intitolata a S. Giovani Battista, frutto anch'essa di una donazione effettuata da Piero nel 1463.

Ancora un poco più tarda dovrebbe essere l'Annunciazione oggi nella collezione Methuen, a Corsham Court in Inghilterra (ripr. in Ruda, tav. 134), dipinta con la collaborazione della bottega. Si tratta dell'opera che Vasari (1568, p. 625) sostenne di aver visto nella chiesa di S. Iacopo a Pistoia, riconducendone la commissione all'arcivescovo Iacopo di Bartolomeo Bellucci (rappresentato nella tavola dietro l'angelo annunziante).

Nella fase estrema della sua attività, quando pure si diradano molto le opere prevalentemente autografe, sono comunque da collocare alcuni fra gli esiti formalmente più compiuti del L., come la Madonna col Bambino e angeli della Galleria degli Uffizi di Firenze, e la Madonna col Bambino, da quella dipendente, dell'Alte Pinakothek di Monaco: due tavolette che uniscono all'estrema raffinatezza dell'andamento lineare, che prelude al linguaggio di Botticelli (suo allievo, a detta di Vasari), un gusto particolarmente vivace e fantasioso per il paesaggio nonché un tono cromatico fuso e atmosferico, da cui lo stesso Leonardo da Vinci avrebbe tratto fertili suggestioni.

L'ultima impresa del L. è costituita dagli affreschi con Storie della Vergine dell'abside del duomo di Spoleto, i quali rivelano un'ulteriore evoluzione del suo stile, che qui sembra rivolgersi con inopinata attenzione alle novità introdotte da artisti emergenti sulla scena fiorentina come Andrea del Verrocchio e Botticelli.

Gli affreschi raffigurano, nel catino absidale, L'incoronazione della Vergine con angeli, profeti e sibille, e sulle pareti sottostanti, da sinistra a destra, l'Annunciazione, la Morte della Vergine, e la Natività di Gesù. Nel paesaggio sullo sfondo della Morte della Vergine il L. collocò una raffigurazione della Vergine nella mandorla che porge la cintola a s. Tommaso, oggi pressoché sparita a causa dell'abituale e incauta scelta di dipingere l'episodio totalmente a secco, con la tecnica della tempera. Secondo Vasari (1568, p. 628) il L. ottenne quest'importante commissione grazie all'intercessione di Cosimo de' Medici. L'incarico fu ricevuto tra il maggio e il luglio del 1466 e le prime registrazioni di pagamenti destinati al L. risalgono al 2 luglio e al 1° ottobre dello stesso anno. Al momento della morte del L. l'opera non era ancora ultimata, e fu portata a termine di lì a pochi mesi, il 23 dic. 1469, dai suoi principali collaboratori: il fidato fra Diamante, il figlio Filippino e Pier Matteo d'Amelia. L'Opera del duomo di Spoleto spese in totale per gli affreschi circa 1110 fiorini, in sostanza la somma pattuita al momento dell'allogazione dei lavori. Il compenso del L. fu di 511 ducati, che 137 ne ricevette fra Diamante e che 48 furono versati a Filippino.

Il L. morì a Spoleto tra l'8 e il 10 ott. 1469; delle sue esequie si fece carico l'Opera del duomo.

Secondo Vasari (1568, pp. 629 s.), "Lorenzo de' Medici […] fece la via di Spoleto per chiedere a quella comunità il corpo di Fra Filippo, per metterlo in Santa Maria del Fiore in Fiorenza", ma la città umbra non volle rinunciare alle spoglie di un artista di tale eccellenza. Lo stesso Lorenzo decise allora di destinare 100 ducati alla realizzazione del sepolcro marmoreo del L. (forse disegnato da Filippino), nel duomo di Spoleto, e commissionò ad Angelo Poliziano il bei distici latini che ne costituiscono l'epitaffio: "Conditus hic ego sum picture fama Philippus/ nulli ignota mee est gratia mira manus/ artificis potui digitis animare colores/ sperataque animos fallere voce diu/ ipsa meis stupuit natura expressa figuris/ meque suis fassa est artibus esse parem […]".

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