Filippo IV re di Francia detto il Bello

Enciclopedia Dantesca (1970)

Filippo IV re di Francia detto il Bello

Simonetta Safffiotti Bernardi

Figlio di Filippo III l'Ardito e di Isabella d'Aragona, nacque nel 1268 a Fontainbleau, dove morì nel 1314; quarto dei Filippi discesi da Ugo Capeto. Il suo regno (1285-1314), che coincise per la maggior parte con il pontificato di Bonifacio VIII (1294-1303) e poi con quello di Clemente V (1305-1314), fu caratterizzato dalla violenta ostilità che oppose F. al primo dei due papi e che raggiunse momenti altamente drammatici, quindi dalla forte influenza (da taluni definita vera e propria oppressione tirannica, ma è diminuire l'indubbiamente decisa e abile personalità di Clemente il considerarlo solo uno strumento nelle mani del re) che esercitò sul secondo (Nuovo Iasón sarà, di cui si legge / ne' Maccabei; e come a quel fu molle / suo re, così fia lui chi Francia regge [If XIX 85-87]). Questa particolare situazione di rivalità con la Chiesa di Roma, questo voler a ogni costo affermare la propria autorità sciolta da qualsiasi vincolo, che è stato l'aspetto più significativo e clamoroso della personalità di F. e del suo governo, è stato colto da D. e in un certo senso frainteso. Più volte D. fa riferimento a F. senza mai nominarlo personalmente, sempre con tono di profonda ostilità e disprezzo, venendo talvolta meno alla sua rigida imparzialità, che avrebbe dovuto fargli giudicare F. non solamente come il feroce drudo che flagellò dal capo infin le piante la Chiesa (Pg XXXII 155-156), bensì come un sovrano unicamente rivolto agl'interessi e al consolidamento del proprio regno, non certo come un mal di Francia (VII 109). Tutta la politica di F. infatti dev'essere considerata in funzione della formazione e del rafforzamento dello stato nazionale e della presa di coscienza da parte del re che tale organismo non poteva essere valido se non fosse stato garantito da una forza direttiva libera da qualsiasi vincolo esterno che potesse minarne la libertà di azione. E tutto questo D. non ha compreso: egli era sostanzialmente un uomo del suo tempo, legato a determinati schemi, incentrati nella compresenza di due grandi autorità, il Papato e l'Impero, dalla cui pacifica convivenza o dalla cui lotta potevano essere mutuati i destini di tutti gli uomini. Non dà importanza alla nuova entità che si va affermando, prima in Inghilterra poi in Francia, dello stato nazionale; tratta in effetti dei singoli re, ma senza dar loro un particolare rilievo, considerandoli non diversamente dai vari signori locali. Anche quando compiange la situazione caotica dell'Italia nave sanza nocchiere in gran tempesta, si rivolge con stizza e disprezzo all'imperatore Alberto d'Austria che ‛ abbandona ' costei ch'è fatta indomita e selvaggia (Pg VI 77, 98) senza prendere in considerazione che, piuttosto di un'autorità esautorata quale oramai era quella imperiale, valido rimedio al disordine politico poteva essere offerto da un sovrano capo di una sola nazione, i cui interessi coincidessero con quelli del popolo e la cui forza derivasse dal popolo, quale in effetti fu Filippo il Bello. Al momento della rottura fra papa e re di Francia, sorse tutta una libellistica a favore dell'una e dell'altra parte; se da parte curialistica era su posizioni simili a quelle di Egidio Romano, e da parte regalistica in un certo senso su posizioni che potevano coincidere con quelle esposte nella Monarchia e quindi potevano essere accettate da D. (per il Vossler infatti l'opera di D. si appunta contro tutti quegli scrittori curialisti contemporanei che difendevano contro F. l'ideale di dominazione del pontefice), ciò nonostante il poeta giudica F. principalmente sotto l'impulso dell'indignazione suscitata in lui per l'offesa fatta al vicario di Cristo nella persona di papa Bonifacio (veggio in Alagna intrar lo fiordaliso, / e nel vicario suo Cristo esser callo, Pg XX 86-87). Altra grave colpa di F. risiede nel non riconoscere nell'imperatore il suo alto sovrano; lo rappresenta infatti come un nuovo Golia che si oppone al secondo David, cioè a Enrico VII (Eia itaque, rumpe moras, proles altera Isai, sume tibi fiduciam de oculis Domini Dei Sabaoth coram quo agis, et Goliam hunc in funda sapientiae tuae atque in lapide virium tuarum prosterne..., Ep VII 29); in effetti nell'Informacio facta super iure regio et regni di Tomaso di Pouilly, giurista della corte di F., è postulato l'atteggiamento del re di Francia nei confronti dell'Impero: " Rex Franciae omne imperium habet in regno suo quod imperator habet in imperio... rex Franciae imperator est et loco imperatoris in regno suo... et esse debeat dominus regni sui, sicut imperator dominus mundi in imperio ".

Salito al trono alla morte del padre nel 1285, F. dedicò tutte le sue energie al completamento territoriale del regno e al suo consolidamento interno, per realizzare il quale apporta una profonda innovazione nei confronti del sistema di governo dei suoi predecessori; non governa più in mezzo alla corte che era partecipe della sua politica, e si affida invece a un certo numero di ministri, estratti non dal seno della corte, bensì dalla borghesia o dalla piccola nobiltà: uomini di legge o di spiccate capacità amministrative che formano una classe politica a parte, legata indissolubilmente al re in virtù della modestia della propria estrazione sociale, e del quale possiedono l'assoluta fiducia, e dei cui disegni sono interpreti. Quindi più che un'acquiescenza del re ai suoi consiglieri, come da taluno è stato supposto, si venne effettuando in realtà una perfetta e complementare collaborazione al fine di un unico scopo. La Francia del 1285 aveva un'estensione territoriale considerevole: gran parte dei feudi in possesso del re d'Inghilterra erano già stati incamerati all'epoca di Filippo II; inoltre la moglie di F., Giovanna di Navarra, era erede di quel regno nonché della contea di Champagne, che fu subito unita al possesso regio. Prima cura di F. fu dunque quella di abbattere tutte le possibili forze di opposizione all'interno del regno, togliendo quindi al re d'Inghilterra i suoi ultimi possessi territoriali, abbattendo le resistenze feudali quale quella del conte di Fiandra, ed estendendo i confini verso est, a danno dei feudatari imperiali dei Paesi Bassi.

Questa politica di F., senz'altro giustificata anzi vantaggiosa per gl'interessi della Francia, è giudicata da D. con indubbia mancanza di obiettività e di comprensione. Nella panoramica invettiva che Ugo Capeto svolge delle azioni dei suoi successori, queste sono presentate come quintessenza di tutti i peccati infernali, frutto di rapina, frode, forza (qui per " violenza ": cfr. If XI 22-66): Lì cominciò con forza e con menzogna / la sua rapina; e poscia, per ammenda, / Pontì e Normandia prese e Guascogna (Pg XX 64-66; la conquista della contea di Ponthieu e della Guascogna avvenne nel 1294, mentre quella di Normandia era stata impresa di Filippo II nel 1204: D. la unisce alle altre due ‛ rapine ' o per approssimazione o per errata informazione sull'esatto svolgimento dei fatti). La stessa impresa di Fiandra è vista con gli occhi del cittadino di un libero comune che condanna questa politica nazionale di ampio respiro che per affermarsi doveva abbattere le autonomie particolaristiche: Ma se Doagio, Lilla, Guanto e Bruggia / potesser, tosto ne saria vendetta (vv. 46-47). Non si può escludere che D. giudichi con l'ostilità del fuoruscito che non sa dimenticare quanta parte abbia avuto nelle sue disgrazie la politica del fratello di F., Carlo di Valois: Tempo vegg'io... / che tragge un altro Carlo fuor di Francia, / per far conoscer meglio e sé e ' suoi. / Sanz'arme n'esce e solo con la lancia / con la qual giostrò Giuda, e quella ponta / sì, ch'a Fiorenza fa scoppiar la pancia (vv. 70-75).

Gl 'impegni politici e militari all'interno e al di fuori del regno, quali la lotta con i feudatari, la guerra con il re d'Inghilterra e con quello di Aragona in aiuto agli Angioini di Napoli (per quanto questa guerra, intrapresa dal padre, fosse al più presto risolta da F. mediante trattato, nel 1291) portarono al re un notevolissimo aggravio finanziario, che fu la causa prima della sua rottura con Bonifacio VIII. Infatti, per far fronte ai suoi impegni, F. aveva tassato i beni della Chiesa nel suo regno, quasi si fosse trattato di un tributo per la crociata. A questo stato di cose il papa si ribellò, e con la bolla Clericis laicos (25 febbraio 1296) proibì rigidamente ai laici di tassare il clero senza suo consenso: il re, dando prova di notevole chiarezza di vedute e considerevolissimo spirito pratico, all'affermazione dell'alta sovranità papale reagì impedendo con un provvedimento amministrativo la fuoruscita di valori e lettere di credito dal suo regno. Per il grave danno che ne derivava per le stesse finanze pontificie, nonché per tutte le banche che avevano interessi in Francia, il papa fu costretto a mitigare la propria intransigenza, e a fare alcuni passi accattivanti presso F.: in tale prospettiva è opportuno valutare l'iniziativa della canonizzazione di Luigi IX (1297) e l'offerta di arbitrato nella guerra tra Francia e Inghilterra, che si risolse infatti con il trattato di Montreuil nel 1299; quest'ultima impresa di Bonifacio tuttavia non fu molto felice, in quanto venne giudicata da F. come deliberata offesa ai diritti sovrani e affermazione del potere temporale del Papato sulla sua autonomia politica. La controversia, sedata temporaneamente, scoppiò di nuovo con inaudita violenza a proposito dell'arresto ordinato dal re del vescovo di Pamiers, Bernardo Saisset, sotto l'accusa di lesa maestà, ribellione, eresia, blasfemia, simonia (1301). Il papa reagì esigendo l'immediata liberazione del Saisset, e diresse personalmente al re la bolla Ausculta fili (1301), in cui ribadiva l'assoluta supremazia papale su tutti i sovrani temporali. A questa anacronistica affermazione di assolutismo papale F. reagì influenzando l'opinione pubblica con false bolle (Scire te volumus), che dettero luogo a una violenta requisitoria giuridica fra i sostenitori delle due parti, e inoltre appoggiando il suo operato sul consenso della nazione. Convocò infatti l'assemblea dei rappresentanti di tutte le classi del popolo (è la prima convocazione degli Stati Generali) da cui ottenne l'incondizionato appoggio e troncò ogni rapporto col Papato. Questo può essere considerato il più grande successo di F.: in una situazione di emergenza quale la rottura con Roma, situazione che fino ad allora era stata fatale per i sovrani (Enrico IV si era dovuto umiliare di fronte a Gregorio VII per conservare il suo potere in Germania), il popolo questa volta si allinea a fianco del suo re, nel quale riconosce l'unica vera autorità. A un'ulteriore e più solenne affermazione della supremazia papale (bolla Unam Sanctam, 1302) F. reagì ordinando di tradurre Bonifacio di fronte a un concilio che lo deponesse; in questo contesto si pone l'attentato di Anagni ad opera di Sciarra Colonna e Guglielmo di Nogaret, la cui responsabilità D. attribuisce a un novo Pilato (Pg XX 91). La morte di Bonifacio, se interruppe una contesa che oramai era diventata personale, dette agio a F. di affermare la propria supremazia politica anche sulla Chiesa. Trascorso infatti senza particolari contrasti il breve papato di Benedetto XI (1303-1304), l'elezione di un vescovo francese al soglio pontificio avvenuta verosimilmente per l'influenza di F., secondo quanto D. rimprovera nella sua lettera ai cardinali italiani (Quod si de praelibato praecipitio dubitatur, quid aliud declarando respondeam, nisi quod in Alcimum cum Demetrio consensistis?, Ep XI 8: il nome di Demetrio, re di Siria, a cui si appoggia Alcimo per farsi eleggere sommo sacerdote degli Ebrei [I Machab. 7] è utilizzato da D. per condannare i maneggi di F. tendenti a far eleggere papa Bertrand de Got), dette occasione al re di svolgere con pieno agio la propria politica imperialistica, e fu la più clamorosa smentita di tutto l'operato di Bonifacio, per quanto Clemente V resistette sempre alle suggestioni di F. affinché fosse promosso un processo alla memoria del suo predecessore, mentre cedette per quanto riguarda l'assoluzione agli attentatori di Anagni (1311).

Per D. Clemente è uno strumento nelle mani del re di Francia, ed esemplifica i loro rapporti con quelli del gigante con la meretrice nella processione del Paradiso terrestre (cfr. Pg XXXII 152, 155, XXXIII 45); a questo proposito il Flamini, recensendo l'opera di E. Proto, L'Apocalissi nella D.C., si oppone all'identificazione del gigante in F., in quanto questo sarebbe un caso del tutto nuovo in D., che critica apertamente i personaggi storici, e non li configura in simboli astratti; ma questa eccezione non sembra valida per F., data anzitutto l'icastica efficacia polemica della figura simbolica, e anche per la circostanza che questo re non è mai nominato di persona in nessuna delle opere dantesche, che pur trattano ampiamente di lui. In questo periodo l'episodio più clamoroso che può mettere in luce l'influenza del re sul papa non è il trasferimento della sede ad Avignone, cui Clemente non dette mai carattere assoluto, né particolare importanza (la sede è là dove sta il papa, ed egli non fu il primo papa che non soggiornò a Roma), bensì il processo e l'abolizione dell'ordine dei Templari. In questo caso il re forzò la mano al papa, che cercò in tutti i modi di esimersi, ma infine F. ebbe partita vinta e incamerò le sostanze dell'ordine: per D. il novo Pilato... sanza decreto porta nel Tempio le cupide vele (Pg XX 91-93).

Il ritratto dantesco di F. s'iscrive dunque in un duro giudizio storico, assolutamente negativo per ogni azione politica ricordata, per ogni allusione diretta o indiretta; il personaggio è presentato nella maniera più turpe, colpito sia personalmente che nella politica nazionale ed ecclesiastica. D. rimprovera a F. la vita viziata e lorda (Pg VII 110), accusa che riesce incomprensibile alla luce dei fatti, in quanto è stata accertata in F. una purezza di costumi insolita in un uomo del suo mondo e del suo tempo; gl'imputa la falsificazione del denaro di Francia (Lì si vedrà il duol che sovra Senna / induce, falseggiando la moneta, Pd XIX 118-119), accusa che, pur riportata dal Villani (VIII 58 " e per fornire sua guerra sì fece falsificare le sue monete, e la buona moneta del tornese grosso, ch'era a undici onze e mezzo di fine, tanto il fece peggiorare, che tornò quasi a metade, e simile la moneta prima; e così quelle dell'oro, che di ventitre e mezzo carati, le recò a men di venti, faccendole correre per più assai che non valeano ", si può far rientrare in un abile e necessario provvedimento amministrativo di svalutazione della moneta. Con non minore spietatezza e durezza di giudizio è riguardata la morte di F., quel che morrà di colpo di cotenna (Pd XIX 120), dov'è esplicito sarcasmo nel mettere in luce il contrasto tra la morte di un personaggio così illustre e la banalità del mortale incidente di caccia.

Bibl. - Oltre alle voci Bonifacio VIII, Clemente V, Edoardo I, Fiandra, per una completa informazione su F. si veda: E. Boutaric, La France sous Philippe le Bel, Parigi 1861; Ch. V. Langlois, Saint Louis, Philippe le Bel, les derniers Capétiens directs, in E. Lavisse, Histoire de France, III II, ibid 1901; H. Pirenne, Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo, trad. ital., Firenze 1956, 258-274; e inoltre: G. Salvemini, L'abolizione dell'ordine dei Templari, in " Arch. Stor. Ital. " s. 5, XV (1896) 225-264; R. Davidsohn, Il " cinquecento diece e cinque " di " Purgatorio " XXXIII, 43, in " Bull. " IX (1901-1902) 129-131; E. Proto, L'Apocalissi nella D.C., Napoli 1905 (rec. di F. Flamini, in " Bull. " XIII [1906] 19-40); R. Scholz, Die Publizistik zur Zeit Philipps des Schönen und Bonifaz VIII, Stoccarda 1903 (rec. di F. Tocco, in " Bull. " XIII [1906] 100-113); Karl Werck, Philipp der Schöne von Frankreich, seine Persönlichkeit und das Urteil der Zeitgenossen, Marburgo 1905 (rec. di R. Davidsohn, in " Bull. " XIII [1906] 279-282); H. Kelsen, Die Staatslehre des D.A., Vienna-Lipsia 1905 (rec. di A. Solmi, in " Bull: " XIV [1907] 99-111); K. Vossler, Die göttliche Ko mödie, Heidelberg 1907 (rec. di A. Solmi, in " Bull. " XV [1908] 241-253); F. Kern, Acta Imperii Angliae et Franciae ab a. 1267 ad a. 1313, Tubinga 1911 (rec. di A. Solmi, in " Bull. " XVIII [1911] 241-262); V.T. Cogliani, Giacomo Capocci e Guglielmo de Villana scrittori politici del sec. XIV, in " Rivista d'Italia " XI (1908) 430-459; H. Fincke, D. als Historicher, in " Historische Zeitschrift " CIV (1910) 473-503.