GHERARDI, Filippo

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 53 (2000)

GHERARDI, Filippo

Alessandro Serafini

Nacque a Lucca nel 1643 dal pittore Sebastiano.

Nella bottega paterna, dove il G. - noto anche con il soprannome di Sancasciani - avanzò i primi passi nell'arte del disegno, si trovava allora il conterraneo Giovanni Coli, di sette anni più giovane, col quale il G. strinse una forte amicizia, destinata nel corso degli anni a trasformarsi in un inossidabile sodalizio artistico. Infatti, fino alla morte di Coli, nel 1681, tutte le opere del G. furono eseguite in coppia col socio, tanto che è difficile, e per certi versi impossibile, ricostruire in maniera autonoma i percorsi biografici e professionali dei due pittori.

Dalla bottega di Sebastiano, il G. e Coli passarono in seguito sotto le direttive di Pietro Paolini, un discreto artista lucchese che aveva studiato a Roma e a Venezia, per poi tornare in patria dove aveva fondato una rinomata accademia di pittura. Di lì a poco, nel 1659, forse proprio su suggerimento del Paolini, si trasferirono Roma ed entrarono nello studio di Pietro Berrettini da Cortona, desiderosi di conoscere i caratteri e le forme della nuova pittura barocca. Intorno al 1662, per arricchire ulteriormente il proprio bagaglio di conoscenze artistiche, i due pittori si recarono a Venezia. In questa città, prima di ottenere incarichi indipendenti, il G. e Coli iniziarono a lavorare dipingendo numerose copie dai grandi artisti veneti del Cinquecento, soprattutto Tiziano e il Veronese, dei quali assimilarono profondamente le soluzioni figurative e le formule stilistiche, senza disdegnare di esercitarsi anche nella tecnica della quadratura.

Della loro prima committenza pubblica ricevuta a Venezia - un grande quadro con la Madonna in gloria per la chiesa della colonia italiana a Lisbona - rimane solo la testimonianza dello storico lucchese Trenta (p. 154), al quale, peraltro, si deve gran parte delle notizie biografiche sui due artisti. Nel 1663 il G. e Coli ricevettero dall'abate C. Condanino l'incarico di eseguire un ciclo di tele per la volta della biblioteca del monastero benedettino di S. Giorgio Maggiore. Nel soffitto dell'ampio salone, da poco costruito secondo il progetto di Baldassarre Longhena, vennero sistemate, entro il 1665, cinque tele, il cui soggetto era legato al tema della Divina Sapienza, impersonata dalla figura mitologica di Minerva, secondo un erudito programma elaborato e messo a stampa dal decano M. Valle.

I dipinti rappresentano Giove e Minerva che fanno emergere gli elementi dal caos primordiale, Minerva che distribuisce le stelle e i pianeti mentre le Virtù cardinali sostengono la terra, Minerva accoglie nel tempio della beatitudine le Virtù e ne allontana i Vizi (bozzetto a Udine, Museo civico), il Trionfo di Minerva (bozzetto a Firenze, Galleria degli Uffizi), il Sacrificio al simulacro di Minerva (bozzetto a Udine, Museo civico). Nei tre anni successivi il progetto fu integrato con due tele a lunetta di grandi dimensioni poste sopra le porte principali, raffiguranti Marte e Venere e Mercurio e il Genio; mentre altre cinque piccole tele, perdute, con imprese allegoriche riguardanti il Sole vennero collocate sotto le finestre.

L'impresa, destinata a segnare profondamente l'orientamento della cultura figurativa veneziana del secondo Seicento, rappresentava una dichiarazione di fede nel magistero cortonesco e insieme un'amorevole e libera citazione delle grandi scenografie del Veronese, che proprio a seguito di questo lavoro divenne il punto di riferimento di un'intera generazione di artisti lagunari che si opponevano alla corrente dei "tenebrosi".

Aperta la strada al neoveronesismo di Giovanni Antonio Pellegrini e Sebastiano Ricci, il G. e Coli tornarono nel 1669 a Roma, richiamati dalla promessa di decorare la cupola di S. Maria in Campitelli. Morto però Pietro da Cortona, loro più autorevole referente e protettore, e venuta di conseguenza meno la prospettiva di questa commissione, essi si trovarono costretti a fronteggiare una difficile situazione finanziaria, aggravata oltretutto dalla perdita di gran parte dei loro beni - tra cui anche quadri del Tintoretto e del Veronese - su una nave saccheggiata dai pirati. Nel 1670, monsignor F. Bonvisi e il cardinale Giovan Battista Spada vennero in aiuto dei due artisti, procurando loro, alla ragguardevole cifra di 1500 scudi, la commissione per la decorazione a fresco della cupola di S. Nicola da Tolentino raffigurante la Gloria di s. Nicola; l'opera fu terminata nel 1672.

Costruita secondo lo schema lanfranchiano dei cerchi concentrici, l'opera denuncia tutto il suo debito nei confronti dell'arte di Pietro da Cortona, rifacendosi nella struttura compositiva e nell'animazione delle figure alla cupola di S. Maria in Vallicella; certe forme più sciolte e la ricchezza del colore, con una disposizione quasi a macchia delle pennellate, sembrano tuttavia anticipare la maniera di Giovan Battista Gaulli.

Alla fine del 1672 i due pittori furono convocati a Lucca con l'incarico di eseguire tre tele per la chiesa di S. Tommaso in Pelleria: l'Immacolata Concezione sull'altare maggiore (oggi spostata nella navata destra), l'Incredulità e il Martirio di s. Tommaso ai lati dello stesso.

Di tutte le opere dei due pittori, questa è l'unica a mostrare evidenti differenze di stile, tali da indurre i critici - sulla scorta di un'indicazione di Trenta (p. 159) - a tentare un difficile distinguo fra le due mani, dove le tele laterali, dalla trama pittorica più spedita e vivace, anche perché meglio conservate, spetterebbero a Coli, mentre l'Immacolata, in cui è più evidente la traccia disegnativa e meno felice l'impianto cromatico, andrebbe riferita al G., che rischia così di veder circoscritta la propria professionalità a quella di modesta spalla del più valido socio (Cerrato, p. 163; Ivanoff, p. 107). Una così schematica ripartizione degli stili, oltre a essere impossibile da verificare sul piano della stretta filologia visiva, per la mancanza di confronti diretti con opere sicuramente attribuibili al solo Coli, si scontra con la logica della committenza che non avrebbe permesso che fosse affidata al pittore meno dotato l'esecuzione della pala dell'altare maggiore. Rimane comunque un'impresa ai limiti del possibile quella della distinzione delle loro diverse maniere pittoriche e finanche della determinazione dei ruoli e delle funzioni all'interno di una società che, secondo la testimonianza di Orlandi (1704), comportava "che l'uno lavorasse nella medesima testa, o panno, o figura dell'altro".

Rientrati a Roma, i due artisti realizzarono, tra il 1673 e il 1677, tre tele per il soffitto della chiesa di S. Croce e S. Bonaventura dei Lucchesi raffiguranti Eraclio che riporta la vera Croce a Gerusalemme, al centro, gli Angeli col velo della Veronica e gli Angeli con la s. Croce di Lucca, in due ovali laterali, e, in otto piccoli triangoli, i Putti con gli strumenti della Passione.

Il grande riquadro centrale dipende, sia nella composizione sia nei dettagli, dal Trionfo di Venezia dipinto dal Veronese in palazzo ducale; esso può considerarsi il manifesto del neo-veronesismo del G., in questo caso ricondotto a moduli ancor più decorativi nella scelta di colori brillanti, dalle tinte limpide e delicate che sembrano presagire la maniera tiepolesca, e aperto a soluzioni ormai innegabilmente tardobarocche nell'arditezza degli accostamenti delle masse figurative che si snodano e si scontrano intorno al nucleo centrale della croce.

Il 15 sett. 1675 il G. e il Coli furono eletti membri dell'Accademia di S. Luca. A questo inequivocabile segnale del loro successo nell'ambiente romano seguì, nello stesso anno, la commissione per l'affresco nel soffitto della grande galleria di palazzo Colonna, dove era già stata approntata da Giovan Paolo Schor, tra il 1665 e il 1667, una virtuosistica cornice illusionistica, mentre alle pareti splendevano fin dal 1660 le eleganti Specchiere con putti e fiori di Carlo Maratta e di Mario Nuzzi (Mario de' Fiori). Nell'estesa quadratura della volta i due pittori affrescarono cinque storie, terminate nel 1677, il cui programma iconografico voleva magnificare le gesta militari di Marcantonio (II) Colonna, l'eroe della battaglia di Lepanto del 1571, vittoria che in quegli anni acquistava un preciso significato politico in coincidenza con i tentativi di papa Innocenzo XI, fin dal tempo della sua elezione, nel 1676, di organizzare una lega offensiva antiturca.

Gli affreschi rappresentano Il doge che tiene consiglio per debellare i Turchi, Pio V che affida il comando della flotta a Marcantonio II, la Battaglia di Lepanto, l'Ingresso trionfale di Marcantonio II in Roma, l'Inaugurazione in Campidoglio della statua in bronzo di Marcantonio II. L'ampio affresco centrale, con la Battaglia di Lepanto, per quanto ispirato nell'impianto e nella distribuzione delle figure a un'incisione di A. Mitelli raffigurante il Trionfo dell'imperatore Leopoldo (Safarik, p. 11), appare un'invenzione del tutto nuova; estremamente efficace nell'apertura del cielo naturale, come nell'intrecciarsi convulso delle diagonali, la composizione è sorretta da una cromia brillante e da una luce tremula, che fonde sapientemente la più ardita tradizione veneziana del sottinsù con le nuove tendenze della pittura romana, dal Pietro da Cortona degli arazzi Barberini al Maratta di palazzo Altieri.

Nel 1678, al termine di quest'intenso decennio, il G. tornò a Lucca, dove, sempre insieme con il suo socio, si apprestò ad affrescare l'abside del duomo con la Trinità in gloria e Angeli nell'arco antistante. Il lavoro, completato nel settembre del 1681, fu pagato al solo G. a causa della morte di Coli, il 24 febbraio di questo anno.

Anche in quest'opera i due pittori si dimostrano abili manipolatori dei repertori figurativi più accreditati: se infatti la struttura a semicerchio replica quella della cupola di S. Nicola da Tolentino, la quadratura con l'arco a finti bassorilievi monocromi recupera l'analoga decorazione della volta della chiesa romana dei Ss. Domenico e Sisto, licenziata nel 1675 da Domenico Maria Canuti e Enrico Haffner.

Secondo Enggass (1982), la tecnica parzialmente a secco delle figure e la stesura piatta dei colori, presenti negli affreschi lucchesi, potrebbero essere un'ulteriore conferma dell'idea che "era il Coli a dare il brillante tocco coloristico", mentre il G., pur valente disegnatore, era tuttavia sprovvisto di fantasia e di talento; tale affermazione risulta contraddetta dal confronto con le opere del G. eseguite dopo la morte del socio, in cui non mancano tecnica esperta e pennellata vivace. Nel Miracolo della S. Casa di Loreto, affrescato dal G. intorno al 1681 sulla parete di fronte alla cappella lauretana di S. Maria Corteorlandini a Lucca, sono infatti presenti un'abile messa in scena e un colorito brillante; il contributo di Coli, se pure ci fu, deve essere considerato del tutto secondario. Nell'affresco con la Gloria del Nome di Maria, realizzato dal G. tra il 1687 e il 1690 per A. Armini, padre generale degli scolopi, nella volta della chiesa di S. Pantaleo a Roma, trova conferma la validità e l'autonomia della sua arte. La decorazione della volta, alla cui stesura avevano collaborato l'allievo C. Tondini - morto durante i lavori - e il quadraturista A. Colli, già aiuto di padre Pozzo, era completata, nella tribuna, dall'Assunzione della Vergine, andata però distrutta nel 1700 (Paolucci).

L'opera attesta innanzi tutto una continuità di rapporti del G. nell'ambito delle più importanti committenze romane che evidentemente non erano venute meno alla morte di Coli; in secondo luogo esprime uno spettacolare illusionismo prospettico che, nell'uso pirotecnico dello sfondato, così vicino alle soluzioni del Gaulli (Baciccia) nella chiesa romana del Gesù, risulta uno dei diretti precedenti per l'opera di Andrea Pozzo a S. Ignazio.

Rientrato a Lucca nell'autunno del 1690, il G. dipinse il Miracolo e il Martirio di s. Paolino nella zona inferiore del coro della chiesa omonima, dove, nonostante la debolezza esecutiva e la mancanza di forza nella stesura del colore, rimane felice la vivacità della rappresentazione e la ricchezza delle invenzioni compositive. Sempre agli ultimi anni del secolo si devono datare la tela con la Vergine, santi e anime del Purgatorio, sull'altare maggiore della chiesa del Suffragio, e gli affreschi, perduti, nelle lunette del chiostro del Carmine, raffiguranti i Miracoli di s. Maria Maddalena de' Pazzi.

Il G. morì a Lucca nel 1704; fu sepolto nella chiesa di S. Cristoforo all'interno della stessa tomba dell'amico e collaboratore Coli.

Il G. fu anche autore di numerose opere da cavalletto, molte delle quali sono andate perdute. Al G. e a Coli possono essere attribuite con buona approssimazione la Sacra Famiglia e santi della Galleria nazionale d'arte antica a palazzo Corsini di Roma, lo Sposalizio mistico di s. Caterina della Gemäldegalerie di Dresda (Voss, pp. 579 s.), la Morte di Didone al County Museum di Los Angeles, il Ritrovamento di Mosè nel Museo civico di Treviso (Cerrato, pp. 168 s.), la tela con Ester e Assuero nella collezione Radcliffe a Running Park (Mertz, tav. 24), il Trionfo della vera Sapienza e Antioco e Stratonice in collezioni private (Pilo, pp. 52, 56), quest'ultima databile al 1667 grazie alla testimonianza di un'incisione di G. Barri (Donzelli - Pilo, p. 71). Tra le opere disperse vanno ricordate: a Venezia, una Vergine in trono con s. Bonifacio orante citata da Cicogna (1853, p. 832), una Sacra Famiglia con santi eseguita su commissione dell'avvocato Nave per la chiesa di S. Filippo Neri e una Nascita della Vergine un tempo nella chiesa della Salute; ad Ascoli Piceno, la Vergine che appare a s. Francesco di Sales per la cappella di monsignor Saladini; a Roma, il Cristo che appare a s. Maria Maddalena de' Pazzi per S. Crisogono (Trenta, pp. 154, 159).

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