FIGURAZIONI DEVOZIONALI

Enciclopedia dell' Arte Medievale (1995)

FIGURAZIONI DEVOZIONALI

P. Skubiszewski

A partire dall'ultimo quarto del sec. 19°, la storia dell'arte distingue nell'iconografia del Tardo Medioevo, considerandole come un fenomeno a parte, quelle immagini della passione di Cristo che non seguono direttamente la narrazione dei vangeli, ma presentano in modo sintetico l'insieme delle sofferenze del Salvatore, conclusesi con la sua morte. I primi autori che trattarono l'argomento ritennero che tali immagini mostrassero Cristo nello stato 'pietoso' in cui lo aveva ridotto la sua lunga passione (Barbier de Montault, 1884; 1890) oppure che offrissero il ritratto del Salvatore sofferente (Detzel, 1894). Nei primi elenchi di tali rappresentazioni figuravano il Cristo di pietà o misericordia Domini, il Vir dolorum, gli arma Christi, la messa di s. Gregorio, Cristo al torchio mistico, la pitié-de-notre-Seigneur (not Gottes), la pietà, la veronica, le cinque piaghe di Cristo (Bergner, 1905). Nel suo studio sull'iconografia del Tardo Medioevo, Mâle (1908), in un capitolo dedicato a queste immagini, estese l'analisi ad altri soggetti, quali il Cristo alla colonna, il Cristo seduto in attesa della morte, il trono di grazia o Trinità sofferente e la Vergine dalle sette spade. Mâle fu il primo a interrogarsi sulle origini di queste rappresentazioni e in particolare a porsi il problema delle loro fonti letterarie, sottolineando lo stretto rapporto tra esse e lo spirito di pietà proprio della fine del Medioevo, che si esprimeva nel desiderio ardente del cristiano di "associarsi alla passione di Cristo" (Mâle, 1908, p. 83). Mâle introdusse così nella discussione il problema dell'atteggiamento attivo, cioè emozionale, di numerose descrizioni e meditazioni riguardanti la passione, che costituivano una parte rilevante della letteratura religiosa tra il 13° e il 15° secolo. Sottolineò inoltre l'importanza dei testi che erano rivolti direttamente al credente e che lo incoraggiavano ad atti di devozione privata, come per es. L'orologe de dévocion di Jean Quentin (1505 ca.). Tra i soggetti che traducevano i nuovi sentimenti religiosi Mâle (1908, pp. 145-156) annoverava anche altri temi, in particolare quelli che esprimevano l'idea della piena umanità di Cristo e, tra questi ultimi, quelli tratti dall'infanzia di Cristo e dalla vita della Vergine. Alcune di queste immagini vennero chiamate dall'autore images de piété (Mâle, 1908, p. 121), definizione ripresa da Gougaud (1925, p. 75), mentre Bréhier (1918) utilizzò l'espressione iconographie des dévotions nouvelles.Fu Pinder (1920) a esprimere molto chiaramente l'idea dell'influenza diretta esercitata dalla letteratura religiosa sulla nascita di questi nuovi temi nell'arte medievale. A suo parere la pietà, uno dei soggetti più importanti dell'arte della fine del Medioevo, era ispirata dall'immagine della Vergine che si lamentava per la morte di suo figlio, che era la trama fondamentale dei testi poetici appartenenti al tipo di espressione letteraria conosciuta sotto il nome di planctus Mariae. Il gruppo plastico non solo rendeva visibile, secondo Pinder, la deposizione del corpo di Gesù sulle ginocchia della Madre affranta, ma costituiva anche la fedele traduzione figurativa del lirismo doloroso proprio di tali narrazioni poetiche. L'ipotesi della dipendenza dei nuovi soggetti dai testi letterari doveva restare al centro delle discussioni sull'iconografia della passione di questo periodo, ma tale interpretazione avrebbe progressivamente incontrato più critiche che consensi (Berliner, 1956, p. 102).A partire dal 1920 ca. la storia dell'arte d'area tedesca cominciò a definire i temi fin qui considerati e, ben presto, anche altri temi cristologici e mariologici simili con il termine generale di Andachtsbild ('f. devozionale'), anche se inizialmente tale definizione venne applicata esclusivamente alle opere della statuaria gotica tedesca. Sintomatico della prima fase di ricerche sull'argomento fu il testo di Baum (1921, pp. 7-76), che classificò tra gli Andachtsbilder le rappresentazioni di Maria in puerperio, della Madonna della misericordia, il gruppo di Cristo e s. Giovanni, il Cristo crocifisso sull'albero della vita e la pietà. Baum (1921, pp. 54-60) spiegò l'apparizione di questi nuovi temi nella scultura attraverso l'influenza diretta della mistica tedesca della fine del sec. 13° e dell'inizio del 14° e, in particolare, con le visioni estatiche di alcune religiose dell'epoca. L'autore citò, fra le altre, la relazione di s. Gertrude la Grande (1256-1302), la quale vide se stessa, come s. Giovanni nel cenacolo, a fianco di Cristo nell'atto di appoggiare la testa sul petto del Maestro. Egli riportò anche il caso del convento di Katharinenthal, presso Diessenhofen, in Svizzera, dove le Domenicane erano solite pregare davanti a un gruppo di Cristo e s. Giovanni, opera che di solito viene identificata con una scultura del 1305 ca. (Anversa, Mus. Mayer van den Bergh). Secondo Baum (1921, pp. 45, 47, 70), la meditazione mistica su un evento raccontato nel vangelo trasformò l'antica immagine a contenuto dottrinale (Repräsentationsbild) o l'immagine narrativa in una nuova formula capace di suscitare la devozione del credente e, in particolare, la sua compassione per Cristo morente sulla croce. Le osservazioni di Baum hanno determinato molti aspetti essenziali della discussione successiva, relativa alle f. devozionali. Dehio (1923) scrisse che la f. devozionale, formatasi al di fuori della liturgia, era appena tollerata dalla Chiesa e rispondeva essenzialmente alle esigenze del culto privato. Egli intendeva individuare le ragioni dell'apparizione di una nuova categoria di immagini in un preciso concorso di circostanze storiche; lo studioso riteneva inoltre che la f. devozionale, una volta formata e accettata in un determinato ambiente, divenisse un modello, diffondendosi rapidamente grazie al carattere universale del suo messaggio (si veda anche Berliner, 1956, pp. 104-106). Dehio era del parere che le f. devozionali fossero inizialmente motivi o soggetti particolari tratti da immagini di carattere narrativo che, isolate dal loro contesto originario, divenivano rappresentazioni autonome (Dehio, 1923, p. 121; Passarge, 1924, p. 4). Tale opinione, dapprima accolta favorevolmente, fu in seguito criticata.Gli autori dei primi studi sulle f. devozionali furono unanimi nel vedere in questo genere iconografico il prodotto di un nuovo atteggiamento 'compassionevole' verso la vita e le sofferenze del Salvatore, ma individuarono in esso anche il fenomeno che, a sua volta, diveniva strumento di una nuova religiosità. Pinder (1924, p. 93) riteneva che il fenomeno delle f. devozionali non potesse essere spiegato prescindendo dall'approccio affettivo nella pratica religiosa; egli considerava che tale approccio si manifestasse, fino al sec. 13°, soltanto nella letteratura, in particolare nella poesia, e fosse cominciato più tardi a emergere anche nelle arti figurative, divenute poi il suo ambito privilegiato di espressione. Ai soggetti iconografici già citati se ne aggiusero altri - Cristo morto, come figura principale del Santo Sepolcro, Cristo che porta la croce, le pie donne ai piedi della croce -, che però non furono generalmente accettati da tutti gli autori, tanto che non è possibile parlare di una lista 'canonica' per gli Andachtsbilder. Si può solo constatare che una decina di essi si trova costantemente nelle opere degli anni Venti: la misericordia Domini, il Vir dolorum, gli arma Christi, Cristo al torchio mistico, Cristo seduto in attesa della morte, la pitié-de-nostre-Seigneur, la pietà, la veronica, la Madonna della misericordia e Cristo con s. Giovanni.Panofsky (1927) aprì in questa discussione una nuova prospettiva. Già Swarzenski (1923; 1935a), cercando i modelli iconografici della pietà di area tedesca nelle rappresentazioni italiane della deposizione dalla croce e del compianto sul Cristo morto, aveva esteso il problema oltre l'ambito ristretto della storia dell'arte tedesca. È tuttavia merito di Panofsky l'aver dimostrato la dimensione europea del fenomeno (sul contributo dell'Italia alla formazione delle f. devozionali: Meiss, 1936; de Francovich, 1938, p. 252): lo studioso ricordò che l'imago pietatis (misericordia Domini o Cristo della messa di s. Gregorio, secondo la terminologia di molti autori; Detzel, 1894, pp. 452, 456; Bergner, 1905, p. 525), la rappresentazione più citata tra le f. devozionali, costituiva un tipo iconografico a parte già nell'arte bizantina del sec. 12° (ΒασιλεύϚ τῆϚ δόξηϚ); egli notò inoltre che questo tipo iconografico era largamente penetrato nell'arte del Duecento italiano e che le sue prime trasformazioni, in particolare la comparsa del Vir dolorum stante, risalivano al 1300 circa. Panofsky partì dalla classificazione, già largamente accettata, delle immagini in tre categorie: immagini ieratiche a contenuto dottrinale (Repräsentationsbilder), scene narrative e f. devozionali, individuando l'origine di queste ultime in un doppio processo. Da una parte si sarebbero formate a partire dall'isolamento di un frammento all'interno di una composizione storica e, in tal caso, l'immagine fermava, in un certo senso, il racconto trascendendo il tempo; dall'altra, sarebbero derivate da rappresentazioni a contenuto dottrinale, trasformatesi in raffigurazioni del Salvatore, mostrato nella sua condizione umana e caratterizzato dalle emozioni proprie di un essere vivente. A differenza delle rappresentazioni ieratiche e narrative, la f. devozionale, secondo Panofsky, permetteva al credente di cogliere, attraverso la contemplazione, il contenuto religioso, il messaggio profondo di ciò che era raffigurato. Essa era il tramite dell'unione tra l'uomo, in atteggiamento contemplativo, e l'oggetto stesso della contemplazione.Dopo questi primi studi, le ricerche sulle f. devozionali presero, in un primo tempo, due diverse direzioni. Le indagini videro alcuni ricercatori impegnati nell'approfondimento dei testi mistici e dei racconti di visioni, considerati come fonte diretta di queste rappresentazioni; il Cristo con s. Giovanni e la pietà vennero riesaminati sotto questo aspetto (Sauer, 1928; Frey, 1935b; Weymann, 1937). Nelle f. devozionali veniva colta allora non solo la manifestazione della nuova pietà, ma anche l'espressione dei dogmi fondamentali della fede cristiana, che erano parte integrante dell'insegnamento essenziale della Chiesa fin dalle origini (Dumoutet, 1932; Benz, 1934); questo tipo di interpretazione fu seguito più tardi da Berliner (1956, p. 101), da Dobrzeniecki (1967b; 1971a) e da Suckale (1977). Secondo Benz il Vir dolorum esprimeva soprattutto l'opera della Croce e questa particolare formulazione del dogma permetteva di comprendere meglio l'aspetto teologico della passione e morte di Cristo (l'autore rilevava l'aspetto dottrinale anche in altre f. devozionali): l'immagine stessa è mezzo della trascendenza e dell'unione con il Cristo della passione (unio, adhaerere). Benz ricordava che i mistici erano dei visionari, che l'immagine era al centro della teologia mistica e che una determinata immagine poteva anche essere all'origine di una visione estatica (Benz, 1934, p. 24; 1969; Ringbom, 1965, pp. 16-23; 1969). Sono queste le ragioni che portarono Benz a criticare l'opinione di Pinder, il quale aveva cercato le fonti della pietà nella poesia (Benz, 1934, pp. 39-40; Lipphardt, 1934).Altri autori, esaminando la storia di tipi iconografici particolari e delle loro varianti, indicarono un'altra via nella ricerca. Vennero pertanto rianalizzati la pietà (Passarge, 1924; Swarzenski, 1935a; Körte, 1937; Reiners-Ernst, 1939), la Madonna della misericordia (Sussmann, 1929), l'imago pietatis e il Vir dolorum (Schrade, 1930; Bauerreis, 1931; Der Osten, 1935a), il Cristo al torchio mistico (Thomas, 1936) e la pitié-de-notre-Seigneur (Troescher, 1936). L'origine della formula iconografica costituì una delle questioni fondamentali di tali ricerche e sull'argomento vennero messe a confronto due principali opinioni. L'una considerava le f. devozionali sempre come motivi o temi 'derivati' da temi narrativi; l'altra dimostrava che una certa raffigurazione utilizzata in una f. devozionale poteva esistere già molto prima dell'apparizione del genere iconografico assai specifico delle f. devozionali (Passarge, 1924, pp. 34-36; Swarzenski, 1935a; Körte, 1937, pp. 14-15; Reiners-Ernst, 1939; Lossow, 1948-1949, pp. 66-68; Kalinowski, 1952, pp. 162-188). L'idea secondo la quale la f. devozionale avrebbe tratto origine da una scena narrativa fu oggetto di una critica serrata da parte di Swarzenski. Lo studioso constatò che la disposizione di figure proprie a temi quali la pietà o il gruppo di Cristo e s. Giovanni poteva essere carica di altri significati. A suo avviso gli esempi più antichi della stessa formula avevano aperto la strada alle f. devozionali e queste ultime quindi non dovevano molto al pensiero mistico (Swarzenski, 1935b, p. 144; Pächt, 1956, pp. 78-79).Negli anni Trenta gli studiosi si soffermarono anche sulle varianti regionali di uno stesso tema. Alcuni erano dell'avviso che in Italia la pietà fosse rappresentata innanzitutto nella pittura ed esprimesse la sofferenza del corpo umano e che invece in Germania diventasse soggetto della scultura e mostrasse più precisamente il dolore dell'individuo (Körte, 1937, pp. 10-12; de Francovich, 1938, pp. 252-257). Continuavano intanto ad aggiungersi nuovi soggetti alla lista, sempre più lunga, delle f. devozionali; Meiss (1936, pp. 452-453) vi inserì la Madonna dell'umiltà.Spamer (1930) aveva introdotto la nozione di 'piccola f. devozionale' (kleine Andachtsbild); tale definizione venne a comprendere le immaginette, per la maggior parte stampe, diffuse tra i fedeli, spesso conservate dai loro proprietari nei libri di preghiera. Più tardi alcuni gruppi di immaginette vennero studiati in dettaglio, particolarmente quelli che erano espressione di devozioni legate alle indulgenze (Ringbom, 1965, pp. 24-29), quelli che diffondevano immagini miracolose (Belting, 1990, pp. 474-477) o quelli utilizzati nella devozione privata in un preciso ambito ecclesiastico, come per es. le immagini trovate nell'abbazia cistercense femminile di St. Maria, St. Alexander und St. Laurentius a Wienhausen, in Bassa Sassonia (Appuhn, Heisinger, 1965; Appuhn, 1977).La questione riguardante la funzione delle f. devozionali, già posta da Spamer (1930), divenne dopo la seconda guerra mondiale l'oggetto principale delle ricerche sull'argomento. Ormai la f. devozionale veniva esaminata soprattutto come strumento di devozione individuale. Non sarebbe stata possibile tale svolta senza la distinzione netta stabilita tra le immagini realizzate per rispondere alle esigenze del culto liturgico o pubblico (Kultbilder) e quelle destinate ai privati. Tale distinzione fu sottolineata in maniera categorica da Guardini (1939), ma ritorna presso numerosi altri autori (Kalinowski, 1952, p. 157; Weis, 19572, col. 504; Ringbom, 1965, p. 53; Decker, 1985, pp. 92-93; Reinle, 1988, p. 187; Belting, 1990, pp. 458, 464). Questo nuovo approccio era stato preceduto da critiche incentrate su alcuni aspetti del pensiero di Panofsky, in particolare sulla distinzione molto rigorosa tra la f. devozionale e la scena narrativa. Secondo Berliner (1956, pp. 116-117, n. 13), il termine Andachtsbild implicava la nozione di un'immagine utilizzata nelle devozioni private e queste ultime potevano essere ispirate da vari temi e formulazioni le più diverse. Già Garrison (1943-1945, p. 55) aveva sottolineato che una scena storica e un'icona potevano svolgere questo ruolo (Paulus, 1957, col. 364; Weis, 19572, col. 504). Wentzel (1962) esaminava il fenomeno dei piccoli 'libri' di preghiere composti unicamente di illustrazioni, comprendenti sia il ciclo della Passione sia f. devozionali, come per es. il mandilio e gli arma Christi.Ringbom (1965) ha avuto il merito di approfondire tali nuove idee e di esaminare la questione delle f. devozionali nel contesto più ampio della funzione delle immagini medievali in generale. L'autore raccolse numerose fonti scritte relative alle immagini destinate al culto individuale e realizzate nell'epoca interessata dall'aumento delle devozioni private; egli insisteva sul fatto che queste opere venivano eseguite nelle circostanze più diverse per rispondere alle esigenze più varie (indulgenze, culto delle reliquie, culto delle immagini miracolose, diffusione di feste e dogmi) e che, di conseguenza, esse presentavano una grande diversità tematica. Riteneva, inoltre, che la figura di Cristo da solo o della Vergine, pure da sola, e in particolare il mezzo busto, invitassero il devoto alla meditazione personale dell'opera della redenzione; questa formula sarebbe stata la più caratteristica tra le f. devozionali (Hager, 1964, p. 83). Ciò rendeva la f. devozionale simile all'icona a mezzo busto, ovvero alla f. devozionale per eccellenza; in tale prospettiva questa si intenderebbe quale opera commissionata che, in virtù di una formulazione specifica del soggetto, viene a essere in sintonia con l'atteggiamento religioso personale del committente (Ringbom, 1965, pp. 5, 12, 30ss.). Sul piano semantico questa definizione ha avuto come conseguenza un considerevole ampliamento del concetto, che veniva a comprendere le diverse rappresentazioni di Cristo e della Vergine, in particolare a mezzo busto, tra cui il Salvator mundi e le scene narrative dell'infanzia e della passione.Tale presa di posizione venne sviluppata da Belting (1981, cap. III; 1990, pp. 246-298, 398-422, 457-496): lo studioso riteneva che questa categoria iconografica particolare comprendesse le rappresentazioni in cui la formulazione specifica di un tema si qualificava rispondente alle esigenze spirituali specifiche di persone o di gruppi sociali ben determinati. Questi bisogni spirituali erano spesso legati a un culto preciso, come per es. quello di una reliquia particolare o dell'eucaristia. La f. devozionale è dunque una categoria a un tempo funzionale e socio-psicologica (Belting, 1981, pp. 103-104). Poiché la figura a mezzo busto comunica meglio di ogni altra immagine il mistero del Dio-Uomo, essa diventa la formula privilegiata della f. devozionale (Belting, 1990, p. 247). È per questo che l'autore considerava le icone della Chiesa ortodossa come appartenenti alla 'preistoria' del genere e, in particolare, le icone commissionate da singoli donatori e utilizzate per la contemplazione privata (Belting, 1990, pp. 292-330). Secondo Belting (1990, p. 457ss.) l'Andachtsbild era l'immagine privata il cui soggetto corrispondeva all'aspettativa del committente; il soggetto era certamente importante, ma non costituiva più il criterio determinante della definizione.Questo medesimo aspetto, cioè la funzione della f. devozionale, è stato messo in rilievo da altri studiosi (Suckale, 1977, pp. 178, 198). L'approccio funzionale ha ampliato considerevolmente il significato semantico del termine, portando a un'utilizzazione spesso arbitraria dello stesso. Ringbom (1965, pp. 38-48) parlava di 'dittico devozionale' o di 'ritratto devozionale', definizione, quest'ultima, riferita all'immagine di Cristo a mezzo busto destinata al culto privato. Una tavola dipinta, decorata con un ciclo della passione o anche con un'altra serie di soggetti, è chiamata a volte Andachtstafel o Andachtsbild (Zehnder, 1990, pp. 116-120, 151-155, 163-164). Viene spesso compreso nella medesima categoria anche un santo inginocchiato davanti a Cristo o alla Vergine (Zehnder, 1990, pp. 471-474). Si parla di 'tipo iconografico devozionale' (Andachtstypus; Belting-Ihm, 1976, p. 73). Anche i mezzi di espressione e le forme artistiche che si costituirono al momento dell'apparizione delle prime f. devozionali possono essere considerate come una formulazione stilistica di lunga durata (andachtsbildhafte Gestaltung; Krohm, 1991, p. 203). Talvolta l'utilizzazione del termine è stata spinta a tal punto che esso ha perduto ogni valore epistemologico (Goffen, 1989, pp. 23-118).Fin qui la f. devozionale è stata definita secondo uno dei tre criteri seguenti: quello del soggetto, quello delle proprietà immanenti della raffigurazione, quello della funzione. L'uno o l'altro di tali criteri è stato messo in rilievo negli studi dedicati a questo argomento, ma anche altri caratteri distintivi del fenomeno sono stati presi in considerazione. Si è visto dunque come le teorie sulle f. devozionali presentino una grande complessità semantica; risulta pertanto più difficile precisare le basi concettuali di tali teorie, tanto più che le definizioni nel senso proprio del termine sono rare (Klein, 1937, col. 684; Kalinowski, 1952, p. 159; Paulus, 1957, col. 363; Weis, 19572, col. 504). A parte qualche caso isolato, i giudizi sulle f. devozionali sono parte integrante delle analisi delle opere e dei loro soggetti. Tuttavia è possibile individuare i tre criteri citati e coglierne il funzionamento all'interno del sistema epistemologico della storia dell'arte.La lista di rappresentazioni considerate come soggetti di f. devozionali si è formata progressivamente nel corso di ricerche dalle tematiche e metodologie più diverse. Solo raramente è possibile trovare testi precisi che dimostrino la funzione di un soggetto nella pratica del culto privato. Molto spesso è un'intuizione o un'analogia a guidare lo storico dell'arte nel momento in cui viene riconosciuta in un tema particolare una f. devozionale.Esistono tuttavia anche fonti storiche che provano come alcuni temi iconografici divennero oggetto privilegiato delle pratiche di devozione privata. Papa Innocenzo IV (1243-1254) compose una preghiera in onore della veronica - il sudarium con l'impronta del volto di Cristo, reliquia conservata nella basilica di S. Pietro in Vaticano -, invitando i fedeli a recitarla al fine di ottenere un'indulgenza. Il cronista inglese Matthew Paris nei Chronica maiora (1195 ca.-post 1259), nel darne notizia poco dopo il 1245, racconta che il testo era accompagnato da una rappresentazione della reliquia per suscitare la devozione (devotio), illustrando egli stesso il suo resoconto con la veronica (Cambridge, C.C.C., 16, c. 49v; Belting, 1981, pp. 104, 200-203; Lewis, 1986, pp. 126-130; Belting, 1990, pp. 246-252, 602-605). Come ha giustamente osservato Belting, il soggetto di una particolare immagine-reliquia diventa il soggetto di una rappresentazione rivolta a ogni singolo credente. Nasce così un'immagine devozionale. La relazione di Matthew Paris non lascia dubbi sul fatto che le riproduzioni della veronica dovevano sviluppare la devozione privata, come conferma lo sviluppo successivo di questo tema. La veronica appare adorata da una coppia anonima su una tomba proveniente dall'abbaziale di St. Marien a Bronnbach an der Tauber (Baden-Württemberg), risalente al primo quarto del sec. 14° (Francoforte sul Meno, Liebieghaus; Legner, 1966, nr. 42), mentre verso il 1400, a Colonia, la veronica era spesso rappresentata su dittici e tavole, destinati all'uso domestico (Zehnder, 1990, pp. 127-128, 491-494).Non si dispone invece di una fonte altrettanto precisa sul ΒασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ. Non si conoscono infatti né la data né le circostanze esatte relative al momento in cui si cominciò a utilizzare questo tema come f. devozionale. Tuttavia né le fonti scritte né le raffigurazioni lasciano dubbi sul fatto che nel sec. 14° l'imago pietatis, il Rex gloriae e la misericordia Domini, corrispettivi occidentali del modello iconografico greco, fossero già largamente impiegati nel culto privato. I primi quadretti, dittici e trittici domestici con tale rappresentazione datano dalla fine del sec. 12° (Torcello, Mus.; Bruxelles, Coll. Stoclet; Stubblebine, 1969; van Os, 1978). Nel sec. 14° questa funzione del tema era già generalizzata (dittico di Barna da Siena, Firenze, Mus. Horne; dittico boemo della metà del sec. 14° con l'iscrizione misericordia Domini, Karlsruhe, Staatl. Kunsthalle). Allo stesso modo innumerevoli varianti e trasformazioni dell'imago pietatis, come per es. il Cristo della passione sostenuto dagli angeli (Engelpietà) o il Vir dolorum, occupavano il centro di piccole ancone d'uso domestico od oggetti di devozione personale, come un piccolo trittico smaltato, manufatto parigino del 1400 ca. (Amsterdam, Rijksmus.). Belting (1981, pp. 64-68, 142, 251-254) riteneva che l'adattamento del tema del ΒασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ alle esigenze del culto privato dovesse essere messo in rapporto con l'influenza che la pittura bizantina esercitò nel sec. 13° in Italia e in particolare a Venezia. A proposito dell'imago pietatis, prima che questa assumesse il carattere di Andachtsbild, egli ne sosteneva un'origine proprio come icona. Questo tema, infatti, compare sulle icone bizantine del sec. 12° e alcune di esse, a partire dal secolo successivo, possono essere considerate icone private (Belting, 1980-1981, pp. 6-7; 1981, p. 142ss.; 1990, p. 292ss.). Un culto molto preciso contribuì a una larga diffusione di questa formulazione del Cristo della passione come oggetto di devozione privata. I Certosini romani di Santa Croce in Gerusalemme entrarono in possesso, verso il 1380, di una icona del ΒασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ, opera musiva costantinopolitana risalente al 1300 ca. (Bertelli, 1967; Belting, 1981, pp. 66-67, 276, 282; 1990, pp. 379-381). Rapidamente si sviluppò un culto molto forte per questa icona ed è lecito pensare che molte tavole private con l'imago pietatis fossero repliche di questo modello romano. Tale ipotesi trova conferma, tra l'altro, nell'inventario di oggetti appartenuti a Jean de Valois, duca di Berry (1340-1416): "Item, ung autre tableau d'ancienne façon, semblablement venu de Romme, comme on dit, fait d'ung Dieu de Pitié ou milieu" (Guiffrey, 1894-1896, I, p. 290, nr. 1106). Similmente sono conosciute copie dell'immagine romana grazie a tavole che riportano il testo della preghiera d'indulgenza legata a questo culto, e che erano destinate alla devozione dei laici (tavola umbra dell'ultimo quarto del sec. 15°, Colonia, Wallraf-Richartz-Mus., inv. nr. 744), e grazie a stampe che circolavano tra i fedeli, come alcune incisioni, su rame, di Israhel van Meckenem (m. nel 1503), del 1487 ca., e, su legno, di William Caxton (1422-1491).Una leggenda composta verosimilmente alla fine del sec. 14°, trascritta nel 1475, racconta che Gregorio Magno (540 ca.-604) ebbe la visione di Cristo sub effigie pietatis mentre celebrava la messa e ordinò di realizzare questa immagine per commemorare la visione. In tal modo la pratica, già antica, di pregare davanti all'imago pietatis riceveva la sanzione di un grande papa e l'esempio romano del tema si trasformava in prototipo universale. A partire dal 1400 ca. appaiono le rappresentazioni della messa di s. Gregorio narrata dalla leggenda. Stranamente il Cristo della visione assume nella maggior parte dei casi l'aspetto di una delle varianti del Vir dolorum (Enguerrand Charonton, Incoronazione della Vergine, del 1454; Villeneuve-lès-Avignon, Mus. Mun.) e molto raramente la forma canonica dell'imago pietatis. Accanto alla messa di s. Gregorio, tutta una famiglia iconografica parallela si costituì intorno al tema del Cristo della passione adorato da un santo, un devoto o un defunto e in cui il Salvatore rappresenta il più delle volte il tipo iconografico del Vir dolorum, come in una lastra scolpita raffigurante un religioso in preghiera davanti allo stesso soggetto, del 1360-1370 ca. (Erfurt, Peterskirche; Panofsky, 1927) o nel dittico di un premostratense, risalente al 1400 ca. (Berlino, Staatl. Mus., inv. nr. 1620; Mersmann, 1952, pp. XX, XXXIV-XXXV). Il numero considerevole di tali opere indica l'imago pietatis e le sue derivazioni fra i soggetti più frequentemente adottati nella devozione individuale della fine del Medioevo. Resta comunque sconosciuto il momento esatto in cui il tema si trasformò in strumento così importante per le pratiche di pietà.Allo stesso modo, il citato racconto della metà del sec. 14° riguardante le religiose di Katharinenthal che facevano le loro devozioni davanti a un gruppo scolpito di Cristo con s. Giovanni, riferisce di una pratica in uso probabilmente già da mezzo secolo. Si ritiene plausibile l'ipotesi secondo la quale il tema antico sarebbe diventato immagine a sé e oggetto di un culto particolarmente fervente nei conventi femminili svevi verso il 1300 (Haussherr, 1975), malgrado si ignorino le circostanze esatte di questa trasformazione.Quando il numero elevato dei temi iconografici delle f. devozionali propri di un'epoca viene messo a confronto con i testi, poco numerosi, riguardanti la destinazione delle opere illustrate con tali temi, si constata che i testi in questione forniscono in realtà poche informazioni sul ruolo dei soggetti delle immagini nelle pratiche di culto dei fedeli. Ciò colpisce in particolare quando si esamini la pietà, tema largamente diffuso nell'arte della fine del Medioevo e considerato sempre dalla storia dell'arte la f. devozionale per eccellenza. Approfonditi studi sono stati dedicati all'indagine sulle sue origini iconografiche e sul suo significato teologico (Kalinowski, 1952; Krönig, 1962, pp. 98-110; Dobrzeniecki, 1967b), ma non è stato possibile determinare le circostanze storiche della sua nascita. Le fonti scritte che ricordano la collocazione primitiva e la funzione cultuale della pietà sono sporadiche e non possono portare a conclusioni di carattere generale (Passarge, 1924, pp. 28-29; Beeh, 1965; Stabat Mater, 1970, pp. 45-46, 74-76, 109-110; Beck, Beeh, Bredekamp, 1975, pp. 70-81; Kobler, 1980). La più antica notizia pervenuta informa che nel 1298 si otteneva un'indulgenza recitando preghiere davanti a una pietà posta nella chiesa carmelitana a Colonia (Dehio, 1923, p. 120).La maggiore difficoltà che incontra chi utilizza il criterio del tema iconografico per definire la f. devozionale sta nel fatto che molto spesso i soggetti identificati con le f. devozionali erano parte integrante di grandi programmi iconografici. Un'immagine particolare in tal caso non poteva essere isolata da un tale contesto e non era certamente concepita per suscitare la devozione individuale del credente. Molto presto, sin dal primo quarto del sec. 14°, l'imago pietatis decorava le grandi pale d'altare italiane. La si trova per es. in predelle (Simone Martini, pala dipinta nel 1319-1320 per la S. Caterina a Pisa, ora al Mus. Naz. e Civ. di S. Matteo), in cuspidi di polittico (ancona del 1334 ca., di seguace di Paolo Veneziano, abbaziale di Piove di Sacco, prov. Padova) e anche come pannello centrale (polittico della cerchia di Giotto nella Bromley Davenport Coll. a Capesthorne Hall, presso Macclesfield, Cheshire; Mersmann, 1952, pp. XIV, XXXIII; Stubblebine, 1969). Varianti dell'imago pietatis e soprattutto il Vir dolorum nelle sue differenti versioni occupavano spesso il centro dei polittici nei paesi situati a N delle Alpi (dossale della fine del sec. 14°, in pietra, del duomo di St. Mauritius und St. Katharina a Magdeburgo; Der Osten, 1935a, pp. 33, 57-58; trittico dipinto della famiglia Feber, 1485 ca., nella chiesa di Nostra Signora a Danzica; Dobrzeniecki, 1971b, pp. 77-79). Anche se tali opere erano prodotte per la cappella di una confraternita o di un privato, l'imago pietatis, in virtù della sua collocazione, diventava immagine a servizio del culto liturgico.L'imago pietatis e il Vir dolorum facevano parte anche del repertorio tematico previsto all'interno di programmi decorativi a carattere monumentale e dell'arredo liturgico. Un grande Cristo della passione venne dipinto verso il 1380-1390 a fianco della Vergine e dei santi nella chiesa dei Francescani (oggi chiesa della Vergine) a Toruń, in Polonia (Gotyckie malarstwo, 1984, pp. 126-127); una grande figura del Cristo in pietà è situata sul pilastro al centro del portale principale dell'antica parrocchiale di Ulma, oggi duomo, opera di Hans Multscher, del 1429 (Mersmann, 1952, pp. XXV-XXVI, XXXV); un'imago pietatis circondata da angeli decora il pulpito della cattedrale di Pisa, opera di Giovanni Pisano, degli anni 1302-1310 (Belting, 1981, pp. 258-260, 306-307); un'imago pietatis dipinta negli anni 1370-1380 è raffigurata sul tabernacolo eucaristico della chiesa parrocchiale di Bejsce, in Polonia (Gotyckie malarstwo, 1984, pp. 42-43); un'imago pietatis e una veronica sono poste sopra il seggio sacerdotale dell'inizio del sec. 15° nel St. Bartholomäus, oggi duomo, a Francoforte sul Meno; un'imago pietatis accompagnata da angeli occupa uno dei medaglioni a soggetto cristologico sul calice che Benedetto Suki offrì tra il 1437 e il 1439 alla cattedrale di S. Michele ad Alba Iulia (Romania), ora conservato a Esztergom (Bazilika Kincstára; Fritz, 1982, p. 267, nrr. 564, 565).L'imago pietatis e le sue varianti decoravano anche tombe, per es. quella della famiglia della Gherardesca, risalente agli anni 1315-1321, nel Camposanto di Pisa (Stubblebine, 1969, p. 9), la lastra funeraria di Berthold Rücker, del 1377, nel St. Johannis a Schweinfurt (Bauerreis, 1931, p. 24) o l'epitaffio di Hans von Burghausen, del 1432, a St. Martin a Landshut (Mersmann, 1952, pp. XXV, XXXV), entrambi in Baviera. Come nei polittici, in tutte queste opere l'imago pietatis e le immagini a essa imparentate fanno parte integrante di più vasti programmi iconografici. L'utilizzazione del tema del Cristo della passione si spiega a volte con la funzione dell'oggetto liturgico. Il motivo che determina la scelta di un soggetto si manifesta soprattutto nel caso della decorazione dei tabernacoli e dei vasi eucaristici. In quanto immagini che illustrano la totalità della passione di Cristo, l'imago pietatis, il Vir dolorum e le rappresentazioni simili evocavano anche il mistero dell'eucaristia (Dobrzeniecki, 1971a; Belting, 1981). Proprio nel caso della decorazione degli oggetti liturgici, tuttavia, tali immagini non erano destinate alla devozione privata. Schmidt (1956) dimostrò per es. che un soggetto considerato come specifico delle f. devozionali poteva indicare il titolo di una chiesa: un Vir dolorum è posto nel timpano del 1349 della cappella del Corpus et Sanguis Domini a Lubin, in Slesia.Anche la definizione dell'immagine devozionale secondo il criterio della natura della raffigurazione pone delle difficoltà. Secondo Panofsky (1956) la f. devozionale da una parte trasforma un avvenimento della storia di Cristo che riscatta l'umanità in una visione atemporale dell'opera della redenzione, dall'altra conferisce all'effigie della divinità eterna i tratti della fragile esistenza umana. Questa pertinente analisi si può riferire a un gran numero di immagini realizzate all'epoca in cui si manifestò un nuovo tipo di religiosità e perciò ha segnato profondamente le ricerche sulle f. devozionali. Tuttavia il fondamento di tale analisi, cioè la distinzione rigorosa tra un'immagine che comunica una verità dogmatica atemporale (Repräsentationsbild) e una scena storica, è spesso inapplicabile (Berliner, 1956, pp. 100, 166 n. 13). Panofsky (1956) stesso ha constatato che certe immagini univano un 'ritratto' atemporale di Cristo sofferente e un episodio della storia della sua passione. La fusione, assai frequente nel sec. 15°, dei temi del Vir dolorum e dell'ecce Homo ne costituisce una prova. Ma ciò che più importa nella discussione sull'utilità del criterio introdotto da Panofsky è che la sua definizione non è applicabile a tutte le rappresentazioni destinate al culto privato. Le testimonianze raccolte da Ringbom (1965, p. 38) non lasciano dubbi sul fatto che si pregava anche davanti a raffigurazioni di carattere 'storico', come per es. l'annunciazione o la deposizione dalla croce. Nelle celle dei religiosi si trovavano spesso dipinti i cui soggetti rendevano fedelmente la narrazione evangelica. Nella certosa di Champmol, presso Digione, i monaci facevano le loro devozioni private davanti alle crocifissioni dipinte in gran numero tra il 1389 e il 1395 da Jean de Beaumetz, due delle quali sono ancora conservate a Parigi (Louvre) e a Cleveland (Mus. of Art; Belting, 1981, p. 96). Il pittore mise in risalto le sofferenze di Cristo morente, la compassione della Vergine e la devozione del certosino prostrato ai piedi della croce, ma la composizione segue fedelmente il racconto di Gv. 19, 25-30. Le celle del convento dei Domenicani di S. Marco, a Firenze, sono decorate dagli affreschi eseguiti da Beato Angelico fra il 1438 e il 1446, che rappresentano, nella maggior parte dei casi, scene del vangelo. Si conoscono anche piccoli dittici destinati a uso domestico che illustrano i temi più disparati, quali la Vergine con il Bambino, i santi, le scene cristologiche e mariologiche, ma, a volte, tali soggetti sono affiancati da scene narrative che si fondano su opere di edificazione, quale l'incontro dei tre vivi e dei tre morti, come per es. nel dittico di Bernardo Daddi, conservato a Firenze (Gall. dell'Accademia; Settis Frugoni, 1967, pp. 207-209, nr. 8). Sulle piccole f. devozionali dei secc. 14° e 15° trovate nel 1953 e nel 1959 nell'antica abbazia femminile di Wienhausen figurano temi ai quali non si può assolutamente applicare la definizione di Panofsky, come il Cristo in trono, l'agnello di Dio, l'annunciazione, l'incoronazione della Vergine e numerosi santi (Appuhn, Heisinger, 1965).È importante ricordare anche che alcuni libri composti di immagini e numerosi piccoli trittici o dittici a uso domestico riuniscono in un'unica serie iconografica rappresentazioni atemporali di Cristo sofferente e scene storiche della passione (Wentzel, 1962). Un eccellente esempio di un tale insieme mostra una delle tavole di un piccolo dittico di origine tedesco-occidentale risalente al sec. 14° (Colonia, Wallraf-Richartz-Mus., inv. nr. 333; Büttner, 1983, pp. 104, 183), in cui due rappresentazioni atemporali di Cristo sofferente, il trono di grazia e il Vir dolorum, sono state inserite in un ciclo pasquale. Senza dubbio gli esempi più numerosi di insiemi di immagini iconograficamente eteroclite (scene narrative dell'Antico e del Nuovo Testamento, rappresentazioni diverse di Cristo e della Vergine, immagini di profeti e di santi, temi didattici, scene liturgiche) illustrano ampiamente i libri d'ore. Nel caso di questo fondamentale libro di preghiere delle classi sociali più elevate nei secc. 14° e 15°, tutte le miniature, certamente insieme al testo, erano destinate a stimolare la devozione del proprietario (Ringbom, 1965, pp. 30-32).Il terzo criterio di definizione della f. devozionale, quello della funzione, sembra essere a prima vista il meno discutibile. Numerose fonti parlano infatti di opere realizzate per soddisfare le esigenze del culto privato e tale funzione non può essere messa in dubbio nel caso di opere conservate (Ringbom, 1969, p. 163; Belting, 1981, pp. 14 n. 2, 93-97). Il grande mistico tedesco Enrico Susone (1295 ca.-1366) possedeva un'immagine, dipinta su pergamena, che utilizzava nelle sue pratiche di devozione "andaht nah bildricher wise" (Seuse, 1907, p. 103). Un ricco mercante di Prato, Francesco di Marco Datini (1335 ca.-1410), comprò per la sua casa quadri (tra l'altro, un'imago pietatis accompagnata dalla Vergine e da s. Giovanni) destinati alle pratiche religiose della devozione privata e da lui considerati come strumenti capaci di suscitare la religiosità (Piattoli, 1929, p. 235; Origo, 1959, p. 230). L'inventario degli oggetti appartenuti a Carlo il Temerario, duca di Borgogna (1433-1477), datato 1467, cita "ung petit tableau de dévocion, où est la passion, dedans a une chaisnecte d'argent" (Laborde, 1851, p. 192, nr. 3844). D'altro canto, anche le scene delle vite dei santi e dei laici rappresentate nella pittura dei secc. 14° e 15° mostrano spesso i protagonisti in preghiera davanti a piccoli polittici di uso domestico (Ringbom, 1969).La storia dell'arte, che riconosce in numerosi dipinti e sculture opere eseguite per privati, può tuttavia citare solo molto raramente una fonte scritta precisa circa la loro destinazione. D'altra parte, molto spesso è impossibile distinguere un'opera destinata a uso liturgico da una riservata alla devozione privata. Questa distinzione è stata giustamente rimessa in discussione (Baxandall, 1972, p. 5) e il caso dei polittici posti nelle cappelle private o nelle cappelle delle confraternite illustra bene tale problema, come per es. il trittico della Passione, risalente agli anni 1400-1415, che si trovava nella cappella di S. Elisabetta della chiesa di Nostra Signora a Danzica (Muz. Narodowe). La cappella apparteneva a una, forse due famiglie della borghesia, quindi solo un gruppo ristretto di fedeli pregava davanti a quest'opera; tuttavia, essendo una pala d'altare, essa era strettamente legata al sacrificio eucaristico, e dunque alla liturgia pubblica. La pietà posta al centro, visto il carattere della raffigurazione, si rivolgeva in particolar modo al singolo individuo e lo invitava alla meditazione sulla morte di Cristo ma, allo stesso tempo, costituiva parte integrante del ciclo della passione, che certamente attirava l'attenzione di tutta l'assemblea dei fedeli. Un poema inglese della fine del sec. 14° dal titolo Arma Christi, copiato su rotoli di pergamena che i sacerdoti srotolavano davanti ai fedeli durante il sermone, era illustrato con disegni degli strumenti della passione (Robbins, 1939, p. 416), mentre il tema degli arma Christi, nel momento in cui decorava un piccolo dittico (Suckale, 1977) o un libro d'ore (Lewis, 1990), può essere considerato come mezzo per suscitare la devozione privata; non è il caso del rotolo, il quale era strumento della missione pastorale della Chiesa, seppure non legato direttamente alla celebrazione della messa.Una determinata opera poteva avere diverse funzioni di culto. Il crocifisso ne è un esempio. Fin dall'inizio delle discussioni sulle f. devozionali questa rappresentazione del Salvatore era frequentemente citata come esempio di tale genere iconografico (Baum, 1921, pp. 70-71). Una particolare variante attirò l'attenzione degli studiosi: il crocifisso doloroso (Pinder, 1925, p. 35; Swarzenski, 1935b, p. 141; de Francovich, 1938, p. 245). In questo tipo di crocifisso il volto di Cristo è segnato dalla sofferenza estrema e il suo corpo accasciato e straziato è inchiodato al legno, identificato con l'albero biforcuto. Tale nuova formula dell'immagine del crocifisso, i cui più antichi esempi provengono dalla Renania (Mühlberg, 1960b), si formò verso il 1300 e nel corso del sec. 14° era nota anche in altre regioni europee (Frey, 1935a; Franco Mata, 1992). Un'opinione abbastanza diffusa attribuiva l'apparizione del crocifisso doloroso al pensiero mistico e vedeva in esso lo strumento tipico della devozione privata (Reinle, 1988, pp. 193-194). Tuttavia è stato dimostrato che il crocifisso doloroso, collocato all'entrata del coro o presso l'altare della Santa Croce, occupava il posto centrale nella decorazione interna della chiesa, facendo dunque parte dell'arredo dello spazio liturgico principale così come i crocifissi monumentali più antichi. Certamente, in considerazione della resa realistica del corpo lacerato del Salvatore, questo genere di crocifisso poteva anche attirare l'attenzione particolare di un individuo e diventare l'oggetto delle sue pie meditazioni. La doppia funzione cultuale del grande crocifisso è attestata già da una fonte carolingia. S. Maura, una laica vissuta nel sec. 9° a Troyes, si dedicava a preghiere ferventi e si prostrava davanti a tre immagini di Cristo: Bambino sulle ginocchia della Madre, Sovrano assiso in trono e Salvatore crocifisso (Prudenzio di Troyes, Sermo de vita Maurae; PL, CXV, coll. 1369-1376); quest'ultimo, di grandi dimensioni, realizzato in legno e probabilmente rivestito di placche d'argento, faceva parte dell'arredo del coro (Castes, 1990). A partire dal sec. 11° proprio ai piedi del crocifisso i mistici e i santi, come per es. s. Giovanni Gualberto (m. nel 1073), s. Etelredo di Rievaulx (1110 ca.-1167), s. Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), s. Edmondo di Canterbury (1180 ca.-1240), s. Francesco d'Assisi (1181-1226), Enrico Susone (1295 ca.-1366) e s. Caterina da Siena (1347-1380) cercavano l'unione con Dio (unio mystica) e, nelle loro visioni, Cristo assumeva solitamente l'aspetto del Salvatore crocifisso (Gougaud, 1925, pp. 76-78; Meiss, 1951, p. 106; Vandenbroucke, 1963; Hoste, 1967; Büttner, 1983, p. 149ss.; Belting, 1990, pp. 400-405). Crocifissi monumentali di chiese erano spesso all'origine di queste devozioni e visioni. Tali casi particolari non consentono, tuttavia, di definire il crocifisso quale f. devozionale destinata al culto privato.La nozione di f. devozionale è uno strumento concettuale della storia dell'arte che tende a stabilire una classificazione sistematica dei diversi fenomeni apparsi nelle arti figurative. Il significato del termine si è evoluto di pari passo con lo sviluppo della disciplina. Lo scarto tra i limiti epistemologici dei concetti della storia dell'arte da una parte e la complessità dei processi storico-artistici dall'altra sono all'origine delle ambiguità della nozione. È importante sottolineare che essa non è sempre introdotta nello stesso modo. Il termine è stato concepito dalla storiografia artistica tedesca, caratterizzata sempre da un apparato concettuale di analisi molto sviluppato, e solo in tale ambito è stato largamente utilizzato e discusso. Nelle altre lingue il termine è stato introdotto più tardi come traduzione della parola Andachtsbild e il suo uso è stato irregolare, quasi sporadico. Esso è stato dapprima assimilato dalla storiografia inglese (Meiss, 1936, pp. 452-453), dove se ne fa un uso più ampio che non altrove (Garrison, 1943-1945, p. 55). In Italia, de Francovich (1938, p. 245) fu uno dei primi a utilizzarlo, ma nella letteratura scientifica italiana non è ricorrente. Anche in francese è raro (Verdier, 1975, p. 82, n. 37; Guillot de Suduiraut, 1991, nrr. 9, 27, 34; Thiébaut, 1993, pp. 64-81), tanto che si è arrivati al punto di dubitare della stessa legittimità linguistica dell'espressione image de dévotion (Lewis, 1990, p. 48).Benché la sua definizione esatta ponga delle difficoltà, la nozione di f. devozionale può essere utilmente applicata a una parte importante della produzione artistica della fine del Medioevo, a condizione, comunque, di precisare ogni volta il campo semantico del termine; di precisare soprattutto se si tratta della rappresentazione o del suo supporto materiale, cioè dell'oggetto. In rapporto con la funzione dell'opera, il termine permette d'isolare nell'arte di quest'epoca tutta quella produzione che costituiva la risposta artistica alla crescente devozione privata e consente quindi di cercare nell'arte l'equivalente della nuova mentalità e delle nuove pratiche religiose.Il concetto permette anche di individuare nella produzione artistica dell'epoca la trasposizione di una corrente molto precisa del pensiero cristiano. Già Gregorio di Nissa (335 ca.-394 ca.; Oratio de Dei Patri, Filii et Spiritus Sancti; PG, XLVI, col. 572) e Gregorio Magno (Ep., IX, 52; PL, LXXVII, col. 990-991) scoprirono nell'immagine non soltanto lo strumento della formazione dottrinale e pastorale dei fedeli, ma anche il mezzo capace di far vibrare il sentimento religioso e di suscitare in particolare l'amore per Cristo (Ringbom, 1965, p. 12; 1969, p. 163; Freedberg, 1989, p. 164). Gregorio di Nissa formulò questa idea a proposito delle rappresentazioni del Salvatore sofferente, mentre Gregorio Magno sottolineò che la contemplazione dell'immagine di Cristo è un atto personale e individuale. L'immagine, considerata come mezzo per favorire lo slancio religioso, non era certo un tema frequente nella riflessione sull'arte nei secoli precedenti la fine del Medioevo, ma l'idea non venne completamente dimenticata. Teofilo, nel terzo libro del De diversis artibus (verso il 1120-1130), sosteneva che le scene della passione dovevano essere dipinte sulle pareti delle chiese per risvegliare nell'anima del cristiano la compunzione. A partire dal sec. 13° le opinioni di questo tipo si moltiplicarono e si ritrovano, per es., in Tommaso d'Aquino (Freedberg, 1989, p. 162). Nelle vite dei santi e nelle raccolte di miracoli si leggeva sempre più spesso che i santi e i fedeli avevano l'abitudine di disporsi alla pia meditazione davanti a un'immagine; una statua di Cristo, della Vergine o di un santo poteva anche intervenire nella vita spirituale del protagonista del racconto e determinarne lo stato emozionale (Ringbom, 1969; Freedberg, 1989, pp. 162-166). La pratica della preghiera davanti a un'immagine si diffuse in ambienti sempre più vasti della società medievale. Il culto privato non poteva ormai fare a meno della visualizzazione del proprio oggetto (Ringbom, 1965, pp. 18-23, 30-39). I predicatori raccomandavano ai fedeli la contemplazione e l'adorazione di temi ben precisi della vita di Cristo e della Vergine (per es. negli scritti di Johann Geiler von Kaiserberg, 1445-1510). Le incisioni del sec. 15° che rappresentano le scene della passione e che circolavano tra i fedeli implicavano spesso indicazioni sul modo di vivere le sofferenze di Cristo stesso. Ma, poiché a volte vennero commessi degli abusi riguardanti queste pratiche - si promettevano talora indulgenze eccessive -, alcuni teologi, come per es. Jehan de Gerson (1363-1429), sottolineavano che la contemplazione dell'immagine doveva portare unicamente frutti spirituali (Ringbom, 1969, p. 165).Nell'esperienza mistica che, agli occhi di quelli che cercano Dio, è la forma più completa dell'unione con il Signore, l'atto della trascendenza prende l'aspetto dell'immagine. Come constatavano spesso i mistici dell'epoca, non era possibile esprimere la visione con una descrizione verbale (Benz, 1969, pp. 313-324; Krüger, 1989, pp. 193-196). I santi avevano apparizioni davanti a quadri e statue e Cristo e la Vergine comparivano loro assumendo l'aspetto proprio all'imagerie dell'epoca (Benz, 1934, pp. 25-29; Ringbom, 1965, pp. 16-18; 1969; Belting, 1990, pp. 460-462). La somiglianza tra l'aspetto dei santi che apparivano nelle visioni e le loro rappresentazioni nell'arte dell'epoca è attestata da numerosi documenti iconografici, come per es. il libro che serviva da guida spirituale a monache della fine del sec. 13°, Tres etaz de bones ames (Londra, BL, Add. Ms 39843). S. Caterina d'Alessandria, che le leggende della fine del Medioevo presentavano come una mistica, desiderava vedere con i suoi occhi Cristo e la Vergine: quando espresse tale desiderio davanti a un santo eremita, costui le donò un'icona della Vergine con il Bambino e solo dopo la contemplazione dell'icona la santa fu gratificata delle visioni. Questo tema è stato rappresentato, tra l'altro, su un dossale della cerchia del Maestro della S. Cecilia nella prima metà del sec. 14°, proveniente dal distrutto oratorio dei Ss. Lorentino e Pergentino ad Arezzo (New York, W. Randolph Hearst Coll.).Nel suo desiderio di unione con Dio, il cristiano della fine del Medioevo cercava nelle immagini i soggetti e le forme che gli avrebbero facilitato tale esperienza religiosa. Dominato dalle rappresentazioni ieratiche a contenuto dottrinale da una parte, e, dall'altra, da scene narrative, l'antico repertorio iconografico non forniva più un simile strumento (Belting, 1990, p. 460). Per rispondere alle esigenze del culto privato ormai si utilizzavano, trasformandoli, antichi temi, come per es. il ΒασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ, Cristo accompagnato da s. Giovanni, Cristo al torchio mistico; oppure si creavano soggetti nuovi, come la pietà, il Vir dolorum (derivazione del ΒασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ), gli arma Christi, Cristo in attesa del supplizio, Gesù Bambino. In queste immagini, l'operato del Cristo storico veniva tradotto in una rappresentazione il cui soggetto trascendeva il tempo degli avvenimenti narrati nel vangelo e la persona stessa del Salvatore, grazie ai nuovi mezzi di espressione introdotti dall'arte italiana e dal Gotico della seconda metà del sec. 13°, era mostrata nella pienezza della sua umanità: nella fragilità della sua infanzia e nell'umiliazione della sua passione. Era proprio questo nuovo linguaggio a colpire la sensibilità del credente e a suscitare la sua capacità di compatire. L'empatia diventava di conseguenza il tema che ritorna costantemente nelle ricerche sulle f. devozionali (Pinder, 1924, p. 93; Panofsky, 1927, pp. 262-264; Meiss, 1936, p. 452; Ringbom, 1965, p. 12; Belting, 1981, p. 96; Freedberg, 1989, p. 162ss.).Il modo in cui venivano denominate alcune pitture e sculture nel Tardo Medioevo dimostra che si era coscienti della novità del loro messaggio. Nell'inventario dell'ospedale di S. Francesco a Bologna, del 1329, una rappresentazione del Cristo in pietà è designata con l'espressione in forma pietatis. Si sottolineava così che, proprio nella sua passione, Cristo ha manifestato la sua pietas, il suo amore misericordioso per l'uomo (Solignac, 1986). Il ΒασιλεὺϚ τῆϚ δόξηϚ, immagine di origine bizantina, e le sue derivazioni occidentali, si designavano nel mondo latino con nomi che rendevano in modo molto preciso il loro contenuto essenziale, cioè il dono dell'amore misericordioso da parte del Salvatore: l'imago pietatis, la misericordia Domini (Ringbom, 1969, pp. 161-162; Verdier, 1975, pp. 82-83 n. 37; Belting, 1981, pp. 18, 281-288). Il tema dell'amore di Dio redentore per la sua creatura si esprimeva anche in altre antiche denominazioni: Dio Padre che tiene tra le braccia il corpo del Figlio morto o pitié-de-nostre-Seigneur e la pietà o imago beatae Mariae Virginis de pietate. Fin dai tempi di Bernardo di Chiaravalle (Sermones super Cantica Canticorum, VIII, 5), Alberto Magno (m. nel 1280; De adhaerendo Deo, 9) e Tommaso d'Aquino (1225/1226-1274; Summa theol., II, 2, 45, 2), il cristianesimo considerava l'amore come l'unico fondamento dell'unione del credente con il suo Creatore. L'amore di Dio trasforma l'anima e ne fa scaturire la stessa affezione che ritorna, allora, alla sua unica fonte e causa.Le nuove immagini, pur essendo inizialmente utilizzate nell'arredo liturgico, nella miniatura e nella pittura murale, rimanevano tuttavia il nucleo centrale del repertorio tematico delle opere destinate alla devozione privata. La definizione di Panofsky, riferita a queste nuove rappresentazioni utilizzate nelle pratiche religiose individuali, è sempre attuale. Essa sottolinea in particolare che nelle f. devozionali si fondono il carattere storico e terreno dell'umanità del Salvatore e la dimensione atemporale della sua opera. Questo tratto specifico permette di riconoscere nelle f. devozionali un fenomeno profondamente radicato nell'idea essenziale della pedagogia della Chiesa. Fin dal tempo degli apostoli, l'insegnamento cristiano era centrato sul dogma di Dio incarnato che ha salvato l'uomo con la sua morte. La vita 'terrena' di Cristo, appena accennata dai vangeli, restava in secondo piano rispetto ai grandi temi della catechesi. Viste sotto questo aspetto, le f. devozionali, e specialmente quelle più importanti, come l'imago pietatis e la pietà, trasmettevano il dogma nella sua essenza. Tale aspetto del loro messaggio è già stato più volte osservato (Mâle, 1908; Benz, 1934, p. 41; Dobrzeniecki, 1967b; 1971a; Suckale, 1977, p. 179; van Os, 1978, p. 73). La materia narrativa del vangelo era sullo sfondo o non costituiva che un pretesto. La rappresentazione rivelava direttamente le verità fondamentali della fede relative all'incarnazione e alla morte del Salvatore o addirittura riuniva i due temi (pietà). Certo, questi dogmi erano già da lungo tempo soggetto di diverse formule iconografiche, ma solo nel Tardo Medioevo il credente poteva avvicinarle veramente attraverso un tipo di meditazione capace di suscitare la compassione, riscoprendo nel Dio incarnato la propria natura umana, che fu la sua. Si verificò così l'incontro della società con la soteriologia, fenomeno che non ha equivalenti in tutta la storia del cristianesimo.

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