CANNES, Festival di

Enciclopedia del Cinema (2003)

Cannes, Festival di

Ettore Zocaro
Bruno Roberti

Il Festival international du film di Cannes, uno dei festival cinematografici più famosi nel mondo, è riuscito negli anni ad affermare il proprio prestigio coniugando le ragioni dell'arte e quelle dell'industria e del mercato; esso è divenuto così non solo osservatorio privilegiato delle tendenze cinematografiche, vetrina ambita dalle produzioni e dai registi sia per il grande film spettacolare sia per il cinema d'autore, ma anche grande apparato mediatico, cassa di risonanza per il lancio e la promozione delle produzioni, passerella di divi e luogo di mondanità per il jet-set e per le élites culturali. Nello spirito dell'articolo 1 del suo statuto, il F. di C. si è proposto fin dall'inizio di "valorizzare le opere di qualità", e di "favorire lo sviluppo dell'industria del film nel mondo". Questo doppio binario, di attenzione alla qualità artistica e di impulso all'aspetto industriale e spettacolare del prodotto cinematografico, ha caratterizzato la manifestazione non solo come una galleria di film importanti, ma anche come momento d'incontro professionale dove i produttori e i compratori di tutto il mondo hanno trovato l'occasione privilegiata per promuovere i loro progetti.

Il Festival, con sede nell'importante località della Costa Azzurra, ebbe una prima edizione nel 1939, quasi in risposta al 'caso' politico-culturale scoppiato l'anno precedente alla Mostra del cinema di Venezia, già allora prestigioso appuntamento dell'arte cinematografica: La grande illusion (1937; La grande illusione), uno dei capolavori di Jean Renoir, era stato accusato dai gerarchi fascisti di pacifismo ed escluso dalla premiazione. In ossequio all'asse Roma-Berlino erano stati premiati invece film 'allineati' o addirittura propagandistici come il documentario Olympia (1936-1938) di Leni Riefenstahl e Luciano Serra pilota (1938) di Goffredo Alessandrini. La delegazione francese si era polemicamente ritirata dal Lido.

Già nel 1937, del resto, la manifestazione cinematografica che si era svolta all'interno dell'Esposizione universale di Parigi aveva indicato le potenzialità ‒ dal punto di vista commerciale e da quello del prestigio della cultura nazionale ‒ di una competizione che mettesse in lizza il cinema di diversi Paesi, come accadeva appunto alla Mostra di Venezia. La Francia decise così di dar vita a un suo festival nazionale: lo Stato stanziò dei fondi cui si aggiunsero quelli della città di Cannes e di altre istituzioni locali. L'iniziativa, che trovò immediatamente la solidarietà del cinema della Gran Bretagna e degli Stati Uniti, fu presentata con uno statuto atto a "incoraggiare lo sviluppo dell'arte cinematografica in tutte le sue forme" e a "creare e mantenere uno spirito di emulazione e di cooperazione tra i produttori di film di tutti i Paesi". Louis Lumière, padre del cinema, accettò la carica di presidente onorario. L'avvio fu sfortunato, perché nel 1939 la situazione internazionale s'aggravò e lo scoppio della guerra coincise proprio con l'apertura del Festival (le proiezioni erano in programma dal 1° al 20 settembre nei locali del Casinò). Repentina la sospensione, con rinvio sine die, dell'intero progetto.

Fin da questa prima edizione, tuttavia, si rivelò lo 'stile' del Festival: la grandeur, la mondanità, gli interessi turistici in gioco, le smaglianti parate di star (la Metro Goldwin Mayer aveva addirittura noleggiato un transa-tlantico per i suoi divi del momento, da Tyrone Power a Gary Cooper a Norma Shearer), le feste nelle ville sul mare e nei palazzi sulla Croisette (la strada che diventerà emblema della passerella dei divi presenti al Festival).

Nel 1945, su impulso dell'Association française d'action artistique, istituzione posta sotto l'egida del Ministère de l'Éducation nationale, del Ministère des Affaires étrangères, nonché del Centre national de la cinématographie, il nuovo organismo di Stato preposto all'industria del film, il F. di C. assunse una veste ufficiale e una cadenza regolare. Si sarebbe svolto ogni anno (con sospensione nel 1948 e nel 1950, sia per problemi di finanziamento sia per accordi della comunità internazionale dei produttori, e poi con interruzione nel 1968, un'edizione travolta dalla contestazione del Maggio francese) per due settimane (dapprima venne organizzato a settembre e poi, dal 1951, in primavera tra aprile e maggio), configurandosi presto come l'appuntamento più atteso dal pubblico e dagli addetti ai lavori per misurare 'lo stato delle cose' delle annate cinematografiche. Ed effettivamente, attraverso le edizioni del F. di C. è possibile leggere, di decennio in decennio, l'evoluzione del cinema tanto nei suoi aspetti artistici, quanto in quelli industriali e di costume.

Anni Quaranta

Il Festival risorse a fine conflitto, nel 1946, con svolgimento dal 20 settembre al 5 ottobre. Diretto da Philippe Erlanger assistito da Robert Favre le Bret, ebbe la sua prima edizione regolare nei locali del Casinò, in attesa di passare, nelle edizioni successive, a quello che per molti anni sarebbe stato il suo epicentro, il Palais de la Croisette che, fino al 1983, quando fu sostituito da una nuova e più ampia costruzione, fu la sede di premiazioni, gala, bagni di folla. La giuria era composta da 18 elementi, tra critici, cineasti e produttori, rappresentanti ciascuno una nazione partecipante. Il Consiglio di amministrazione dell'Association française d'action artistique aveva la prerogativa di invitare al Festival le diverse nazioni, cui spettava invece di selezionare i propri film da presentare. Il Grand prix du Festival veniva assegnato a 11 film di altrettante nazioni partecipanti, mentre il Prix du jury international era destinato a un solo film. Già nel 1947 però il regolamento subì una radicale modifica, sia nella formazione dei premi sia nella loro assegnazione. La giuria infatti acquistò carattere nazionale e si procedette all'attribuzione dei riconoscimenti sulla base di sei generi e tipologie cinematografici: film psicologici e d'amore, film d'avventura e polizieschi, film sociali, commedie musicali, disegni animati, documentari.

Negli anni Quaranta sulla Croisette passeggiavano Jean-Paul Sartre ed Elsa Maxwell, la giornalista più 'pettegola' di Hollywood che teneva le fila della mondanità, nei tanti ricevimenti si incontravano la duchessa di Windsor e l'Aga Khan, mentre i divi presenti si chia- mavano Edward G. Robinson, Ray Milland, Michèle Morgan. Ma la mondanità non faceva dimenticare l'Europa in macerie uscita dalla guerra e sugli schermi del Festival la Resistenza, la lotta al nazifascismo, le luci e le ombre della distruzione e della ricostruzione, le ferite sanguinose del secondo conflitto mondiale erano gli scenari attualissimi di una nuova visione cinematografica che nasceva in quegli anni, cui il cinema italiano contribuì in modo decisivo con lo stile che fu definito neorealista. Se uno dei Grand prix della prima edizione del dopoguerra fu attribuito a Roma città aperta (1945) di Roberto Rossellini, che avrebbe segnato una svolta nella storia del cinema mostrando l'avvento di uno sguardo nuovo sulla realtà, la stessa attenzione verso un cinema 'in presa diretta' sull'attualità la si riscontrò con i ricorrenti premi ai primi film di un cineasta come René Clément, caratterizzati da una visione cruda e 'documentaristica' della Seconda guerra mondiale: nel 1946 il premio della giuria e quello per la regia a La bataille du rail (Operazione Apfelkern), che raccontava un episodio resistenziale con una cifra da cinema verità; nel 1947 il premio per il film d'avventura e poliziesco a Les maudits (I maledetti), claustrofobico racconto di un episodio bellico in un sottomarino tedesco; nel 1949, infine, il doppio riconoscimento alla regia e all'interpretazione (all'italiana Isa Miranda) ad Au-delà des grilles (Le mura di Malapaga) dove, sullo sfondo dei carrugi genovesi, si coniugava il realismo 'poetico' francese con il piglio del nascente Neorealismo italiano (alla scrittura del film collaborarono anche Suso Cecchi d'Amico e Cesare Zavattini). Nello stesso anno il Grand prix al film di Carol Reed The third man (Il terzo uomo) che, dalle macerie viennesi, tracciava un ritratto inquietante e notturno dell'Europa del secondo dopoguerra, confermò l'attenzione della giuria (presidente d'onore era lo scrittore Jules Romains) ai temi della condizione sociale ed esistenziale dell'umanità, appena uscita dagli orrori della Seconda guerra mondiale.

Anni Cinquanta

Gli anni Cinquanta del Festival si aprirono con la consacrazione della 'scuola italiana': la giuria dell'edizione 1951, presieduta da un intellettuale prestigioso come André Maurois, non solo assegnò il massimo premio a Miracolo a Milano di Vittorio De Sica, ex aequo con lo svedese Fröken Julie (La notte del piacere) di Alf Sjöberg, ma istituì per l'occasione un premio speciale all'intera selezione italiana del Festival (erano in concorso Il cammino della speranza di Pietro Germi, Napoli milionaria di Eduardo de Filippo, entrambi del 1950, e l'unica opera cinematografica dello scrittore Curzio Malaparte, Il Cristo proibito, del 1951). Già nell'edizione precedente la debuttante Silvana Mangano, mondina nella risaia raccontata da Giuseppe De Santis in Riso amaro (1949), fu salutata dalla stampa presente a Cannes come la 'Rita Hayworth italiana', e per tutto il decennio l'immagine dell'Italia, il suo paesaggio umano fatto di contadini, emigranti, reduci di guerra, ingenue prostitute, povera gente, vicoli napoletani o nebbie milanesi e paludi padane si impose sugli schermi del Festival e raccolse numerosi riconoscimenti.

All'edizione del 1952 presero parte 29 Paesi. In giuria si notavano i nomi dell'autorevole critico Louis Chauvet e di scrittori come Raymond Queneau e Charles Vildrac. L'Italia, che presentò una selezione agguerrita (tra gli altri, Guardie e ladri, del 1951, di Steno e Mario Monicelli, Il cappotto di Alberto Lattuada, Umberto D. di De Sica) vinse per il secondo anno di seguito con Due soldi di speranza di Renato Castellani, ex aequo con Othello (Otello) di Orson Welles. Nello stesso anno Piero Tellini vinse un premio per la sceneggiatura di Guardie e ladri. Nell'edizione del 1954, affollata da rappresentanti del cinema italiano, furono premiati Carosello napoletano di Ettore Giannini e Cronache di poveri amanti di Carlo Lizzani; l'anno dopo L'oro di Napoli (1954) di De Sica, in concorso per l'Italia, fu apprezzato da critica e pubblico. Nel 1957 Giulietta Masina fu consacrata miglior attrice per Le notti di Cabiria di Federico Fellini e nel 1958 Pier Paolo Pasolini, con Massimo Franciosa e Pasquale Festa Campanile, ritirò il premio per la miglior sceneggiatura di Giovani mariti di Mauro Bolognini: tutti film che indicavano come la ventata neoreali-sta si fosse nel frattempo stemperata nella commedia di costume o si fosse colorata di sentimentalismo 'rosa', preannunciando la grande stagione della commedia all'italiana. Il F. di C. non mancò di riconoscere le potenzialità di questo mutamento.

Anche il documentarismo italiano trovò posto tra i premi del Festival: nel 1955 un riconoscimento speciale andò a Continente perduto di Leonardo Bonzi, Mario Craveri, Enrico Gras, Francesco Lavagnino e Giorgio Moser "per la bellezza e la poesia delle immagini e l'efficace uso del sonoro". Del resto la grande originalità del nuovo documentarismo fu una delle scoperte di quegli anni: nel 1956 i massimi riconoscimenti andarono a Le monde du silence (1955; Il mondo del silenzio) di Jacques-Yves Cousteau, cui collaborò il giovane Louis Malle, e al documentario d'arte Le mystère Picasso (Il mistero Picasso) di Henri-Georges Clouzot, il cui stile, sintesi della ruvidezza neorealista 'all'italiana' e dell'asciuttezza del film d'azione americano, era stato già valorizzato nel 1953 con il Grand prix al crudo Le salaire de la peur (Vite vendute); nel 1957 nella selezione francese si distinse la novità di linguaggio di un documentario come Toute la mémoire du monde di Alain Resnais.

Scoperte del decennio furono le cinematografie degli altri continenti ‒ il cinema asiatico, quello brasiliano ‒ mentre si evidenziò la nascita di un cinema russo del 'disgelo', dopo la cappa retorica dell'era staliniana. Nel 1954 vinse il Giappone che, dopo il successo a Venezia nel 1951 di Rashōmon (1950; Rashomon) di Kurosawa Akira, si confermava così nuova importante forza del cinema mondiale: Jigokumon (1953; La porta dell'inferno) di Kinugasa Teinosuke si aggiudicò il Grand prix. Nell'edizione del 1956 si rivelò lo straordinario talento dell'indiano Satyajit Ray con Pather panchali (1955; Il lamento sul sentiero). Nel 1953 lasciò il segno guadagnandosi un premio il brasiliano O Cangaceiro (O' Cangaceiro ‒ Il brigante) di Lima Barreto, venduto in tutto il mondo come forse mai prima era avvenuto per un film dei Tropici, e nel 1959 clamorosamente ebbe il massimo premio un autentico outsider realizzato ancora in Brasile, Orfeu negro (Orfeo negro) di Marcel Camus. Nel 1958 aveva vinto un film russo tenero e sommesso, lontano dalla retorica staliniana, Letjat žuravli (Quando volano le cicogne) diretto da Michail K. Kalatozov, "per l'insieme delle qualità artistiche e umane e per l'eccezionale interpretazione di Tat′jana Samojlova".

Una personalità carismatica come quella di Jean Cocteau, con il suo gusto eclettico di artista-scrittore-cineasta e la sua curiosità per il nuovo e l'esotico, caratterizzò le scoperte delle giurie di quegli anni (ne fece parte nelle edizioni del 1953, 1954 e 1957). Nel 1952 era apparso l'astro di Marlon Brando, miglior attore in Viva Zapata! di Elia Kazan, mentre nel 1953, con Les vacances de Monsieur Hulot (Le vacanze di Monsieur Hulot), il talento funambolico dell'attore-regista Jacques Tati fu paragonato dai critici per sottigliezza e poesia a quello di Charlie Chaplin: la consacrazione definitiva giunse nel 1958 con il premio della giuria a Mon oncle (Mio zio). Un altro segnale di apertura e di prospettive future fu in questo decennio la presenza tra i film premiati di opere coprodotte dal nuovo mezzo televisivo, prima, nel 1952, con il Grand prix du Festival al cortometraggio olandese destinato al piccolo schermo, Het shot is te boord (Gettiamo l'esca) di Herman van der Horst, poi con l'assegnazione del massimo premio nell'edizione del 1955 a Marty (Marty, vita di un timido) di Delbert Mann, premio cui furono accomunati lo scrittore di teleplay Paddy Chayefsky e gli attori Ernest Borgnine e Betsy Blair.

Ma gli anni Cinquanta videro anche il F. di C. premiare più volte il genio di tre maestri di un cinema dell'anima, dell'inconscio, dell'etica: tre registi diversamente 'religiosi' come Ingmar Bergman, Robert Bresson e Luis Buñuel, che nel 1954 fu in giuria con il critico André Bazin e lo sceneggiatore Jean Aurenche.

Nel 1952 Favre le Bret era succeduto a Erlanger e a Jean Touzet come Délégué général del Festival; nel 1955 il Grand prix si era mutato in Palme d'or, mentre l'insieme dei premi era chiamato palmarès. Dopo sette edizioni la formula del Festival, che univa con equilibrio arte e industria, era ormai universalmente riconosciuta, tanto che il numero delle nazioni partecipanti salì a 36 e il numero dei film ufficiali a 44. La giuria nel 1955 divenne internazionale e a presiederla fu chiamato lo scrittore, commediografo e regista Marcel Pagnol, accademico di Francia. Tra i membri, Marcel Achard, lo spagnolo Juan Antonio Bardem, il russo Sergej I. Jutkevič. Nel 1957 sedevano in giuria cinque accademici di Francia, Jean Cocteau, Maurice Genevoix, André Maurois, Marcel Pagnol, Jules Romains.

Tra le novità del 1957 la partecipazione delle due Repubbliche tedesche, evento più politico che artistico. L'anno precedente era scoppiato un caso intorno al film della RFT Himmel ohne Sterne (1955; Cielo senza stelle) di Helmut Käutner, selezionato e poi ritirato dal Festival per ragioni di diplomazia nei confronti della delegazione dell'URSS e dei Paesi dell'Est, dato che il film raccontava con toni critici il clima della guerra fredda; la vicenda indusse comunque la delegazione della RDT a ritirarsi dalla manifestazione. Nello stesso anno si era aggiunta una polemica da parte della RFT che, con un atto di censura preventiva, fece pressione perché il documentario di A. Resnais Nuit et brouillard (1955; Notte e nebbia), durissimo atto di denuncia degli orrori dell'olocausto e dei campi di concentramento, fosse cancellato dalla selezione francese; ne derivò uno scandalo, e il film fu proiettato fuori concorso.

Nel 1959 il Marché international du film, un vero e proprio mercato che si svolgeva nelle salette di Rue d'Antibes, in cui si proiettavano film a latere del Festival e se ne trattavano i diritti, assurse all'ufficialità di manifestazione collaterale, complemento essenziale per definire ogni anno il quadro generale dell'industria del film e fondamentale punto d'incontro per agenti, operatori economici, distributori, delegati ufficiali delle cinematografie di tutto il mondo. Sul versante del concorso fu apprezzato Jiří Trnka, famoso marionettista ceco, che presentava Sen noci svatojánské (Il sogno di una notte d'estate), esaltato da Cocteau come "sublimazione dell'Eden, regno dell'infanzia e della poesia". A. Malraux, ministro degli affari culturali, assistette alla giornata di chiusura, durante la quale fragorosi applausi accolsero François Truffaut, premiato per la regia della sua opera d'esordio dietro la macchina da presa, Les 400 coups (I quattrocento colpi), un successo che spianò la strada alla generazione della Nouvelle vague. Significativo fu anche il premio alla sceneggiatura di Hiroshima mon amour, diretto da Resnais, che vide in quell'anno accomunati il regista e Marguerite Duras, protagonisti del rinnovamento di linguaggio filmico e letterario del decennio a venire.

Anni Sessanta

Gli anni Sessanta videro al F. di C. una serie di consacrazioni e celebrazioni: nel 1966 il premio speciale del ventennale fu attribuito a Orson Welles, mentre nel 1964 era stata indetta una festa per i cento anni di Louis Lumière, con una rassegna dei suoi film a cura della Cinémathèque française. In quello stesso anno la giuria, presieduta dal regista Fritz Lang, aveva reso omaggio al polacco Pasażerka (1963; La passeggera), opera rimasta incompiuta a causa della morte del suo autore Andrzej Munk, nella quale si evoca un tema tragico per la coscienza contemporanea: il rapporto tra la vittima e il suo torturatore.

Il Festival non mancò tuttavia di cogliere il profondo rinnovamento del linguaggio cinematografico che in quegli anni, a partire dalla Nouvelle vague francese, si stava diffondendo nelle nuove tendenze delle altre cinematografie. Ormai chiusa la stagione neorealista in Italia, il campione della ricerca di una nuova struttura cinematografica formalmente astratta e attenta, nei temi, al disagio e all'incomunicabilità della società industriale, fu il cinema di Michelangelo Antonioni. E proprio Antonioni fu uno dei nomi ricorrenti nei palmarès del Festival durante il decennio. A cominciare dal premio guadagnato da L'avventura nel 1960, "per il notevole contributo alla ricerca di un nuovo linguaggio cinematografico"; poi, nel 1962 con il premio speciale della giuria a L'eclisse, fino alla Palma d'oro attribuita nel 1967 a Blow-up, attenta riflessione sui mutamenti della sensibilità giovanile alla vigilia del Sessantotto. Ma il Festival non mancò di segnalare numerosi altri giovani autori che sarebbero stati protagonisti del 'nuovo cinema' degli anni successivi. Si varò nel 1962 la prima edizione della Semaine internationale de la critique, sezione collaterale del Festival, sostenuta dallo storico e critico Georges Sadoul, che l'avrebbe poi coordinata per molti anni; vi era presentata una decina di film (obbligatoriamente prima o seconda opera di giovani autori) con un carattere sperimentale o di ricerca. Fu nell'ambito di questa nuova sezione che venne notato e apprezzato il giovane Bernardo Bertolucci per Prima della rivoluzione (1964). Sulla ribalta più ufficiale l'attenzione al nuovo cinema si confermava di anno in anno con riconoscimenti al cinema brasiliano, a quello giapponese, e soprattutto al Free Cinema inglese, le cui caustiche e irridenti denunce del perbenismo dominante nella società britannica furono spesso premiate (nel 1965 The knack, Non tutti ce l'hanno, di Richard Lester, e nel 1969 If…, 1968, Se…, di Lindsay Anderson) insieme alla nuova generazione di attori inglesi interpreti della ribellione giovanile di quegli anni (Rita Tushingham e Murray Melvin, Richard Harris, Vanessa Redgrave); mentre i premi Fipresci della critica internazionale segnalarono giovani registi che sarebbero diventati importanti come Chris Marker nel 1963, Volker Schlöndorff nel 1966, Glauber Rocha nel 1967 e Andrej A. Tarkovskij nel 1969.

Il cinema italiano, che stava vivendo in quegli anni una stagione di prestigio e di impulso anche commerciale, aveva aperto il decennio con la consacrazione di F. Fellini e del suo La dolce vita, che vinse la Palma d'oro nel 1960, quando presidente della giuria era lo scrittore Georges Simenon. Sophia Loren si mise in luce spesso alla manifestazione, come migliore attrice del 1961 per La ciociara (1960) di V. De Sica, e fu presidente della giuria che nel 1966 assegnò una menzione speciale a Totò per l'interpretazione di Uccellacci e uccellini di P.P. Pasolini. Gli italiani del resto erano chiamati spesso a far parte delle giurie: Alessandro Blasetti fu presidente per l'edizione del 1967, Luchino Visconti (che con Il Gattopardo aveva vinto la Palma d'oro nel 1963) per quella del 1969.

Se il cinema italiano di quegli anni, oltre alle grandi personalità prontamente canonizzate dal Festival come Fellini, Visconti o Antonioni, vedeva trionfare presso il pubblico e la critica la formula della 'commedia all'italiana', la cui analisi del costume veniva inserita in un contesto satirico, nel cinema francese alcuni autori presentavano film che rileggevano le convenzioni dei generi classici del cinema americano. Le giurie del Festival premiarono con la Palma d'oro film come Les parapluies de Cherbourg (1963) di Jacques Demy nel 1964, che richiamava gli stilemi del musical americano, e Un homme et une femme (Un uomo, una donna) di Claude Lelouch nel 1966 (ex aequo con Signore & signori di P. Germi) che riprendeva il linguaggio del melodramma sentimentale. Il successo del Festival cresceva enormemente di anno in anno. Nel 1967 si raggiunse il record di afflusso con 5000 presenze, 500 in più dell'anno precedente, 1000 in più di due anni prima.

Ma la contestazione giovanile era alle porte e il Maggio francese fu uno dei suoi momenti più significativi: i cineasti non mancarono di essere a fianco di studenti e operai per le strade di Parigi. Tutto ciò arrivò come una ventata rivoluzionaria sul F. di C., sulla pomposità ac-cademica dei suoi rituali, sulla mondanità fatua della sua cornice. Nel 1968, sotto la pressione dei registi F. Truffaut, Louis Malle, Claude Berri, C. Lelouch, Jean-Gabriel Albicocco, che avevano formato un comitato di protesta, un gruppo di manifestanti occupò la sala del Palais. Il Festival venne chiuso. "È impensabile ‒ dichiarava Truffaut ‒ che mentre tutto il mondo è in ebollizione noi stiamo qui a vedere dei film". La rassegna riprese nel 1969 con in competizione 30 film di 17 Paesi e l'istituzione della Quinzaine des réalisateurs, una nuova sezione parallela gestita da un comitato di cineasti che, su invito della Société des réalisateurs des films (fondata nel 1968), accomunava opere d'autore con pluralità di formato, di lunghezza e di generi. Lo spirito del Sessantotto non mancò di farsi sentire attraverso Easy rider (Easy rider ‒ Libertà e paura) di Dennis Hopper, e il nuovo clima che animava il cinema internazionale trovò riscontro nei premi che esaltarono opere come l'inglese If…, lo svedese Ådalen '31 (Adalen '31) di Bo Widerberg, il francese Z (1968; Z ‒ L'orgia del potere) di Costa-Gavras, il brasiliano O dragâo da maldade contra o santo guerreiro (Antonio Das Mortes) di G. Rocha, tutti film di denuncia percorsi da un'acre critica al potere.

Anni Settanta

Gli anni Settanta videro affermarsi alla ribalta del Festival una tendenza che rinnovava, produttivamente e artisticamente, il cinema americano, e che fu conosciuta come 'Nuova Hollywood'; al suo interno si misero in luce cineasti di genio come Robert Altman e Martin Scorsese, insieme a registi-produttori come Steven Spielberg e Francis Ford Coppola. Il decennio si aprì e si chiuse con i massimi riconoscimenti a due film che fecero storia, M*A*S*H (M.A.S.H.) di Altman, Palma d'oro nel 1970, e Apocalypse now di Coppola, Palma d'oro nel 1979. Entrambi i film tracciavano ‒ il primo con spirito sarcastico e anticonformistico e il secondo con spirito epico e visionario ‒ una critica al militarismo e alla follia della guerra e segnarono una svolta nel modello espressivo e produttivo del cinema americano. In particolare, la presentazione di una copia ancora non finita, sotto forma di work in progress, di Apoca-lypse now fu a tal punto memorabile che in seguito, nell'edizione del 2001, uno degli eventi più attesi è stata la proiezione del film con la reintegrazione di numerose scene inedite non montate. Lo stesso Coppola era stato insignito del massimo premio nel 1974 da una giuria presieduta da René Clair per The conversation (La conversazione). Il nuovo cinema americano si impose in varie edizioni del Festival: nel 1973 con la Palma a Scarecrow (Lo spaventapasseri) di Jerry Schatzberg, nel 1976 con la Palma a Taxi driver di Scorsese, e infine nel 1979 con il premio alla regia a Days of heaven (1978; I giorni del cielo), lavoro di un cineasta appartato come Terrence Malick, autore di pochi film tutti caratterizzati da una visione icastica e allucinata dei miti americani.

L'Italia intanto si confermava fucina di buoni attori portando al traguardo le interpretazioni di Ottavia Piccolo, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Giancarlo Giannini, Riccardo Cucciolla. Nel 1970 un film ferocemente critico verso gli apparati di potere come Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri guadagnò il premio speciale della giuria, mentre nel 1972 il massimo premio fu attribuito a Il caso Mattei di Francesco Rosi ex aequo con La classe operaia va in Paradiso (1971) di Petri, tutti interpretati da Gian Maria Volonté. In Italia gli anni Settanta videro infatti affermarsi, anche presso il pubblico, un nuovo cinema di impegno politico, rappresentato appunto da Rosi, Petri e, con sfumature più satiriche, da Ettore Scola e Marco Ferreri: la critica francese amava molto questi cineasti, che in Italia invece non mancavano di suscitare polemiche, e il F. di C. attribuì loro numerosi premi e riconoscimenti. Significativo fu anche il premio speciale della giuria, conferito nel 1974, per Il fiore delle Mille e una notte, a un intellettuale, scrittore e cineasta, in quel periodo più che mai impegnato a denunciare la corruzione del potere, come P.P. Pasolini. Una giuria presieduta da R. Rossellini assegnò la Palma d'oro nel 1977 a Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani, mentre l'anno successivo lo stesso premio andò a L'albero degli zoccoli di Ermanno Olmi; due film che mettevano in scena la vita degli umili, la civiltà contadina della Pianura Padana e la condizione dei pastori sardi, eleggendo ancora una volta la macchina da presa a testimone di un paesaggio umano e antropologico tenuto ai margini.

Negli stessi anni si affermava anche in Germania una nuova generazione di registi ‒ Rainer Werner Fass-binder, Werner Herzog, Wim Wenders, Alexander Kluge, Volker Schlöndorff ‒ le cui opere furono prontamente riconosciute dalle giurie del Festival. Ma anche cineasti francesi come Jean Eustache ed Eric Rohmer, il cui lavoro si era col tempo emancipato dalle 'regole' della Nouvelle vague per assumere una fisionomia personale, trovarono in questi anni al F. di C. un riconoscimento non tardivo. E il cinema dei Paesi dell'Est viveva anch'esso un forte rinnovamento segnato da un realismo politico crudo e amaro, valorizzato a sua volta dalle varie sezioni del Festival.

Nel 1972 divenne direttore del Festival Maurice Bessy che, insieme al presidente R. Favre le Bret e al Consiglio di amministrazione, modificò una regola fondamentale: i film non furono più scelti dai delegati dei Paesi d'origine, ma da una commissione di selezione nominata ogni anno. Una decisione, questa, che segnò un cambiamento generale nel modo di organizzare i festival cinematografici. Nuove sezioni fuori concorso vennero create dall'attivissimo Bessy: Le perspectives du cinéma français, per dare spazio alle novità del Paese che ospitava il Festival, e poi Les yeux fertiles, L'air du temps, Le passé composé. Nel 1978 Gilles Jacob sostituì Bessy e raggruppò le sezioni non competitive in una nuova sezione, Un certain regard, mentre veniva istituito dal sindacato delle industrie tecniche il premio Caméra d'or, destinato a un'opera prima. Venne riservata alle cineaste una sezione speciale denominata No man's land, in cui si distinsero autrici come Jacqueline Audry, Nina Companeez, Paula Delsol, Nelly Kaplan, Nicole Stephane. Con titoli fantasiosi si veniva a delineare così nel grande contenitore del Festival, un mosaico di percorsi e rassegne che fu ben presto imitato dagli altri festival internazionali.

Gli anni Settanta furono per il F. di C. un periodo in cui il prestigio degli autori presenti ‒ sicuri di trovare nella manifestazione l'occasione di un'eco internazionale ‒ si univa alla capacità di individuare nuove tendenze e di accompagnare il rinnovamento dei linguaggi cinematografici, senza dimenticare per questo il lato spettacolare più amato dal grande pubblico. Una platea entusiasta accolse nel 1971 Charlie Chaplin che ricevette la Legion d'honneur "per i servizi resi all'arte cinematografica". Nello stesso anno L. Visconti vinse con Morte a Venezia il premio del 25° anniversario, messo in palio dal Festival per autocelebrarsi. Mondanità e attenzione alla ricerca espressiva non isolarono tuttavia la manifestazione dalle grandi questioni politico-sociali del periodo: nel 1975 l'esplosione di una bomba al plastico causò seri danni alla facciata del Palais, ma non ebbe conseguenze sui programmi. Nel 1976 la celebrazione del musical di Hollywood alla presenza di alcuni dei suoi famosi artefici (Gene Kelly, Fred Astaire, Leslie Caron, Debbie Reynolds, Cyd Charisse) fu turbata dal ritiro dell'URSS, motivato dall'esclusione dalla competizione dei suoi film. I rappresentanti sovietici accusarono il Festival di "snobismo estetico" e di "discriminazione".

Anni Ottanta

Nel 1980 Michel Bonnet fu nominato, con Marcel Lathière, segretario generale e direttore delegato del Marché international du film. Nello stesso anno il numero dei film del Marché cresceva smisuratamente raggiungendo le 500 opere, con una folta presenza di produttori indipendenti. Nel 1981 furono battuti di nuovo i record di affluenza: 20.000 partecipanti accreditati e 2500 giornalisti. Era la grande ‒ un po' ipertrofica ‒ festa del cinema mondiale, in attesa del nuovo immenso Palais in corso di costruzione. In competizione fece effetto Heaven's gate (1980; I cancelli del cielo), il discusso film di Michael Cimino osteggiato negli Stati Uniti. Vinse la Palma d'oro Człowiek z żelaża (L'uomo di ferro) di Andrzej Wajda, espressione artisticamente elevata di un momento particolarmente importante per la Polonia e per il suo popolo; si salutò quell'anno anche il ritorno del regista portoghese Manoel de Oliveira, che ottenne con Francisca un consenso unanime. J. Lang, ministro francese della Cultura, inaugurò l'edizione del 1982. Giorgio Strehler, prestigioso regista di teatro da sempre affascinato dal cinema, presiedeva una giuria di cui faceva parte anche lo scrittore Gabriel Garcia Marquez, anch'egli tentato più volte dalla macchina da presa e con un passato di studente di cinema, proprio in Italia. Entusiasmò Yol (1981), durissimo atto d'accusa sulla condizione politica della Turchia, realizzato dal curdo Yılmaz Güney e da Şerif Gören: Güney, condannato a sette anni per reato di opinione ed evaso dalla prigione turca, riuscì a raggiungere Cannes per presentare il suo film. Yol vinse la Palma insieme a Missing (Missing ‒ Scomparso) di Costa-Gavras, altro film impegnato sul fronte politico-umanitario.

Da un lato dunque, negli anni Ottanta dominati dall'edonismo e dalla grande industria dello spettacolo, il F. di C. non mancò di andare controcorrente, diventando cassa di risonanza di battaglie per i diritti umani e politici, come accadde per Güney e per Wajda, ma indice di tale atteggiamento fu anche l'attenzione dedicata a un cineasta come Ken Loach, impegnato in modo radicale sul piano politico, che nel 1981 si impose all'attenzione con Looks and smiles (Uno sguardo, un sorriso); dall'altro tuttavia il Festival accentuò in questi anni il gigantismo e la tendenza alla parata spettacolare, privilegiando questi aspetti anche nell'assegnazione dei premi. Lo dimostrano le Palme d'oro attribuite nel 1980 al sontuoso Kagemusha (Kagemusha ‒ L'ombra del guerriero) di Kurosawa ex aequo con il musical americano di Bob Fosse All that jazz (1979; All that jazz ‒ Lo spettacolo continua), nel 1983 all'affascinante ma un po' accademico Narayama bushikō (La ballata di Narayama) di Imamura Shōhei, nel 1986 al magniloquente The Mission (Mission) di Roland Joffé. Sono anche anni di celebrazioni: per il suo quarantesimo anniversario il Festival celebrò sé stesso con un film di montaggio, Le cinéma dans les yeux, e pubblicò un volume commemorativo, Les années Cannes.

Nel 1984 Pierre Viot divenne presidente e coadiuva-to da Jacob potenziò le sezioni collaterali del Festival. Le cifre di quell'anno ne confermarono l'importanza: 60.000 spettatori per la Quinzaine, 16.000 per Perspectives du cinéma français, 15.000 per la Semaine de la critique, che festeggiò nel 1987 i suoi 25 anni.

Il cinema italiano continuò a essere insignito di premi, che si presentavano tuttavia come conferme o celebrazioni e non come scoperte, a parte il gran premio speciale ex aequo assegnato nel 1989 al giovane Giuseppe Tornatore per un film che peraltro si richiamava al cinema 'classico' con un piglio da grande spettacolo americano, Nuovo cinema Paradiso. Nel decennio emersero nuove personalità di cineasti, appartenenti ad altre cinematografie: anzitutto il bizzarro e scanzonato Emir Kusturica, che vinse nel 1985 la Palma d'oro per Otac na službenom putu (Papà è in viaggio d'affari) e nel 1989 il premio per la regia con il film Dom za vešanje (1988; Il tempo dei gitani); poi il regista africano Souleymane Cissé, premiato dalla giuria nel 1987 per l'ipnotico Yeelen (Yeelen ‒ La luce). Il cinema di cineasti appartati e indipendenti trovò in questi anni riconoscimenti (la discussa Palma d'oro nel 1987 a Maurice Pialat per il cupo Sous le soleil de Satan, Sotto il sole di Satana, o anche il premio conferito l'anno precedente all'austero Thérèse di Alain Cavalier), attribuiti anche a registi che hanno segnato il loro tempo con un cinema di pensiero spesso denso di implicazioni morali e filosofiche (W. Wenders, Krzysztof Kiéslowski, A. Tarkovskij). Il decennio si concluse con la scoperta di un giovanissimo cineasta statunitense che avrebbe fatto parlare di sé in seguito: Steven Soderbergh, vincitore nel 1989 con Sex, lies and video-tape (Sesso, bugie e videotape), messa a nudo delle miserie esistenziali contemporanee, film salutato come una rivelazione e apprezzato soprattutto dal presidente della giuria di quell'anno, Wenders.

Nello stesso 1989 fu organizzato, sullo sfondo della caduta del muro di Berlino, il primo incontro su Cinéma et liberté, chiamando a raccolta più di cento registi provenienti da tutto il mondo.

Anni Novanta

Negli anni Novanta le giurie del F. di C. sono state sempre più frequentemente presiedute da grandi autori (B. Bertolucci nel 1990, Roman Polanski nel 1991, L. Malle nel 1993, Clint Eastwood nel 1994, F.F. Coppola nel 1996, M. Scorsese nel 1998, David Cronenberg nel 1999, Luc Besson nel 2000), detentori di un'idea personale di cinema che ha inciso sui verdetti. L'esito complessivo è stato quello di mettere in evidenza le novità del panorama cinematografico, valorizzare cinematografie inedite (come quella africana o quella iraniana), difendere il cinema d'autore e di qualità. È da segnalare come in questi anni sia emersa proprio a Cannes una delle novità maggiori del decennio: la sperimentazione di nuovi linguaggi da parte dei registi scandinavi che si sono riconosciuti nel manifesto di Dogme 95, propugnatori di un cinema provocatorio e depurato da ogni effetto. L'iniziatore del movimento Lars von Trier, ammirato per il suo gusto dell'irriverenza sino al delirio, ha vinto nel 1991 un premio con l'angoscioso Europa, nel 1996 il Gran premio con il ruvido melodramma Breaking the waves (Le onde del destino), nel 2000 la Palma d'oro con Dancer in the dark, film di potente espressività che si avvale delle forme del vecchio musical hollywoodiano per una storia che si tramuta improvvisamente in tragedia. I film che più si richiamano alla crudezza del manifesto Dogme 95 non hanno mancato di suscitare interesse e rumore al Festival: nell'edizione del 1998 sono stati presentati Dogme 2 ‒ Idioterne (Idioti) di von Trier, che rasenta il porno, e Dogme 1 ‒ Festen (Festen ‒ Festa in famiglia) di Thomas Vintenberg, violentissimo psicodramma familiare premiato dalla giuria. Altri film avevano fatto scandalo nelle edizioni precedenti: nel 1996 Trainspotting di Danny Boyle, sull'uso delle droghe, aveva suscitato l'interesse del pubblico più giovane; nello stesso anno il premio speciale "per l'originalità, la sfida, l'audacia" era stato meritatamente vinto da Crash di Cronenberg, storia di sesso spinta fino al parossismo nei suoi rapporti con il fascino del pericolo e della morte. Gli anni Novanta hanno visto insomma la consacrazione di cineasti 'in odore di scandalo', il cui cinema predilige le dimensioni torbide e perverse, proprio a partire dall'edizione del 1990, quando vinse la Palma d'oro Wild at heart (Cuore selvaggio) di David Lynch. Ma anche l'affermazione di Quentin Tarantino nel 1994 con il suo stravagante Pulp fiction, percorso da un cinismo sarcastico e violento oltre che perfetto gioco di incastri e dialoghi paradossali, ha confermato l'affermarsi a Cannes in questo decennio di una generazione cinematografica di 'nuovi ribelli'. I fratelli Ethan e Joel Coen, Palma d'oro nel 1991 per Barton Fink (Barton Fink ‒ È successo a Hollywood), incubo visionario che racconta delle disavventure artistiche e professionali di un commediografo a Hollywood, sono stati consacrati proprio al Festival come i 'ragazzi terribili' dell'industria cinematografica statunitense. Anche il cinema inglese di autori come Mike Leigh e K. Loach è stato in questi anni al centro dei palmarès, connotandosi nella sua volontà di criticare aspramente tanto il tatcherismo quanto le ingiustizie e il disagio provocato dalla globalizzazione.

Il cinema italiano ha visto riconosciuto il talento di cineasti più giovani come Nanni Moretti, premio per la regia nel 1994 con Caro diario (1993) e Palma d'oro nel 2001 con l'emozionante La stanza del figlio, e Gianni Amelio, Gran premio speciale della giuria nel 1992 con Il ladro di bambini, intensa opera di taglio neorealista. Il cinema africano si è distinto con Tilai (Legge) di Idrissa Ouedraogo, opera rigorosa sul tema dell'onore e del crudele rispetto della legge, che ha vinto il Gran premio speciale della giuria nel 1990. Il cinema dell'estremo Oriente, che era passato inosservato nel 1990 con Ju Dou di Zhang Yimou, ha vinto la Palma d'oro ex aequo con Bawang bie ji (Addio mia concubina) di Chen Kaige nel 1993, ha ottenuto il Gran premio della giuria nel 2000 con Guizi laile (noto con il titolo Devils on the doorstep) di Jiang Wen, e, nello stesso anno, la consacrazione del talento immaginifico del regista di Hong Kong Wong Kar-Wai, con Huayang nianhua (noto con il titolo In the mood for love) e del taiwanese Edward Yang con Yi yi (1999; Yi yi ‒ e uno…e due…), premio per la regia. Nella sezione Un certain regard nel 1992 ha fatto parlare di sé la cinematografia iraniana con Zendegi edāme dārad (1990; E la vita continua) di Abbas Kiarostami, insignito poi, nel 1997, della Palma d'oro per Ta'm-e gilās (Il sapore della ciliegia). Jane Campion, la regista neozelandese che si era fatta notare anni prima al Festival per lo spirito anticonformista e la vena di accesa visionarietà del suo Sweetie, ha vinto nel 1993 la Palma d'oro con il film The piano (Lezioni di piano), splendido intreccio fra l'estasi della musica e il desiderio sessuale.

Il F. di C. ha consolidato negli anni il suo prestigio, la sua funzione di 'specchio' dell'evoluzione di tendenze cinematografiche, le caratteristiche di insostituibile termometro del mercato cinematografico mondiale, l'appeal di vetrina mondana per il lancio delle opere, degli autori e degli attori. A tutt'oggi, confermando queste sue peculiarità sul piano sia della cultura sia dell'industria del film, il F. di C. si configura come il festival cinematografico per eccellenza, sicuramente tra i più importanti e prestigiosi nel mondo.

Bibliografia

B. Fründt, B. Lepel, Traübe unter goldenen Palmen: der deutsche Film auf dem Internationalen Filmfestival in Cannes, Ebersberg 1987.

C. Beauchamp, H. Béhar, Hollywood on the Riviera: the inside story of the Cannes Film Festival, New York 1992.

J.-L.G. Siboun, F. Vidal, Cannes memoires: Festival international du film: 1946-1992, Montreuil 1992.

P. Billard, Le Festival de Cannes: d'or et de palmes, Paris 1997.

J.-C. Loiseau, G. Pangon, Cannes, 50 ans de Festival, in "Télérama", 1997, hors-série.

S. Toubiana, Cannes cinéma, cinquante ans de Festival vus par Traverso, Paris 1997.

Aux marches du Palais: Le Festival de Cannes sous le regard des sciences sociales, éd. E. Ethis, Paris 2001.

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