BENINI, Ferruccio

Enciclopedia Italiana (1930)

BENINI, Ferruccio

Silvio D'Amico

Attore italiano, figlio d'arte; nacque a Genova nel 1854. Suo padre Gaetano, bolognese, da studente aveva partecipato ai moti del 1831. Gaetano B. aveva sposato una fiorentina, Elena Tamberlicchi: da essa ebbe due figliuoli cui impose i nomi, attestanti la sua sempre viva passione nazionale, Italia e Ferruccio.

Ferruccio recitò per la prima volta, bambino ancora, l'anno 1866, nel teatro San Benedetto (ora Rossini) in Venezia appena liberata, appunto con una "battuta" patriottica, nel Medico condotto di R. Castelvecchio. Aveva da dire: "Roma dev'essere la capitale d'Italia"; e lo disse con tale accento, che il pubblico gl'improvvisò un'ovazione. Ma il primo "ruolo" importante definitivamente affidatogli fu, nel 1874, quello di "brillante", con cui esordì a Genova, in quel Teatro Balilla che, incendiato, fu poi ricostruito col nome di Teatro Alfieri. Durante le solite peregrinazioni della compagnia, un giorno accadde che fosse ascoltato da Cesare Rossi, il quale ne pregiò le note di dicitore fresco, gentile, umano, e gli offrì un posto fra i suoi attori. Il B. non credette d'accettare, per non lasciare i genitori e la sorella. Soltanto dopo la morte del padre, avvenuta a Savona nel 1888, si lasciò indurre a firmare una scrittura con Virginia Marini; ma subito dopo s'incontrò con un'offerta nuova, quella che doveva decidere di tutta la sua vita. Il commediografo Giacinto Gallina aveva pensato a lui per la compagnia veneziana diretta dal fratello Enrico, attore; e tanto fece che riuscì a persuaderlo al gran passo. Alla decisione contribuì senza dubbio anche la riflessione che la figura fisica del B., piccola, segaligna, sformata alquanto dalle spalle troppo alte, limitava d'assai le sue possibilità d'interprete d'un vasto repertorio; mentre non gli avrebbe impedito di muoversi a suo agio nei confini delle variopinte macchiette, che popolano tanta parte del teatro vernacol0.

Nell'attuazione, or più or meno felice del programma di rinascita del teatro veneziano che i fratelli Gallina perseguivano, un caso rivelò il B. al pubblico: Serenissima, la commedia del Gallina oggi famosa, alla prima rappresentazione in Roma era dispiaciuta; il B. ebbe un'idea, quella d'introdurvi una macchietta, di vecchio patrizio decaduto, factotum e "coro" della breve vicenda, il Nobilomo Vidal; e, d'intesa con l'autore, in poche ore la immaginò, la foggiò, la interpretò, con una tale grazia e verità di colori, che la seconda rappresentazione, a Firenze, ebbe un successo inobliabile. E presto giunse anche la celebrità, quando, cessata la compagnia Gallina, il B. si creò una compagnia propria, assumendo per sé le parti principali, e chiamando a collaborare sua moglie Amelia Dondini-Benini, e la sorella Italia Benini-Sambo col marito di lei, e il suo vecchio e fido compagno d'arte Albano Mezzetti, e la mirabilissima "servetta" Laura Zanon-Paladini, e alcuni altri elementi, delicati e affiatati. Fu con questi attori ch'egli svolse, in interpretazioni di cui nei buongustai è rimasto un ricordo di indicibile gentilezza e, alle volte, di perfezione non più raggiunta, un ampio e leggiadro repertorio: molto Goldoni, quasi tutto Giacinto Gallina; le commedie di Riccardo Selvatico, fra cui gli applauditissimi Recini da festa; L'onorevole Campodarsego di L. Pilotto; El minueto di Zarfatti; La vedova e Congedo di Renato Simoni; e riduzioni da altri dialetti o lingue (Bertolazzi, Testoni, Martoglio, i Quintero, ecc.).

Rapidamente il B. divenne l'attore prediletto del pubblico più fine e della critica, la quale non esitò a collocarlo sopra tutti gli altri attori (la Duse a parte) del tempo suo. In realtà la sua arte delicata era fatta per appagare gl'intelligenti meglio che per trascinare all'entusiasmo le folle. Maestro di verità e di umanità, il B. respingeva d'istinto gli effetti rumorosi, prediligendo le mezze tinte, le sfumature, le luci tenui, i taciti accoramenti. La via che egli seguì, fu quella del raccoglimento e dell'intimità. Dove altri avrebbe alzato la voce, egli l'abbassava; dove altri incatenava l'attenzione degli astanti con la "tirata" tradizionale, egli ne otteneva la comunione con le frasi più semplici e piane. Il dialogo più umile e dimesso era quello che più si confaceva alla sua arte; la quale era poi lo specchio dell'uomo, e della sua vita; tutt'una cosa con la limpida modestia del suo repertorio, con la cristallina purezza di quella sua compagnia, organismo di tipo famigliare, creato da lui, e che in tanta parte coincideva realmente con la sua stessa famiglia. E il fatto che, per es., egli non si risolse mai ad accettare laute scritture per l'America, dov'era desiderato, perché non voleva lasciar di qua dall'Oceano la mamma vecchia, che tornando temeva di non trovar più, nella biografia del B. non è episodio "edificante"; è qualcosa d'essenziale, che vale a conoscerlo anche come artista.

Il B. aveva in comune con la Duse (salve, s'intende, le grandi distanze dello stile e del repertorio) la virtù d'infondere a questa semplicità, a queste apparenze di nativa spontaneità, un accento di grazia intima, un alito di poesia sottile, che redimeva e purificava, per dir così, anche la verità banale. La sua presenza in scena, sia che pronunciasse le più correnti frasi d'un'introduzione o d'un passaggio, sia che soltanto si limitasse ad ascoltar le parole altrui piantando in viso all'interlocutore il quieto scintillio delle sue pupille nere, era bastevole a crear l'incanto.

Di qui il suo incontro felicissimo, non tanto con l'arte settecentesca del gran Goldoni, quanto con quella, ben minore nella potenza e nel tono, ma venata d'altre malinconie, del Gallina e di qualche suo fedele. Il B. più vero non andava infatti cercato, non diciamo nel Poeta fanatico o nel Bugiardo dove si parla addirittura italiano, ma nemmeno ne La casa nuova e nelle Barufe ciozote: ancora troppa festa, troppa spensieratezza, e, nonostante l'andatura piccolo-borghese o plebea, ancora troppo stile d'un altro secolo. Il B. vero andava cercato nell'inquieto ottimismo del Nobilomo di Serenissima, nella comicità tutta segreti spasimi del padre di Mia fia, nella breve parola con cui il tradito Micel della Famegia del sàntolo singhiozzava la tragedia della sua vergogna, e nei tanti tipi, figure e macchiette dello stesso mondo. Mondo ottocentesco, che nelle pagine del suo autore è forse un poco scialbo, forse impercettibilmente viziato da un quid di bontà un po' dolciastra; ma di cui il B. riusciva a respinger nell'ombra quanto potesse apparire oleografico, o didattico, per spremerne soavemente quel senso tutto suo, fresco, moderno, d'un dolore umano velato dall'ironia, e d'una consapevolezza fra sorridente ed amara.

E anche la sua compagnia fu tutta un riflesso del suo spirito e dell'arte sua: intonata alla stessa castità, e allo stesso pudore. Tanto che sarebbe stato possibile (e qualcuno vi si provò) scrivere del B. spiritualmente presente fra gli attori foggiati da lui, anche negli spettacoli in cui egli non appariva.

In mezzo ai suoi compagni Ferruccio B., malato da molto tempo ma senza sospettare la gravità del suo male, anzi tuttora acclamato dai suoi spettatori e nel pieno possesso de' suoi mezzi, mancò quasi all'improvviso, il 29 febbraio 1916. La sua arte non era stata gioco mimico, di maschera e di smorfia; ma spirito; perciò, anche nel periodo de' primi entusiasmi per i facili guadagni cinematografici, egli fu uno dei pochi attori nostri che non consentì mai (salvo in un piccolo film di propaganda per il prestito di guerra) a posare davanti al cinema; e la fine della sua vita fu la fine di tutto il "mondo" ch'egli aveva creato.

Sorella di Ferruccio B., come più sopra abbiamo detto, fu Italia Benini-Sambo. Essa venne in fama in età già matura, come prima e più valente collaboratrice del fratello. Interprete fedelissima, il suo umile studio fu sempre quello di trasfondere tutta sé stessa nelle figure dell'autore: principali la vecchia zia di Fora del mondo, la moglie colpevole della Famegia del sàntolo, la signora americana di Serenissima, l'acida suocera delle Barufe in famegia (tutte commedie del Gallina); a cui son da aggiungere la protagonista del Congedo di Renato Simoni, una vecchia mamma morente fra la dissipazione del marito e dei figli, i quali non s'accorgono del suo mancare; e la leggiadra galanteria settecentesca della stagionata e incipriata dama del Minueto del Sarfatti. Maschere spesso provinciali, vecchie zitelle scolorite, mogli anziane, e, soprattutto madri: e la B. ne accennava le venature di umorismo in misura assai lieve e soave. Ma le note ch'ella toccava con più augusta efficacia eran quelle del dolore chiuso, dello strazio intimo: qui reggeva, per pathos, il confronto col fratello. Morto nel 1916 Ferruccio Benini (ella aveva già perduto il marito), si ritirò, con la cognata Amelia Dondini, vedova di Ferruccio, nella comune villetta a Conegliano; dove, dopo le lunghe traversie della guerra e dell'invasione austriaca, morì il 4 febbraio 1925.

Bibl.: V. i necrologi sui giornali e sulle riviste del 1916 e del 1925. In particolare su Ferruccio B. v. i quotidiani, nei numeri del 29 febbraio o 1° marzo 1916; i periodici, nei fascicoli di marzo dello stesso anno. E cfr. il bel saggio di R. Simoni, in Ritratti, Milano 1923.

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