FERDINANDO I di Borbone, re delle Due Sicilie

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 46 (1996)

FERDINANDO I di Borbone, re delle Due Sicilie (già IV re di Napoli e III re di Sicilia)

Silvio De Maio

Nacque a Napoli il 12 genn. 1751, terzo figlio maschio di Carlo di Borbone re di Napoli e di Sicilia e di Maria Amalia di Sassonia. Nell'ottobre 1759, a soli otto anni, ereditò il trono napoletano per una serie di fortunate circostanze: da un lato il padre, sebbene anch'egli terzogenito, prendeva possesso del trono spagnolo, essendo entrambi i fratelli - Luigi I e Ferdinando VI - senza eredi; dall'altro il primogenito maschio di Carlo, Filippo, era idiota, mentre il secondo, anch'egli Carlo, era destinato alla successione nella Corona spagnola.

Iniziava così un lunghissimo regno, caratterizzato proprio per la sua durata da atteggiamenti e posizioni non omogenei, perché influenzati dai diversi uomini politici che lo circondarono, dai rapporti con i familiari (prima il padre lontano, poi la volitiva e caparbia moglie austriaca, infine il figlio primogenito), dalle turbinose vicende intemazionali che spesso minacciarono direttamente o indirettamente la stessa esistenza del Regno e del sovrano. Avviene perciò che F. appaia nelle prime fasi del suo regno in linea con il dispotismo illuminato del tempo, assecondando o non ostacolando e, talvolta, addirittura promuovendo cambiamenti e riforme di stampounticurialista e illuminista; mentre dopo il profilarsi del pericolo rivoluzionario e napoleonico prevalgano nettamente posizioni reazionarie e di rivalsa, in cui la spietata repressione, gli irrealizzabili sogni di vittoria ed i tradimenti politici sono la risposta alle disastrose campagne militari, alle fughe, agli esili, alle subite concessioni costituzionali.

Il giovanissimo F. venne affidato ad un Consiglio di reggenza, che doveva occuparsi della sua formazione e - insieme coi segretari di Stato - dei governo del paese, in stretto rapporto con le direttive di Carlo da Madrid, fino al raggiungimento della maggiore età. Principali esponenti di questo organismo furono D. Cattaneo principe di San Nicandro, e B. Tanucci, spesso in netto contrasto tra loro. Il primo era l'"aio" dei re: sovrintendeva alla sua educazione ed istruzione e gli era accanto in tutte le occasioni ufficiali. Nell'educazione che impartì a F. privilegiò l'attività fisica, anche per ovviare ad una iniziale gracile costituzione. Così la caccia, la pesca e l'equitazione divennero i suoi divertimenti preferiti, molto praticati per tutta la vita. La frequenza ossessiva con cui egli farà ricorso a queste pratiche, anteponendole a qualsiasi obbligo pubblico o privato, costituiranno una caratteristica di F. ed uno dei maggiori motivi di critica tra i contemporanci e gli storici.

Del tutto insufficiente fu invece l'educazione umanistica e scientifica, sia per la scarsezza delle nozioni e delle discipline affrontate, sia perché non vi ebbero molto spazio momenti di conoscenza e riflessione sulla conduzione dello Stato, sul ruolo che vi doveva ricoprire un sovrano e sulle condizioni e sulla storia del Regno meridionale. L'impostazione pedagogica del San Nicandro finì per forgiare negativamente l'indole di F., che a detta del Tanucci era bonaria e facilmente malleabile; il suo carattere acquisì allora i tratti di rusticità e volgarità che si riveleranno ricorrenti e daranno spunto alla ricca aneddotica fiorita attorno allo stereotipo del "re lazzarone". All'educazione del giovane F. il Tanucci invece partecipò solo in modo marginale, ostacolato dal San Nicandro, sebbene fosse l'esponente di maggior spicco del governo napoletano ed avesse il diritto di corrispondenza con Carlo III.

F. trascorse gli anni della minore età altemando permanenze nelle residenze reali di Portici, Caserta e Napoli nel poco lustro di una vita di corte in tono minore, dovuta alla severa politica di risparmio del Tanucci. grazie alla quale in pochi anni lo Stato riuscì a ridurre il proprio passivo. Il re ciesceva in un brovinciale clima di intrigo, gelosie e bigottismo, fomentati dalla rivalità dei suoi due autorevoli precettori. Lo zelo del Tanucci garantì tuttavia al giovane sovrano una conoscenza - anche se parziale e passiva - degli eventi maturati in quegli anni e della politica interna ed estera del governo napoletano. Fu lo stesso Tanucci nel 1765 a sollecitare a Carlo il permesso di far partecipare il quattordicenne F. ad alcune delle sedute del Consiglio di reggenza, mentre lasciò trascorrere ancora un anno prima di farlo intervenire alle più impegnative sedute del Consiglio d'azienda e dell'Ecclesiastico.

Non sappiamo quindi quale consapevolezza avesse il giovane F. delle condizioni del proprio Regno: il persistente immobilismo economico, l'insufficienza dei'sistemi annonari, il latifondismo, il sensibile passivo della bilancia commerciale, fino alla tragica carestia del 1764. Severissimi giudizi su di lui saranno formulati da molti illustri visitatori stranieri, tra cui il cognato imperatore Gi.useppe II, che, pur salvandone l'indole bonaria e generosa, lo considerarono privo di qualsiasi progettualità politica, intento solo a impiegare oziosamente il tempo.

Il 12 genn. 1767, con il compimento del sedicesimo anno d'età, F. divenne maggiorenne e, come prescritto da Carlo, acquisi pieni poteri regi. Il Consiglio di reggenza cessò di esistere e venne sostituito da un Consiglio di Stato con funzioni consultive. Al governo rimasero in carica gli stessi ministri attivi durante la minore età del re; l'unico cambiamento fu il riconoscimento formale del maggiore potere del Tanucci, che nel novembre 1767 assunse la carica di primo ministro.

Il primo atto che siglò il potere sovrano di F. fu l'espulsione dei gesuiti dal Regno 31 ott. 1767). Questo provvedimento, collegato ad una generale ondata emotiva antigesuitica, comune a molti paesi europei, ben si inseriva nel programma giurisdizionalista delle monarchie borboniche, sostenuto vigorosamente nel Regno di Napoli dal Tanucci e coordinato dal segretario dell'Ecclesiastico C. De Marco. Così i due ministri riuscirono a prevalere su un'opinione pubblica non favorevole, che influenzava probabilmente anche il giovane re, e ad ottenere da quest'ultimo il regio assenso. L'espulsione dei gesuiti, la conseguente riprovazione di papa Clemente XIII e nel 1768 l'occupazione da parte delle truppe napoletane di Benevento e Pontecorvo segnarono l'inizio di un lungo periodo di crisi tra il Regno di Napoli e la S. Sede. Frattanto nel dicembre 1767 era stato concluso il fidanzamento di F. con Maria Carolina d'Austria, sesta figlia dell'imperatrice Maria Teresa. L'unione dei Borboni di Spagna con la corona austriaca era il completamento della politica estera di Carlo, tendente ad assicurare alla sua discendenza il Regno di Napoli.

Primo frutto di questa strategia politica fu il matrimonio tra Maria Luisa di Borbone e Pietro Leopoldo d'Austria, secondogeniti rispettivamente di Carlo e Maria Teresa, celebrato per procura a Madrid il 17 febbr. 1764 (cfr. Schipa, Nel Regno di Ferdinando IV). Illegame tra i due sovrani sarebbe stato evidentemente rafforzato dal matrimonio del re di Napoli con un'arciduchessa d'Austria. In un primo momento le trattative diplomatiche si indirizzarono verso il fidanzamento con la quinta figlia dell'imperatrice, Maria Giuseppa, e nel marzo 1767 F. firmò il patto nuziale. La subitanea morte dell'arciduchessa colpita da vaiolo (ottobre) non fermò l'intesa: immediatamente la sedicenne Maria Carolina sostituiva la sorella nel ruolo di promessa sposa, concordi le due corti nella decisione di non sciogliere vincoli matrimoniali faticosamente allacciati.

Dopo le nozze, celebrate per procura a Vienna il 7 apr. 1768, ed un lungo viaggio di trasferimento, Maria Carolina fu ricevuta il 12 maggio da F. al confine del Regno; il 22 fu celebrata l'entrata pubblica della coppia reale nella capitale. Durante i primi tempi il matrimonio di F. non sembrò alterare l'equilibrio di governo raggiunto dal Tanucci, e la mediazione di Carlo III continuò a favorire alcuni mutamenti nell'assetto politico ed economico del paese; F. si limitava ancora ad accettare e vidimare le disposizioni del primo ministro, dando prova di un interessamento solo formale alla cosa pubblica.

Negli anni successivi, durante tutto il periodo di egemonia del Tanucci (1767-1776), F. partecipò in modo marginale al governo del paese e risultò soggiogato dal carattere volitivo e dalla vitalità culturale della giovane moglie, di cui nell'immediato accettò i canoni di organizzazione della vita di corte e successivamente l'orientamento politico sempre meno filospagnolo. Rispetto a Maria Carolina F. era legato a interessi più pratici; alternava ad una vita d'ozio, dedicata soprattutto alle pratiche sportive ed ai divertimenti di corte, un larvato interesse per la costruzione di opere di pubblica utilità. Grazie al suo patrocinio fu migliorato l'assetto viario del Regno e si impiantò una nuova fabbrica per la lavorazione della porcellana nel palazzo reale di Napoli (1772). Protagonista di primo piano della vita gaia e lussuosa che, al pari di altre capitali europee, si faceva a Napoli, egli mal sopportava i quotidiani impegni di governo, come le riunioni del Consiglio di Stato o di altri organismi, e spesso se ne asteneva. Si può dire quindi che fu del tutto estraneo all'attuazione dei progetti riformistici e anticurialisti che contemporaneamente il Tanucci perseguiva, forte dell'appoggio spagnolo: organizzazione laica della pubblica istruzione, diminuzione dell'enorme potere politico ed economico del clero., regolamentazione laica dei matrimoni e determinazione della motivazione delle sentenze.

Frattanto il 4 dic. 1775 nasceva l'erede al trono Carlo Francesco (chiamato dagli storici Carlo Tito), preceduto da due femmine - Maria Teresa e Luisa Amalia - nate tra il 1772 e il 1773. L'evento cambiò l'equilibrio del governo napoletano, perché Maria Carolina, partorendo un figlio maschio, aveva diritto ad entrare nel Consiglio di Stato, dove poteva manifestare la propria aperta ostilità nei confronti del Tanucci, colpevole ai suoi occhi di sostenere rigidamente il lealismo spagnolo. Il contrasto si era acuito qualche mese prima per il tentativo del primo ministro di rendere operativo il ripristino di una legge di Carlo contro la massoneria, di cui faceva parte, insieme con molti intellettuali napoletani, la stessa regina. F. dal canto suo, sebbene fosse ostile ai principi e all'attività della setta, non aveva saputo opporsi alla partecipazione di Maria Carolina nè alle conseguenti sue iniziative contro l'autorità dello Stato. Non volle o non seppe così opporsi al boicottaggio della consorte verso il primo processo contro alcuni massoni, che si limitò a giudicare gli imputati senza intaccare minimamente la vitalità della setta, come avrebbe voluto invece il Tanucci. Le pressioni contro il primo ministro anzi spinsero F. il 27 ott. 1776 ad esonerarlo dall'incarico principale, conservandogli il titolo di consigliere di Stato.

A succedere al Tanucci il re chiamò nel dicembre successivo G. Beccadelli marchese della Sambuca, uomo molto ben visto dalla regina, che ne favorì la nomina. Sebbene di ispirazione più moderata del Tanucci, durante i dieci anni in cui fu primo ministro il Sambuca ne continuò la politica anticuriafista, e l'opera di riordino amministrativo; inoltre promosse diverse riforme tendenti ad un lieve ammodernamento del paese. Importante fu nell'attuazione di tale politica l'impegno diretto di F., al punto che questo periodo - insieme con i quattro anni successivi dei ministero Caracciolo - può essere definito la fase riformistica del suo lungo regno. D'altra parte erano questi i momenti in cui si fece sentire maggiormente l'influenza sui governanti della nutrita schiera di intellettuali e riformatori napoletani cresciuti alla scuola di A. Genovesi, molto attivi nel promuovere nel paese importanti trasformazioni economiche, sociali e giurisdizionali e non di rado direttamente impegnati nell'attuazione del difficile processo di modernizzazione.

In tale ambito si colloca la determinante iniziativa di F. nella politica regalistica: sebbene fosse religioso fino al bigottismo non esitò ad agire con una certa spregiudicatezza, appoggiando pienamente il ministro C. De Marco. I principali provvedimenti anticurialisti furono presi all'inizio e alla fine del governo Sambuca: nel 1778 fu proibito ai vescovi di esigere decime sui benefici di regio patronato e agli ecclesiastici di ricorrere a Roma per motivi giurisdizionali; nel 1785 si ordinò che Congregazioni secolari dovessero dipendere dal governo. Meno incisive furono le iniziative contro la feudalità, giacché F. non tenne in giusto conto la necessità di sopprimere la qualità di feudo dei beni devoluti alla Corona. Vi furono solo alcuni episodi isolati, che non modificarono sostanzialmente la situazione.

In altri campi furono adottati provvedimenti di riforma di un certo rilievo. Nel 1777, per particolare iniziativa del Sambuca, l'università venne sfoltita di vecchi ed ormai inutili insegnamenti e arricchita di nuove cattedre. Tra il 1776 ed il 1779 F. promosse opere di abbellimento e ristrutturazione urbanistica della capitale, come la costruzione del real teatro del Fondo, la sistemazione della villa di Chiaia e l'edificazione dei Granili, su disegno di F. Fuga. Con l'istituzione del Supremo Consiglio delle Finanze nel 1782 - effetto della trasformazione della segreteria di Azienda e Commercio - si ebbe un più decisivo processo di svecchiamento nella politica fiscale del Regno. La giustizia commerciale si giovò dell'istituzione di un nuovo organismo, il tribunale dell'Ammiragliato e del Consolato (1783), che sostituì la corte del Grande Almirante e il Consolato di mare e di terra. Scarso e inefficace fu invece in questo stesso anno l'impegno del re e del suo governo a favore delle popolazioni calabresi colpite da un violento terremoto.

Per quanto concerne la politica estera F. e il governo napoletano, influenzati dalla regina, spostarono nettamente l'asse delle alleanze in direzione austrofila e anglofila. Un primo atto in questa direzione fu la convocazione a Napoli nell'agosto 1778 dell'inglese J. Acton, distintosi in Toscana al servizio di Pietro Leopoldo, con l'incarico di riordinare l'esercito e di creare una potente marina a sostegno di una effettiva e definitiva indipendenza dalla Spagna. Questa nuova politica estera ebbe un primo coronamento nel 1785, in occasione di un viaggio di F. e Maria Carolina nell'Italia centrosettentrionale. 1 due sovrani concordarono un'accorta strategia matrimoniale, da attuare negli anni successivi, con i rispettivi fratelli granduchi di Toscana, che di lì a poco avrebbero ereditato la corona austriaca, stabilendo i matrimoni di due ancor giovanissimi figli: la secondogenita Luisa Amalia, all'epoca appena dodicenne, con il secondogenito di Pietro Leopoldo, Ferdinando, e il piccolo Francesco, nato nel 1777, erede al trono per la prematura morte del primo maschio Carlo Tito, con l'arciduchessa Maria Clementina.

Frattanto diveniva sempre maggiore il potere dell'Acton, che tra il 1779 e il 1780 aveva ricevuto gli incarichi della Marina e della Guerra, ed influenzava anche altri programmi e scelte di governo. La sua ascesa impensierì la corte di Madrid e lo stesso Carlo nel luglio 1784 pregò F. di allontanarlo da Napoli o almeno destituirlo dalle sue cariche. Influenzato dalla moglie, F. non cedette, nonostante buona parte del governo fosse schierata contro l'Acton e complottasse alle sue spalle, accusandolo anche di essere l'amante della regina. Nell'intrigo contro Maria Carolina fu coinvolto anche il Sambuca, esponente del partito filospagnolo di corte. F. allora, nei primi giorni del 1786, lo destituì dalla carica sostituendolo con il vicerè di Sicilia D. Caracciolo.

Con questa scelta il re si impose alla volontà della moglie, che avrebbe preferito l'Acton, ritenendo poco prudente affidare ad un forestiero un ulteriore incarico di fiducia e potere. F. inoltre manifestava così l'intenzione di continuare sulla strada del riformismo e del regalismo degli anni precedenti utilizzando uno dei suoi ministri più illuminati, caratterizzatosi soprattutto per aver rafforzato in Sicilia l'impronta regalista del governo napoletano ai danni dell'imperante baronaggio locale.

Quando il 18 genn. 1786 il Caracciolo giunse dalla Sicilia, il governo risultava costituito da tre soli segretari di Stato: l'Acton, ministro di Marina, Guerra e Commercio; il De Marco, ministro di Grazia e Giustizia ed Ecclesiastico; il Caracciolo, ministro degli Affari esteri, Casa reale e Poste (mentre direttore del Supremo Consiglio delle Finanze era F. Corradini). Questi pochi uomini ebbero così un grande potere e costituirono una potente oligarchia di toga, anche perché inseriti da F. nel Consiglio di Stato, un organismo fino ad allora composto essenzialmente da membri della migliore aristocrazia di corte.

Il ministero del Caracciolo garantì, come voleva F., una linea di equidistanza del Regno dal gioco delle grandi potenze, al fine di favorire soprattutto la vita commerciale del paese; in questo senso si inserì la decisione di dichiarare la neutralità del Regno durante la guerra tra l'Impero ottomano e lo schieramento austro-russo (1787), malgrado Giuseppe II e Caterina II richiedessero insistentemente l'intervento napoletano. Inoltre una valutazione della situazione politica europea, agli occhi del Caracciolo, rendeva necessario un riavvicinamento alla Spagna dopo gli eventi maturati negli ultimi tempi del ministero Sambuca, senza peraltro rinunciare ai privilegi dell'indipendenza. Alla riconciliazione con la Spagna si lavorò fin dal 1786, benché Maria Carolina non avesse ancora perdonato quegli esponenti del partito filospagnolo che, a suo avviso, avevano tramato contro di lei e l'Acton. Intanto il 14 dic. 1788 moriva Carlo III e gli succedeva il figlio Carlo IV, fratello maggiore di F.: i sovrani napoletani appresero la notizia il 4 genn. 1789, mentre erano già in lutto per la morte del loro settimo figlio, Gennaro Carlo, a cui presto seguì quella dell'infante Carlo Gennaro.

Quest'ultimo, nato nel 1788, era il quattordicesimo figlio della coppia in vent'anni di matrimonio. Oltre alle prime due femmine e i primi due maschi già menzionati, erano venuti alla luce: Maria Anna nel 1775, Maria Cristina nel 1779, Gennaro Carlo nel 1780, Giuseppe nel 1781, Maria Amalia nel 1782, una bambina nata morta nel 1783, Maria Antonia nel 1784, Maria Clotilde nel 1786, Enrichetta Maria nel 1787, Carlo Gennaro nel 1788. La prolificità dei sovrani continuò negli anni successivi: nel 1790 nacque Leopoldo, nel 1792 Alberto Filippo e nel 1793 Maria Elisabetta.

Oltre che nella nuova politica estera F. e il Caracciolo si impegnarono nel campo delle relazioni con la S. Sede. L'obiettivo era quello di risolvere gli antichi contrasti attraverso la stipula di un nuovo concordato che, oltre ad assicurare la nomina dei vescovi nelle molte sedi vacanti, mettesse al riparo il Regno dalle conseguenze negative di una aperta rottura con il Papato. Le trattative iniziarono realmente solo quando F. revocò il provvedimento - emanato dalla Giunta degli Abusi - che condannava la dipendenza del clero regolare napoletano da generali esterni (1786), e sospese la decretata soppressione di alcuni conventi.

Ciò nonostante, il negoziato tra monsignor L. Caleppi, emissario di Pio VI, e F. appariva difficile. li re, dando prova di intransigenza e dignità regale, sostenne la necessità delle nomine regie dei vescovi ed emendò personalmente più volte il "Piano degli Articoli di Controversia fra le due Corti di Roma e Napoli" presentatogli dal Caleppi nel gennaio 1787. La sua posizione e quelle del De Marco e del Caracciolo furono ben più drastiche di quella dell'Acton, creduto erroneamente dai contemporanei il maggior nemico del concordato. Il negoziato quindi non fece progressi; gli emendamenti di F. all'ultimo progetto, condensati nelle sue "Osservazioni agli Articoli di differenza" (aprile 1788), non furono accettati dalla Curia romana.

Dal momento che non si segnalava alcun cedimento nelle due parti in causa, le trattative vennero bruscamente interrotte nel 1789. L'irrigiffimento aveva intanto provocato la chiusura della causa MaddaIoni, una controversia con la Curia su quale dovesse essere il tribunale d'appello per un processo di annullamento di matrimonio. Avendo F. affidato il processo ad un tribunale napoletano, e quindi laico, la S. Sede si rifiutò di ratificarne la sentenza sebbene avesse confermato quella emessa in prima istanza dal tribunale ecclesiastico. Contemporaneamente F. prese la decisione di abolire il tradizionale omaggio della chinea, dichiarandola irrevocabile di fronte alle proteste di Roma.

Negli anni del ministero Caracciolo il re indubbiamente si interessò poco delle principali riforme attuate dal governo in altri campi, quali, in politica fiscale e commerciale, mediante l'abolizione di imposte ed arrendamenti, la liberalizzazione della vendita dell'olio, l'eliminazione di dogane interne, la stipula di tre trattati di navigazione con Piemonte, Genova e Russia; nella pubblica istruzione, l'istituzione di numerose scuole normali in varie località del paese e del primo istituto per sordomuti, e la promozione delle attività dell'Accademia Ercolanense, fondata da Carlo nel 1755 e fornita dal Caracciolo di statuto. Sostanzialmente estraneo fu anche alla grande riforma militare promossa dall'Acton secondo un progetto che coinvolgeva tutti i settori della difesa: riorganizzazione dell'esercito; fondazione della Reale Accademia militare, detta poi Nunziatella; invio all'estero per istruzione di molti ufficiali napoletani e utilizzazione nel Regno di istruttori militari stranieri di buon livello; istituzione di un nuovo tribunale militare e adozione di nuove norme nei giudizi militari sulla base del NuovoCodice militare di Pietro Leopoldo.

Alla iniziativa diretta di F. fu invece legata l'istituzione nel 1789 nel sito reale di San Leucio di una colonia di 214 operai, a cui venne affidata la manifattura della seta.

L'iniziativa teneva presente l'importanza di questa lavorazione, considerandola sicura fonte di guadagno per il Regno, e si abbinava ad un singolare e noto disegno di stampo illuministico che unisse alla realizzazione del progetto economico la sperimentazione di forme di vita comunitaria di stampo roussoviano, in omaggio alle imperanti dottrine umanitarie dell'epoca. Le regole sociali e le leggi a cili gli abitanti, pena l'esclusione dalla colonia, dovevano adeguarsi furono esemplificate in un codice di cui F. si attribuì la paternità (redatto probabilmente da Antonio Planelli sotto la supervisione del re, dell'Acton e del Filangieri): Origini della popolazione di San Leucio e i suoi progressi fin al giorno d'oggi. Con le leggi corrispondenti al buon governo di essa di Ferdinando IV re delle Sicilie, Napoli 1789. Il codice ebbe nello stesso anno ben quattro ristampe e diverse traduzioni, mentre l'ala intellettuale e progressista del Regno esprimeva il suo entusiastico consenso.

Alla morte del Caracciolo nel luglio 1789 le segreterie degli Affari esteri e di Casa reale furono rispettivamente affidate all'Acton e al De Marco. Le principali cariche di governo vennero così ad essere divise tra due soli ministri, dei quali l'Acton si trovava ad avere un potere mai gestito da alcuno dei suoi predecessori.

Contemporaneamente gli eventi della Rivoluzione francese spingevano F. a porre fine all'apertura illuministica. Aveva così inizio una lunga faàe reazionaria nella sua politica, perseguita senza interruzioni fino alla morte, in cui cercò con ogni mezzo di contrastare il pericolo eversivo esterno o interno, senza disdegnare di fare ricorso - come del resto tutti i monarchi dell'epoca e gli stessi rivoluzionari - alle più severe ed atroci misure repressive, inclusa la condanna a morte. Innanzitutto tra il 1789 e il 1790 F. colpì la massoneria, ritenuta, ormai anche da Maria Carolina, probabile veicolo di propaganda antinionarchica, ed espulse una parte dei francesi residenti a Napoli, colpevoli ai suoi occhi di sobillare la popolazione introducendo idee rivoluzionarie.

Frattanto venivano rinsaldati i legami di sangue e di alleanza tra le corone di Napoli e di Vienna, portando a parziale compimento la politica matrimoniale stilata cinque anni prima con Pietro Leopoldo. Anzi, al già previsto matrimonio di Luisa Amalia con Ferdinando, ora granduca di Toscana, fu aggiunto quello della primogenita napoletana Maria Teresa con l'erede al trono asburgico, Francesco, da poco rimasto vedovo. Le nozze furono velocemente preparate dall'ambasciatore napoletano a Vienna M. Mastrilli marchese di Gallo e affrettate per il pericolo rivoluzionario. Dopo la celebrazione dei matrimoni, per procura a Napoli il 15 ag. 1790, F. e Maria Carolina accompagnarono le figlie a Vienna, compiendo un viaggio ed un lungo soggiorno nella capitale asburgica che dovevano sancire la grande solidarietà tra le due corti. Durante il ritorno nell'aprile 1791 F. e Maria Carolina sostarono negli Stati pontifici per una visita al papa. Questo atto, in palese contraddizione con l'annosa freddezza tra le due corti, fu il primo passo di un progressivo riavvicinamento a Roma per la costituzione di una comune strategia antirivoluzionaria. F. e Pio VI, pur mantenendo le posizioni di contrasto del fallito concordato, si accordarono parzialmente sulla nomina dei vescovi: il re di Napoli poteva procedere in via eccezionale alla copertura delle sedi vacanti nel paese.

Una delle conseguenze degli accordi romani fu la decisione di F. di allontanare il De Marco dalle segreterie dell'Ecclesiastico e di Grazia e Giustizia. L'atto, sebbene motivato come una premura nei confronti dell'età molto avanzata del ministro, era dovuto alla sua linea radicalmente anticurialista e quindi non in sintonia con i mutati tempi. Nell'agosto 1791 fu quindi compiuto il rimpasto ministeriale, a cui contribuì la mediazione dell'Acton, che voleva contornarsi di funzionari acquiescenti. Inoltre, per il timore di torbidi rivoluzionari fu infittito il controllo poliziesco affidato al reggente della Vicaria L. de' Medici e venne istituita una Giunta di Stato per inquisire i sospettati.

In questi anni e in quelli successivi F. seguì con viva preoccupazione gli esiti della Rivoluzione francese, ma non riuscì a individuare una linea politica coerente, tale da garantire le giuste alleanze e un deciso impegno antifrancese, anche perché non si sentiva garantito contro un nemico così potente né dalle intese europee di coalizione, né dalla scarsa forza del proprio esercito. Così nel 1791 decise di partecipare in modo assai limitato ai primi tentativi di alleanza - del resto falliti - compiuti dai sovrani dei vari Stati italiani per la comune difesa, limitandosi a versare un contributo in denaro al re di Sardegna. L'anno successivo, mentre preferì non aderire alla coalizione antifrancese, si irrigidì contro la Francia per la deposizione di Luigi XVI e la proclamazione della Repubblica e non volle riconoscere il nuovo ambasciatore francese A. Mackau. La presa di posizione di F. provocò la subitanea reazione della Francia e nel dicembre 1792 l'invio a Napoli di una squadra della flotta mediterranea, che avrebbe dovuto intimidire il governo napoletano per indurlo a riconoscere la Repubblica e a scambiare relazioni diplomatiche. L'apparizione della flotta provocò a corte situazioni di panico; nonostante la marina ed il popolo stesso fossero disposti a respingere un eventuale attacco, F. - influenzato dall'Acton - cedette alle intimidazioni. Oltre a riconoscere l'ambasciatore francese, promise la neutralità dello Stato napoletano e dispose l'invio a Parigi di F. Ruffo principe di Castelcicala quale ambasciatore.

Questa posizione fu presto mutata dopo la notizia dell'esecuzione del sovrano di Francia, avvenuta il 21 genn. 1793, e ancor più della regina Maria Antonietta, sorella prediletta di Maria Carolina (16 ottobre). F., quindi, prima stipulò un accordo segreto con l'Inghilterra, che nell'immediato futuro avrebbe portato al congiungimento delle navi napoletane ed inglesi, poi promulgò l'atto definitivo di espulsione dei cittadini francesi residenti nel Regno, a cui segui l'embargo totale di merci e navi di provenienza francese, e infine inviò un contingente militare napoletano in appoggio alle truppe inglesi, spagnole e piemontesi che assediavano Tolone. Ma la spedizione fallì e l'esercito napoletano, decimato, fece mesto ritorno in patria nel febbraio 1794. La disfatta rafforzò in F. l'idea di una improrogabile militarizzazione del paese; perciò fu ordinata una leva di 16.000 uomini, furono stabiliti alcuni donativi per fronteggiare le spese di guerra, si cominciò ad organizzare la vendita degli argenti ecclesiastici non strettamente necessari al culto e si imposero alcune tasse straordinarie: tutte misure che indebolirono l'economia della nazione, già provata dalla carestia del 1793.

Sul versante repressivo furono inaspriti i provvedimenti contro le associazioni segrete di ispirazione giacobina, scoperte cospirazioni ed effettuati numerosi arresti. Tra l'agosto e l'ottobre 1794 la Gran Causa dei rei di Stato si concluse con la deportazione in vari luoghi di pena di una cinquantina di imputati e con tre condanne a morte. F. ratificò le sentenze "determinato - scrisse - di mettere in opera i mezzi più efficaci ed opportuni per arrestare totalmente il corso della propagazione di ogni sorta di massime tendenti al turbamento della tranquillità dello Stato" (cfr. Simioni, II, p. 141). La repressione coincise con la fine completa della politica moderatamente antifeudale, perseguita ancora nei primi anni Novanta, in particolar modo mediante il passaggio in allodio dei feudi devoluti.

Il clima repressivo e da caccia alle streghe continuò negli anni successivi in direzione sempre più politica e nel febbraio 1795 portò addirittura all'arresto del de' Medici, accusato dall'Acton di aver avuto parte in una congiura giacobina. Quindi F. adottò diverse straordinarie misure di sicurezza, tra cui l'istituzione di una nuova Giunta inquisitoria ed alcuni decreti a favore del pentitismo. Gli arresti divennero continui, anche tra le fila della nobiltà più vicina alla Corona, e fu creata una fitta rete di spionaggio. L'emergenza politica si riflesse anche in una serie di mutamenti ai vertici del governo. Nel maggio 1795 F. diede all'Acton la possibilità di rafforzare la propria posizione di supremazia sollevandolo dai suoi incarichi ministeriali, ma affidandogli, in qualità di consigliere di Stato, funzioni straordinarie di controllo sulle segreterie e sul Consiglio di Stato. Alle segreterie furono nominati personaggi di secondo piano e di sicura fede antirivoluzionaria, come il Castelcicala agli Affari esteri, Marina e Commercio.

Nel 1796 la campagna d'Italia del Bonaparte determinò una forzata inversione di rotta nella politica estera di F. e del governo napoletano. In un primo momento era stata adottata ogni possibile misura per respingere una paventata invasione francese (appello al popolo per una mobilitazione generale, formazione di nuovi corpi militari, invio di 30.000 uomini alle frontiere e di un contingente militare in Lombardia), ma dopo le schiaccianti vittorie del Bonaparte ci si vide costretti a concludere nel giugno un armistizio, a cui seguì nell'ottobre la pace di Parigi, con condizioni sostanzialmente onorevoli, salvo quella segreta del pagamento di un indennizzo di 8 milioni di lire. La situazione di calma -chiaramente avvertita però come temporanea - consentì l'anno successivo il matrimonio dell'erede al trono Francesco con l'arciduchessa Maria Clementina, ultimo atto di una politica di alleanze con l'Impero asburgico che non era servita però - e non servirà negli anni successivi - a tenere lontano dal Regno il pericolo francese. Il cambiamento nella politica estera del paese fu confermato nell'ottobre 1797 con l'accettazione delle soluzioni stabilite nel trattato di Campoformio e della mutata geografia politica italiana. Per la delicatezza della situazione F. decise poi, nel gennaio 1798, un cambiamento ai vertici del governo, pur lasciando all'Acton le prerogative di supervisione concessegli tre anni prima: per le ottime doti diplomatiche il Mastrilli fu nominato primo segretario di Stato, degli Affari esteri, di Marina e Commercio. Il diverso atteggiamento nei confronti dei Francesi ebbe le sue ripercussioni anche a livello interno: furono conclusi con soluzioni moderate i processi contro molti presunti oppositori e furono scarcerati molti inquisiti, tra cui il de' Medici.

F. e il suo governo tuttavia mantenevano la segreta intenzione di riprendere la guerra; a tal fine stipularono vari trattati di alleanza e portarono l'esercito a 70.000 unità. L'arrivo a Napoli dell'ammiraglio inglese H. Nelson, nel settembre 1798, costituì l'ultima aperta provocazione contro la Francia. Il mese successivo il volere congiunto di Maria Carolina e dell'Acton vinse la titubanza di F. e determinò la decisione di scendere in guerra contro la Francia. Sebbene il re in un proclama al popolo denunciasse il carattere di "guerra santa" del conflitto, questo era chiaramente motivato, oltre che dal desiderio di rivincita e di vendetta, da una volontà espansionistica nei confronti dei territori pontifici da poco ordinati a Repubblica. Tuttavia l'invasione dell'esercito napoletano e la successiva occupazione di Roma - a cui partecipò F. in persona - si rivelarono un vero fallimento. L'iniziale vantaggio delle truppe regnicole sui Francesi fu immediatamente perduto, anche a causa della defezione di molti ufficiali, e nel dicembre l'esercito napoletano fu ripetutamente sconfitto, nonostante la netta superiorità numerica. Falliva così miseramente la politica di rafforzamento militare promossa dall'Acton negli anni Ottanta, perché basata su equipaggiamenti e stimoli insufficienti sia per i soldati sia per gli ufficiali (spesso filorivoluzionari). F., quindi, abbandonò in fretta il territorio pontificio e, dopo avere sperato in un estremo tentativo difensivo attraverso una leva di massa (15 dicembre), decise di fuggire in Sicilia, lasciando come vicario generale F. Pignatelli di Strongoli.

La fuga del re contribuì ad accelerare la resa dell'esercito napoletano; F. fu anche responsabile di avere lasciato senza disposizioni precise il governo dei Pignatelli, che nel gennaio stipulò un gravosissimo armistizio con l'esercito di J.-A-E. Championnet, poi nettamente riprovato dal re.

Fin dal suo arrivo a Palermo il re, sollecitato dalla moglie, progettò la riconquista della parte continentale del Regno. Il suo, comunque, non fu un impegno né diretto né sofferto: senza impiegare uomini o denaro si limitò ad affidare al cardinale F. Ruffo l'incarico di radunare un esercito di volontari e ristabilire l'autorità dei Borboni risalendo militarmente la penisola. Dopo una lenta ma inesorabile avanzata, nel giugno le truppe sanfediste del Ruffo, tra saccheggi e vandalismi, entrarono a Napoli, favorite anche dalla recente partenza dell'esercito francese. Per accelerare la fine della guerra ed evitare le distruzioni collegate ad un lungo assedio dei castelli napoletani, il Ruffo concesse una resa onorevole ai repubblicani che avrebbero potuto emigrare in Francia senza persecuzioni da parte del governo restaurato.

Questo accordo fu però disatteso da F. e dai suoi alleati inglesi. Prima il Nelson alla fine di giugno con l'inganno imprigionò sulle proprie navi i patrioti, poi il re, al suo arrivo a Napoli l'8 luglio ratificò l'operato dell'ammiraglio e - non ascoltando gli inviti alla clemenza del Ruffo - diede inizio ad una feroce reazione, attraverso una fitta sequenza di arresti. Gli accusati, in base al loro collaborazionismo, pieno o forzato, al regime rivoluzionario, furono giudicati secondo tre gradi di colpevolezza e sottoposti, con istruzione dello stesso F., al diritto criminale siculo; per i delitti di lesa maestà fu prevista la pena capitale con giudizio sommario e per i delitti di minore gravità si comminarono pene d'esilio, confische di beni e carcere. Tra l'agosto e il novembre furono giustiziati tra gli altri E. Fonseca Pimentel, D. Cirillo, M. Pagano e F. Conforti. L'esecuzione di quest'ultimo, già teologo di corte, fu fermamente voluta dallo stesso F., in disaccordo con la Giunta inquisitoria che ne aveva sospeso la condanna.

Già durante la sua breve permanenza nel porto di Napoli, ospite in una nave del Nelson, F. iniziò il riordino del governo. In primo luogo riformò l'amministrazione della città di Napoli, rea di aver attentato all'autorità dei suo vicario nei giorni successivi alla sua partenza per la Sicilia, riaccarezzando un sogno di autonomia oligarchica. Sostituì pertanto gli eletti con un Senato di otto membri di nomina regia. Il 24 luglio procedette alla revisione delle segreterie, affidando tra l'altro le Finanze a G. Zurlo e gli Esteri all'Acton. Quindi istituì anche una Giunta di governo, presieduta dal Ruffo, destinata a decadere al suo definitivo ritorno a Napoli, e nominò quattro visitatori generali con l'incarico di ristabilire il precedente ordine amministrativo nelle province. Anche da Palermo, dove ritornò l'8 agosto, F. continuò a dirigere un'impietosa reazione, istigato nei suoi eccessi dal Nelson e dall'Acton, più che da Maria Carolina, allo scopo di eliminare ogni traccia di giacobinismo dal Regno e riaffermare un potere assoluto. Nei primi tempi del nuovo soggiorno palerinitano F. e il suo governo smantellarono le conquiste repubblicane, annullando innanzitutto la legge sulla abolizione della feudalità, anche se nel contempo la nobiltà napoletana, ritenuta artefice di tradimento, veniva punita con inasprimenti fiscali. Un'altra inversione di tendenza del governo restaurato, che in tal modo abbandonò definitivamente il vecchio programma anticurialista, fu la scelta del clero come alleato nel ripristino delle autorità regie.

L'opera di ristrutturazione dello Stato risultò notevolmente impedita dallo sdoppiamento del governo tra le segreterie palermitane e le direzioni napoletane. Assolutamente inefficace fu la riorganizzazione delle milizie, perché non si riuscì a fondere tra loro truppe regolari, reparti o singoli ufficiali che avevano servito la Repubblica e indisciplinati elementi delle bande sanfediste. Intanto continuava la repressione: pochissimi furono gli atti di clemenza; in totale vennero eseguite circa duecento condanne a morte e comminate più di duemila condanne all'esilio e diverse migliaia di pene detentive.

Frattanto, con l'occupazione nel settembre 1799 dello Stato romano, F. e il suo governo riprendevano l'ambizioso progetto espansionistico verso i territori pontifici, tendente anche ad indebolire la minaccia francese in Italia. Ma ancora una volta la politica estera di F. si rivelò un fallimento: il corpo di occupazione di Roma fu pesantemente sconfitto dai Francesi in Toscana nel gennaio 1801, e l'esercito di G. Murat avanzò minacciosamente stanziandosi ai confini del Regno. Nonostante la situazione imponesse la sua presenza a Napoli, F. preferì rimanere a Palermo, inviando in sua vece il principe Francesco. L'iniziativa passò quindi ancora una volta alla regina, che da Vienna, dove si trovava dal giugno 1800, stipulò l'armistizio di Foligno e la successiva pace di Firenze con dure condizioni: chiusura dei porti alle navi inglesi, occupazione francese di alcuni forti sull'Adriatico, cessione dei Presidi toscani, alta contribuzione in denaro e abolizione dei tribunali di Stato, principale strumento della politica repressiva interna. F. tornò a Napoli solo nel giugno 1802, dopo che la generale pace di Amiens (marzo) aveva reso del tutto sicura la situazione del paese. Dopo il ritorno da Vienna della regina (agosto) i sovrani si dedicarono ancora una volta a stringere saldi rapporti diplomatici con i loro parenti mediante la consueta politica matrimoniale. Questa volta però si preferì rafforzare i legami con la Spagna, per rispondere alle mire espansionistiche austriache sull'Italia. Fu così congegnato un altro doppio matrimonio tra cugini: Maria Antonia, figlia di F., sposò l'erede al trono iberico Ferdinando, mentre l'erede napoletano Francesco, da poco rimasto vedovo, prese in moglie la giovanissima infanta Isabella. I migliorati rapporti con la Francia non impedirono a F. di contravvenire manifestamente alle clausole di pace, ordinando il regolare svolgimento dei processi agli inquisiti politici e l'intensificazione del controllo censorio da parte della polizia. Intanto si manifestavano in tutta evidenza la confusione e la gravità della situazione economica nazionale; lo Zurlo si trovò coinvolto in uno scandalo e nel marzo 1803 fu sostituito con l'amnistiato de' Medici che iniziava così la sua ascesa politica; l'anno successivo fu esautorato l'Acton. Una prova del clima di pesante oscurantismo di questi anni fu la decisione di F. di delegare all'apparato ecclesiastico regnicolo ogni responsabilità nella pubblica istruzione: nel luglio 1804 fu richiamata la Compagnia di Gesù.

In concomitanza della riapertura del conflitto anglo-francese (1803) - e della conseguente rioccupazione napoleonica delle Puglie - il governo napoletano e soprattutto Maria Carolina ripresero le consuete macchinazioni per un ennesimo intervento bellico. La regina arrivò pertanto nel corso del 1805 a prendere accordi segreti con gli Stati della III coalizione e nel settembre sconfessò le promesse di neutralità formulate a Parigi dal Mastrilli, che in tal modo aveva ottenuto l'evacuazione dal Regno delle truppe francesi. Si trattava agli occhi di Napoleone di un doppio tradimento, che conduceva inevitabilmente il Regno napoletano alla guerra, come attestava d'altra parte l'arrivo nel paese di contigenti russi ed inglesi.

Dopo un vano tentativo di soluzione diplomatica del conflitto, F. ebbe chiara la gravità della situazione e decise di abbandonare Napoli; il 23 genn. 1806 si imbarcò pertanto per Palermo, lasciando come vicario il figlio Francesco, a cui, memore degli eventi del 1799, diede la più ampia discrezionalità. Dopo la sconfitta dell'esercito napoletano e la partenza per la Sicilia anche di Francesco iniziava un lungo periodo di dominio francese sul Mezzogiorno continentale e un nuovo dorato ma tormentato esilio siciliano per F. e la sua corte: dieci anni caratterizzati dall'inappagato desiderio di rivincita dei sovrani, dal difficile rapporto con l'ingombrante alleato-protettore inglese, dalla ferma opposizione del baronaggio locale, timoroso di perdere prerogative e diritti autonomistici, dagli intrighi scellerati di Maria Carolina.

Già nel 1806 i sovrani si impegnarono nei progetti di riconquista e mentre Maria Carolina puntava sulla promozione del movimento antifrancese interno mediante l'invio di infiltrati borbonici nel continente e il brigantaggio, F., spesso all'oscuro dei maneggi della moglie, preferì dare il proprio assenso a concrete iniziative militari, come la spedizione per la riconquista di Capri e Ponza nel maggio e uno sbarco nelle Calabrie nel luglio, risolte in temporanee effimere vittorie per l'esercito anglo-siculo.

Frattanto l'Acton - che al ritorno di F. in Sicilia aveva riavuto il dicastero degli Affari esteri - si dimetteva, uscendo definitivamente di scena. Di contro diveniva sempre maggiore il potere di Maria Carolina, poco contrastato da Ferdinando. Gli anni e una certa apatia di fondo lo rendevano sempre meno partecipe alla vita politica e oltremodo incline ai divertimenti venatori, per i quali trasformò in siti reali ampie distese del Vallo di Palermo.

Nel 1808 F. cullò per qualche tempo il progetto di succedere sul trono di Spagna dopo l'abdicazione del fratello Carlo IV e di suo figlio; ma si trattava di una iniziativa senza alcuna possibilità di riuscita, debolmente appoggiata dall'Inghilterra per contrastare i piani di Napoleone e di suo fratello Giuseppe Bonaparte, subentrato sul trono iberico.

La riapertura nel 1809 delle ostilità belliche internazionali ebbe immediate ripercussioni anche in Sicilia; una spedizione fu allestita insieme con gli Inglesi (maggio-giugno) per effettuare incursioni in Calabria e nel golfo di Napoli, anche nell'intento di provocare insorgenze legittimiste. La maldestra impresa navale si risolse, però, in una sconfitta e aggravò la latente crisi con gli Inglesi, presto alimentata dal loro appoggio all'opposizione dell'aristocrazia siciliana, che tramite il Parlamento era ferma nel combattere gli inasprimenti fiscali adottati da F., dalla minaccia di una incursione murattiana, come quella fallita del settembre 1810, e dalla scoperta dei continui intrighi di Maria Carolina, che, insofferente dello strapotere dell'ingombrante alleato, non disdegnava di tramare - all'insaputa del marito - con gli avversari di sempre.

Frattanto si intensificava il controllo inglese sull'isola; il nuovo governatore W. Bentinck (luglio 1811) operò decisamente per l'istituzione di un governo costituzionale e per il richiamo di alcuni nobili siciliani di recente esiliati. Minacciato dal Bentinck di sospensione delle sovvenzioni, F. non poté opporsi al disegno inglese e fu costretto a cedere il governo a Francesco, nominandolo vicario (gennaio 1812).

Iniziava così un tormentoso dissidio tra F. e Francesco sulla necessità di non provocare una rottura insanabile con gli Inglesi e sull'improrogabilità della costituzione. F. quindi non condivise la concessione della costituzione da parte del figlio, ritenendola un manifesto atto di sottomissione al Bentinck e non idonea ai Siciliani, perché ispirata ad un modello legislativo e parlamentare - l'inglese - troppo lontano da quello tradizionale. Egli quindi, indugiando a sancirne gli articoli fondamentali. decise di accordare il proprio beneplacito a patto che i suoi antagonisti rispettassero alcune condizioni, tra le quali la garanzia delle proprie prerogative sovrane e la potestà di veto da opporre alle decisioni del Parlamento. In tal modo F. difendeva con ostinazione e tenacia - pur cedendone ad altri l'esercizio - i suoi diritti sovrani manifestando un fermissimo senso della regalità.

Un'ennesima occasione di attrito con la rappresentanza inglese - che condusse Maria Carolina all'esilio a Vienna, dove sarebbe morta nel settembre 1814 - fu la scoperta del tradimento della regina a favore di Gioacchino Murat re di Napoli. Prima di essere forzatamente costretta dal Bentinck ad abbandonare l'isola (giugno 1813), Maria Carolina spinse F. a tentare di riprendere i pieni poteri. Nel marzo quindi il re si recò dalla sua residenza di Ficuzza a Palermo per una pubblica acclamazione, ma per lo sdegno dei costituzionalisti e le minacce inglesi subito abbandonò il progetto ed anzi si impegnò a non tornare al governo senza il preventivo consenso degli alleati. L'anno successivo F. si pronunciò decisamente contro alcuni accordi segreti tra l'Austria e il Murat, che - mentre declinava la potenza napoleonica - prevedevano la cessione del trono di Napoli al francese, la rinuncia di questo alle sue mire espansionistiche sulla Sicilia, ed un grosso indennizzo a F.; allo stesso modo respinse analoghe soluzioni - prospettate dall'Inghilterra e dal Murat - che ledevano i suoi diritti su Napoli. Di lì a poco gli equilibri internazionali risultarono completamente mutati: la disfatta napoleonica e le incertezze del Murat stesso ne pregiudicavano la posizione nei confronti degli alleati europei, tra i cui governi circolava insistentemente il principio di legittimità; nel luglio 1814 il Bentinck quindi non si opponeva al ritorno ai pieni poteri di F., che nel novembre sposava morganaticamente Lucia Migliaccio vedova del principe di Partanna, poi da lui nominata duchessa di Floridia.

Il fallimento della confusa campagna militare del Murat nel marzo 1815, dopo la fuga di Napoleone dall'Elba, e la successiva convenzione di Casalanza (20 maggio) sancirono il suo ritorno sul trono napoletano: il 17 giugno il re rientrava a Napoli. Con F. prendeva il potere un governo, che il sovrano aveva formato già a Palermo, presieduto da T. Di Somma marchese di Circello, in cui emergevano il de' Medici, chiamato a reggere le Finanze e la Polizia, e D. Tommasi, ministro della Giustizia. Il nuovo governo confermò innanzitutto le promesse fatte da F. prima del suo ritorno, amnistiando coloro che avevano appoggiato il regime murattiano e lasciando sostanzialmente inalterati gli ordinamenti amministrativi, provinciali e comunali istituiti nel Decennio. Il de' Medici anzi, accogliendo pienamente i suggerimenti austriaci, volti a prevenire ogni occasione di reazione nel paese, iniziò ad attuare la cosiddetta politica dell'amalgama, cercando di fondere gli elementi borbonici e i murattiani. Tale politica consentiva a F. di non concedere alcuna costituzione a Napoli e di revocare quella siciliana. 1 due Regni furono formalmente unificati, seguendo i dettami del congresso di Vienna: nel dicembre 1816 F. assunse il nome di re del Regno delle Due Sicilie; la Sicilia veniva così a perdere i suoi privilegi e la sua secolare autonomia da Napoli, diventando parte integrante del Mezzogiorno, di cui avrebbe condiviso le istituzioni.

Alla politica dell'amalgama si opponeva il partito reazionario, seguito con simpatia dal re. Questi riuscì solo per alcuni mesi del 1816 a dare un indirizzo diverso, affidando nel gennaio la direzione della polizia ad un fedelissimo esponente dell'aristocrazia legittimista, A. Capece Minutolo principe di Canosa, ma nel maggio la scoperta delle sue connivenze con la setta reazionaria dei calderari ne resero improrogabili le dimissioni, malvolentieri accettate dal sovrano.

I provvedimenti governativi di maggior rilievo del periodo dell'amalgama, fino al 1820, furono per lo più strettamente connessi con il riformismo del Decennio, come nel caso della deúnitiva sanzione dell'eversione della feudalità, o della stesura dei nuovi codici, che apportavano pochissime modifiche a quelli napoleonici (la principale, l'abolizione del divorzio). Unica importante nota di novità fu la ripresa delle trattative per il concordato, particolarmente sollecitate da F., ormai assai lontano dalle antiche posizioni anticurialiste. Gli accordi definitivi, stilati nel 1818, prevedevano fra l'altro l'imposizione della religione cattolica quale religione di Stato ed il ripristino della censura ecclesiastica, pur riconoscendo al sovrano la prerogativa del regio assenso. Nel complesso comunque "il concordato non rappresentò un cedimento alle pretese della Chiesa, come sembrò all'opinione pubblica, che lo accolse con ostilità" (Scirocco, p. 654).

Ma la situazione politica e finanziaria del Regno non era delle più rosee: una nuova fase di ristagno economico, di gravi crisi agrarie, succeduta al fiscalismo francese, aveva acuito i disagi della popolazione. Anche alcuni trattati commerciali e la micidiale concorrenza della produzione inglese dopo la fine del blocco continentale fiaccavano l'economia del paese. La situazione era resa oltremodo critica dal clima di settarizzazione dei partiti napoletani e dal generale malcontento espresso soprattutto dai quadri militari regnicoli, tra le cui fila la carboneria contava numerosi adepti. L'agitazione raggiunse il suo culmine alla notizia della rivoluzione di Cadice nel giugno 1820 e della concessione della costituzione in Spagna, ben presto riconosciuta anche da F. stesso. Lo scoppio del moto carbonaro a Nola (2 luglio) sorprese governo e sovrano, che non compresero la gravità della situazione e non seppero fronteggiarla adeguatamente. La diserzione di Guglielmo Pepe e delle sue truppe segnò una svolta decisiva nello sviluppo della rivoluzione: oramai l'intero esercito borbonico chiedeva la costituzione. Il re quindi, suo malgrado, dovette cedere; per non venir meno agli obblighi contratti con le potenze della Restaurazione nominò vicario generale il figlio Francesco, che concesse la costituzione di Spagna, ma subito dopo (7 luglio) fu obbligato dagli insorti a ratificarla personalmente, a compiere - come scrisse - un "doloroso sacrificio ... per così salvare dal minacciato flagello non solo la capitale ma tutto il regno" (cfr. Colletta, Storia, III, pp. 139-140).

Nei mesi successivi F. rimase completamente estraneo alla gestione o al controllo della cosa pubblica, passati per lo più nelle mani dei maggiori esponenti dell'amministrazione murattiana. Egli si limitò solo - cedendo alle minacce e alle insistenze delle varie forze politiche - a presenziare all'apertura del Parlamento il 1º ottobre. Nel dicembre però fu chiamato in causa dalle potenze europee, avverse fin dall'inizio al nuovo assetto istituzionale che il Regno andava assumendo. L'invito di recarsi a Lubiana fu entusiasticamente accolto dal sovrano, che vide la possibilità di ripristinare il proprio assolutismo; vinse l'opposizione dei carbonari e le remore del governo e dello stesso Francesco promettendo in una serie di messaggi pubblici e privati di difendere al congresso di Lubiana la costituzione e la causa napoletana. Si trattava chiaramente, però, di affermazioni strumentali, che il sovrano era ben deciso a non mantenere, desideroso solo di allontanarsi da Napoli. Infatti al congresso di Lubiana (gennaio-febbraio 1821) non oppose alcuna resistenza alle decisioni prese dalle corti alleate sulla restaurazione da realizzare nel Regno napoletano, che prevedeva tra l'altro l'intervento armato austriaco. L'opposizione di F. riguardò soltanto quegli aspetti che ledevano l'integrità della propria autonomia regia.

A questo punto F. poteva restare a guardare l'inevitabile disfatta dei costituzionali: a nulla servirono l'invio a Napoli del Mastrilli per indurre alla distensione e - dopo l'apertura del conflitto - un suo editto (6 marzo 1821) che intimava lo scioglimento dell'esercito: lo scontro avvenne e l'armata austriaca ebbe facilmente la meglio. Aveva così inizio la terza restaurazione del suo lungo e tormentato regno. Nelle intenzioni delle potenze alleate bisognava fare delle concessioni alle frange più moderate della classe dirigente meridionale: essenziali erano le due Consulte di Stato - una per Napoli e una per la Sicilia - previste a Lubiana e introdotte nel Regno con legge del maggio 1821. Ma F. preferì fare scelte decisamente reazionarie: nominò un governo incapace di fare politica, in cui primeggiava come ministro di Polizia il Canosa, e rinnegò tutta la precedente politica dell'amalgama. Decisa fu quindi l'epurazione nei confronti di magistratura, polizia, esercito e pubblica amministrazione; i simpatizzanti della rivoluzione furono allontanati o arrestati, mentre condanne a morte - M. Morelli e R. Silvati - o severe pene detentive colpivano i maggiori protagonisti. Le Consulte furono create solo dopo le reiterate proteste degli organi internazionali di controllo e dopo il ripristino di un ministero politico (giugno 1822), in cui riprendevano la funzione guida il de' Medici e il Tommasi, ma divennero operative solo nel 1824, notevolmente sminuite dall'accentramento presso il re e dal ridotto numero di componenti: "lo spirito delle decisioni di Lubiana era totalmente eluso, e le Consulte nascevano morte, incapaci di essere quel legame tra il governo e il paese che si era ritenuto necessario per superare effettivamente la crisi del '20" (Scirocco, p. 681).

Frattanto, dall'ottobre 1822 all'agosto 1823, F. si assentava dal Regno, nonostante la criticità del momento: prima per prendere parte al congresso di Verona (in cui non chiese, come sperato, il ritiro delle truppe di occupazione austriache) e poi per trascorrere un lunghissimo periodo di vacanza in Austria. Tornato a Napoli, riprese a dedicarsi soprattutto alle consuete attività venatorie. Molto scarsa fu quindi la partecipazione di F. alle scelte politiche e gestionali compiute negli ultimi anni del suo regno dal governo napoletano. Nel complesso non si riuscì a fronteggiare adeguatamente la grave crisi politica ed economica del momento, il crescente indebitamento dello Stato e la conseguente pressoché assoluta mancanza di iniziative nel campo dell'assistenza sociale o delle opere pubbliche. Le uniche misure degne di nota furono le nuove tariffe doganali adottate nel 1823-24, tendenti a tutelare il nascente settore manifatturiero e a stimolare lo sviluppo del commercio marittimo.

F. morì a Napoli nella notte tra il 3 e il 4 genn. 1825.

Fonti e Bibl.: Di F. manca una accurata e critica biografia. Solo apologetici e celebrativi sono i ricordi comparsi subito dopo la sua morte: E. Taddei, Orazione funebre di F. I, Napoli 1825; M. F. Avellino, Delle lodi di F. I re del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1825; C. Lancellotti, Memorie istor. di F. I re del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1827. Profili sono nelle Biographie universelle. Ancienne et moderne, e c. d. J.-Fr. Michoud, rist. anast. Graz 1957 (1 ed. 1854), XIII, pp. 554-561, nel Diz. del Risorg. naz., III, pp. 59 ss., e in F. Nicolini, Figure e aspetti della Napoli borbonica, in Boll. dell'Arch. stor. del Banco di Napoli, III (1957), 9-12, pp. 499-507. Espressione di una storiografia minore, priva di spessore analitico ed interpretativo, risultano le recenti opere di D. Capecelatro Gaudioso, F. I di Borbone re illuminista, Napoli 1987, molto approssimativa, e la più documentata di V. Gleijeses, F. IV re di Napoli, Napoli 1991. Su F. si soffermano diffusamente anche le moltissime memorie - coeve o di poco successive, alcune sfacciatamente filoborboniche, altre apertamente contrarie - e le non poche opere storiografiche (di vario valore) sui Borboni e sul Regno di Napoli in generale. Tra le opere sui Borboni cfr. G. La Cecilia, Storie segrete o misteri della vita intima dei Borboni di Napoli e Sicilia, Palermo 1860, passim, e A. Dumas, IBorboni di Napoli, Napoli 1862, passim (si occupa solo del periodo 1735-1815): entrambi hanno scarso valore storiografico, risultano troppo parziali e danno eccessivo credito a tutti i pettegolezzi e agli stereotipi antiborbonici; G. Buttà, I Borboni di Napoli al cospetto di due secoli, I, Napoli 1877, passim, eccessivamente filoborbonico, confuso e aneddotico; H. Acton, I Borboni di Napoli, Milano 1960, ad Indicem, molto analitico e minuzioso nel riferire anche le storie minime della corte e dei sovrani, ma privo degli indispensabili riferimenti bibliografici ed archivistici. Ben più validi sono l'agile sintesi di R. Moscati, I Borboni in Italia, Napoli 1970, ad Indicem, e quella più compendiosa di G. Coniglio, IBorboni di Napoli, Milano 1981, passim. Tra le opere generali sul Regno di Napoli (ma la differenza con le precedenti sta spesso solo nel titolo per il peso ricoperto dalla ricostruzione sui sovrani) ricordo le minuziose cronache di G. Orloff, Memoires historiques, politiques et litteraires sur le Royaume de Naples, II, Paris 1825, passim e di F. De Angelis, Storia del Regno di Napoli sotto la dinastia borbonica, I-VII, Napoli 1817-1833, passim. Molto utili sono P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, Capolago 1834, soprattutto nell'ediz. in tre voll. commentata e aggiornata a cura di N. Cortese, Napoli 1957, ad Indicem;A. Cacciatore, Esame della storia del Reame di Napoli di Pietro Colletta, Napoli 1850, ad Indicem;M. Schipa, Albori di Risorgimento nel Mezzogiorno d'Italia, Napoli 1938, ad Indicem, che abbraccia in agile sintesi i regni di Carlo e F. fino al 1821; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1931, ad Indicem;R. Moscati, Dalla reggenza alla Repubblica partenopea, in Storia di Napoli, VII, Napoli 1972, ad Indicem. Di ben inferiore fattura invece G. Garofalo, La monarchia borbonica a Napoli, Roma 1963, passim e V. Gleijeses, Il regno dei Borbone a Napoli, Napoli 1981, ad Indicem. Valida e utilissima la recente sintesi di E. Chiosi, IlRegno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, IV, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, II, Roma 1986, passim. Utile infine per la successione cronologica degli avvenimenti C. De Nicola, Diario napoletano, Napoli 1906, ad Indicem. L'elenco completo dei suoi diciassette figli, che mette fine alle molteplici incertezze genealogiche della letteratura precedente è in G. Dell'Aja, Il Pantheon dei Borboni in S. Chiara di Napoli, Napoli 1987, passim. SuF. si soffermano ampiamente moltissimi diari, epistolari, testimonianze oculari, memorie e pamphlets degli stessi sovrani, dei ministri, degli ambasciatori e dei visitatori stranieri e di vari altri protagonisti ed osservatori contemporanei, che in questa sede non è possibile riportare, ma che risultano nelle note e nelle bibliografie delle più accurate opere sopra riportate. Sul periodo della reggenza è molto utile soprattutto M. Vinciguerra, La reggenza borbonica nella minorità di F. IV, in Arch. stor. per le Prov. napoletane, XI, (1915), pp. 576-91; XLI (1916), pp. 100-23, 337-53, 493-515; XLII (1917), pp. 184-221 e M. G. Maiorini, La reggenza borbonica (1759-1767), Napoli 1991. Sull'opera dei governo napoletano in questo periodo e sui primi dieci anni di maggiore età di F. si soffermano varie opere, tutte menzionate nel più recente saggio di R. Mincuzzi, B. Tanucci ministro di F. di B. (1759-1776), Bari 1967, ad Indicem, nonché i molteplici epistolari del Tanucci, tutti pubblicati, tra cui è il caso di ricordare quello con Carlo III a cura della stessa Mincuzzi: Lettere di B. Tanucci a Carlo III di Borbone (1759-1777), Roma 1969, ad Indicem. Un'analisi della meticolosa preparazione diplomatica del matrimonio di F. è in M. Schipa, Nel Regno di F. IV, Napoli 1938, pp. 7-76. Sul periodo del ministero del Sambuca si sofferma analiticamente R. Ajello, Ifilosofi e la regina. Il governo delle Due Sicilie di Tanucci e Caracciolo (1776-1786), in Riv. stor. ital., CIII (1991), pp. 398-454. Utili anche le opere generali sopra segnalate nonché la testimonianza diretta delle lettere inviate da F. al padre tra il 1775 e il 1785, conservate all'Archivio di Simancas, di cui è copia presso la Bibl. di storia patria di Napoli (XXVI, A, 6-7). Molto utile per il periodo del ministero Caracciolo è il saggio ad esso dedicato in M. Schipa, Nel Regno di F. IV, cit., pp. 77-323. Sugli anni Novanta esiste innanzitutto l'ampia memoria di G. M. Arrighi, Saggio storico per servire di studio alle rivoluzioni politiche e civili del Regno di Napoli, III, Napoli 1813, passim. Accurati e vasti studi, che si occupano anche dei periodi precedenti, sono quelli di L. Conforti, Napoli dal 1789 al 1796, Napoli 1887, passim, e di A. Simioni, Le origini del Risorgimento politico nell'Italia meridionale, I-II, Messina-Roma 1925, passim, che fornisce anche un convincente profilo di F. (I, pp. 2-11). Nel complesso di un certo interesse, anche se di parte e con alcuni vistosì errori, è P. Calà Ulloa, Maria Carolina e la conquista del Regno di Napoli, Napoli 1968, passim (1 ediz. francese, Paris 1872). Una testimonianza diretta, comunque di poca utilità per lo scarso rilievo dato ai fatti pubblici, è il monumentale diario di F., iniziato nel maggio 1796e proseguito fino alla morte (Arch. di Stato di Napoli, Archivio Borbone, voll. 111-128), in parte pubblicato con introduzione e note di U. Caldora: Diario di F. IV di B. (1796-1799), Napoli 1965. Interessanti studi monografici su singoli accadimenti di questi anni sono N. Nicolini, Luigi de' Medici e il giacobinismo napoletano, Firenze 1935, ad Indicem;Id., La spedizione punitiva del Latouche-Tréville (16 dic. 1792) ed altri saggi sulla vita politica napoletana alla fine del secolo XVIII, Firenze 1939, ad Indicem;G. Nuzzo, La monarchia delle Due Sicilie tra Ancien Regime e rivoluzione, Napoli 1972, passim, che raccoglie anche studi sui periodi Sambuca e Caracciolo; Id., A Napoli nel tardo Settecento. La parabola della neutralità, Napoli 1990, passim. La storiografia e la memorialistica hanno dedicato ampio spazio al 1799, con molti studi e narrazioni, che in questa sede non è necessario riportare. Qui basterà indicare il classico V. Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, in particolare nell'ediz. con note di N. Cortese, Firenze 1926, passim, nonché il volume di documenti La riconquista del Regno di Napoli nel 1799. Lettere del cardinal Ruffo, del re, della regina e del ministro Acton, a cura di B. Croce, Bari 1943, passim. Della prima restaurazione borbonica si occupano specificamente: L. Blanch, Il Regno di Napoli dal 1801 al 1806, in Id., Scritti storici, a cura di B. Croce, I, Bari 1945, ad Indicem;P. Pieri, Il Regno di Napoli dal luglio 1799al marzo 1806, Napoli 1927, passim;M. Mendella, La prima restaurazione borbonica (1799-1806), in Storia di Napoli, IX, Napoli 1972, ad Indicem;A. M. Rao, La prima restaurazione borbonica, in Storia del Mezzogiorno cit., passim, a cui si può fare ricorso per la restante ampia bibliografia sul periodo. Sul lungo periodo siciliano si soffermano specificamente G. Bianco, La Sicilia durante l'occupazione inglese (1806-1815), Palermo 1902, ad Indicem;A. Genoino, Le Sicilie al tempo di Francesco I (1777-1830), Napoli 1934, ad Indicem;A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Torino 1965, ad Indicem;F. Renda, Dalle riforme al periodo costituzionale. 1734-1816, in Storia della Sicilia, VI, Napoli 1978, pp. 269-290. Tra la fittissima bibliografia sulla seconda restaurazione e sui vari momenti di questa fase è il caso di segnalare innanzitutto le recenti sintesi di G. Talamo, Napoli da Giuseppe Bonaparte a Ferdinando II, in Storia di Napoli, IX, cit., ad Indicem, e di A. Scirocco, Dalla seconda restaurazione alla fine del Regno, in Storia del Mezzogiorno, cit., pp. 643-682. Molto utili i seguenti studi specifici: N. Cortese, Per la storia del Regno delle Due Sicilie dal 1815al 1820, in Il Mezzogiorno e il Risorgimento italiano, Napoli 1965, ad Indicem;W. Maturi, Il principe di Canosa, Firenze 1944, ad Indicem;Id., Ilconcordato del 1818tra la S. Sede e le Due Sicilie, Firenze 1929, ad Indicem;L. Blanch, La rivoluzione del 1820e la reazione che ne seguì, in Id., Scritti storici, cit., II, ad Indicem;L. Minichini, Luglio 1820. Cronaca di una rivoluzione, con introduzione e note di M. Themelly, Roma 1979, ad Indicem, a cui si può fare riferimento per la restante vastissima bibliografa su questo momento rivoluzionario e sull'atteggiamento di F. verso di esso; IlRegno delle Due Sicilie e l'Austria. Documenti dal marzo 1821al novembre 1830, a cura di R. Moscati, Napoli 1937, ad Indicem;G. Cingari, Mezzogiorno e Risorgimento. La Restaurazione a Napoli dal 1821 al 1830, Bari 1976, ad Indicem.

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