COMANDINI, Federico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 27 (1982)

COMANDINI, Federico

Giuseppe Monsagrati

Nacque a Cesena il 3 febbr. 1815 da Ubaldo, tintore, e da Maria Anna Pasini. Il padre, che in gioventù era stato giacobino e nel 1799, al tempo della prima reazione antifrancese, aveva sofferto il carcere, educò lui e gli altri nove figli agli ideali di libertà che, nello Stato pontificio della Restaurazione e in una Romagna tradizionalmente inquieta per la pessima amministrazione cui era sottoposta, erano anzitutto ideali anticlericali e aspirazioni a rompere o almeno ad allentare i legami con Roma. Il C. venne a maturità nel periodo in cui si verificava il lento passaggio dalle confuse e spesso torbide rivendicazioni settarie tipiche di un'epoca di repressione generalizzata ad un meglio definito progetto politico, e il clima delle cospirazioni, delle vendette private, delle esecuzioni di parte si preparava a far posto alla penetrazione del mazzinianesimo o, più genericamente, alla diffusione di idee forza come l'indipendenza e l'unità nazionale.

Il C. si pose giovanissimo al servizio di questo programma che ebbe nella rivoluzione del 1831 la sua prima manifestazione: "Io allora aveva 16 anni - rievocherà più tardi - e sapevo tutto, perché a casa di mio padre i rivoluzionari andavano e venivano, ed io era affezionato a quella brava gente, e mi mostravano fiducia, benché fossi molto giovane" (Cospirazioni..., p. 20). La rivoluzione ebbe in lui più un testimone che un protagonista, ma già l'anno appresso, il 20 genn. 1832, egli era coi fratelli Domenico e Antonio nel piccolo esercito che si batté a Cesena contro i Pontifici i quali, dopo il ritiro degli Austriaci, dovevano riportare l'ordine nelle province ribelli. La sconfitta dei rivoltosi e la successiva restaurazione del potere papale, ben lungi dall'acquietare le popolazioni della Romagna, rinfocolarono l'attività settaria, espressione istintiva del malcontento generale. Mentre trovava lavoro come garzone d'oreficeria il C. entrava nella Giovine Italia, che in quegli anni coinvolgeva strati sempre piùvasti della borghesia e dei ceti inferiori e preparava l'esplosione rivoluzionaria del triennio 1843-45.

In questo lungo periodo il C. fu uno degli esponenti più attivi di quella agguerrita minoranza che non credeva nelle riforme e auspicava una soluzione radicale del problema delle Romagne all'interno dello Stato pontificio. A Faenza, dove il suo lavoro lo aveva portato nel 1840, egli era entrato in contatto con un'organizzazione settaria ben radicata nella società e che aveva i suoi capi in uomini come i conti F. Lovatelli e R. Pasi e i cugini V. e L. Caldesi, tutti di formazione mazziniana ma allineati ora sulle tesi di N. Fabrizi, colui che voleva confinare Mazzini in un ruolo di semplice teorico e, riservando a sé la gestione delle strutture militari, sosteneva la necessità di un collegamento a scopo insurrezionale di tutte le schiere liberali dalla Sicilia alla Romagna, lo scacchiere da lui individuato come il punto debole della reazione in Italia.

Nel moto di Rimini del 29 sett. 1845, che fu il culmine di questa strategia velleitaria quanto incapace di una reale aggregazione delle forze insurrezionali, il C. funse da elemento di raccordo tra le diverse bande che dovevano sostenere e possibilmente allargare il raggio d'azione di un tentativo che, invece, restò isolato e costrinse alla fuga in Toscana i suoi artefici: il C. stesso, dopo alcuni mesi di latitanza, fu rispedito dalle autorità faentine a Cesena dove si occupò, apparentemente, più di oreficeria che di cospirazioni.

In realtà, come tutti i suoi compagni di lotta, il C. doveva accettare le conseguenze del fallimento e il prevalere della tendenza moderata e riformista, accreditata oltre tutto dall'avvento di un papa come Pio IX e dai suoi primi sforzi di rinnovamento; in un clima di pieno sviluppo del movimento e del metodo moderati, l'unica via praticabile dai rivoluzionari era l'inserimento nelle ricorrenti manifestazioni di massa al fine di sfruttare l'entusiasmo per il papa e spingere l'opinione pubblica ad abbracciare la causa nazionale e la lotta per l'indipendenza. Quando finalmente iniziò la guerra contro l'Austria, la tattica del C. e di tutti i democratici fu quella di forzare la mano al pontefice promuovendo una forte partecipazione di volontari al conflitto: già il 27 marzo 1848 una colonna di faentini, guidata dal Pasi, si mise in marcia e, vinte le esitazioni di qualche capo, ai primi di aprile entrò nel Veneto per portarsi quindi a Vicenza dove dal 20 maggio al 10 giugno contribuì alla difesa della città dagli attacchi austriaci. Poi, come previsto dalla capitolazione dell'11 giugno, tutte le formazioni tornarono ai luoghi di provenienza, deluse ma decise a battersi contro il nemico interno rianimatosi dopo l'inversione di tendenza della politica papale. Peraltro il C., forse perché stanco della lunga militanza, parve volersi estraniare da ogni attività e durante il breve regime repubblicano si mostrò ostile sia alla linea moderata sia alle deviazioni anarcoidi che la lotta politica minacciava di assumere a Faenza. Caduta la Repubblica Romana, aprì in società con D. Ceroni un'oreficeria che il figlio Alfredo avrebbe ricordato come "una delle meglio avviate" di Faenza (Memorie giovanili, p. 28), e il 6 dic. 1849 sposò Clementina Bonini, figlia di un noto reazionario del posto.

Questo disimpegno fu tuttavia di breve durata poiché tra il 1850 e il 1852 il C. si dedicò, come membro del Comitato faentino dell'Associazione nazionale italiana, alla diffusione della fitta trama cospirativa con cui da Londra il Mazzini tentava di ribadire la presenza rivoluzionaria negli Stati romani: in vista dei programmi che sarebbero giunti a maturazione il 6 febbr. 1853, al Mazzini interessava soprattutto che i democratici di Emilia e Romagna lavorassero ad una lenta penetrazione tra gli ungheresi delle guarnigioni austriache in modo da poter contare su fenomeni di insubordinazione che, insieme con un'estensione dell'insurrezione alle città emiliane, avrebbero impedito, una volta iniziato il moto, il trasferimento di quelle truppe in Lombardia. Profittando del suo lavoro che lo obbligava spesso a viaggiare e dei numerosi collegamenti stabiliti anche con elementi romani, il C. agì in questi anni da polo di una vasta organizzazione; ma al momento dell'azione, nonostante l'invio sul posto di A. Saffi e di A. Franceschi, né l'Emilia né la Romagna si mossero, prima sorprese dalla notizia del moto milanese quindi intimorite dalla sua rapida conclusione. Tuttavia la polizia austriaca procedé ugualmente ad approfondite indagini che portarono allo sgretolamento della rete settaria di Bologna e Forlì. Arrestato in casa nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1853 forse per il tradimento di un poliziotto delatore, il C. fu subito tradotto a Bologna e sottoposto a stringenti interrogatori; ma da lui gli inquirenti non seppero nulla, neanche col ricorso alla tortura, che ebbe come solo effetto quello di indurlo al suicidio (27 luglio 1853): scoperto quando aveva già perso molto sangue per i colpi infertisi con un frammento di bottiglia, il C. si salvò e non fu più interrogato; e il 18 genn. 1855 un tribunale militare austriaco rese nota la sentenza che, giudicando provata l'accusa di alto tradimento per cospirazione contro il governo pontificio, lo condannava alla pena capitale, poi commutata in quella di sei anni di detenzione da scontare in un carcere dello Stato pontificio, sotto la cui giurisdizione i condannati ritornavano dopo la sentenza del tribunale austriaco.

Il C. fu rinchiuso prima nel forte di Civita Castellana (5 febbr. 1855), quindi, dal 26 apr. 1855, in quello di Paliano dove ad un trattamento iniziale abbastanza umano e tollerante ne subentrò presto, dopo l'avvicendamento del comandante, un altro più rigoroso, che in breve tempo spinse i detenuti a studiare un piano di evasione al quale, per quanto contrario, collaborò anche il C. che, essendo tra i più moderati, avrebbe volentieri atteso la scadenza della pena. Il progetto, messo in atto il 14 mazo1857, fu però vanificato dalla dura reazione della guarnigione anche perché non poté fruire d'alcun appoggio dall'esterno, quantunque da tempo il Mazzini sollecitasse i suoi collaboratori in Italia a prendere in esame l'eventualità di assaltare il forte e liberarne i reclusi: il bilancio della fallita evasione fu di sei detenuti uccisi e di una nuova condanna che per il C., riconosciuto tra gli organizzatori della rivolta, fu ancora quella capitale, poi commutata dal papa nell'ergastolo.

Dopo gli eventi del 1859-60 il problema dei detenuti politici rinchiusi nelle carceri pontificie fu a più riprese sollevato dal governo italiano che con la mediazione della Francia cercò di strappare a Roma un atto di clemenza; ma, stando a quel che attesta Alfredo Comandini nelle suo note alle Memorie paterne, la grazia accordata da Pio IX il 21giugno 1865 fu in gran parte dovuta all'intervento di un ebanista faentino, G. B. Gatti, che, amico d'infanzia del C., era in buone relazioni con un "altissimo personaggio ecclesiastico" della Curia (Cospirazioni, p. 598).

Al ritorno a Cesena il C. fu accolto come un eroe; nei molti anni che seguirono la cittadinanza gli testimoniò l'affetto e la stima che il suo dignitoso comportamento gli aveva meritato. La gioielleria era stata messa in liquidazione sin dai tempi dell'arresto, cosicché per un breve periodo il C. dovette vivere a Fabriano con un impiego statale che poi gli fu tolto per motivi politici; allora tornò a Cesena, dove fondò e diresse la Banca popolare cooperativa. Anche nella vita politica, in cui si tenne saldo ai principi repubblicani sempre professati, il peso che poté esercitare derivò più dal prestigio del suo passato che non da un effettivo ritorno all'azione; figura moralmente rappresentativa, il C. era "un po' un simbolo del repubblicanesimo" romagnolo (Lotti, I repubblicani in Romagna..., p. 21) che fece ricorso a lui quando si cercò di trovare un accordo con le forze nuove degli anarchici e degli internazionalisti. In questo ruolo il C. partecipò al convegno di villa Ruffi, dove gli esponenti delle varie tendenze della democrazia si incontrarono per gettare le basi di una strategia unitaria della Sinistra estrema in vista delle imminenti elezioni e di una ripresa, da taluni auspicata, dell'attività eversiva; ma il 2 ag. 1874 tutti i convenuti furono arrestati "per un reato di cospirazione repubblicana - scriverà Alfredo Comandini, presente anche lui in quell'occasione - che non esisteva se non ... nelle malvagie fantasticherie e complottazioni della polizia italiana continuante le tradizioni della papale" (Cospirazioni, p. 461), come del resto provò la scarcerazione in tempi successivi di padre e figlio per mancanza di indizi. Ancora nel 1889 fu il C. a tentare di sanare, senza riuscirci, il dissidio insorto tra i repubblicani di vecchia osservanza e quelli che propugnavano l'adesione ad alcune tesi socialiste collaborando con i seguaci di Andrea Costa; ma ben più doloroso delle divisioni interne fu per lui lo scandalo finanziario che, vedendo implicati alcuni dirigenti, lo costrinse nel 1892 a sciogliere la Consociazione repubblicana di Cesena, la città natale che tre anni prima gli aveva inutilmente offerto la carica di sindaco.

Da tempo malato di cuore, il C. morì a Cesena il 16 maggio 1893.

Fonti e Bibl.: Fonte principale della biogr. del C. è il vol. delle Cospirazioni di Romagna e Bologna... (Bologna 1899) con cui A. Comandini illustrò, dandolo alle stampe, il manoscritto delle Memorie paterne che si interrompevano col 1857. Ad integrazione di questo testo si vedano, tra le fonti, A. Lucatelli-L. Micucci, Carità di patria. Ai fratelli dimenticati. Ricordo, Roma 1889, pp. 13-18, 69-82; A. Comandini, Contabilità mazziniana, in Archiginnasio, X (1915), pp. 240-246; Id., Memorie giovanili, a cura di P. Zama, Faenza 1959, ad Indicem. Per una valutazione critica di alcuni momenti della vita del C. si rinvia a D. Mazzotti, Gente di Romagna. Il centenario dell'arresto di F. C. …, in Rass. stor. d. Ris., XLI (1954), pp. 453-455; A. Berselli, Gli arresti di Villa Ruffi. Contributo alla storia del mazzinianesimo, Milano 1956, p. 14, 139, 158; L. Lotti, I repubblicani in Romagna dal 1894 al 1915, Faenza 1957, ad Indicem; F. Della Peruta, Idemocratici e la rivoluzione italiana, Milano 1958, ad Ind.; F. Comandini, C'era una volta un tintore. Una favola vera, Roma 1963, pp. 6-44; P. Zama, La rivolta in Romagna fra il 1831 e il 1845 ..., Faenza 1978, ad Indicem.

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