FARMACO

Enciclopedia Italiana - IX Appendice (2015)

FARMACO.

Francesco Clementi

– Industria farmaceutica e mercato del farmaco. Farmaci generici o equivalenti e biosimilari. Ricerca di nuovi farmaci. Nanotecnologie e nanoscienze. Terapia personalizzata. MicroRNA (miRNA). Epigenetica. Terapia cellulare. Conclusioni. Bibliografia

Per farmaco si intende ogni sostanza capace di provocare in un organismo modificazioni funzionali mediante un’azione chimica o fisica, di solito interagendo con molecole specifiche (recettori). Queste modificazioni possono essere sfruttate in modo positivo e portare a risultati utili in terapia o possono, invece, produrre effetti negativi o tossici. Il farmacologo deve, dunque, possedere conoscenze sia sui composti attivi sia sull’organismo con il quale interagiscono e sulle patologie che lo affliggono. Inoltre, i f. sono strumenti sperimentali fondamentali per lo studio e la comprensione di eventi biologici e della funzionalità dell’organismo.

Industria farmaceutica e mercato del farmaco. – In questi ultimi anni la ricerca biologica, clinica e farmacologica ha fatto tali passi in avanti da portare a una forte evoluzione ed espansione dei f. e del loro indotto, comportando rilevanti implicazioni economiche nella produzione e nel mercato.

Il f. è disegnato in modo da interferire positivamente o negativamente con una determinata funzione cellulare o dell’organismo, con l’idea che questo provochi un beneficio terapeutico in una determinata patologia. Le scoperte del la biologia molecolare e delle biotecnologie hanno permesso di identificare molti meccanismi cellulari e molecolari responsabili di numerose patologie e quindi di creare molecole che specificamente interagiscano con questi microbersagli, attivandoli o inibendoli e provocando così un beneficio terapeutico. Si pensa che i bersagli farmacologici siano passati in questi anni da 500 a 5000. Esempi tipici di questo modo di procedere sono i f. ‘intelligenti’ (Clementi 2007) e i nuovi f. antiepatite C (Liang, Ghany 2014). Quindi non più una ricerca casuale, ma una ricerca mirata e razionale basata su scoperte scientifiche. La rapidità con la quale si arriva a queste scoperte implica un’organizzazione della ricerca molto plastica, duttile e pronta al cambiamento, tipica di una struttura di ricerca accademica, piccola e intellettualmente curiosa. Una volta prodotto il f. in laboratorio è necessario testarlo sperimentalmente in vitro e in vivo per verificare se l’ipotesi di progettazione e la strategia farmacologica impostata erano corrette. Se i presupposti si rivelano fondati, è necessario passare a una fase di rifinimento della molecola per trovare quale dei suoi analoghi possa essere il migliore per un’applicazione terapeutica e contemporaneamente si saggia, sempre sperimentalmente, la tossicità della molecola su alcuni parametri essenziali. Questo processo dura in media sei anni e precede la sperimentazione clinica sull’uomo. Quest’ultima attività prevede tappe ben codificate (fasi 1-4), nelle quali il f. viene somministrato e i suoi effetti valutati prima su un piccolo gruppo di individui sani e poi su un numero sempre crescente di pazienti, fino ad arrivare all’immissione in commercio. Queste fasi cliniche possono durare più di cinque anni e coinvolgere centinaia di gruppi di ricerca in tutto il mondo e migliaia di pazienti. Per portare a termine una sperimentazione clinica così complessa ed estesa a livello multinazionale è importante possedere, oltre a una disponibilità economica elevata, anche una gestione organizzativa non indifferente. La spesa complessiva per ogni f. che entra in commercio è di circa 1 miliardo di dollari, con una possibilità di successo di una molecola su 5000-10.000 (Munos 2009; Moridani, Harirforoosh 2014). Ogni f. messo in commercio gode di un brevetto che normalmente dura vent’anni.

Nel secolo scorso la filiera del f. è stata sostenuta da industrie di dimensioni medio-grandi con una base essenzialmente nazionale. L’innovazione è stata garantita dalla ricerca farmaco-chimica dei laboratori interni all’industria e da una collaborazione con gruppi di ricerca accademici. Ma i laboratori industriali hanno assunto in questi ultimi anni dimensioni sempre più grandi e specializzazioni sempre più particolari, crescendo nei costi e perdendo di innovatività, e non riuscendo a seguire la complessità della ricerca biologica e il suo rapido evolversi. Come risultato, a fronte di un investimento sempre crescente la resa in f. non è aumentata (per es., negli Stati Uniti è rimasta costante con circa 25 nuovi prodotti all’anno). L’efficienza del sistema nel produrre nuovi f. è stata quindi troppo bassa. La spesa più onerosa è risultata a carico della sperimentazione clinica necessaria alla registrazione di un nuovo f., resa sempre più complessa ed estesa per soddisfare le giuste richieste di sicurezza ed efficacia imposte dalle agenzie di controllo dei farmaci. Si è quindi arrivati a una duplice impasse: i piccoli laboratori accademici o le piccole industrie innovative sono attivi nell’innovazione, ma non possono permettersi un costoso percorso clinico; le grandi aziende multinazionali hanno i mezzi economici necessari per sostenere lo sviluppo clinico del f., ma hanno poca innovazione. A questo si aggiunga che i brevetti per i f. che hanno contribuito alla grandezza economica di queste industrie sono scaduti nella seconda metà del Novecento e che le industrie non hanno pronti altri prodotti di rimpiazzo con un simile ritorno economico. Intorno all’inizio del 21° sec., questa situazione ha prodotto un terremoto industriale con la chiusura di molti centri di ricerca nell’industria farmaceutica e la fusione delle grandi industrie in pochi colossi multinazionali molto potenti finanziariamente (si vedano, per es., le fusioni di Glaxo Wellcome e SmithKline Beecham, di Merck e Shering-Plough, di Ciba-Geigy e Sandoz in Novartis, di Warner-Lambert e Pharmacia in Pfizer, di Rhône-Poulenc, Hoechst, Roussel Uclaf e Marion Merrell Dow in Aventis, a sua volta confluita in Sanofi), che gestiscono soprattutto la parte di sviluppo, produzione e sperimentazione clinica, mentre l’innovazione viene sempre più garantita dai laboratori accademici o dalle aziende start-up o spin-off dell’accademia e dell’industria. Questi piccoli laboratori dedicati e innovativi, con una tecnologia sempre adeguata alle nuove esigenze, producono molecole nuove, ne dimostrano l’efficacia sperimentale e la tollerabilità (i gruppi più grandi ne iniziano anche la sperimentazione clinica fino alla fase 1) e poi vendono il brevetto, o tutta la ditta con il know-how, alle grandi multinazionali che raffinano la ricerca sperimentale e clinica secondo le esigenze delle agenzie internazionali di controllo del farmaco (Food and drug administration, FDA; European medicines agency, EMA; Pharmaceuticals and medical devices agency, PMDA).

La riorganizzazione della filiera di produzione ha dei vantaggi: vengono potenziati i laboratori di ricerca accademici o delle piccole industrie che possono quindi contare su maggiori finanziamenti, anche se legati a un progetto specifico, da parte delle industrie maggiori o da parte di venture capitals; le grandi industrie possono condurre meglio, con più accuratezza ed estensione e con maggior rapidità la sperimentazione clinica e avere a diposizione un ventaglio di f. innovativi sul mercato. Ci sono però degli svantaggi: la ricerca farmacologica è sempre più legata ai grandi interessi industriali che mirano a prodotti economicamente utili e quindi attivi verso le patologie più diffuse (Kinch, Merkel, Umlauf 2014); poche industrie hanno il monopolio di f. importanti che spesso vengono proposti a prezzi proibitivi per le nazioni in via di sviluppo (industrie così grandi perdono spesso il senso etico legato al f., visto soprattutto in funzione economica e non sociale). I laboratori accademici o le start-up hanno un alto turnover e in genere vivono non molti anni, anche se chi riesce a sopravvivere ha un profitto economico e scientifico pregevole, e quindi la ricaduta sul sistema ricerca in generale non è molto alta. Inoltre tutta la filiera, dalla ricerca preclinica a quella clinica al processo di produzione, soffre di una forte restrizione di investimenti pubblici e privati. Questa situazione è in continua evoluzione e numerose sono le proposte che dovrebbero portare il sistema a una maggiore efficienza (Light, Lexchin 2012).

Nel passato l’Italia è stata una nazione leader in questo settore con grande beneficio non solo economico, ma anche di prestigio nazionale e di ricaduta sulla ricerca biomedica: basti pensare, tra le molte aziende, a Carlo Erba, Farmitalia, Lepetit, Sclavo, Menarini, Zambon, Bracco, Alfa Wasserman, che hanno dato prodotti farmacologici di grande rilevanza in molti settori, dagli antinfettivi ai f. del sistema nervoso e cardiovascolare. Queste aziende, nella riorganizzazione del sistema industriale prima descritto, sono state assorbite dalle grandi multinazionali. Tuttavia, in Italia l’industria farmaceutica è ancora un valido investimento economico, poiché è seconda in Europa dopo la Germania con un fatturato di 28 miliardi, 62.300 addetti, un indotto di circa 14 miliardi e una crescita annuale del 2%. Il nucleo essenziale dell’industria è ora rappresentato da filiali di industrie multinazionali rivolte soprattutto alla produzione e alla ricerca clinica e da industrie che producono i principi attivi dei f., settore molto attivo e stimato all’estero. Purtroppo, sono diminuite le aziende che fanno innovazione farmacologica, anche se vi è un’attiva presenza di alcuni gruppi originali in settori ben delimitati.

Il mercato del f. è un mercato drogato perché l’acquirente non è normalmente il singolo cittadino, ma i servizi sanitari nazionali, e la concorrenza tra industrie è di difficile realizzazione. Le agenzie nazionali della sanità, in Italia il ministero della Salute, hanno il compito di licenziare il f. per il Paese di loro competenza e quello di fissarne il prezzo. Fino alla fine del secolo scorso, questo prezzo era stabilito da una contrattazione tra industria e agenzia nazionale in base al costo del principio attivo, alle spese di produzione, di ricerca e sviluppo, di commercializzazione e distribuzione e al giusto guadagno della filiera. In questi ultimi anni i parametri sono cambiati e non si valuta tanto il costo del f. quanto il suo valore aggiunto in termini di salute prodotta. Quindi il prezzo di un f. innovativo che può portare vantaggi a una popolazione numerosa di pazienti sarà diverso da quello di un f. che sostanzialmente ‘copia’

o migliora di poco l’efficacia di altri trattamenti. Anche il potenziale numero dei pazienti che ne possono beneficiare è importante, tanto che il prezzo può variare da Paese a Paese e non essere collegato al costo reale del principio attivo: per es., il prezzo dei nuovi f. antiepatite C in Egitto, dove questa malattia colpisce una frazione molto alta della popolazione, varia rispetto a quanto pagato in Italia dove l’epatite è presente, ma non così diffusa. Questi criteri sono però difficili da standardizzare in modo preciso e possono dare origine a contenziosi e, talvolta, a contrattazioni non molto trasparenti.

Farmaci generici o equivalenti e biosimilari. – Il brevetto di un f., del suo processo o della sua applicazione scade di solito dopo vent’anni; trascorso questo tempo il f. può essere prodotto anche da altre industrie non titolari del brevetto, purché ne abbiano licenza dal ministero della Salute. È evidente che il costo di tale f. sarà molto minore in quanto vengono azzerati i costi relativi alla ricerca di sviluppo, preclinica e clinica, e al rischio industriale. I ministeri della Salute, che controllano la spesa per i f., hanno approvato misure legislative che favoriscono l’uso terapeutico di questo tipo di prodotti. Possiamo distinguerne due tipi, a seconda del principio attivo contenuto: nei f. generici o equivalenti il principio attivo è costituito da una ben definita sostanza chimica responsabile dell’effetto farmacologico, mentre nei f. biosimilari il principio attivo è una molecola biologica complessa, per es. un anticorpo, un peptide, un estratto biologico, per i quali non si può garantire un’uguaglianza chimica, ma solo un’equivalenza di attività.

Nel primo tipo, il principio attivo è lo stesso del f. ‘di marca’ o comparatore, ma differiscono gli eccipienti e la forma farmaceutica. In questo caso, visto che il principio attivo non è modificato, i f. sono sovrapponibili e ci si aspetta, per le stesse dosi, che anche le proprietà farmacologico-terapeutiche siano uguali. Le autorità sanitarie non esigono prove di efficacia clinica, ma controllano solo gli aspetti farmaceutici e farmacocinetici, richiedendo per questi ultimi la sovrapponibilità tra prodotto equivalente e di marca, con un margine di tolleranza del 20% (SIF 2010).

Per quanto riguarda i f. biosimilari, si tratta di prodotti biologici ottenuti non attraverso sintesi chimica, ma da cellule o da organismi biologici complessi. Questi f. possono essere uguali o simili per alcune loro parti, per es. la regione responsabile del legame a qualche bersaglio farmacologico e quindi dell’azione terapeutica, ma anche molto diversi in altre zone e avere quindi differenze rispetto alla molecola di marca o comparatore. Nonostante il biosimilare abbia le stesse proprietà chimico-fisiche e biologiche del comparatore e il processo della sua produzione sia ben descritto e codificato, vi sono troppi elementi che non si possono controllare direttamente e che impediscono quindi di basare l’equivalenza solo su dati farmacocinetici. Per quanto riguarda la registrazione di questi composti si deve, quindi, dimostrare la similarità e comparabilità rispetto al prodotto di riferimento attraverso adeguati studi preclinici e clinici. Il f. biosimilare non è quindi una ‘copia’ del f. originale, ma un nuovo f. con bersaglio uguale a quello colpito dal comparatore. Questo comporta che nella grande maggioranza dei casi i f. equivalenti siano intercambiabili e possano essere sostituiti al comparatore anche senza esplicita annotazione del medico, mentre i f. biosimilari non sono intercambiabili senza una preliminare analisi da parte del medico curante.

Ricerca di nuovi farmaci. – All’inizio del 21° sec., la ricerca di nuovi f. sta attraversando un periodo abbastanza critico (Light, Lexchin 2012). Infatti, sono scaduti o scadranno tra breve i brevetti per i f. che hanno caratterizzato l’espansione e il successo terapeutico del secolo scorso e non vi sono prodotti in sviluppo che promettano successi terapeutici simili. Questo ‘fallimento’ ha molto preoccupato sia l’ambiente dell’industria farmaceutica sia quello degli amministratori della ricerca, che hanno cercato di sopperire con la riorganizzazione dell’industria e dei centri di ricerca (Ongini 20124). Le biotecnologie che hanno contribuito in modo importante a un progresso nello sviluppo di f. (si pensi agli anticorpi monoclonali, ai fattori di crescita, alle citochine, ai f. attivi sulle cascate della trasduzione del segnale recettoriale e in particolare agli inibitori delle proteinchinasi e del virus dell’epatite C; Clementi 2007; Liang, Ghany 2014), ora sembrano essere non più così innovative e i venture capitals sono più restii a investire in questo tipo di ricerca (Kinch 2014). Questo non vuol dire che la situazione sia stagnante, anzi, si è in una fase di innovazione per un uso più appropriato dei f. esistenti. È il caso di molti anticorpi monoclonali, che risultano applicabili anche in tumori per i quali non erano stati pensati oppure nel controllo di malattie autoimmuni, ma anche delle citochine – utilizzate in modo più mirato – e dei f. che le inibiscono nel trattamento di patologie nelle quali l’infiammazione ha un ruolo importante. Inoltre, si stanno affrontando vie nuove, alcune delle quali particolarmente significative, che promettono di portare a risultati innovativi.

Nanotecnologie e nanoscienze. – È possibile utilizzare nanoparticelle che includono il f. al loro interno e che possono essere indirizzate a cellule, tessuti, organi dove il f. è necessario, a concentrazioni anche elevate, risparmiando una sua diluizione in tutto l’organismo, o la sua azione tossica dove non sia necessaria, o la sua distruzione da parte del sistema immunitario. Questo si può ottenere legando sulla superficie delle nanoparticelle sostanze che riconoscono specifici componenti (recettori, integrine ecc.) presenti solo sulle cellule che si vogliono attaccare. I risultati sperimentali sono molto buoni e promettono sviluppi molto interessanti, nonostante si siano incontrate difficoltà ancora da superare per un impiego clinico.

Terapia personalizzata. – Utilizzando le conoscenze fornite dalla biologia molecolare è possibile costruire per ogni individuo il profilo genetico, proteico e metabolico e quindi stabilire quale possa essere la dose più indicata di un f. per ottenere la risposta terapeutica. Inoltre, è ora possibile conoscere per ogni tessuto malato, per es. per un tumore, quale sia la mutazione o il polimorfismo responsabile della patologia cellulare o tissutale e quindi utilizzare il f. più attivo su quel bersaglio alterato. Si può così scegliere, individuo per individuo e malattia per malattia, la terapia per dose e f. più attiva per quello specifico individuo affetto da quella particolare forma morbosa. Per es., in alcuni tumori del pancreas, della prostata e dell’ovaio sono presenti mutazioni degli antigeni BRCA1 o BRCA2, tipici del tumore della mammella, che rendono questi tumori particolarmente sensibili agli inibitori di una poli ADPribosopolimerasi (PARP), enzima che favorisce il riparo del DNA (DeoxyriboNucleic Acid), e tra questi all’olaparib o AZD-2281, aprendo prospettive nuove per questi tumori assai invasivi (Lee, Ledermann, Kohn 2014). Un altro esempio riguarda recenti f. che agiscono direttamente sul virus responsabile dell’epatite C, con un’efficienza del 95% dei casi, così da abolire, in un prossimo futuro, questa patologia così diffusa e dalle gravi conseguenze per la salute e la vita. Anche in questo caso il f. colpisce selettivamente il virus, aumentando l’efficacia e diminuendo gli effetti collaterali. In generale, in futuro si potrebbe pensare a un percorso terapeutico che individui la composizione molecolare del bersaglio alterato e poi, in base a questo dato, instauri la terapia più opportuna, eventualmente con la sintesi di f. ad hoc.

MicroRNA (miRNA). – Si tratta di piccoli frammenti di RNA (RiboNucleic Acid) a singola catena non codificanti che si accoppiano attraverso sequenze specifiche a particolari porzioni dell’RNA messaggero (mRNA), favorendone la repressione o la degradazione da parte delle ribonucleasi. I miRNA agiscono come modulatori negativi a livello post-trascrizionale dell’espressione di geni coinvolti nella regolazione di molti meccanismi che controllano la proliferazione cellulare, il differenziamento, il metabolismoe la tumorigenesi. È possibile sintetizzare oligonucleotidi antisenso che inibiscono specificamente i diversi mRNA e utilizzarli come farmaci. Sperimentalmente essi sono mol to attivi contro alcuni tumori e infezioni virali, ma ci sono grandi difficoltà nel passaggio alla clinica a causa della loro scarsa stabilità nell’organismo per un’inadatta farmacocinetica. Tuttavia, almeno una dozzina di miRNA è già allo studio clinico in fase 1 e 2 (Li, Rana 2014).

Epigenetica. – È lo studio delle modificazioni dell’espressione genica e del fenotipo cellulare non provocate da interventi che variano la sequenza del DNA (e quindi ereditabili geneticamente dai genitori), ma generate in risposta a stimoli esterni. Il codice epigenetico è un modulatore essenziale dell’espressione genica, comportando un controllo nella regolazione della trascrizione, nella stabilità dei geni, nella proliferazione cellulare e nel differenziamento. Si pensa che molte delle malattie degenerative e comportamentali possano essere causate da eventi epigenetici occorsi durante lo sviluppo o, forse, addirittura nella generazione precedente. Le modificazioni epigenetiche più importanti sono la metilazione del DNA, la modificazione degli istoni e quelle prodotte dai miRNA e dall’imprinting genomico. Attualmente sono conosciuti f. capaci di intervenire in questi processi, e questa farmacologia, anche se è solo all’inizio, sembra in grado di aprire strade assai interessanti per molte patologie oggi ancora non aggredibili, soprattutto quelle cronico-degenerative (Ivanov, Barragan, Ingelman-Sundberg 2014).

Terapia cellulare. – Si tratta di una nuova forma di terapia a cavallo tra farmacologia, patologia e biologia cellulare ed è alla base della medicina rigenerativa. Lo scopo è duplice: sostituire almeno in parte le cellule morte o alterate con cellule sane rigeneranti dello stesso paziente o di individui immunologicamente compatibili (per es., il trapianto di cellule staminali mesenchimali isolate dal midollo osseo, una prassi ormai codificata in molte patologie ematologiche, oppure l’espansione in coltura di epiteli per riparare la cornea o la cute); introdurre nell’organismo cellule geneticamente modificate che facciano le veci delle cellule malate, in quanto si sostituiscono a queste o forniscono i principi attivi che le cellule malate non producono. In questo secondo caso le cellule, prima di essere immesse nel paziente, vengono manipolate in vitro perché sovraesprimano un particolare enzima carente nel paziente, oppure fattori trofici capaci di aiutare la sopravvivenza delle cellule malate, oppure per renderle staminali ma differenziate verso un particolare tipo cellulare che possa meglio adattarsi a rigenerare il tessuto perso (Dimmeler, Ding, Rando et al. 2014). Naturalmente, per quanto riguarda l’uso delle cellule manipolate, è necessario adempiere a precisi processi di preparazione nei quali ogni passaggio è controllato in modo da assicurare il più possibile che la cellula trapiantata sopravviva, ma non modifichi le sue proprietà biologiche e proliferative. È inoltre necessario un serio studio preclinico per valutare l’efficacia e la sicurezza nel lungo periodo delle cellule una volta immesse nell’organismo. L’utilizzazione della terapia a base di cellule staminali in ogni situazione clinica grave di degenerazione tissutale è attualmente molto pubblicizzata, anche se le basi teoriche e sperimentali sono piuttosto modeste, e per questo spesso si tratta di una speculazione sul dolore dei pazienti.

Conclusioni. – La scienza del f. sta conoscendo un periodo abbastanza critico, bloccata tra i successi del secolo scorso e le prospettive nuove che ancora non hanno dato i frutti sperati, anche perché le patologie per le quali non esiste terapia sono molto poco conosciute dal punto di vista eziopatogenetico. Tuttavia, si sta procedendo verso un raffinamento nell’uso dei f. noti, con l’ampliamento e la personalizzazione delle loro indicazioni terapeutiche, così da migliorare concretamente l’atto terapeutico che diviene più attento e più complesso.

Bibliografia: F. Clementi, Farmaci intelligenti, in Enciclopedia Italiana - VII Appendice, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2007, 2° vol., pp. 6-10; B. Munos, Lessons from 60 years of pharmaceutical innovation, «Natural reviews. Drug discovery», 2009, 8, pp. 959-68; D.W. Light, J.R. Lexchin, Pharmaceutical research and development: what do we get for all that money?, «British medical journal», 2012, 345, e4348; E. Ongini, Ricerca preclinica e sviluppo di nuovi farmaci, in Farmacologia generale e molecolare, a cura di F. Clementi, G. Fumagalli, Torino, 20124, pp. 23-34; S. Dimmeler, S. Ding, T.A. Rando et al., Translational strategies and challenges in regenerative medicine, «Nature medicine», 2014, 20, 8, pp. 814-21; M. Ivanov, I. Barragan, M. Ingelman-Sundberg, Epigenetic mechanisms of importance for drug treatment, «Trends in pharmacological sciences», 2014, 35, 8, pp. 384-96; M.S. Kinch, The rise (and decline?) of biotechnology, «Drug discovery today», 2014, 19, 11, pp. 1686-90; M.S. Kinch, J. Merkel, S. Umlauf, Trends in pharmaceutical targeting of clinical indications: 1930-2013, «Drug discovery today», 2014, 19, 11, pp. 168-285; J.M. Lee, J.A. Ledermann, E.C. Kohn, PARP inhibitors for BRCA1/2 mutation-associated and BRCA-like malignancies, «Annals of oncology», 2014, 25, 1, pp. 32-40; Z. Li, T.M. Rana, Therapeutic targeting of microRNAs: current status and future challenges, «Nature reviews. Drug discovery», 2014, 13, 8, pp. 622-38; T.J. Liang, M.G. Ghany, Therapy of hepatitis C. Back to the future, «The New England journal of medicine», 2014, 370, 21, pp. 2043-47; M. Moridani, S. Harirforoosh, Drug development and discovery: challenges and opportunities, «Drug discovery today», 2014, 19, 11, pp. 1679-81. Si veda inoltre: Società italiana di farmacologia (SIF), Farmaci equivalenti, Position paper, http://www.sifweb.org/docs/ sif_position_paper_farmaci_equivalenti_ott2010.php (13 apr. 2015).

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