EVOLUZIONE

Enciclopedia Italiana - II Appendice (1948)

EVOLUZIONE (XIV, p. 664)

Giuseppe Montalenti

È opinione abbastanza diffusa fuor degli ambienti scientifici che la biologia moderna abbia in certo modo sconfessato la teoria dell'evoluzione: o perché non avendone potuto dare una soddisfacente dimostrazione l'abbia lasciata cadere e la consideri come un'ipotesi sorpassata, o addirittura per averne riconosciuto l'inconsistenza. In realtà la biologia non potrebbe fare a meno della teoria dell'evoluzione, che è la più vasta generalizzazione a cui essa sia pervenuta. Pertanto gran parte dei biologi considera ancora tale teoria come una delle maggiori conquiste del pensiero scientifico, e soltanto se l'evoluzione fosse apertamente contraddetta dai fatti, o se fosse vantaggiosamente sostituibile con un'altra teoria che meglio rendesse conto dei fenomeni, si risolverebbe a rigettarla. Poiché nessuna di queste due possibilità si è finora verificata, la moderna biologia ha sentito la necessità di riprendere in considerazione e di sottoporre ad esame critico e, possibilmente, al controllo sperimentale, una teoria di tanta importanza. Questo compito spetta precipuamente alla genetica, nuovo rampollo uscito dal tronco vetusto della biologia proprio come la più diretta filiazione dell'evoluzionismo. La crisi che, alla fine dello scorso secolo e nei primi anni del presente, ha promosso la revisione critica delle teorie classiche dell'evoluzione, è stata probabilmente la causa del diffondersi dell'erronea opinione negativa nei riguardi dell'evoluzione, a cui prima si è accennato.

L'evoluzione come fatto storico. - Innanzi tutto si deve ben distinguere quello che è il fatto storico dell'evoluzione da quello che è il "metodo" o "meccanismo" con cui tale processo si è realizzato. La raccolta degli elementi a favore dell'evoluzione, come storia di fatti che si sono svolti sulla crosta terrestre, ha occupato più di una generazione di biologi di diverse specialità (paleontologi, embriologi, anatomici, sistematici, biogeografi, ecc.). Ed è opinione comune di gran parte di essi che tutti i fatti raccolti convergano verso la dimostrazione che l'evoluzione è un processo storico realmente avvenuto, anche se per molti gruppi il quadro della evoluzione è disegnabile soltanto nelle sue grandi linee, e non analizzabile nei minuti particolari.

Il meccanismo dell'evoluzione. - Questo è l'argomento oggi più dibattuto. In passato spesso si confondevano i due termini del problema: fatto storico e meccanismo che lo produce; e nel fermento delle discussioni non di rado i dati di fatto subirono ingiustamente la sorte delle ipotesi a cui erano, o si ritenevano, legati.

Prima di discutere sui possibili meccanismi di evoluzione, occorre stabilire il principio, del resto ben chiaro di per sé, che evoluzione è in un certo senso l'antitesi di eredità. Questa è, o almeno è intesa generalmente, come conservazione; quella invece è variazione. Quindi la necessità, prima di esprimersi sul modo come può realizzarsi l'evoluzione, di conoscere qual è la compagine del patrimonio ereditario, quale il suo modo di trasmettersi immutato di generazione in generazione e quali le sue possibilità di variazione. E, poiché l'evoluzione è un fatto collettivo, mentre l'eredità ci si presenta in primo luogo come un fatto eminentemente individuale, occorre prima studiare individualmente le leggi dell'eredità, e poi trasferire i risultati così acquisiti alle popolazioni, cioè alle collettività e su queste considerare come i fenomeni elementari studiati negli individui si compongano e si integrino.

Questa necessità andò realizzandosi piuttosto lentamente. Prima, sulle basi di conoscenze quasi del tutto ipotetiche e congetturali, si stabilirono le teorie classiche dell'evoluzione, che sono state ampiamente esposte con le relative critiche (v. XIV, p. 664). In seguito, come conseguenza delle difficoltà incontrate nel cercar di dimostrare la bontà dell'una o dell'altra di tali teorie, nacque a poco a poco l'indagine sperimentale del problema dell'eredità e si creò una nuova disciplina, la genetica. A questa spetta dunque il dovere di approfondire le indagini e di esprimere un giudizio sulle teorie evoluzionistiche. Il che essa non fu in grado di fare all'inizio, bensì solo negli ultimi anni, dopo che la prima parte del suo compito - lo studio, cioè, dell'eredità e delle variazioni negl'individui - fu, se non del tutto esaurito, almeno sviluppato a buon punto.

Le teorie classiche dell'evoluzione si possono ridurre a quattro: lamarckismo, darwinismo, mutazionismo e ologenesi. La genetica non ha confermato il postulato della teoria lamarckiana, l'eredità dei caratteri acquisiti: tutti gli esperimenti eseguiti con perfetto rigore di metodo hanno dimostrato che i caratteri acquisiti non si ereditano, e pertanto l'ipotesi neo-lamarckiana è stata abbandonata, almeno nella sua formulazione più semplicistica.

Contro l'ologenesi, si deve anzitutto sollevare un'obiezione di principio. L'affermazione che "data la vita è già data anche la evoluzione, la varietà delle circostanze esterne potendo, al più, variare la direzione in cui avviene quest'evoluzione" (D. Rosa) è una petizione di principio, e quindi all'ologenesi converrebbe attenersi, come ultima ratio, quando tutti gli altri tentativi di spiegazione dovessero fallire. Per altre obiezioni di carattere specifico v. XIV, p. 667.

Rimangono in campo le due teorie del darwinismo e del mutazionismo, che non si oppongono, anzi si completano a vicenda. Al Darwin mancava una precisa nozione della natura della variabilità ereditaria. Questa fu fornita dal De Vries con la scoperta delle mutazioni. Il successivo lavoro dei genetisti portò a riconoscere che vi sono due sorta di variazioni negli organismi: le somazioni o modificazioni, non ereditarie, indotte dall'azione dell'ambiente, e le mutazioni, che sono invece ereditarie e largamente indipendenti dalle cause ambientali ereditarie. E si constatò che il carattere di variazione di grande ampiezza attribuito dal De Vries alle mutazioni non è generale, in quanto esistono moltissime mutazioni di piccola entità, che rientrano nei limiti della curva normale di variabilità.

Il problema dell'evoluzione si poté allora precisare in questi termini: 1) studio della variabilità ereditaria, che fornisce, per così dire, il materiale grezzo ai fattori di evoluzione; 2) ricerca dei meccanismi di evoluzione veri e proprî. Alla voce genetica (in questa App.) sono esposte le principali proprietà delle variazioni ereditarie, le quali sono di tre tipi: mutazioni geniche, cromosomiche, e del cariotipo. Su questa base, cioè sulle sole variazioni ereditarie dimostrate dalla ricerca genetica, può fondarsi lo studio sperimentale dell'evoluzione. Ora si possono dare a priori due possibilità: 1) o le mutazioni sono orientate in una data direzione, e perciò l'evoluzione è connaturata al processo stesso di variazione (ortogenesi, e, nel caso estremo, ologenesi); 2) oppure le mutazioni non sono orientate, si producono a caso, e qualche agente esterno determina una scelta, un orientamento, e quindi una evoluzione. La prima proposizione non è stata dimostrata. Le mutazioni, per quanto finora è risultato da tutte le ricerche, sono casuali e non orientate. Occorre quindi che qualche cosa, dall'esterno, determini una scelta. Un fattore di tal genere può essere la selezione naturale darwiniana; oltre a questo se ne possono pensare altri.

La posizione del problema può ora precisarsi ulteriormente nei seguenti termini: 1) è necessario, inizialmente, limitarsi allo studio del primo gradino del processo evolutivo: l'origine della specie (microevoluzione), salvo poi a vedere se i principî che da quest'analisi scaturiranno potranno dar ragione anche dei gradi superiori di evoluzione, cioè della formazione dei gruppi sistematici maggiori (macroevoluzione); 2) occorre studiare la natura delle differenze fra le varie specie, per vedere se si tratta di caratteri riconducibili ai tre tipi di mutazioni; 3) stabilito che sia così, è necessario studiare quali possono essere e in qual modo agiscano i fattori di evoluzione.

Concetto di specie. - È necessario, evidentemente, avere una chiara idea della entità di cui si vuol studiare l'evoluzione: la specie. La definizione del Cuvier, che si basa sulla fecondità intraspecifica, e la sterilità degli incroci interspecifici, può tradursi in termini dinamici, evoluzionistici, nella definizione di Th. Dobzhansky: "la specie è quello stadio del processo evolutivo in cui una serie di forme attualmente o potenzialmente interfeconde si scinde in due o più serie distinte, fisiologicamente incapaci di riprodursi inter se". La barriera che insorge a separare due o più serie di forme prima liberamente incrociantisi, è dunque, secondo questo concetto, il fenomeno fondamentale del differenziamento specifico. Le "serie di forme attualmente o potenzialmente interfeconde" sono entità subspecifiche, razze. Dobbiamo quindi considerare le razze come specie nascenti, in potenza.

Analisi delle differenze fra le specie e fra le razze. - Il criterio stesso del differenziamento specifico, l'intersterilità, preclude la possibilità dell'analisi genetica diretta delle differenze fra specie; questa si può invece condurre nelle razze di una stessa specie. Ma, con metodi indiretti, si può arrivare a conclusioni attendibili anche per le specie. Si è dimostrato che le differenze fra le razze e anche quelle fra le specie affini sono riconducibili ai tre tipi di mutazioni. Per quanto riguarda le mutazioni geniche, e in parte anche le cromosomiche, si deve osservare che le differenze consistono di solito non tanto nell'assenza-presenza di una o poche mutazioni (cioè nel fatto che una razza, o specie, possegga soltanto il gene A, una altra invece il suo allelo a), quanto piuttosto nella diversità di "concentrazione" di parecchie mutazioni nelle popolazioni costituenti i varî gruppi.

Man mano che la ricerca procede in questo senso, sempre più appare manifesto il principio che le differenze fra specie affini sono dovute a diversità del patrimonio genetico esprimibili in termini di mutazioni, geniche, cromosomiche, o cariotipiche, e più specificamente, in termini di frequenza, o concentrazione dei varî geni.

È chiaro dunque che i tre tipi di mutazione - genica, cromosomica e cariotipica - hanno partecipato alla evoluzione delle specie, da soli o combinati, e in diversa misura. Ed è chiaro anche che, almeno negli organismi superiori, ad eccezione dei casi di poliploidia (comuni nei vegetali, rari negli animali), non un sol salto mutativo, come supponeva De Vries, determina la formazione di una nuova razza, o tanto meno di una specie, ma piuttosto l'accumularsi di parecchie mutazioni.

Elaborazione teorica di "modelli" di evoluzione, e verifica sperimentale. - Lo studio di questo problema ha tratto grandi vantaggi dalla elaborazione matematica di "modelli" di evoluzione, che, per essere molto semplificati, rispetto alle condizioni reali, permettono di analizzare le possibili cause di evoluzione e di costituire degli schemi, che possono poi essere saggiati sperimentalmente. In questo ordine di ricerche primeggiano i nomi di V. Volterra, S. Wright, R. A. Fisher, J. B. S. Haldane.

Fin dal 1908 G. H. Hardy sviluppò in una breve nota che allora passò quasi inosservata, un ragionamento matematico, che sta alla base di ogni considerazione evoluzionistica. Egli dimostrò che in una popolazione in cui vi siano presenti due geni allelomorfi A e a in una qualsiasi proporzione, tale proporzione rimane costante se sono soddisfatte le seguenti condizioni: 1) se non intervengono nuove mutazioni A a o a Á A; 2) se nessuno dei due geni rappresenta un vantaggio per gli individui che lo portano rispetto a quelli che ne sono privi, se cioè la selezione non favorisce uno dei due rispetto all'altro; 3) se la popolazione è infinitamente grande; 4) se vi è la completa panmixia, cioè i matrimonî fra i varî individui si realizzano secondo tutte le possibilità, senza preferenze e senza limitazioni.

Ciò significa che la variabilità, una volta acquisita, tende a conservarsi in una condizione di equilibrio. Ora l'evoluzione consiste appunto nello spostamento di questo equilibrio. Perciò possiamo teoricamente prevedere l'esistenza di 4 fattori di evoluzione, che sono precisamente i contrarî delle 4 condizioni sopra elencate e cioè: 1) la mutabilità; 2) la selezione; 3) la limitazione del numero degli individui; 4) la non completa panmixia.

1) La mutabilità. - L'insorgenza di nuove mutazioni sarebbe di per sé sufficiente a determinare l'evoluzione se: a) fosse d'intensità adeguata; b) fosse orientata in una certa direzione. Ora la frequenza delle mutazioni che insorgono spontaneamente nelle numerose specie animali e vegetali finora studiate è d'un ordine di grandezza così piccolo che è di per sé insufficiente a spiegare l'evoluzione. D'altra parte, per quanto finora si sa, le mutazioni compaiono casualmente, senza ordine né orientamento: finora non si conoscono esempî di serie di mutazioni orientate (mutazioni ortogeniche) se se ne eccettuano le mutazioni (del cariotipo) poliploidi. Perciò la sola mutabilità, per quanto è noto fino ad oggi, è insufficiente a rendere ragione del meccanismo causale dell'evoluzione. Essa fornisce il materiale grezzo su cui devono operare poi dei fattori di evoluzione.

2) La selezione. - Questo processo, cardine della concezione darwiniana, costituisce certamente un potente fattore di evoluzione. La competizione vitale è una realtà che trova la sua base nella tendenza di tutte le specie ad aumentare all'infinito il numero dei proprî rappresentanti con la riproduzione, e nella costante eliminazione di un certo numero d'individui, che si contrappone a questa tendenza e mantiene il numero degli individui entro limiti definiti.

Dal punto di vista teorico si è cercato innanzi tutto una misura della intensità del processo selettivo: il coefficiente di "fitness" o di "attitudine" può essere espresso come probabilità di vivere fino all'età x e di riprodursi per un individuo che porti un dato carattere. In questi calcoli soccorrono i metodi della matematica attuariale.

In generale, per un gene recessivo che abbia un coefficiente di selezione positivo relativamente piccolo (es. 1%), il numero di generazioni che si richiede perché possa diffondersi notevolmente nella popolazione è assai grande, di un ordine di grandezza eccessivo, anche se ragguagliato ai tempi geologici. Quando esso ha raggiunto una "concentrazione" notevole, la selezione agisce molto più rapidamente, cioè la sua concentrazione nella popolazione aumenta rapidamente, mentre quella del suo allelomorfo diminuisce in proporzione. Il fatto che un gene recessivo vantaggioso abbia in un primo tempo così poco potere di espansione, è certamente una grave obiezione contro il selezionismno. A questa ha cercato di ovviare R. A. Fisher con la sua "teoria della evoluzione della dominanza", che, in sostanza, ammette che un gene recessivo vantaggioso tende a divenire dominante, e quindi molto più facilmente è soggetto al morso della selezione e più rapidamente si diffonde. S. Wright ha poi dimostrato, sempre per via matematica, che il numero degli individui di cui è composta una popolazione ha una grande importanza agli effetti della selezione. E precisamente che, quando il numero degli individui (N) è piccolo, la selezione è quasi nulla, occorre cioè un forte valore del coefficiente di selezione (il che vuol dire un alto grado di vantaggio del gene) perché questa riesca a spostarne sensibilmente la concentrazione. Quanto più N è grande, invece, tanto più efficace è la selezione.

In linea di massima si può dire che queste formule hanno avuto ampia conferma dai dati di fatto, e si sono dimostrate utilissime nello studio della "dinamica, o fisiologia delle popolazioni".

3) Limitazione del numero degli individui. - Questo fattore può essere dato da effettiva diminuzione del numero degli individui, N, che può verificarsi accidentalmente, o periodicamente in conseguenza dei cicli stagionali, o di varî altri fattori fisici e biologici, oppure anche dalla limitazione della panmixia, cioè dal fatto che una popolazione è per lo più frammentata in piccole "breeding units", o colonie riproduttive.

Come abbiamo già detto il valore di N è della massima importanza agli effetti della selezione. Ma, inoltre, si è constatata una conseguenza molto importante dal punto di vista generale: la limitazione casuale della variabilità. In ogni popolazione un certo numero di mutazioni vanno perdute ad ogni generazione: ciò è dovuto al fatto che non tutti i gameti prodotti dagli individui danno origine a nuovi individui: molti vanno perduti. È il caso che decide quali si perdono e quali invece danno luogo a discendenza. Perciò vi è una continua perdita di geni, andata esclusivamente, o quasi esclusivamente al caso. Ora se N è grande, ciò non ha sensibile effetto sulla composizione genica di una popolazione. Ma se N è piccolo può darsi che alcuni geni scompaiano del tutto, e l'allelomorfo si diffonda perciò in tutta la popolazione. In altri termini, se ammettiamo che due alleli, A e a, siano presenti in una popolazione, inizialmente, in egual concentrazione (50%): se nessuno dei due presenta un vantaggio rispetto all'altro, in una popolazione numerosa si avranno lievi oscillazioni intorno al valore 50%, ma la concentrazione di A e di a rimarranno sostanzialmente costanti nel corso delle generazioni; se invece la popolazione è poco numerosa si avranno forti oscillazioni casuali delle due concentrazioni, tanto più forti quanto più piccolo è N. E potrà avvenire che A, oppure a, scompaia, cioè la sua concentrazione diventi 0 e quella dell'allelo 100%.

In questo processo non entra la selezione, anzi il fatto può verificarsi anche in contrasto con la selezione. Questo fenomeno, scoperto ed illustrato di recente (dopo il 1920) e studiato matematicamente soprattutto da S. Wright, è di grande importanza, perché viene incontro a molte obiezioni mosse alla teoria della selezione. Spiega cioè come si possano avere, fra popolazioni diverse, differenze in caratteri cui difficilmente si potrebbe attribuire un valore selettivo. La limitazione casuale della variabilità dovuta alla limitazione di N è certamente un importante fattore di evoluzione di cui si deve tener conto, accanto, e spesse volte in contrapposto, alla selezione.

4) La limitazione della panmixia. - La panmixia, cioè la completa mescolanza dei patrimonî ereditarî diversi, presuppone una perfetta indifferenza nei matrimonî, e l'assenza di qualsiasi barriera d'isolamento fra i varî gruppi di una popolazione. Limitazioni della panmixia sono dati dunque da matrimonî selettivi e da fattori d'isolamento. Il primo fatto corrisponde la selezione sessuale di Darwin, che ha certamente grande importanza nell'uomo e negli animali superiori, e di cui oggi si possono dare, anche per gli animali inferiori, interpretazioni meno ingenuamente "antropomorfiche" che non ai tempi del Darwin. Al secondo fatto si ricollegano tutti i fattori di isolamento dovuti a cause geografiche, stagionali, ecologiche, psicologiche, ecc. La limitaziorie della panmixia produce fra l'altro la diminuzione del numero N degli individui, con gli effetti già visti, e con conseguenze di molta importanza nel giuoco della selezione.

5) La cooperazione dei varî fattori di evoluzione. - In molti casi, sia in natura sia in esperimento, si è potuta dimostrare l'efficacia dei fattori di evoluzione che abbiamo ora considerato. Eseguito il lavoro di analisi, si può tentare di ricostruire l'unità del processo e vedere come i singoli fattori cooperino in armonica concordia o discordia.

Innanzi tutto si deve ricordare che l'evoluzione si basa non tanto sull'aumento o diminuzione di singoli geni, quanto sul loro complesso, cioè sulle comunicazioni in cui essi si presentano. In una popolazione di individui, ciascuno dei quali possegga un corredo di soli 1000 geni (in Drosophila si stima che ve ne siano circa 5000) sono teoricamente prevedibili 31000 combinazioni diverse, cioè un numero astronomicamente grande, di molti milioni di volte maggiore di quello che è l'effettivo N di qualunque specie. Di queste combinazioni certamente moltissime non sono vitali, ma già con le sole combinazioni vitali esistenti ad un dato momento si avrebbe materiale sufficiente a fornire la variabilità necessaria per consentire un certo grado di evoluzione.

D'altra parte una eccessiva variabilità, quale potrebbe esser data dalla totale indipendenza dei geni e dalla loro illimitata facoltà di ricombinazione, sarebbe nociva all'economia della specie, in quanto produrrebbe una quantità di mostri non vitali. A questo inconveniente ovvia l'associazione dei geni in gruppi. I legami di associazione non sono assoluti, ma possono rompersi più o meno facilmente attraverso il processo dello scambio (crossing over, v. genetica). Evidentemente già questo primo gradino del processo evolutivo, la fornitura della variabilità per mezzo delle combinazioni, è sottoposto ad un controllo selettivo, e si è aggiustato, per intensità e per qualità, alle contrastanti necessità della specie: l'economia che consiglia di limitare la variabilità, e le esigenze dell'evoluzione, che richiedono un certo dispendio di variabilità.

Le sole combinazioni di geni esistenti sono però insufficienti a dar ragione dell'evoluzione: è necessario che compaiano delle novità nel patrimonio ereditario. Queste sono le mutazioni (geniche, cromosomiche, del cariotipo), le quali, in ultima analisi, son quelle che forniscono il materiale grezzo su cui operano i fattori di evoluzione.

La "pressione" delle mutazioni, cioè la costante comparsa di mutazioni, tende ad aumentare la variabilità di una popolazione. Ma l'aumento di variabilità è costantemente frenato dalla selezione, che scarta inesorabilmente le combinazioni non vitali o comunque sfavorevoli in un dato ambiente e contiene la variabilità entro certi limiti.

D'altra parte una selezione troppo rigida, come quella che è praticata dagli allevatori di "razze pure", tenderebbe a produrre l'omogeneità di tutti gli individui e la specie correrebbe il grave rischio di perdere la sua plasticità e adattabilità a diverse condizioni esterne e di estinguersi. A ciò ovvia il fatto che, come si è detto, al disotto di una certa concentrazione genica, il processo di selezione è lentissimo, quasi nullo. Ciò significa che un gene, anche alquanto svantaggioso, non scompare completamente da una popolazione per effetto della selezione, ma rimane sempre presente in pochi individui. Se, cambiando le condizioni di vita, tale gene dovesse diventare vantaggioso nel nuovo ambiente, potrebbe estendersi gradualmente, col favore della selezione, alla massima parte degl'individui. E sarebbe la volta del suo allelomorfo di ridursi, per così dire, allo stato latente.

L'effetto della selezione, come si è detto, è inoltre funzione della grandezza N della popolazione: quanto più N è piccolo, tanto più difficile l'opera della selezione, quanto più N è grande, tanto più agevole. Quindi l'ampiezza della popolazione è un fattore che coopera - agevolando o contrastando - con l'efficacia della selezione. D'altra parte, evidentemente, il diminuire di N diminuisce l'ampiezza della variabilità, e rende più scarso il materiale su cui la selezione può aver presa, più lento quindi il processo evolutivo per selezione. La diminuzione di N data dall'isolamento di piccole popolazioni, dalle "onde di popolazioni" ecc., favorisce anche la consanguineità, la quale, se troppo spinta porterebbe pure ad una totale omogeneità. L'eventuale migrazione di geni dall'una all'altra colonia - cioè il matrimonio fra gli individui di diverse colonie - contrasta a sua volta questo meccanismo.

Insomma la vita e l'evoluzione della specie è funzione dell'intensità relativa e della cooperazione dei varî fattori. Equilibrio non stazionario, ma dinamico, e suscettibile di essere spostato non appena le intensità relative dei diversi agenti varino.

Meccanismi d'isolamento. - Si può concepire, sulla base dei fatti a cui abbiamo accennato, come nel seno di una popolazione omogenea si formino dei gruppi differenziati, cioè delle razze nel seno di una specie. Ma il livello di differenziamento specifico si raggiunge soltanto quando fra le varie razze intervenga l'isolamento, cioè l'impossibilità di mescolarsi nuovamente. Sull'insorgenza dell'isolamento, che è evidentemente un fattore essenziale del differenziamento specifico, siamo ancora relativamente poco informati; e perciò molte ricerche vertono oggi su questo argomento.

Possiamo riconoscere in natura varî meccanismi d'isolamento:

I. Fattori estrinseci: impediscono la fecondazione fra le razze originarie A e B. Tuttavia quando sperimentalmente si riesca a portare a contatto i gameti di A e B, si osserva non di rado (specie nelle piante) che essi dànno ibridi fertili. Appartengono a questa categoria i fenomeni:

1) Impossibilità d'incontro fra le razze A e B, per le cause seguenti: a) diversa distribuzione geografica (isolamento geografico); b) diverso habitat pur nello stesso territorio geografico (isol. ecologico); c) diversità della stagione in cui maturano i prodotti sessuali (isol. stagionale).

2) Le razze A e B s'incontrano, ma l'ibridazione è resa impossibile da una delle seguenti cause: a) isolamento sessuale o psicologico: l'accoppiamento non avviene per mancanza di attrazione fra i sessi; b) isolamento meccanico: l'accoppiamento non avviene per incompatibilità fisiche, meccaniche, fra gli organi riproduttivi delle due razze; o se avviene qualche causa meccanica impedisce l'avvicinamento dei gameti e la fecondazione.

II. Fattori intrinseci: sono quelli che, anche quando sia avvenuta, spontaneamente o artificialmente la fecondazione, rendono impossibile la continuazione della linea ibrida. Si danno varî casi:

1) I gameti, pur venendo a contatto, non si fecondano.

2) La fecondazione ha luogo, ma l'ibrido muore prima di raggiungere la maturità sessuale.

3) La fecondazione ha luogo, gli ibridi sono vitali e vigorosi, raggiungono la maturità sessuale, ma sono sterili, come i muli.

Dal punto di vista genetico la sterilità può essere dovuta a varie cause, che si possono riunire in due gruppi: diversità del corredo cromosomico, che rende meccanicamente impossibile lo svolgersi di una meiosi equilibrata (sterilità cromosomica) oppure la presenza, nei due corredi cromosomici morfologicamente eguali, di due diverse mutazioni di geni che controllano la meiosi, sì che nell'ibrido questo processo non possa svolgersi normalmente (sterilità genica).

È chiaro che l'isolamento da fattori estrinseci è in un certo senso meno profondo e sostanziale, benché, se ai fini pratici è efficace, possa essere di per sé sufficiente a far raggiungere il livello di differenziamento specifico. È probabile che l'isolamento da fattori estrinseci preceda l'isolamento genetico più profondo, che cioè quando due razze A e B sono rimaste per lungo tempo isolate per effetto di una delle cause elencate in I, vadano poi accumulandosi nella compagine genetica di A e di B delle differenze genetiche che portano a condizioni del tipo di quelle elencate in II, talché infine l'isolamento fra le due razze, ormai salite al rango di specie, diventa completo.

Conclusione critica. - Sulle basi di quanto esposto procede oggi con grande fervore lo studio del problema dell'evoluzione. E se, da un lato, è motivo di soddisfazione l'aver potuto trarre nel campo sperimentale e positivo un problema di sì vasta portata e che sembrava sottrarsi alla possibilità di un'analisi di questo genere, d'altra parte non si deve trascurare di sottoporre questa concezione essenzialmente neodarwiniana ad una critica serena.

Dobbiamo trascurare qui alcuni problemi particolari come l'interpretazione delle serie ortogenetiche, dei caratteri disteleologici, dell'irreversibilità dell'evoluzione, di cui è possibile trovare una soddisfacente interpretazione nel quadro della teoria. Ma non è possibile ignorare due fondamentali interrogativi e cioè: 1) il "meccanismo mutazione-selezione-caso" è il solo meccanismo evolutivo?; 2) dato che esso sia sufficiente a spiegare la microevoluzione, può considerarsi adeguato anche per interpretare la macroevoluzione? Al primo quesito si può rispondere che i varî aspetti, che abbiamo brevemente delineato, di quello che può indicarsi come "meccanismo mutazione-selezione-caso" sono certamente importanti modi di evoluzione, la cui efficacia è dimostrata teoricamente e sperimentalmente, e i cui effetti sono spesso misurabili. Se, oltre a questo, altri modi di evoluzione esistano non è per ora accertato, ma non si può certamente escludere a priori. L'importante è ch'essi possano essere studiati e analizzati con altrettanta precisione e chiarezza, e non semplicemente postulati.

Al secondo quesito, che è in parte connesso con il primo, è più difficile dare una risposta conclusiva. La maggioranza dei genetisti ritiene: 1) che il meccanismo ora esposto sia sufficiente a dare ragione della formazione di nuove specie: su questo punto vi sono pochi contrasti; 2) che il differenziamento dei gruppi maggiori (macroevoluzione) sia anch'esso da ricondursi allo stesso meccanismo. Intorno a quest'ultima affermazione vi sono però parecchie divergenze. Oltre all'atteggiamento completamente antidarwinistico di alcuni sostenitori di altre dottrine (neo-lamarckismo, ologenesi) è da ricordare l'opinione di R. Goldschmidt (1940) il quale ritiene che le "mutazioni" che dànno origine a gruppi di ambito superiore alla specie, e quindi alla macroevoluzione, siano sostanzialmente diverse da quelle finora studiate dai genetisti, le quali possono soltanto dare origine a specie. Fra i pochi paleontologi che abbiano riesaminato i dati della paleontologia con mente informata delle recenti conquiste della genetica, G. Heberer (1943) e G. G. Simpson (1944) sono propensi ad interpretare tutto il processo evolutivo, ivi compresa la macroevoluzione, nei termini indicati dai genetisti, altri invece (es. O.H. Schindewolf, 1936) ricorrono, per i grandi gruppi, a meccanismi diversi. I quali, occorre rilevarlo, sono meramente ipotetici. Limitandoci ai fatti accertati, si può dunque concludere:

1) La teoria dell'evoluzione è oggi più che mai viva e vitale ed è di fondamentale importanza per la biologia. È necessario quindi cercare d'intenderne il meccanismo.

2) Il "meccanismo mutazione-selezione-caso" è certamente un importante metodo di evoluzione ed è il solo che finora sia sperimentalmente dimostrato e suscettibile di analisi sperimentale. Altri meccanismi sono pensabili; ma prima di ammetterli è necessario che essi siano chiaramente dimostrati.

3) È questione indecisa se il "meccanismo selezione-caso", che è sufficiente a spiegare l'origine di nuove specie, sia bastevole a spiegare tutto il corso dell'evoluzione, processo che deve essersi svolto in un lasso di tempo di circa due miliardi di anni. È necessario far convergere gli sforzi coordinati dei rappresentanti dei varî indirizzi e delle varie discipline: zoologia, botanica, paleontologia, e attendere i risultati della ricerca prima di dare un giudizio definitivo.

4) Importante ed essenziale, dal punto di vista scientifico, è che questa materia sia entrata nel campo sperimentale con l'avvento della genetica. Essenziale è che essa rimanga continuamente a contatto coi dati sperimentali. Meglio riconoscere i limiti della nostra conoscenza e far convergere gli sforzi in questo ramo della ricerca, che è ancora nella sua infanzia, per cercare di spostare quei limiti quanto più oltre è possibile.

Bibl.: Fondamentale: Th. Dobzhansky, Genetics and the origin of species, New York 1937, 2ª ed. 1941; v. inoltre: G. G. Simpson, Tempo and mode in Evolution, New York 1944; E. Mayr, Systematics and the origin of species, New York 1942; B. Rensch, Neuere Probleme der Abstammungslehre, Stoccarda 1947; R. Goldschmidt, The material basis of Evolution, New Haven 1940; O. H. Schindewolf, Paläontologie, Entwicklungslehre und Genetik, Berlino 1936; G. Heberer e molti altri, Die Evolution der Organismen, Jena 1943; J. S. Huxley, Evolution, the modern synthesis, New York e Londra 1942. Di atteggiamento nettamente antidarwinistico, in favore dell'ologenesi, è G. Colosi, Problemi dell'Evoluzione, Firenze 1945.

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