Evoluzione biologica: quadro generale

Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2007)

Evoluzione biologica: quadro generale

Saverio Forestiero

Definibile come l'insieme dei cambiamenti che si realizzano lungo le linee di discendenza degli esseri viventi, l'evoluzione biologica presenta manifestazioni che sono tra le più spettacolari e stupefacenti della natura. La capacità di evolvere deriva da quella riproduttiva ed è una proprietà intrinseca agli esseri viventi. Il processo ha una componente storica molto accentuata; a volte si realizza in modo deterministico con causalità multifattoriale, a volte assume andamento stocastico: il caso è importante nell'evoluzione; parimenti il tempo. L'evoluzione è un processo transgenerazionale con velocità dipendente dalle contingenze, intrinseche all'organismo o relative al contesto ambientale. I maggiori prodotti dell'evoluzione biologica sono due: la biodiversità e l'adattamento; a evolvere sono prodotti (organismi e strutture) e processi (i modi del loro funzionamento).

I prodotti dell'evoluzione biologica sono osservabili a diversi livelli gerarchici, dai singoli organismi individuali alle biocenosi, agli ecosistemi, all'intera biosfera. Strutture di estrema complessità, come gli organi di senso di molti animali e il cervello della nostra specie, e proprietà come la capacità di apprendimento, di concettualizzazione, di parola (non soltanto in funzione comunicativa, ma soprattutto come strumento di rappresentazione interna) e altre caratteristiche linguistiche come quelle grammaticali, sintattiche e semantiche sono tutte frutto dell'evoluzione biologica e prodotti dell'azione della selezione naturale. L'evoluzione biologica è cambiamento insieme costruttivo e distruttivo: le specie non solo hanno un'origine, ma prima o poi mutano di identità oppure si estinguono. Nonostante le apparenze, non vi è necessariamente progresso nell'evoluzione; ci sono solo cambiamenti occasionalmente progressivi.

Nonostante gli organismi funzionino, e nonostante la teleonomia di molti processi e comportamenti biologici, l'evoluzione è priva di scopi; essa è fine a sé stessa. Sul piano teorico, esiste una teoria dell'evoluzione (matematizzata solo in piccola parte) che rappresenta l'unica teoria generale delle scienze della vita e che è in grado di dare senso unitario a una congerie di fatti sperimentali e osservativi estremamente diversificati. Formulata originariamente circa centocinquanta anni fa, essa è stata modificata più volte per accogliere le maggiori acquisizioni della ricerca biologica. La principale conquista dell'evoluzionismo del primo Novecento è stata la 'teoria sintetica dell'evoluzione', che integra darwinismo naturalistico con mendelismo di laboratorio. Nella seconda metà del Novecento, le conoscenze sui meccanismi genetico-molecolari hanno consentito enormi progressi nell'analisi della microevoluzione, mentre l'irruzione di nuove interpretazioni dalla paleontologia e soprattutto di nuovi dati dalla biologia dello sviluppo degli anni Novanta stanno maturando l'evoluzionismo, spingendolo a ripensare i nessi tra micro- e macroevoluzione. Questo testo si propone di caratterizzare brevemente l'evoluzione biologica e di tratteggiare la storia delle trasformazioni della teoria dell'evoluzione.

Natura dei viventi e dell'evoluzione biologica

L'evoluzione biologica rappresenta un aspetto particolare del fenomeno evolutivo più generale che si conosca: l'evoluzione dell'universo. Considerato che l'origine della prima cellula è stata un evento unico e irripetibile, se si cercano le specificità dell'evoluzione biologica rispetto all'evoluzione dell'universo fisico, esse sono rintracciabili analizzando due fatti importanti: uno è il rapporto tra evoluzione e complessità dei sistemi viventi, l'altro è la specifica modalità di evoluzione dei viventi. Le proprietà biologiche di cui sono dotati i viventi fanno di essi sistemi intrinsecamente molto complessi e dotati di un'organizzazione che solo parzialmente è descrivibile a partire dalle conoscenze sulle proprietà fisiche delle loro componenti. Molti comportamenti degli organismi, infatti, non derivano dalle proprietà dei loro costituenti, ma rappresentano prodotti nuovi che emergono attraverso interazioni, si perpetuano identici per generazioni, vanno soggetti a modifiche, per perpetuarsi nel tempo ed eventualmente ancora modificarsi.

In quest'incessante alternanza di tradizione e innovazione che è l'evoluzione biologica, anche proprietà biologiche decisive per la storia della vita sul pianeta sono state soggette a cambiamenti, i quali hanno avuto un enorme impatto sui prodotti e sui processi biologici. Il secondo attributo che consente di distinguere l'evoluzione fisica da quella biologica è che la prima avviene per trasformazione della materia, la seconda attraverso una variazione del materiale evolvibile. L'evoluzione biologica è innanzitutto evoluzione genomica; il processo di autoreplicazione delle molecole informazionali comporta occasionalmente, ma necessariamente, l'erronea produzione di copie non identiche all'originale. L'esistenza di variazioni delle molecole informazionali è una condizione necessaria perché vi sia evoluzione biologica.

Una definizione di vivente

In attesa di una definizione formale di vivente, anche una definizione come quella di Pietro Omodeo (1996), dove sono riassunti e interconnessi, per così dire, gli 'universali biologici' di (quasi) tutti gli organismi, può servire a mettere in risalto gli attributi empirici sufficienti a specificare la materia vivente e il suo comportamento: "Vivente è un sistema aperto, cellulare, delimitato da un confine selettivo, percorso da flussi autoregolati di materia, energia e informazione grazie ai quali è suscettibile di riprodursi e di evolvere attraverso le generazioni, adattandosi ad ambienti mutevoli" (p. 187).

Dalla definizione emergono quattro proprietà maggiori: organizzazione, metabolismo, riproduzione, evoluzione; nonché l'indicazione dell'apertura termodinamica obbligata (con scambi di energia, lavoro, massa), il fondamento cellulare, la necessità di un'interfaccia attiva di separazione esterno-interno, l'esistenza di una capacità regolativa omeostatico-omeorretica, la presenza di informazione, la capacità di replica e di riproduzione, la modificabilità dell'identità genetica a seguito di mutamenti dell'informazione conservata e infine la capacità di modificare prodotti e processi in rapporto ai cambiamenti delle condizioni esterne. Una definizione molto più breve, che si propone di cogliere l'essenziale termodinamico dei sistemi viventi tralasciando gli attributi empirici, è quella di "oggetti che resistono al decadimento energetico mediante assimilazione costruttiva" (Rizzotti 2001, p. 237), cioè mediante un processo di aumento della complessità molecolare dovuta specialmente a condensazioni.

Evoluzione a livello di popolazione: i requisiti minimi

Data la natura gerarchica dei sistemi viventi e i connessi effetti di scala, possiamo avere più definizioni di evoluzione biologica: da quella di stampo darwiniano in base alla quale essa corrisponderebbe all'insieme dei cambiamenti che si realizzano lungo le linee di discendenza degli esseri viventi, in cui è sottolineato il fatto che le somiglianze oggettive sono solo quelle dovute a parentela, a quella molto generale centrata sull'informazione genetica e ancorata all'idea che la barriera transgenerazionale è superata solo dal DNA, in base alla quale l'evoluzione corrisponderebbe al cambiamento transgenerazionale del genoma.

Adottando invece l'approccio della genetica di popolazione, secondo cui l'evoluzione biologica è definibile come il cambiamento della composizione genetica di una popolazione, ovvero come il cambiamento delle frequenze alleliche di una popolazione, il fenomeno evolutivo può essere visto come dinamica temporale delle proprietà statistiche del pool genico di una popolazione, generate e sostanzialmente governate da mutazione, deriva e selezione. Per capire la logica interna della microevoluzione può essere utile servirsi dei due concetti di 'replicatore' e 'interattore', introdotti rispettivamente da Richard Dawkins nel 1976 e da David Hull nel 1980 e solo in parte corrispondenti a quelli di 'genotipo' e 'fenotipo'. Un replicatore è qualsiasi oggetto che trasmette intatta la sua struttura attraverso successive repliche; un interattore è invece il materiale biologico che interagisce direttamente con l'ambiente in modo da rendere differenziale la replicazione dei geni.

I requisiti minimi di un fenomeno evolutivo basico di tipo selettivo comprendono sempre un interattore e il suo replicatore. Il replicatore codifica un tratto fenotipico ereditabile ed è provvisto di un meccanismo di autoreplicazione affidabile ma che tuttavia genera varianti informazionali del tratto; queste sono implementate in interattori connessi con l'ambiente esterno e dotati di diversa efficienza, che si traduce in una ineguale probabilità di riproduzione dei medesimi e in una modifica nella proporzione dei replicatori da cui sono codificati. È chiaro, perciò, che almeno a livello elementare l'evoluzione è una conseguenza logicamente necessaria del fatto che i viventi sono sistemi coerenti "dotati di un programma" (Ageno 1986). L'esistenza di una gerarchia di sistemi, nel nostro caso gli individui sotto e la popolazione-specie sopra, rende non banale la nozione di selezione naturale. Per elaborare la teoria della selezione è stato necessario comprendere che il successo o l'insuccesso di un individuo poteva influenzare le proprietà della popolazione-specie di appartenenza. Nell'evoluzione, infatti, le cause agiscono a livello e attraverso gli individui, mentre gli effetti sono rilevabili a livello di popolazione; è la popolazione a evolvere, non gli individui che la compongono.

Teorie dell'evoluzione

Origini del pensiero evoluzionistico

Il problema del cambiamento dei viventi nel corso del tempo precede di molto la nascita della biologia moderna. Tra i primi autori (medici, naturalisti e filosofi) che interpretarono molte delle conoscenze anatomiche ed embriologiche, geologiche e biogeografiche del loro tempo alla luce dell'idea di cambiamento e di trasformazione della natura, troviamo: il danese Niels Stensen (o Stenone, 1638-1686), che già nel 1667 scriveva sui fossili e sulla loro successione stratigrafica (Nicolai Stenonis elementorum myologiae specimen, seu museuli descriptio geometrica); numerosi saggisti francesi come Benoît de Maillet (1656-1738), che nel Telliamed (scritto nel 1715 e pubblicato postumo nel 1748) sostiene apertamente la trasmutazione delle specie, e Pierre-Louis Moreau de Maupertuis (1698-1759), che argomenta diffusamente sulla sopravvivenza del più adatto (Vénus physique, 1745); George-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788), convinto della trasmutazione delle specie (Histoire naturelle, générale et particulière, avec la description du Cabinet du Roi, 1749-1789); in Gran Bretagna lo scozzese James Hutton (1726-1797), fondatore della geologia uniformitarianista (la Terra è soggetta a modificazioni uniformi e graduali), il quale in più occasioni (Theory of the earth, 1788; Investigation of the principles of knowledge, 1794) parla di evoluzione della natura e di adattamento delle specie; nonché il nonno paterno di Charles Darwin, Erasmus (1731-1802), che, persuaso che l'ambiente possa trasformare la progenie delle specie, tratta di teorie evoluzionistiche e di esperimenti di genetica (The botanic garden, 1789; Zoönomia, or, the organic laws of life, 1794-1796).

Questi studiosi potrebbero essere considerati a vario titolo precursori dell'evoluzionismo, anche se nessuno concepì mai una teoria causale dell'evoluzione biologica sostenuta da evidenze osservativo-sperimentali. La possibilità dell'evoluzione della natura inanimata e di quella vivente è stata dunque, per almeno un paio di secoli, al centro di accesi dibattiti tra fissisti e sostenitori del cambiamento, sia in sede scientifica sia in ambito filosofico e, più in generale, culturale. Contrapposto al fissismo ancora vivo nel Settecento (le specie sono immutabili e costanti fin dalla loro creazione), l'evoluzionismo concepisce la modificabilità delle specie e la comparsa di specie nuove.

La teoria darwiniana dell'evoluzione e i precursori

Il primo naturalista che elaborò un vero e proprio programma di ricerca sull'evoluzione delle specie fu Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), che tuttavia ne diede una spiegazione errata collegando causalmente l'evoluzione osservata a un'ipotetica ereditarietà dei caratteri acquisiti (Philosophie zoologique, 1809). Anni dopo, saranno quattro autori scozzesi a scrivere di evoluzione: nel 1813 William Ch. Wells, un medico, parla di meccanismi capaci di produrre evoluzione dell'adattamento al clima nell'uomo; nel 1831 Patrick Matthew, orticultore, si riferisce esplicitamente alla 'selezione' dei più adatti; negli stessi anni il geologo Charles Lyell (1797-1875) formula una teoria attualista sulle trasformazioni della crosta terrestre (Principles of geology, 1830-1833); mentre nel 1844 viene pubblicato, anonimo, il libro Vestiges of the natural history of creation, in cui Robert Chambers (1802-1871) delinea una teoria evoluzionistica in chiave lamarckiana e progressista con l'intenzione di fondare su basi scientifiche una personale visione del progresso sociale. Per favorire l'accettazione della sua cosmogonia progressista, Chambers, editore di mestiere e naturalista per diletto, presenta l'evoluzione della natura anche come espressione di un piano divino. Tuttavia, come è noto, la teoria evoluzionistica che si impose su tutte le altre e che ancora oggi alimenta la biologia moderna è la teoria darwiniana dell'evoluzione centrata sul principio di selezione naturale.

Il ruolo della selezione come meccanismo principale dell'evoluzione fu autonomamente scoperto da Charles Darwin (1809-1882) e Alfred R. Wallace (1823-1913). Ricordando che il termine 'evoluzione' all'epoca indicava le fasi dello sviluppo embrionale ed era carico di connotazioni finalistiche, si comprende come l'idea di evoluzione attraverso una selezione agente nel presente e senza riguardi per il futuro sia potuta entrare in rotta di collisione con la tradizione, ancora viva al tempo di Darwin, secondo cui l'evoluzione implicava invece il dispiegamento di un piano, l'esecuzione di un programma predefinito e l'attuazione di un progetto dovuto a una causa interna o trascendente, a un essere intelligente, un 'architetto', un creatore. Tutta la ricerca di Darwin, dal 1838 al 1858, venne dedicata all'elaborazione di una teoria molto articolata dell'evoluzione biologica, la 'discendenza con modificazione', relativa sia alla produzione dell'adattamento sia all'origine di nuove specie. Egli, inoltre, avvertì da subito il valore fortemente trasgressivo, soprattutto sul piano socioculturale, dell'idea stessa di evoluzione, tant'è che nella prima edizione di On the origin of species (1859) la parola evoluzione non vi compare mai.

Teorie posteriori al 1859

Nel corso del tardo Ottocento e del primo Novecento si sono succeduti numerosi tipi di teorie del vivente. Alcuni autori hanno accettato l'idea di evoluzione ma non quella di selezione, e quindi sono evoluzionisti non darwiniani; altri evoluzionisti, accettando l'idea di selezione e rifiutando quella di progresso, sono invece da considerare darwiniani. Tra le più conosciute e seguite teorie antidarwiniane vi furono l'ortogenesi per cause interne di Thomas Eimer (1843-1898), l'aristogenesi di Henry F. Osborne (1857-1935), l'ologenesi di Daniele Rosa (1857-1944) e il 'principio omega' di Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955): teorie autogenetiche antiselezioniste e progressiste, tutte più o meno accomunate dall'idea di una tendenza intrinseca dei viventi al loro progresso e perfezionamento.

Subito dopo l'inizio del Novecento, con la riscoperta delle leggi di Mendel, si affermano ulteriori evoluzionismi non darwiniani (ma non progressisti) come il mendelismo e il mutazionismo, che negando ogni ruolo alla selezione naturale assegnano alla variazione genetica, più precisamente alla mutazione, il compito di essere il motore dell'evoluzione, anche di quella adattativa. Tra gli anni Venti e Trenta, con la nascita della genetica teorica di popolazione a opera dei britannici Ronald A. Fisher (1890-1962) e John B.S. Haldane (1892-1964) e dell'americano S. Wright (1889-1988), si dispone finalmente di una teoria matematica dell'evoluzione, in cui si trovano conciliati i contrasti tra mendeliani (secondo i quali, l'eredità essendo discreta, l'evoluzione non poteva che essere discontinua, a salti) e biometrici (che, specializzati nell'analisi dei caratteri quantitativi, a variazione fenotipica continua, vedono invece l'evoluzione come un processo sostanzialmente graduale). Sono dunque i genetisti di popolazione a dimostrare fondato il darwinismo, cioè l'efficacia della selezione naturale sugli effetti fenotipici di mutazioni genetiche anche di piccola entità e la sua capacità di produrre l'adattamento.

La 'teoria sintetica dell'evoluzione'

Un grande progresso nello studio dell'evoluzione venne compiuto, nel decennio compreso tra il 1937 e il 1946, da un piccolo gruppo di studiosi che elaborarono quella che è universalmente nota come 'teoria sintetica dell'evoluzione' e che rappresenta inoltre l'atto di nascita della moderna biologia evolutiva. Gli artefici principali di questa teoria sintetica, il genetista Theodosius Dobzhansky (1900-1975), gli zoologi Julian Huxley (1887-1975) ed Ernst Mayr (1904-2005) e il paleontologo George G. Simpson (1902-1984), riescono a connettere una serie di acquisizioni disciplinari locali di genetica, sistematica e paleontologia in un corpo teorico globale. L'identità della teoria sintetica si fonda sul gradualismo evolutivo sia nell'adattamento sia nella speciazione, sull'idea che la variazione genetica è organizzata in un fondo di geni di proprietà della popolazione e sulla convinzione, raggiunta per via sperimentale, che la selezione è uno dei principali fattori di evoluzione nonché l'unica causa dell'adattamento. Le ricerche che sfociano nella teoria sintetica danno una risposta a molti interrogativi sull'evoluzione e contribuiscono a sollevarne di nuovi.

Vengono affrontati il rapporto tra meccanismi genetici e speciazione, riconoscendo l'esistenza di discontinuità non solo morfologiche ma anche genetiche tra specie neoformata e specie parentale; vengono individuati e dettagliati i meccanismi di isolamento riproduttivo tra specie affini conviventi nello stesso territorio ('specie simpatriche'); si dimostra che le specie non sono enti puramente nominali e che sono invece dotate di concretezza biologica e strutturate in popolazioni, di cui si studia la variazione geografica continua e discontinua, arrivando a chiarire che l'appartenenza di una popolazione (essa rappresenta l'entità biologica evolvibile di livello elevato) a una o a un'altra specie è stabilita da una relazione di natura riproduttiva. Inoltre viene provato e messo in risalto il fatto che questa appartenenza di una popolazione a una specie non costituisce una proprietà 'essenziale' (dunque immodificabile), ma è invece una proprietà 'relazionale', di natura storica e modificabile nel tempo. La probabilità di successo riproduttivo tra i membri delle popolazioni varia col passare delle generazioni ed è circolarmente collegata al grado di parentela genetica (opportunamente definita) tra le popolazioni.

Qualche anno più tardi, alle conclusioni di Dobzhansky, Huxley, Mayr e Simpson, si aggiungono i contributi dello zoologo e morfologo Ivan I. Schmal'gauzen (1884-1963), del botanico George L. Stebbins (1906-2000), che estende la teoria alla botanica chiarendo il peso della poliploidia e della ibridogenesi nella speciazione delle piante, e dello zoologo Bernhard Rensch (1900-1990), che nel 1947 con un libro dedicato all'evoluzione sopraspecifica, Neuere Probleme der Abstammungslehre, si può dire completi l'elaborazione della teoria sintetica quasi un secolo dopo On the origin of species. Il contributo di Shmal'gauzen, riassunto nel volume Factors of evolution nel 1949, è particolarmente originale e diversificato. Pur dedicando un'approfondita analisi all'evoluzione darwiniana delle popolazioni in rapporto alla variazione ambientale, Schmal'gauzen fonda le sue ricerche su un approccio organismico; percependo la natura gerarchica dei sistemi viventi, cerca di illustrare i rapporti tra le proprietà genomiche, organismiche e popolazionali. Inoltre si dedica allo studio del rapporto tra genotipo e ambiente e sviluppa il concetto di 'norma di reazione', originariamente proposto da Richard Woltereck (1877-1944), avanzando l'idea di una selezione stabilizzante sulla norma di reazione; illustra i possibili meccanismi sottostanti la plasticità fenotipica e infine individua nel rapporto tra selezione e processi di sviluppo uno dei grandi temi futuri della teoria dell'evoluzione.

Principali scoperte e sviluppi teorici recenti

Con la nascita della biologia molecolare e la trasformazione in questa direzione prima della genetica e più tardi della biologia dello sviluppo, e con le nuove acquisizioni della paleontologia e della stessa biologia evolutiva, si va delineando una teoria evolutiva in stato nascente di terza generazione dopo quella di Darwin e della sintesi. La riforma in corso della teoria sintetica mantiene inalterato il suo carattere darwiniano per la centralità assegnata alla selezione, ma si arricchisce di importanti contributi provenienti non solo dalla paleontologia ma anche dalla biologia dello sviluppo e dall'etologia, discipline che non parteciparono all'elaborazione della teoria sintetica, ma entrambe in grado di riequilibrare in senso organismico, e con una maggiore attenzione al peso evolutivo dei segnali ambientali, l'assetto della teoria evolutiva. Molto sommariamente si segnalano alcune delle principali scoperte e degli sviluppi teorici degli ultimi decenni che concorrono direttamente alla rielaborazione della teoria sintetica tradizionale.

Ruolo delle estinzioni di massa nell'evoluzione. Le estinzioni di massa consistono nella scomparsa subitanea di molte specie viventi in habitat anche molto diversi tra loro. Le principali cinque estinzioni di massa (di fine Ordoviciano, tardo Devoniano, fine Permiano, fine Triassico, fine Cretaceo - inizio Terziario) presentano caratteristiche che le distinguono dalla normale estinzione di fondo e vengono giudicate decisive occasioni di rinnovamento del biota terrestre. Il fenomeno delle estinzioni massive mette in primo piano il ruolo svolto dal caso nell'evoluzione e sottolinea i limiti dell'adattabilità delle specie rispetto a eventi largamente o del tutto imprevedibili, come eruzioni vulcaniche, glaciazioni, mutamenti del livello dei mari, impatti di meteoriti, ecc.

Teoria degli equilibri punteggiati (o intermittenti). Avanzata nel 1972, la teoria di Niles Eldredge e Stephen Jay Gould (1942-2002) sostiene che, contrariamente all'atteso della teoria sintetica, le specie fossili non mostrano variazioni temporali apprezzabili e i cambiamenti morfologici nella serie stratigrafica sono piccoli e non orientati. L'idea è che una specie si mantenga stabile per molti milioni di anni, per essere poi bruscamente sostituita da una nuova specie originatasi in coincidenza di brevi periodi di intensa speciazione. Secondo questo punto di vista, l'evoluzione sarebbe soprattutto caratterizzata dalla cladogenesi piuttosto che dalle trasformazioni anagenetiche, con una riduzione del peso dell'adattamento.

Teoria endosimbiontica dell'origine della cellula eucariotica. Proposta nel 1970 dalla microbiologa Lynn Margulis, sostiene che i principali organelli della cellula eucariotica (mitocondri e cloroplasti) non deriverebbero autogenamente dall'invaginazione della membrana plasmatica, ma dall'associazione di antichi e primitivi piccoli procarioti (autotrofi gli antenati dei cloroplasti; eterotrofi quelli dei mitocondri) penetrati in una grande cellula procariotica tra 2 e 1,5 miliardi di anni fa, quando l'atmosfera si stava arricchendo in ossigeno. Questa teoria valorizza il ruolo evolutivamente propulsivo della cooperazione simbiontica. L'antenato del mitocondrio eterotrofo sarebbe stato avvantaggiato troficamente dalla presenza del cloroplasto autotrofo il quale, a sua volta, essendo anaerobio avrebbe ricevuto enorme vantaggio dalla presenza di una cellula come il mitocondrio, che è attivo consumatore di ossigeno indispensabile nel processo di fosforilazione ossidativa.

Origine del comportamento altruistico e della socialità. L'esistenza di numerosi tipi di atti altruistici e della sterilità di casta negli Imenotteri eusociali è rimasta inspiegata, fintantoché nel 1964 William Hamilton (1937-2000) non ne ha dimostrato l'ammissibilità teorica elaborando la teoria della selezione di parentela e la nozione di 'fitness globale' (inclusive fitness). Il modello matematico di Hamilton dimostra che maggiore è il numero di geni condivisi tra donatore-altruista e beneficiario, maggiore è il beneficio ottenuto dal donatore nell'essere altruista. Ammesso che sia capace di riconoscere la parentela, un altruista tende perciò ad aiutare i parenti più stretti più di quanto non faccia con quelli lontani. Più in generale, tuttavia, l'eusocialità degli Insetti sembra essersi originata ed evoluta sia per selezione individuale sia per selezione di parentela.

Geni omeotici ed Evo-Devo. La scoperta avvenuta negli anni Ottanta dei geni Hox, geni regolatori di livello gerarchico elevato, preposti all'attivazione controllata di batterie di altri geni nonché coinvolti nell'organizzazione spaziale dell'embrione (la loro espressione specifica l'asse antero-posteriore di tutti gli animali), ha permesso di disporre per la prima volta di un meccanismo esplicativo dei rapporti tra mutazione genetica e produzione di biodiversità tassonomica di rango elevato. Tanto per fare alcuni esempi, le differenze nell'espressione dei geni Hox spiegano sia la riduzione del secondo paio di ali nei Ditteri, sia le pseudozampe delle larve delle farfalle e anche la perdita degli arti dei serpenti. L'esistenza dei geni omeotici e l'osservazione degli enormi effetti delle loro mutazioni sull'architettura corporea rappresentano inoltre la prova che una mutazione anche di un solo gene Hox, implicando alterazioni profonde di centinaia di altri geni, può bastare per produrre un nuovo tipo di animale. Gli studi sui geni Hox, che ricadono nella cosiddetta 'biologia evolutiva dello sviluppo' (Evo-Devo, Evolutionary developmental biology), non solo stanno dimostrando la centralità dell'ontogenesi nei processi evolutivi, ma attraverso la futura integrazione tra genetica dello sviluppo e genetica di popolazione promettono di fare luce sui rapporti tra micro- e macroevoluzione.

Plasticità del fenotipo. La capacità di adattamento di larve ed embrioni all'ambiente è nota fin dall'Ottocento, ma solo da pochi decenni sono disponibili gli strumenti metodologici e tecnici per indagini approfondite che possano chiarire quale sia la funzione di mappa genotipo-fenotipo. Questo rapporto non è lineare (uno stesso genotipo può infatti produrre un ventaglio di possibili fenotipi in funzione delle interazioni gene-gene e gene-ambiente), e le ricerche iniziate negli anni Novanta stanno sottolineando l'enorme importanza evolutiva della plasticità fenotipica. Le indagini si servono di modelli animali ma soprattutto di piante; infatti, la sedentarietà è direttamente collegata a un'elevata plasticità: le piante sono più plastiche degli animali e tra questi le specie sessili, come spugne e coralli, lo sono di più delle specie dotate di locomozione. L'interesse generale di queste ricerche risiede nella scoperta di come i segnali ambientali modificano i prodotti dello sviluppo. Questo comporta un approccio nuovo, ibrido tra quello di laboratorio e quello naturalistico, con la descrizione meccanicistica che cerca l'integrazione con la descrizione delle relazioni ecologiche tra organismo in sviluppo e ambiente.

Eredità epigenetica. Consiste nella trasmissione di informazione non codificata nella sequenza nucleotidica, da un individuo alla sua progenie. Essa si manifesta attraverso l'insieme dei processi che modulano l'espressione dei geni negli organismi multicellulari, innanzitutto durante lo sviluppo, attraverso l'interazione tra i geni e quella tra i geni e i loro prodotti. Conrad Waddington (1905-1975), che coniò il termine 'epigenetica' (lo studio dei cambiamenti ereditabili della funzione di un gene che si realizzano senza cambiamenti della sequenza nucleotidica), e dopo di lui altri genetisti hanno osservato che non tutta l'informazione necessaria alla produzione del fenotipo risiede nel DNA. Per esempio, le differenze fenotipiche esistenti tra ape operaia e ape regina non sono genetiche (entrambe possiedono lo stesso genoma) ma del tutto epigenetiche e dipendono dalla dieta larvale. Tra i fenomeni epigenetici più conosciuti vi sono la compensazione di dosaggio attraverso inattivazione del X nelle femmine dei Mammiferi, l'imprinting genomico e l'imprinting da metilazione. Le ricerche attuali stanno specificando i tipi di segnali esterni capaci di indurre l'emergenza di un'attività epigenetica e i correlati meccanismi molecolari. Un numero crescente di ricercatori è convinto che la chiave per capire l'evoluzione delle specie e delle loro popolazioni stia nello studio delle influenze dell'ambiente sui sistemi in sviluppo. Le ricerche sull'eredità epigenetica e la plasticità fenotipica danno molto spazio al ruolo dell'ambiente nell'evoluzione ed entrambe, in prospettiva, sembrano convergere verso un'ecologia evolutiva dello sviluppo (Eco-Evo-Devo) focalizzata sulla relazione tra informazione genetica e informazione ambientale.

Bibliografia

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Tavola I

Le grandi transizioni evolutive

Il modo con cui l’informazione viene conservata e trasmessa da una generazione alla successiva si è certamente modificato nel corso dell’evoluzione. Secondo John Maynard Smith ed Eörs Szathmáry, a partire dall’origine della prima cellula, i viventi sono stati oggetto di alcune grandi transizioni evolutive, quasi tutte a carico dell’informazione genetica. Ognuno dei passaggi riportati in tabella appare spiegabile in termini darwiniani, ricorrendo alle nozioni di ‘variazione’ e di ‘selezione naturale’. La tabella può anche essere letta come illustrazione dell’incremento di complessità gerarchica nel corso del tempo. Da un punto di vista funzionale, prima si assiste all’ottimizzazione dei meccanismi molecolari e strutturali (transizioni 1, 2, 3, avvenute fra i 3 e i 4 miliardi di anni fa), poi al miglioramento delle strutture cellulari e delle funzioni metaboliche (transizioni 3 e 4, risalenti a circa 2 miliardi di anni fa). La fase successiva (transizioni 5 e 6, avvenute intorno a 1-1,5 miliardi di anni fa) riguarda i cambiamenti nell’organizzazione a livello individuale (anche in relazione ai meccanismi del differenziamento e dello sviluppo) e a livello popolazionale. Le ultime due transizioni (7 e 8) con la comparsa delle colonie degli Insetti sociali circa 600 milioni di anni fa, delle società umane e del linguaggio poche centinaia di migliaia di anni fa, sono quelle evolutivamente più recenti. Tutte le transizioni, tranne la 6 e la 7, si sono realizzate una sola volta nel corso dell’evoluzione. Fanno eccezione la pluricellularità, che è comparsa tre volte (nelle piante, negli animali e nei funghi), e l’evoluzione di animali sociali con caste sterili che si è realizzata in più occasioni (nel caso delle formiche, delle api, delle vespe e delle termiti).

La teoria di Maynard Smith e Szathmáry si fonda su una visione gerarchica dei sistemi viventi secondo cui la probabilità di comparsa di un livello organizzativo più elevato dipende fortemente dall’ottimizzazione del livello immediatamente sottostante. Quest’ipotesi sembra essere confermata dal fatto che le strutture e i meccanismi molecolari di base (compartimentazione, cromosoma, codice genetico) sono identici in tutti gli organismi viventi. Inoltre, in tutti i pluricellulari sono altamente conservati i meccanismi di differenziamento e sviluppo. La teoria gerarchica dei viventi, tuttavia, porta con sé un grande problema di ordine generale e cioè che qualunque entità libera di replicarsi prima di una transizione a transizione avvenuta può replicarsi solo come parte di un sistema più ampio. In altri termini: entrare a far parte di un sistema gerarchicamente superiore spesso implica un conflitto di interesse tra le singole parti e il tutto. Una soluzione a questo problema può essere trovata identificando le condizioni di possibilità per la produzione di plurimi livelli organizzativi dei viventi. Tra queste condizioni ideali c’è l’immediato vantaggio che avrebbero gli eventuali replicatori che durante la transizione cooperassero tra di loro. Tale cooperazione potrebbe realizzarsi a patto che i replicatori fossero tra loro geneticamente identici o strettamente imparentati oppure appartenessero a pochi tipi genetici.

Dunque, in termini selettivi, spiegare l’origine dei livelli organizzativi più alti implica descrivere come la selezione operi ai livelli più bassi; si tratta del ben noto ‘problema dei livelli di selezione’. Si potrebbe dire che, osservata in scala megaevolutiva, la storia della vita consista principalmente nella transizione da un dato livello di selezione a quello superiore, da un livello di complessità a quello maggiore. Questo non significa, tuttavia, che con l’instaurarsi di un nuovo (e gerarchicamente più elevato) livello di selezione (per es., quello di individuo pluricellulare), la selezione ai livelli più bassi della biosfera (per es., a livello di cellula o di gene) scompaia. In effetti, l’attuale materia vivente è molto diversificata e la selezione agisce ai differenti livelli della biodiversità, purché vi sia variazione tra i replicatori. Le cose sembrano andare in altro modo, invece, all’interno di singoli gruppi di organismi. Negli Insetti sociali, per esempio, una selezione di gruppo sembra essersi completamente sostituita alla selezione individuale tipica.

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