Europeismo

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Europeismo

Antonio Giolitti

sommario: 1. Europeismo e Comunità Europee. 2. L'Europa orientale. 3. Ampliamento e crisi del Mercato Comune. 4. La Comunità Europea nella politica internazionale: Est-Ovest, Nord-Sud, Mediterraneo. 5. Il problema istituzionale. 6. Un altro ampliamento e un'altra crisi. 7. Quali prospettive per l'europeismo. □ Bibliografia.

1. Europeismo e Comunità Europee

Il 18 aprile 1951 veniva firmato a Parigi il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio, detta CECA. Era la prima pietra dell'edificio comunitario. Da quella data la storia dell'europeismo è - concretamente - la storia della costruzione della Comunità. Nel corso dell'ultimo trentennio, dunque, sembrerebbe risultare prevalente (ma non ancora vincente, come vedremo) la concezione funzionalista, tra quelle che - come scriveva dieci anni fa Altiero Spinelli nell'articolo europeismo di questa Enciclopedia - ‟hanno variamente contribuito e continuano tuttora a contribuire all'effettivo processo di unificazione europea: il federalismo, il funzionalismo, il confederalismo" (v. Spinelli, 1977, p. 857).

Della concezione e del metodo funzionalista è caratteristica la gradualità del processo di crescita e d'integrazione, di consolidamento, ampliamento e approfondimento, specie a livello istituzionale. Tipica, al riguardo, l'unificazione istituzionale dei tre settori comunitari che con prudenza e perseveranza gradualista si sono susseguiti nel corso degli anni cinquanta: CECA, EURATOM, CEE; unificazione attuata nel 1965 con il Trattato che istituisce un Consiglio unico e una Commissione unica delle Comunità Europee (ancor oggi, in un linguaggio giuridicamente corretto, si dovrebbe parlare di Comunità Europee al plurale).

Tuttavia l'europeismo, nel senso pieno e composito della parola, non si lascia riassorbire ed esaurire in quel processo. La corrente federalista, che è la più viva, la più costante e, diciamo così, la più impegnata nell'alveo dell'europeismo, non smobilita di fronte ai successi del funzionalismo - quali sono testimoniati dall'esistenza delle tre Comunità Europee sopra ricordate - e anzi ne avverte e ne denuncia i limiti, e seguala e combatte il pericolo della tendenza confederalista. Questa peraltro, come vedremo, ha avuto in epoca recente un notevole peso, almeno a livello di comportamenti delle forze politiche e dei governi (seppure in misura minore, apparentemente, nelle dichiarazioni verbali e nei discorsi celebrativi).

Proprio la competizione e il contrasto fra federalismo e confederalismo sono una costante dell'ultimo decennio e possono fornire un filo conduttore interpretativo degli eventi che segnano le evoluzioni o le involuzioni dell'europeismo attraverso il concreto operare di coloro che si vorrebbe fossero i cittadini dell'Europa, ma sono ancora - e io credo resteranno per lungo tempo - soprattutto cittadini delle rispettive nazioni: la storia d'Europa, infatti, continua anche durante questo secolo a essere storia di Stati-nazione, nonostante quella che Altiero Spinelli ha chiamato ‟la catastrofe del nazionalismo".

D'altra parte l'europeismo, specialmente a livello delle idee, investe un ambito del processo di unificazione dell'Europa molto più ampio di quello coperto solo parzialmente, e per certi aspetti precariamente, dagli edifici incompiuti e alquanto asimmetrici delle tre Comunità Europee. Anche in termini qualitativi lo spazio che queste occupano è assai limitato, e a ragion veduta: l'unificazione che per quella via si è voluta istituzionalizzare riguarda ‛funzioni' che si esercitano sul mercato e attraverso il mercato, prima quello del carbone e dell'acciaio, poi quello dell'energia atomica, e infine - con la comunità economica - quello più generale dei beni e dei servizi (ma gradualmente, a piccoli passi). L'ambizione dell'europeismo è di gran lunga maggiore: mira - più o meno esplicitamente - al traguardo degli ‛Stati Uniti d'Europa' e nel processo di unificazione coinvolge economia e politica, cultura e costume, educazione e amministrazione, sicurezza e difesa, e quant'altro chiama in causa, in qualche modo, la responsabilità del potere pubblico.

Del resto, anche l'area attualmente coperta dalle esistenti istituzioni di natura o d'ispirazione europeistica, oltre le tre Comunità, è già più ampia e varia di quella del ‛mercato comune': è l'area in cui troviamo anche problemi di una difesa comune e problemi culturali e ambientali. In riferimento ai primi sono da ricordare le competenze dell'Unione Europea Occidentale (UEO); ai secondi, quelle del Consiglio d'Europa.

2. L'Europa orientale

Nel momento in cui iniziamo a parlare di un'area che è, o potrebbe o dovrebbe essere, investita da iniziative o istituzioni europeistiche, ecco sorgere un problema di area geografica, che assume una drammatica dimensione politica e storica: il problema dell'Europa orientale. L'europeismo risorto sulle macerie e sui massacri della seconda guerra mondiale, sul corpo straziato di un'Europa brutalmente lacerata e spartita dagli accordi tra i ‛Grandi', inesorabilmente spaccata dalla cortina di ferro, con la parte orientale ridotta ad appendice di un impero di tipo asiatico, l'europeismo di quella Europa e in quella Europa non poteva che rifugiarsi e riplasmarsi nella parte occidentale. Lo attesta, quasi candidamente, Altiero Spinelli: ‟Quale che fosse inizialmente la dimensione geografica che gli europeisti avevano dato al loro sogno di unione, la realtà politica della seconda metà degli anni quaranta stabilì in maniera incontrovertibile che l'europeismo poteva essere un tema politico attuale solo per l'Europa occidentale" (ibid., p. 860).

Se l'unificazione europea non deve limitarsi ai fenomeni di mercato, non si può stabilire per definizione, una volta per tutte, che essa riguarderà soltanto i paesi a economia di mercato. Tanto meno tale limitazione può valere per una visione complessa e vasta delle prospettive europee qual è l'europeismo. La situazione e le prospettive dell'Europa orientale appartengono alla problematica dell'europeismo, tanto più che, paradossalmente, è proprio sul mercato, negli scambi economici, che i rapporti tra l'Ovest e l'Est dell'Europa sono più intensi e meno drammatici. Non è tanto la libertà di mercato, quanto la libertà di pensiero, e quindi di rapporti culturali, che è negata e rifiutata dal dispotismo orientale.

Ma più forte del dispotismo è la capacità di propagazione del pensiero, che filtra attraverso le maglie della censura, aggira gli sbarramenti, trova vie nascoste, trasmette messaggi. Attraverso il dissenso, l'emigrazione, l'esportazione clandestina degli scritti, i paesi dell'Est e anche la Russia (anzi, soprattutto la Russia) alimentano la cultura europea, cosicché a livello culturale si può ancora parlare di Europa nel senso pieno della parola. Anche nel decennio di cui qui ci occupiamo, lungo sarebbe l'elenco dei nomi già entrati nel pantheon europeo: basti ricordarne due, eccelsi, Solženicyn e Zinov′ev, per rendersi conto del livello e della dimensione di questa componente della cultura europea. Nelle vene di costoro scorre sangue d'Europa; i valori che essi esaltano sono sostanza della civiltà europea; essi ci rilanciano il messaggio di un altro grande europeo di nazionalità russa, il socialista Aleksandr Herzen, il quale scriveva dall'esilio nel 1859: ‟Noi abbiamo bisogno dell'Europa come ideale, come rimprovero, come esempio benefico, e se così non fosse, bisognerebbe inventarla" (cfr. A. I. Herzen, Byloe i dumy, Leningrad 1922; tr. fr.: Passé et méditations, Lausanne 1981, vol. IV, p. 63).

Ma nonostante quelle testimonianze, la ricchezza, la complessità e l'identità stessa della cultura europea si trovano irreparabilmente mutilate in seguito all'amputazione della componente ‛orientale'. Non si può semplicemente prenderne atto. L'europeismo deve porsi il problema, deve tenerlo aperto, come ha fatto la Repubblica Federale Tedesca con la Ostpolitik, come è stato fatto con le manifestazioni di solidarietà (che può ben qualificarsi europeistica) verso i movimenti di ribellione e di dissenso in Ungheria, in Cecoslovacchia e in Polonia, come, infine, si è tentato e si dovrà tentare ancora di fare con la politica della distensione associata alla tutela dei diritti umani e civili. Ma fino a quando perdurerà la lacerazione, l'Europa non avrà riconquistato la propria identità storica; ci saranno un'Europa occidentale e un'Europa orientale, il cui ruolo sarà condannato a rimanere subalterno - sia pure in modi e misure enormemente diversi - rispetto alle due potenze egemoniche. L'europeismo ne risulta anch'esso mutilato e diviso tra aspirazioni autonomiste o ‛terzaforziste', più o meno velleitarie, e una rassegnazione, ispirata a pessimismo o realismo, alla subalternità politica e militare e perciò anche economica e culturale.

Nel contesto dei problemi qui evocati non si può tralasciare di osservare che particolarmente grave è stata la perdita che per quella lacerazione ha subito la componente socialista dell'europeismo. Come ha osservato D. Groh (v., 1961; tr. it., p. 384), ‟con la vittoria del ‛marxismo' in Russia fu rubata, se è lecita l'immagine, al socialismo europeo la sua storia, e alle sinistre europee la loro patria". Solo in epoca recente si è manifestato un tentativo di recupero con le tendenze che hanno preso le denominazioni di ‛eurosocialismo' ed ‛eurocomunismo.

Un'altra conseguenza è che l'Europa occidentale, nella quale l'europeismo si è rifugiato e autolimitato, si trova costretta a rispondere alla sfida dell'antagonista orientale ponendosi due obiettivi prioritari: crescita e competitività economica (nel senso più ampio, inclusa la tecnologia); compattezza politica e capacità di difesa. Il primo deriva da un giudizio di valore, aberrante quanto si vuole, ma ormai imperante nel mondo contemporaneo, non soltanto capitalistico: ‟Ricchezza e velocità, ecco ciò che il mondo ammira e a cui ciascuno aspira", osservava Goethe già nel 1825. Il secondo è imposto dalla divisione e contrapposizione delle due sfere d'influenza e dei due blocchi politico-militari in seguito alla seconda guerra mondiale e alla formazione della potenza imperiale sovietica. Era inevitabile, quindi, in forza di quelle due priorità, che la Comunità Europea nascesse e si organizzasse soprattutto - e finora quasi esclusivamente - in funzione di obiettivi economici, e che sulla trama dell'integrazione economica si innestassero un disegno e un impegno di cooperazione politica. È interessante osservare subito - a proposito del rapporto, poc'anzi messo in evidenza, tra federalismo e confederalismo - che mentre nel tessuto istituzionale della Comunità economica si possono ravvisare e sviluppare germi di federalismo, la cooperazione politica è invece tenuta in modo molto rigoroso e guardingo, e da parte di taluni addirittura con diffidenza, entro limiti che possono consentire, al massimo, uno sviluppo di tipo confederale.

3. Ampliamento e crisi del Mercato Comune

All'inizio degli anni settanta la Comunità si ampliava: un lungo negoziato si concludeva con l'adesione del Regno Unito, dell'Irlanda e della Danimarca, divenuta effettiva il 1° gennaio 1973. Contemporaneamente si manifestavano i primi segni della crisi economica e monetaria che doveva proseguire, con alterne vicende, negli anni successivi: disgregazione del sistema di Bretton Woods, esplosione dei prezzi del petrolio, straripamento della spesa pubblica, peggioramento delle ragioni di scambio, irrigidimento del mercato del lavoro, inflazione, disoccupazione, indebitamento vertiginoso del Terzo Mondo. Questa crisi coglieva la Comunità Europea in una situazione di per sé già critica, perché la maggiore ampiezza e le necessità di adattamento dei nuovi membri comportavano, almeno per un certo periodo, una minore compattezza. Per giunta, il Regno Unito entrava con l'intento apertamente e ufficialmente dichiarato di limitare e possibilmente ridurre l'area di competenza della Comunità. In compenso, peraltro, l'europeismo riprendeva fiato in Francia, dopo il ritiro di De Gaulle.

In tale situazione la Comunità doveva far fronte all'aggressiva competitività degli Stati Uniti, del Giappone e dei paesi di nuova industrializzazione e alle situazioni catastrofiche d'indebitamento e di fame che affliggevano quei paesi del Terzo Mondo nei cui confronti gli antichi colonizzatori dell'Europa occidentale, spinti da un complesso di colpa, sentono il dovere della cooperazione.

L'ampliamento della Comunità implicava una duplice sfida: a) estendere l'area geografica dell'integrazione verso il Nord dell'Europa senza accentuare ulteriormente lo squilibrio a scapito dell'area mediterranea, di fatto già in condizioni di inferiorità (specie per quanto riguarda la politica agricola comune); b) consolidare le istituzioni e rendere più coerenti ed efficaci le politiche comuni, inoltrandosi anche in nuovi campi, come quello della promozione delle tecnologie avanzate.

A dieci e più anni di distanza da quell'ampliamento si deve constatare obiettivamente che non sono venute risposte adeguate a quella duplice sfida né dalle istituzioni comunitarie né dai governi degli Stati membri. Mentre l'Irlanda e la Danimarca sono da annoverare tra i paesi che ricevono i maggiori benefici e i più cospicui finanziamenti dalla Politica Agricola Comune (PAC), restano assai esigue le risorse finanziarie destinate ai Programmi Integrati Mediterranei (PIM), per i quali un consenso è stato finalmente raggiunto a livello dei capi di Stato e di governo nel Consiglio europeo del marzo 1985.

Il Regno Unito ha posto e imposto con ostinazione il problema di uno ‛squilibrio' che renderebbe eccessivo, in termini meramente e grettamente finanziario-contabili, il suo contributo al bilancio comunitario, e da tale controversia ha tratto occasione e motivo per difendere una concezione estremamente riduttiva, minimalista, delle competenze comunitarie e quindi delle risorse finanziarie a esse destinate. Poiché altri Stati membri, sia pure per motivi diversi, sono sollecitati da analoghe esigenze di parsimonia, le politiche comunitarie si trovano costrette entro limiti finanziari che non consentono alcuno sviluppo, mentre all'interno e dall'esterno incalzano le sfide di cui abbiamo parlato.

Ma per collocare nel quadro più ampio e complesso dell'europeismo la crisi che perdura nella Comunità Europea da oltre un decennio, bisogna metterla in rapporto con la visione dell'economia di mercato che ha dato la sua impronta alla Comunità.

Le idee più avanzate e ambiziose dell'europeismo degli anni cinquanta (‟anni del miracolo", si diceva in Italia, ma analoga euforia era diffusa in tutta Europa) assumevano come postulato la tesi che ormai si era entrati nell'era del neocapitalismo e che l'economia di mercato, accortamente e delicatamente guidata (fine tuning), era in grado di assicurare una crescita indefinita, anche a tassi sensibilmente elevati, senza inflazione e senza disoccupazione, o alla peggio con tassi controllabili di inflazione e disoccupazione.

Certo, la politica keynesiana, praticata in forme e sotto etichette diverse in tutti i paesi neocapitalistici d'Europa, ha procurato un ventennio di benessere, diffuso fino al punto da essere assunto come caratteristica di quegli Stati, orgogliosi di fregiarsi del titolo di Welfare State. Era, in un certo senso, la politica della cicala; la formica nel frattempo dormiva, invece di mettere da parte le provviste per l'inverno, fiduciosa in quella sorta d'ideologia - europeistica anch'essa, data la sua diffusione in tutta l'Europa occidentale e la sua influenza sulla concezione della Comunità Europea - che, attribuendo le suddette virtù al mercato concorrenziale, si attendeva prodigi dalla cosiddetta terza rivoluzione industriale e specialmente dalle nuove tecnologie (ancor oggi additate da taluno come il deus ex machina in grado di farci uscire dalla crisi), e faceva derivare ‟magnifiche sorti e progressive" dalla creazione del grande mercato europeo unificato e dalla liberalizzazione degli scambi. Non per caso le parole ‛mercato comune' sono state a lungo di uso molto più corrente che non la parola ‛comunità'.

Qualche anno dopo si era costretti a constatare quanto fosse illusorio l'ottimismo diffuso da quella ideologia. All'inizio degli anni settanta i flagelli della crisi si rovesciavano su economie che, sebbene tutte integrate nel Mercato Comune, presentavano tuttavia ancora profonde divergenze a livello delle strutture e quindi anche a livello dei fenomeni finanziari e monetari. Il Mercato Comune, avendo creato più stretti rapporti d'interdipendenza senza far avanzare parallelamente il processo d'integrazione e di armonizzazione e senza mettere in opera la tanto proclamata solidarietà comunitaria (si è dovuto aspettare fino al 1975 per avere appena un embrione di politica regionale), non poteva non produrre l'effetto perverso di accentuare tensioni e divergenze a danno dei più deboli.

La Comunità si trovò dunque impreparata di fronte al prorompere della crisi economica degli anni settanta. Gli egoismi nazionali presero di nuovo il sopravvento proprio di fronte a uno dei fattori di crisi più clamorosi e dirompenti: il problema del petrolio. Quella che poteva essere un'occasione storica per la Comunità Europea andò perduta. Subentrò un clima di diffidenze reciproche, di protezionismi più o meno occulti, di confronti esosi circa i costi e benefici per ciascuno nella partecipazione all'impresa comune.

Un vigoroso colpo di timone in direzione dell'unificazione fu dato tuttavia con l'iniziativa del Sistema Monetario Europeo (SME). Fin dal dicembre 1969, alla Conferenza dei capi di Stato e di governo all'Aia, era stato posto l'obiettivo, da raggiungere nel 1980, dell'unione economica e monetaria; nell'ottobre del 1970 veniva presentato da un comitato di alti funzionari, presieduto dal capo del governo lussemburghese Pierre Werner, un rapporto sulla via da percorrere verso tale obiettivo (Rapporto Werner); finalmente nel marzo 1971 il Consiglio dei ministri della Comunità riusciva a deliberare il programma della ‛prima tappa', da realizzarsi entro il 31 dicembre 1973.

Viceversa, proprio in quel periodo andavano accentuandosi le divergenze tra le politiche economiche e monetarie dei diversi Stati membri. Nell'aprile 1975 un rapporto di Robert Marjolin, ex membro della Commissione della Comunità, constatava malinconicamente che l'obiettivo di una unione economica e monetaria entro il 1980 era illusorio e che occorreva prepararne le condizioni con un'opera di ‟profonda trasformazione" in grado di creare istituzioni europee dotate di potere reale. Ma il 27 ottobre 1977 il presidente della Commissione, Roy Jenkins, rompendo gli indugi, proponeva l'instaurazione di un sistema monetario europeo come primo passo concreto e impegnativo verso l'unione economica e monetaria.

Il messaggio venne raccolto: nel 1978 il Consiglio europeo (riunione dei capi di Stato e di governo) approvava a Brema (6-7 luglio) le linee generali dello SME e poi a Bruxelles (5-6 dicembre) ne definiva le regole e i meccanismi, cui aderivano tutti gli Stati membri della Comunità, eccettuato il Regno Unito.

Lo SME ha funzionato e funziona, agevolato anche dall'andamento del dollaro e della sterlina sul mercato dei cambi. Nonostante le insufficienze da più parti e più volte lamentate, esso ha assicurato le condizioni di ordine monetario necessarie per lo sviluppo del commercio intracomunitario, ha contribuito a coordinare le politiche monetarie dei vari paesi (a partire dal 1978 si sono ridotti i tassi di crescita degli aggregati monetari in tutti gli Stati membri) e le variazioni dei tassi d'interesse, ha collegato le variazioni dei tassi di cambio a misure di politica economica indirizzate alla convergenza e ha subordinato quelle variazioni a decisioni collettive (non accontentandosi, cioè, di ratificare decisioni unilaterali). Che poi gli sforzi di convergenza siano stati insufficienti non dipende dallo SME. Il sistema è però rimasto alla fase di primo impianto, perché il passaggio alla seconda fase, previsto per il 1981, è stato rinviato sine die dal Consiglio dei ministri della Comunità.

4. La Comunità Europea nella politica internazionale: Est-Ovest, Nord-Sud, Mediterraneo

Il brusco e inopinato arresto del processo di crescita e la constatata impossibilità di realizzarlo in modo armonioso (come auspicato, anzi prescritto dal Trattato istitutivo della Comunità economica) costituivano una sconfitta o per lo meno un intoppo anche per il ‛funzionalismo' e per quella concezione economicistica dell'europeismo che dava priorità e precedenza all'economia, nella convinzione che la dimensione politica sarebbe seguita. Il disegno funzionalista prevedeva e promuoveva un processo di evoluzione dal Mercato Comune alla Comunità, e perciò dall'economia alla politica, senza fratture. La crisi determinava invece fratture profonde tra gli orientamenti e i comportamenti di politica economica dei diversi Stati membri, ravvivava egoismi nazionali, suscitava tentazioni e tendenze protezionistiche. Ne derivava un'atmosfera del tutto sfavorevole alla istituzionalizzazione nell'ambito comunitario della cooperazione politica. A tale proposito va segnalato un rapporto, preparato dai direttori degli affari politici dei sei Ministeri degli Esteri (era ancora la Comunità di sei) sotto la presidenza del belga Etienne Davignon, sui Progressi realizzabili nel campo dell'unificazione politica dell'Europa. Il Rapporto Davignon, che stabiliva una procedura d'informazione e concertazione intergovernativa sui problemi di politica estera (ma non su quelli concernenti la difesa), fu approvato dai ministri degli Esteri a Lussemburgo il 27 ottobre 1970, che è appunto la data di nascita della cosiddetta ‛cooperazione politica'.

Si trattava - conviene sottolinearlo - di cooperazione intergovernativa, non comunitaria (anche se erano previsti contatti con la Commissione della Comunità e con il Parlamento europeo), da realizzarsi con gli strumenti dei rapporti diplomatici tradizionali.

Era dunque una soluzione di tipo confederale, che sanciva perciò una netta separazione, a livello istituzionale, tra economia e politica. Rispetto a tale soluzione, che vige tuttora, appare invece profondamente innovatrice la procedura di istituzionalizzazione comunitaria della cooperazione politica proposta, sia pure con prudenza e gradualità, dal Parlamento europeo nel suo progetto di trattato per l'Unione europea.

Costretta la cooperazione politica entro tali limiti, la credibilità e l'efficacia del ruolo politico dell'Europa occidentale nel suo insieme erano poste in condizioni di netta inferiorità rispetto a quelle dei singoli Stati, e ancor più marcato era l'handicap che ne risultava per le istituzioni comunitarie, specialmente su tutti quei complessi di problemi nei quali è particolarmente stretto il rapporto di interdipendenza tra economia e politica. Tre di questi meritano una specifica considerazione.

1. Nell'ambito dei problemi designati come relazioni Est-Ovest è chiaro che i rapporti economici sono fortemente condizionati dai rapporti di forza e di potere che s'instaurano sul terreno politico, i quali a loro volta sono influenzati dai rapporti economici e specialmente commerciali, come è apparso drammaticamente evidente quando le vicende dell'Afghanistan e della Polonia hanno chiamato in causa la capacità di reazione dell'Occidente nei confronti dell'Unione Sovietica. Anche per le ragioni anzidette a proposito della scollatura istituzionale tra economia e politica, la Comunità Europea si è trovata in condizioni di grave debolezza. Gli Stati dell'Europa occidentale si sono presentati al confronto in ordine sparso. L'europeismo si è trovato privo di idee e di iniziative di fronte al problema dell'Europa orientale.

2. Anche nei rapporti con il Terzo Mondo si intrecciano inestricabilmente problemi economici e politici. L'europeismo - bisogna riconoscerlo - non è stato capace di fornire all'Europa una piattaforma culturale su cui riorganizzare quei rapporti dopo la fine dell'epoca coloniale. È prevalsa, nei paesi dell'Europa occidentale, una tendenza analoga e parallela a quella che abbiamo osservato a proposito del Mercato Comune, la tendenza cioè a considerare il modello dell'economia di mercato come il migliore dei modelli possibili anche per i paesi ex coloniali e sottosviluppati (denominati eufemisticamente ‛in via di sviluppo': dove per via si intende appunto quella che conduce all'economia di mercato). L'errore di voler imporre un modello assai spesso impraticabile per quei paesi si aggrava quando a quel modello si pretende di conferire il significato di una sfida ideologica, contrapponendo la dottrina del mercato concorrenziale alla dottrina della pianificazione. Ne deriva il rischio di cancellare la specificità del problema Nord-Sud, di ridurlo a variabile dipendente del confronto bipolare Est-Ovest e di escludere così un ruolo proprio dell'Europa, che invece può essere decisivo per condurre il problema Nord-Sud dal conflitto alla cooperazione.

Nonostante errori ed esitazioni la Comunità Europea è riuscita tuttavia a dare un buon esempio di cooperazione con i paesi sottosviluppati, il migliore, forse, nel mondo contemporaneo. Iniziata nel 1963 con la Convenzione firmata a Yaoundé (che diede vita alla prima associazione euro-africana), quella che viene chiamata la politica comunitaria di sviluppo si è irrobustita ed estesa fino a comprendere 58 paesi dell'Africa, dei Caraibi e del Pacifico (ACP), attraverso una seconda Convenzione di Yaoundé (1969) e una prima e seconda Convenzione di Lomé (1975 e 1981). Componenti essenziali di tale politica di sviluppo sono ora la cooperazione commerciale, il meccanismo di stabilizzazione dei proventi da esportazioni (Stabex), la cooperazione finanziaria e tecnica. L'aiuto previsto dalla seconda Convenzione di Lomé per il periodo 1981-1985 è stato portato da 4.300 a 7.200 milioni di dollari. A ciò bisogna aggiungere quelle che vengono chiamate ‛azioni a livello mondiale', e cioè l'aiuto alimentare, gli accordi commerciali con i paesi dell'Asia e dell'America Latina, il sistema delle preferenze tariffarie generalizzate, l'aiuto finanziario e tecnico ai paesi non associati in America Latina e in Asia. In totale, il contributo della Comunità Europea e degli Stati membri rappresenta quasi il 50% dell'aiuto pubblico allo sviluppo da parte dei paesi industrializzati. In rapporto al prodotto interno lordo, sia l'aiuto pubblico sia il volume delle importazioni dai paesi sottosviluppati, della Comunità e degli Stati membri, raggiungono un livello nettamente superiore a quello degli Stati Uniti e del Giappone nel triennio 1979-1982. Per gli investimenti diretti, nello stesso periodo il livello è di poco inferiore a quello degli Stati Uniti.

Esistono tuttavia tre ordini di problemi di fronte ai quali le insufficienze della cooperazione assumono dimensioni drammatiche e sui quali deve perciò concentrarsi l'attenzione e l'impegno di un europeismo all'altezza del suo ruolo mondiale: la strategia agroalimentare e la fame nel mondo; l'approvvigionamento e l'utilizzazione razionale delle risorse energetiche; il finanziamento dei disavanzi di bilancia dei pagamenti e il livello d'indebitamento di alcuni paesi. Una volta di più, di fronte a problemi di tali dimensioni, l'economia non può fare a meno della politica: come interlocutore politico unitario, però, l'Europa occidentale è pressoché inesistente, mentre è più percepibile (anche se nettamente inferiore, s'intende, a quella degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica) l'influenza dei singoli Stati, come per esempio la Francia e la Gran Bretagna nelle rispettive sfere francofone e anglofone, per effetto del precedente periodo coloniale.

3. Il terzo caso cospicuo di complesso intreccio di problemi economici e politici lo troviamo nel Mediterraneo, dove il dinamismo dei rapporti internazionali è più accentuato, i rapporti di interdipendenza economici e politici sono più fitti e stretti, le tensioni Nord-Sud ed Est-Ovest più esasperate e intrecciate. L'ingresso della Spagna e del Portogallo nella Comunità Europea, dopo quello della Grecia, è importante specialmente per il maggior peso politico ed economico che verrà ad acquistare la Comunità nell'area mediterranea. Non sarà più procrastinabile, allora, quella ‛politica globale mediterranea' che è a tutt'oggi un'ambizione irrealizzata della Comunità Europea. Ambizione peraltro legittima, quando non si dimentichi che il Mediterraneo è stato la culla ed è oggi il banco di prova dell'europeismo che, alimentato dall'ellenismo e dal cristianesimo, si trova oggi a confrontarsi, proprio nell'area mediterranea, con altre culture e altre religioni.

Finora quell'aggettivo ‛globale' è stato per la Comunità una sorta di fuga in avanti, quasi a nascondere, dietro al traguardo di una non ben definita globalità, le insufficienze di un approccio in cui la mancanza di unione politica ha reso frammentari, inadeguati e incoerenti i tentativi di cooperazione economica. Si è cominciato con gli accordi di associazione stipulati con la Grecia nel 1961 e con la Turchia nel 1963 (audace ma accorto accoppiamento), cui hanno fatto seguito accordi esclusivamente commerciali con Israele, Libano, Marocco, Tunisia, Spagna, Malta, Cipro, Egitto e Portogallo. L'ambizione di una politica globale è stata dichiarata al ‛vertice' dei capi di Stato e di governo tenuto nel 1972 a Parigi, dove due anni dopo veniva dato l'avvio anche al cosiddetto ‛dialogo euro-arabo', consistente in incontri periodici a livello di diplomazie.

Nel 1983 le istituzioni comunitarie e i governi degli Stati membri dovevano constatare e manifestare ufficialmente la loro insoddisfazione per la mancata attuazione della politica globale mediterranea e proclamavano la necessità di un suo rilancio. Con ciò risultava una volta di più evidente che, in mancanza di unione politica, globalità è sinonimo di velleitarismo e che solo quella unione può fornire all'Europa occidentale la possibilità - che per la pace nel Mediterraneo e nel mondo è una necessità - di esercitare un'azione politica coerente, continua e opportunamente differenziata, come sono differenziate le specifiche situazioni che bisogna affrontare in quell'area, dal Maghreb al Medio Oriente, dalla Turchia alla Spagna, dalla Iugoslavia alla Libia.

5. Il problema istituzionale

Come abbiamo sopra ricordato, il Rapporto Marjolin fin dal 1975 aveva segnalato, a proposito dell'unione economica e monetaria, l'importanza del problema istituzionale.

Due novità di grande rilievo sono intervenute a modificare sostanzialmente il quadro e soprattutto l'equilibrio istituzionale disegnato nei Trattati: la creazione del Consiglio europeo, cioè della riunione periodica dei capi di Stato e di governo dei paesi della Comunità, decisa al ‛vertice' di Parigi nel giugno 1974; la prima elezione diretta del Parlamento europeo, nel giugno 1979. L'equilibrio istituzionale originario ne è risultato profondamente mutato, perché sono stati esaltati due organi che sono espressione diretta della volontà politica dei popoli della Comunità, mentre alla nomina della Commissione la volontà popolare concorre soltanto indirettamente poiché essa compete ai governi. Consiglio e Parlamento esercitano il potere legislativo: il primo di diritto, in conformità alla lettera dei Trattati (che però non avevano previsto il Consiglio europeo), il secondo di fatto, perché, in seguito all'elezione diretta, il Parlamento europeo ha un peso politico molto maggiore di quello attribuito dal Trattato di Roma all'Assemblea - investita soltanto di funzioni consultive - e concorre di fatto, con le sue ‛risoluzioni', all'esercizio del potere legislativo. La Commissione vi concorre solo all'inizio della procedura, perché a essa il Trattato di Roma riserva la funzione di proposta: in realtà, però, essa si trova di fatto spogliata di tale funzione, dal momento che Consiglio europeo e Parlamento esprimono essi proposte, direttive, decisioni, e chiedono poi alla Commissione - come vedremo in un caso specifico di particolare rilievo - di fare rapporto e di eseguire. Alla Commissione rimane quindi, necessariamente, il potere esecutivo, ma ridotto sempre più spesso a funzione tecnica: schiacciata, infatti, tra Consiglio e Parlamento, la Commissione perde inevitabilmente peso politico. Ne deriva, perciò, uno squilibrio istituzionale tra potere legislativo, divenuto esuberante, e potere esecutivo, scaduto a livello di amministrazione e di gestione.

Compare qui, ancora una volta, la contrapposizione tra federalismo e confederalismo. Per la sua natura di organo collegiale operante a tempo pieno e composto di membri solennemente impegnati a una assoluta indipendenza dai governi, la Commissione contiene, per così dire, un potenziale federalista. Il Consiglio, invece, è esplicitamente un organo intergovernativo, e perciò di tipo confederalista, specie a livello del Consiglio europeo, dove la Commissione interviene nella persona del suo presidente con un ruolo che è quasi di osservatore. Più complessa è la natura del Parlamento. Certamente nei gruppi politici il comune denominatore tra le varie provenienze nazionali è fornito dall'interesse superiore e sovranazionale della Comunità e nelle grandi occasioni (come quella del progetto di trattato per l'Unione europea) si sono manifestate maggioranze chiaramente orientate in senso federalista. Ma il legame con gli interessi nazionali, fortemente presente nelle forze politiche che compongono quel Parlamento (elette a livello nazionale), contraddice o frena quell'orientamento.

Se nella realtà storico-politica di oggi è esatta, come io tendo a credere, la definizione di Schumpeter secondo cui ‟il metodo democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto popolare", è chiaro che la Commissione non può essere considerata una sorta di embrione di governo sovranazionale o federale (cfr. J. A. Schumpeter, Capitalism, socialism and democracy, New York 1942; tr. it.: Capitalismo, socialismo e democrazia, Milano 1955, p. 252).

I ‟singoli individui" che la compongono non hanno ottenuto potere dal voto popolare. La dialettica democratica nella Comunità ha solo due protagonisti dotati di piena rappresentatività: Consiglio e Parlamento. La decadenza del ruolo politico della Commissione e quindi l'affievolimento, nelle istituzioni comunitarie, della tendenza federalista erano inevitabili, perché tra i ruoli politici del Consiglio europeo e del Parlamento tertium non datur. Rispetto a queste due istituzioni (e nella realtà il Consiglio europeo è una istituzione, anche se non lo è nei Trattati) la Commissione ha una minore legittimazione democratica.

Il progetto di trattato che istituisce l'Unione europea, approvato dal Parlamento europeo il 14 febbraio 1984, vuole ristabilire l'equilibrio istituzionale facendo partecipare Consiglio, Parlamento e Commissione all'esercizio del potere legislativo, definendo e limitando le funzioni del Consiglio, rafforzando il controllo del Parlamento sulla Commissione, attribuendo a questa funzioni ben definite di programmazione, di iniziativa legislativa, di esecuzione e di gestione. Siffatto equilibrio istituzionale sembra realizzare un compromesso tra tendenze federaliste e confederaliste; ma poiché risulta fortemente ridotto il potere di veto di fatto oggi esercitato, all'occorrenza, dall'uno o dall'altro governo nazionale - finisce col prevalere l'orientamento federalista, come si conviene, ovviamente, a un progetto di ‛unione europea'.

Per la realizzazione di questo progetto, comunque, la strada è lunga. Allo scopo di neutralizzare al più presto il suddetto potere di veto e sottrarre la Comunità alla paralisi di veti incrociati, è stata suggerita l'adozione di criteri legislativi più flessibili e modulabili e di gradi diversi di partecipazione alle iniziative comunitarie (fino, eventualmente, alla non partecipazione). Tale possibilità di differenziazione negli obblighi e nei benefici configura un'ipotesi del tutto diversa da quella che è stata chiamata delle ‛due velocità', la quale prospetta due categorie di partecipanti alla Comunità e quindi instaura una sorta di gerarchia tra gli Stati membri, che sarebbe politicamente inaccettabile. La differenziazione, invece, tiene semplicemente conto delle divergenze strutturali che possono rendere difficile, per l'uno o per l'altro Stato membro, sia il sottostare a tutti i vincoli sia l'usufruire di tutti i benefici di una politica comunitaria basata su norme uniformemente valide per tutti: in tal caso, per sfuggire al dilemma ‛tutti o nessuno' sarà opportuno introdurre differenziazioni nelle modalità di applicazione di tale politica a seconda delle diverse situazioni strutturali, consentire deroghe, variare e graduare tempi e modi di attuazione. Ove invece le divergenze siano dovute a volontà politica, è concepibile che un impegno comune sia assunto soltanto da un gruppo (abbastanza consistente) di Stati: così è stato creato lo SME e così è accaduto a proposito delle sanzioni contro l'Argentina, nella guerra delle Falkland, e di alcune misure nei confronti dell'Unione Sovietica; così potrebbe accadere - ove s'intraprendesse uno sforzo concreto di coordinamento, preludio a politiche comuni - nel campo dei rapporti Est-Ovest, dei problemi Nord-Sud, della difesa, e in altri ancora, come più volte è stato invano proposto.

Il Parlamento europeo ha introdotto nel suo progetto di trattato per l'Unione europea, entro certi limiti, questo metodo della differenziazione, in particolare con l'art. 35: ‟La legge può subordinare a taluni termini o accompagnare con talune misure transitorie differenziate a seconda del destinatario l'attuazione delle sue disposizioni, qualora l'uniformità di applicazione di queste incontri difficoltà particolari dovute alla situazione specifica di taluni suoi destinatari. Questi termini e queste misure devono nondimeno tendere a facilitare l'ulteriore applicazione dell'insieme delle disposizioni della legge a tutti i suoi destinatari

6. Un altro ampliamento e un'altra crisi

Entrati negli anni ottanta, ci si è trovati ancora una volta di fronte a un doppio problema di ampliamento e di crisi della Comunità Europea.

La Grecia è entrata nella Comunità il 1° gennaio 1981. I negoziati per l'adesione del Portogallo e della Spagna hanno avuto inizio rispettivamente nell'ottobre 1978 e nel febbraio 1979, e si sono conclusi nel marzo 1985.

Il significato politico dell'adesione di questi paesi è particolarmente rilevante sotto tre aspetti: dimostra la capacità di espansione della Comunità Europea e la sua vocazione storica a unificare l'intera Europa occidentale; allarga l'area mediterranea della Comunità e contribuisce così a migliorarne l'equilibrio interno tra Nord e Sud; infine, si tratta di tre paesi che si sono conquistati il diritto d'ingresso nella Comunità abbattendo la dittatura e instaurando la democrazia.

La partecipazione della Grecia costituisce un caso tipico di quelle divergenze che inducono a porre il problema della differenziazione pocanzi prospettata. Sono presenti tutti e due i tipi di divergenze: di struttura economica e di volontà politica. Sui problemi economici la Grecia ha presentato alla Comunità un memorandum che propone tutta una serie di deroghe, esenzioni, rinvii, compensi, insomma di differenziazioni; sul terreno politico invece il governo greco ha rifiutato di associarsi ad alcune prese di posizione concernenti specialmente i rapporti Est-Ovest o coinvolgenti in qualche modo i suoi rapporti con la Turchia. Per quanto riguarda poi il Portogallo e soprattutto la Spagna, cresce la divaricazione tra l'impegno politico e le difficoltà poste dai problemi (specie agricoli e industriali) che richiedono una soluzione concorde perché l'impegno politico possa essere mantenuto. Anche in questo caso è difficile trovare soluzioni adeguate senza ricorrere a differenziazioni.

Nel contempo, si sono andati aggrovigliando i nodi della crisi interna che stringono alla gola la Comunità Europea e minacciano di paralizzarla. L'inizio di tale nuova fase della crisi comunitaria si può far risalire al 30 maggio 1980, quando il Consiglio conferiva alla Commissione il mandato, da espletare entro la fine del giugno 1981, di compiere un esame e presentare proposte circa lo ‟sviluppo delle politiche comunitarie", allo scopo di evitare ‟situazioni inaccettabili" (parole che nel gergo comunitario stanno a indicare eufemisticamente il problema posto dal Regno Unito del rimborso di una pretesa eccedenza del proprio contributo al bilancio comunitario). Il 24 giugno 1981 la Commissione presentava il suo Rapporto in risposta al mandato. Seguiva un estenuante e inconcludente negoziato nel Consiglio e tra gli Stati membri. Il Consiglio europeo, riunito a Stoccarda il 18 giugno 1983, invece di concludere rilanciava il negoziato, annunciando solennemente per i sei mesi successivi une négociation majeure" (per dirla nei termini magniloquenti dell'originale francese), articolata su cinque punti: finanziamento futuro della Comunità; sviluppo delle politiche comunitarie; problemi relativi all'ampliamento; ‟problemi particolari di alcuni Stati membri nell'ambito del bilancio" (espressione equivalente a quella delle ‟situazioni inaccettabili", per indicare il problema del rimborso al Regno Unito); rigorosa disciplina di bilancio. Inoltre lo stesso Consiglio conferiva due nuovi mandati alla Commissione: presentare rapporti e proposte concernenti 1) la politica agricola comune, 2) l'‟efficacia nella utilizzazione dei fondi" (e cioè il fondo regionale, il fondo sociale e la parte del fondo agricolo destinata agli interventi strutturali).

Va qui rilevata l'anomalia istituzionale della prassi, instaurata e ribadita dal Consiglio, di conferire mandati alla Commissione, la quale si trova così sempre più degradata da organo investito di una funzione propositiva a organo esecutore di istruzioni, da istituzione dotata di ruolo politico a segreteria tecnica del Consiglio.

In esecuzione di tale ulteriore mandato la Commissione, puntualmente, presentava i due rapporti con relative proposte in data 28 luglio 1983. Ciononostante, i due successivi Consigli europei di Atene (4-5 dicembre 1983) e di Bruxelles (19-20 marzo 1984) non riuscivano a trovare l'accordo tra gli Stati membri intorno al problema che era ormai il nocciolo del cosiddetto ‛contenzioso', e cioè il problema finanziario nei suoi vari e congiunti aspetti di disciplina di bilancio, aumento delle risorse versate dagli Stati al bilancio comunitario, rimborso al Regno Unito.

Finalmente il Consiglio europeo riunito a Fontainebleau sotto la presidenza francese (25 e 26 giugno 1984) è riuscito - grazie anche all'accurata preparazione guidata personalmente dal presidente Mitterrand - ad aprire uno spiraglio verso un accordo. Ciò non basta, però, per invertire la tendenza ed evitare le conseguenze negative derivanti dall'ormai acquisita priorità del problema finanziario visto anzitutto come problema di adeguamento della spesa all'entrata (e cioè contenimento della spesa necessaria per attuare le politiche comunitarie). Tali conseguenze possono essere descritte sinteticamente nei termini seguenti: a) il criterio-guida del negoziato, per ciascun paese, è quello di un calcolo costi-benefici che ciascuno cerca di volgere a proprio vantaggio, minimizzando i costi finanziari a proprio carico piuttosto che massimizzando i benefici derivanti dal ‛valore aggiunto' che si produce e si acquisisce con le politiche realizzate in comune; b) data la scarsa comprimibilità della spesa agricola (per gli interessi che vi si oppongono) i fondi strutturali sono i più esposti all'operazione di riduzione della spesa, e ciò aggraverà lo squilibrio Nord-Sud, in quanto i paesi meridionali, più poveri e strutturalmente meno sviluppati, sono i principali destinatari di quei fondi; c) la solidarietà, elemento essenziale di una comunità, diventa funzione dell'efficienza, cioè si realizza prioritariamente tra i più efficienti, al fine della competitività, e non verso i più deboli, al fine dell'uguaglianza; d) infine, se il dato prioritario è quanto si spende e come si spende, ne consegue che avranno maggior peso i paesi principali pagatori, vale a dire Germania, Francia e Regno Unito, e ogni soluzione dipenderà in primo luogo da essi.

In tali condizioni si può prevedere che la soluzione globale della crisi della Comunità, e perciò anche dei problemi del suo ampliamento, sarà ricercata mediante una combinazione di decisioni e misure tendenti ad assicurare: il massimo rigore di bilancio, e perciò limitazione dei poteri del Parlamento europeo, a livello delle decisioni di spesa, e controllo di efficienza, a livello della gestione; il contenimento della spesa agricola, che avrà come premessa il suo consolidamento; i meccanismi correttivi dei saldi passivi; l'aumento limitato e controllato delle ‛risorse proprie' assegnate al bilancio comunitario; la possibilità di aperture di credito (eventualmente fuori bilancio, o mediante ‛agenzie') per joint ventures nel campo delle nuove tecnologie, dove vorranno cimentarsi le imprese dei paesi più avanzati.

7. Quali prospettive per l'europeismo

Le prospettive per i futuri sviluppi dell'europeismo in campo politico, economico, istituzionale, quali si delineano alla metà degli anni ottanta, non sono incoraggianti. Le linee lungo le quali si vanno cercando le soluzioni ai problemi finanziari condizioneranno il futuro della Comunità e quindi le prospettive dell'europeismo, almeno nel medio periodo. Si è imboccata una china pericolosa, che non conduce verso l'unione europea bensì tende al graduale dissolvimento dell'attuale Comunità in un'area di libero scambio, con settore agricolo protetto e garantito, e di cooperazione politica affidata a rapporti intergovernativi, eventualmente istituzionalizzati nella forma di ‛consigli europei' o affini.

A questa tendenza può contribuire l'atteggiamento del Regno Unito nei confronti della Comunità, quale si è manifestato fin dalla sua adesione, e anche quello - profilatosi in epoca più recente - della Repubblica Federale Tedesca: in questo paese sembra affievolirsi l'interesse verso la Comunità, che pure, negli anni difficili della ricostruzione e della riabilitazione postbelliche, è stata il supporto di cui esso aveva bisogno per l'espansione della propria economia e per l'affermazione di un proprio ruolo nella politica internazionale.

C'è tuttavia anche una linea di tendenza che va in direzione opposta: quella indicata dal Parlamento europeo con il progetto di trattato per l'Unione europea. Poiché il voto del Parlamento è stato espresso da una larga maggioranza, è lecito ritenere che forze politiche cospicue siano impegnate a sostenere quel progetto. Ma con quanta convinzione e con quanta perseveranza? Questa domanda è lecita, data la contraddizione presente nei comportamenti delle stesse forze politiche a seconda che essi si manifestino a Strasburgo o nelle rispettive capitali. In altri termini, e più generali, è lecito domandarsi se a sostegno dell'europeismo ci siano effettivamente delle maggioranze o soltanto delle minoranze illuminate, delle élites: quelle ‟minoranze consapevoli ed attive, le quali, vincendo le inerzie delle moltitudini, le trascinano verso nuove condizioni di vita, anche contro la loro immediata volontà", come scriveva G. Salvemini in L'italia politica nel secolo XIX (cfr. Opere, vol. II, Milano 1961, p. 395).

A corroborare l'ipotesi che possa valere anche per l'europeismo la teoria politica denominata ‛elitismo democratico' (che ha in Italia il suo precursore in O. Mosca) sta il fatto, constatato e deplorato a ogni elezione del Parlamento europeo, del diffuso disinteresse del ‛cittadino d'Europa' nei confronti della sua patria europea. È un fatto che pone un problema serio, perché vale per l'Europa quello che Rousseau diceva riguardo allo Stato: ‟Sitôt que quelqu'un dit des affaires de l'État: Que m'importe? on doit compter que l'État est perdu" (Du contrat social, cap. XV).

Esiste un patriottismo europeo paragonabile al patriottismo nazionale? Nessuno esiterebbe a rispondere no. Tutta la storia dell'europeismo è una storia di minoranze intellettuali e politiche. I temi dell'europeismo sono temi di complesse strategie politiche ed economiche, poco adatti alle comunicazioni di massa. E allora, per superare questo limite, si è pensato di disegnare un'‛immagine' della Comunità Europea più attraente per il cittadino, l'immagine, appunto, di una ‛Europa del cittadino', al quale dovrebbero essere elargiti (e propagandati) i benefici di una libera circolazione senza ostacoli alle frontiere, di agevoli e frequenti scambi culturali, di una possibile familiarizzazione con le diverse lingue, dell'equivalenza dei titoli di studio e delle abilitazioni professionali, e via dicendo. Certo, anche questi sono temi e obiettivi importanti dell'unione europea; ma non è con siffatti elementi che si forma un cittadino europeo diverso da quello di cui Rousseau ci ha fornito un ritratto terribilmente attuale: ‟Il n'y a plus aujourd'hui de Français, d'Allemands, d'Espagnols, d'Anglais même, quoi qu'on en dise; il n'y a que des Européens. Tous ont les mêmes goûts, les mêmes passions, les mêmes moeurs, parce qu'aucun n'a reçu de formes nationales par une institution particulière. Tous, dans les mêmes circonstances, feront les mêmes choses; tous se diront désintéressés et seront fripons; tous parleront du bien public et ne penseront qu'à eux mêmes; tous vanteront la médiocrité et voudront être des Crésus; ils n'ont d'ambition que pour le luxe, ils n'ont de passion que celle de l'or; sûrs d'avoir avec lui tout ce qui les tente, tous se vendront au premier qui voudra les payer. Que leur importe à quel maître ils obéissent, de quel État ils suivent les lois? pourvu qu'ils trouvent de l'argent à voler et des femmes à corrompre, ils sont partout dans leur pays" (Considérations sur le gouvernement de Pologne, cap. III). Nulla di nuovo sotto il sole. Già a Orazio sembrava di udire, da un capo all'altro del Foro: ‟O cives, cives, quaerenda pecunia primum est; virtus post nummos" (Epistole, I, 1, 53-54). Avrà un bel da fare l'europeismo perché la virtù prevalga. Non sarà un combatter corto.

In realtà, ciò di cui l'europeismo deve convincere il cittadino è che l'unità dell'Europa è condizione necessaria per la libertà, che l'indipendenza nazionale è un bene obsoleto in Europa, che per essere indipendenti bisogna organizzare l'interdipendenza a livello europeo, che la rinuncia a qualche porzione di sovranità nazionale in vista dell'integrazione economica è la condizione necessaria per la conquista e l'esercizio di una reale sovranità politica, che l'unione europea è l'unica risposta adeguata alla sfida che proviene in modo minaccioso dal mondo sovietico e in modo suadente e avvolgente dal mondo americano, infine, che il ruolo politico dell'Europa unita è indispensabile per la pace nel mondo.

Purtroppo l'Europa non ha dimostrato di essere in grado di comporre nè di arginare i conflitti che lacerano e insanguinano il mondo, dall'Africa all'Asia sudorientale, dall'America Centrale al Medio Oriente. Ma attraverso la Comunità un contributo decisivo alla pace l'Europa occidentale lo ha fornito. Non sottovalutiamolo. Non dimentichiamo che proprio nel cuore dell'Europa occidentale sono scoccate le scintille che hanno acceso le due conflagrazioni mondiali: e sono scoccate proprio tra quei due paesi, Francia e Germania, la cui riconciliazione è all'origine del processo di unificazione europea ed è il nucleo vitale e indispensabile di qualsiasi disegno europeistico.

A questo proposito è importante constatare - quasi a far da contrappeso ai fattori negativi che abbiamo rilevato nelle linee di tendenza della Comunità Europea - che proprio dal dialogo franco-tedesco sono scaturite ipotesi assai interessanti di assunzione di responsabilità a livello europeo, sia pure fuori dal quadro istituzionale comunitario, riguardo ai problemi della difesa.

Il maggior contributo dell'Europa alla pace e il maggior successo dell'europeismo stanno proprio nella riconciliazione e nell'intesa franco-tedesca e nell'instaurazione di un metodo e di un impegno istituzionalizzati di integrazione economica e di una prassi - che pure dovrebbe essere istituzionalizzata - di cooperazione politica. Cosicché neppure il più fantasioso scrittore di fantapolitica si azzarderebbe oggi a immaginare un conflitto armato tra paesi dell'Europa occidentale.

Rispetto alla prima metà del XX secolo siamo entrati, con questa seconda metà, in una nuova epoca storica per l'Europa occidentale. Da questa esperienza, da questo successo l'europeismo può trarre alimento per un nuovo impulso politico verso l'unione europea.

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