Esposizione

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Esposizione

Silvia Monaco
Giorgio Tartaro
Angela Vettese
Claudio Cavatrunci

(XIV, p. 361; App. I, p. 562; II, i, p. 877; V, ii, p. 142)

Il tema dell'e., nell'ambito dell'Enciclopedia Italiana, segue due linee principali presentando, da una parte, la storia delle e. d'arte e, dall'altra, quella delle e. industriali, che sono state occasione d'importanti e innovative realizzazioni architettoniche - dal Crystal Palace di J. Paxton per l'e. di Londra del 1851 al padiglione della Germania realizzato da L. Mies van der Rohe per l'e. di Barcellona nel 1929 (ricostruito nel 1992), al padiglione finlandese di A. Aalto per l'e. di New York del 1939. L'incidenza che alcune e. internazionali hanno avuto nel dibattito architettonico si rileva anche dalla presenza di tali avvenimenti all'interno della trattazione dell'architettura di singole nazioni (per es., nella voce canada della App. IV, i, p. 357 per l'e. di Montreal, o nella voce spagna della App. V, v, p. 76 per l'e. di Siviglia). Un impulso determinante per l'architettura moderna, tuttavia, è stato dato da quelle e. che hanno come oggetto specifico la dimostrazione concreta, dal progetto alla realizzazione, di proposte urbanistiche e architettoniche. Esemplari le e. del Deutscher Werkbund a Colonia nel 1914 e a Stoccarda nel 1927, con la realizzazione della Weissenhofsiedlung, o alcune edizioni della Triennale di Milano; significative nel dopoguerra le esperienze collegate all'viii Triennale (quartiere QT8), e alla Internationale Bauausstellung di Berlino, nota come Interbau. Le e. di architettura, che in alcuni casi sono state già trattate nell'aggiornamento di voci di città o di nazioni (berlino e germania nella App. V, i, p. 348 e V, ii, p. 425), trovano in questa Appendice, accanto all'aggiornamento sulle e. universali, una trattazione complessiva nel sottolemma Architettura. Anche la sezione Esposizioni d'arte ripropone il tema introducendo l'aggiornamento con una breve analisi della storia delle e. dalla fine del 19° secolo. Per quel che riguarda l'e. di oggetti etnografici v. oltre il sottolemma Etnografia.   *

Architettura

di Silvia Monaco, Giorgio Tartaro

Le e. di architettura si sono spesso rivelate eventi significativi per la cultura architettonica, in quanto sedi di dibattito ma, anche, occasioni per dotare la città in cui si svolgono di qualificate strutture, infrastrutture e servizi. In tal senso, particolare rilievo hanno avuto in Italia le e. organizzate nell'ambito della Triennale di Milano e la Mostra internazionale di architettura patrocinata dal 1980 dalla Biennale di Venezia, a Berlino quelle legate alla ricostruzione della città e infine quelle organizzate da centri e musei di architettura, anche di recente istituzione.

Triennale di Milano

Nata nel 1923 a Monza, alla Villa Reale, per iniziativa di G. Marangoni, come Biennale internazionale delle arti decorative e con il fine di confrontare prodotti industriali diversi e dare una risposta, in termini produttivi, alle arti applicate, già dalle prime edizioni (1923-27) essa fece emergere con forza la figura dell'architetto come allestitore e referente industriale. Trasformata in Triennale dalla sua iv edizione (1930), assunse carattere di istituzione permanente, conferendo alla disciplina architettonica il ruolo guida delle manifestazioni. In occasione di quest'ultima edizione vennero edificate tre ville sperimentali, tra le quali la famosa Casa elettrica (L. Figini, G. Frette, A. Libera, G. Pollini) per la società Edison: realizzazioni che contribuirono ad avvicinare la ricerca architettonica italiana alla cultura internazionale. La v edizione (1933) si svolse a Milano nel Palazzo dell'arte appositamente costruito da G. Muzio e sancì la definitiva prevalenza dell'architettura che, abbandonata la questione del rapporto artigianato-industria, assunse una nuova centralità occupando, in sede espositiva, gli spazi interni ed esterni al Palazzo dell'arte. La mostra fu ulteriormente qualificata dalla presenza di opere di maestri stranieri tra cui Le Corbusier, A. Loos, L. Mies van der Rohe, W. Gropius, F.Ll. Wright. Tra le realizzazioni allestite nel parco, si ricordano il padiglione della stampa di L. Baldessari, la villa-studio per un artista di Figini e Pollini, la casa per vacanze di G. Terragni, P. Lingeri e G. Mantero, la Casa del sabato per gli sposi del gruppo BBPR (G.L. Banfi, L. Barbiano di Belgiojoso, E. Peressutti, E.N. Rogers), la Torre littoria di G. Ponti e C. Chiodi, realizzata in tubi d'acciaio (in palese contrasto con i materiali tradizionalmente utilizzati all'epoca). La vi edizione, nel 1936, confermò l'adesione alle ricerche internazionali di gusto funzionalista, diffondendo le istanze di un'architettura e un arredo radicalmente semplificati sul piano stilistico, basati sull'utilizzo di materiali innovativi e sul ricorso alla produzione di serie. Sotto la direzione di G. Pagano ed E. Persico questa Triennale segnò anche la sostanziale identificazione dell'architettura razionalista con l'architettura di Stato. Fra le mostre didattiche spiccò quella curata dallo stesso Pagano sul tema L'architettura rurale nel bacino del Mediterraneo, che diede inizio all'analisi critica del rapporto fra architettura e ambiente e all'attenzione per la produzione edilizia minore. Ben diverso fu il clima della vii Triennale, del 1940, organizzata da M. Piacentini, dove prevalsero l'arte di Stato, il carattere monumentale delle opere, l'esaltazione della nuova urbanistica di regime, mentre limitate furono le presenze straniere. Perdurò comunque una linea di continuità con le precedenti edizioni, in particolare per la mostra sulla produzione in serie curata ancora da Pagano, quasi una sintesi storico-critica delle esperienze dell'ultimo decennio.

Dopo l'interruzione del periodo bellico, si svolse nel 1947 l'viii Triennale, dispregiativamente definita proletaria per l'attenzione prestata alle questioni di ordine sociale; la ix edizione del 1951 evitò per lo più il confronto su tali temi. La x Triennale del 1954, di fronte al pericolo di perdere il legame con la cultura architettonica e il suo ruolo guida per la ricerca, tese invece a recuperare i temi tipici delle prime edizioni e la preziosa presenza dei contributi internazionali. Dalla xi edizione (1957) emersero comunque non pochi contrasti fra la stessa Triennale e la cultura architettonica più avanzata: l'elusione delle urgenze politico-sociali provocò polemiche considerevoli, di cui furono protagonisti gli esponenti del Movimento di studi per l'architettura (MSA), che si impegnarono a coinvolgere il pubblico con dibattiti e convegni sulle tematiche della mostra. Il dialogo che ne derivò contribuì a riavvicinare la Triennale alla dimensione sociale dell'architettura mentre il mutato panorama produttivo favorì lo spostamento degli interessi verso il progetto industriale, in una visione nuova e operante della modernità. L'evidente successo della xii Triennale (La casa e la scuola, 1960) e della xiii (Il tempo libero, 1964), fu accompagnato dalla nascita di una nuova tipologia di riviste (Abitare, 1961; Lotus, 1963; Ottagono, 1966). La xiv edizione (Il grande numero, 1968; nota anche per l'occupazione studentesca dello spazio espositivo avvenuta, in piena contestazione antiborghese, sull'onda dei moti del maggio parigino) portò infine alle estreme conseguenze il dissenso e la polemica verso la cultura del consumo e dello spreco, denunciando gli errori del grande numero e del caos edilizio.

Dopo un periodo caratterizzato da una considerevole perdita di incisività (xv edizione del 1973, xvi del 1979-81), il dibattito sulla Triennale riprese con la messa in discussione della stessa struttura organizzativa dell'ente: ne emerse l'opportunità di una sua trasformazione in uno strumento più attuale di scambio e proposizione culturale, ridefinendolo rispetto ai suoi utenti e cercando di raggiungere una maggiore rispondenza tra il momento puramente espositivo e l'effettiva fattibilità delle proposte di volta in volta avanzate. Nell'ambito della xvii edizione si svolse, nel 1986, la mostra Il progetto domestico, lungo percorso storico-tipologico sul tema della casa. Al suo interno si inserirono gli interventi progettuali di 26 architetti, designer e artisti (A. Rossi con il Teatro domestico, A. Castiglioni con la Cellula tipo, M. Scolari con la Casa di Noè; ma anche R. Sapper, U. Riva, M. Bellini). Del 1987 è la mostra Le città immaginate, Un viaggio in Italia, Nove progetti per nove città, ideata e diretta da P. Nicolin con la direzione scientifica di V. Magnago Lampugnani e V. Savi; particolarmente significativa la sezione progettuale della mostra, cui misero mano, fra gli altri, molti noti architetti stranieri: O. Bohigas, P. Eisenman, J. Hejduk, S. Holl, G. Peichl, B. Podrecca, C. Rowe, O.M. Ungers. Del 1988 è l'allestimento Le città del mondo e il futuro delle metropoli (progetto di A. Castiglioni, P. Ferrari, I. Lupi) che si configurava come metafora urbana: l'arrivo in città (l'atrio), il luogo di ristoro (il bar aperto al pubblico) e l'inizio di un percorso guidato all'interno dei padiglioni dove il progetto di allestimento creava un connettivo tra gli spazi riservati alle diverse proposte nazionali.

La xviii Triennale, inaugurata nel 1992, ebbe come tema La vita tra cose e natura: il progetto e la sfida ambientale. Il rapporto tra design e ambiente era indagato attraverso la sezione internazionale (cui parteciparono 16 paesi), le mostre tematiche e gli eventi collaterali come tavole rotonde e convegni. Tale edizione, tutta basata sulle nuove tecnologie digitali, pur non costituendo fonte di grande dibattito si caratterizzò per successo di pubblico e apertura al design. Tra le molte installazioni si ricordano: Reale-Virtuale (curata da G. Bettetini, G. Dorfles e U. La Pietra); La natura delle cose (A. Trabucco e G. Giannattasio); Il giardino delle cose (E. Manzini).

Nel 1996 si inaugurò la xix edizione dedicata al tema Identità e differenze, al rapporto cioè tra libertà individuale e integrazione delle differenze all'interno dell'evoluzione della società democratica. Quest'edizione concluse l'attività della nuova gestione dell'ente, inaugurata nel 1993 con l'obiettivo di rinnovare l'edificio espositivo e trasformare la manifestazione da periodica in permanente.

L'edificio di Muzio venne dotato di una nuova piazza d'ingresso su disegno di P. De Rossi e attrezzato con una sala per conferenze, una libreria e una caffetteria progettata da U. Riva, una biblioteca-archivio progettata da Cortesi Design e un'area espositiva permanente, la 'Galleria', di G. Aulenti. Si è inoltre creata una rete di rapporti e collaborazioni con importanti enti internazionali interessati allo studio dell'architettura e del design, quali il Museum of Modern Art di New York, il Philadelphia Museum of Art, l'IFA (Institut Français d'Architecture) di Parigi, il Centre de Cultura Contemporanea di Barcellona, il Deutsches Architekturmuseum di Francoforte e l'Architekturmuseum di Basilea. La xix Triennale fu articolata in otto diversi momenti espositivi: una mostra internazionale cui parteciparono 30 paesi e un corollario di iniziative antologiche o dedicate a temi di attualità. A introdurre la manifestazione furono gli allestimenti di J. Nouvel con le sue 'finestre del mondo' (rapide successioni di diapositive proiettate sul soffitto), la struttura cristallina di P. Eisenman, le specchiature di J. Navarro Baldeweg (un monito alla debolezza di ogni identità), l'installazione di Hodgetts & Fung. Video in ingresso e in uscita, con brevi sequenze sulle singole identità nazionali, individuavano padiglioni eterogenei per contenuti e realizzazione. Si ricordano il padiglione olandese, dispendioso ma tecnicamente ben risolto; quello moldavo, con immagini di guerra; quello svizzero, un omaggio minimalista a M. Bill; quello portoghese, con i nuovi grandi progetti nazionali; quello dei paesi dell'Est, con l'inevitabile riferimento all'architettura stalinista; quello giapponese, incentrato sulle proposte di giovani progettisti sul tema dello spazio pubblico; quello australiano, frutto di una cultura architettonica chiaramente alla ricerca di una sua identità; quello inglese, dedicato al tema della mobilità urbana. Il padiglione Italia, progettato da F. Purini, in posizione centrale e affacciato sullo scalone d'onore quasi a costituire una mostra nella mostra, ha ospitato 'frammenti' architettonici di E. Battisti, R. Burelli, F. Cellini, R. Collovà, A. Natalini, U. La Pietra, A. Monestiroli e I. Rota.

La xx Triennale, che si svolgerà nel 2000, sarà dedicata al tema Terra 2000: le soluzioni del futuro e suddivisa in quattro sezioni: il caos del futuro; grandi opere che cambieranno il mondo; piccole cose che cambieranno il mondo; i futuri che non ci sono stati.

Biennale di Venezia

Un capitolo importante quanto recente è costituito dalle e. di architettura organizzate dalla Biennale di Venezia, che ha inaugurato la i Mostra internazionale di architettura, La presenza del passato, nel 1980. L'allestimento di P. Portoghesi della Strada novissima, composta da una serie continua di facciate, rappresentò un punto d'arrivo del postmodernismo: il tentativo di far parlare una lingua comune, ispirata alla storia dell'architettura più o meno personalmente rivisitata, a progettisti diversi, riproponendo la strada come momento di confronto in opposizione al disinteresse dimostrato per i fronti urbani dalla recente tradizione tardo-moderna. In quell'occasione A. Rossi realizzò il suo famoso quanto effimero Teatro del mondo (ispirato ai teatrini di età rinascimentale e barocca), struttura provvisoria galleggiante attraccata sulla punta della Dogana all'imbocco del Canal Grande: piccolo luogo di spettacolo a pianta centrale, con lo spazio scenico delimitato da un parallelepipedo a pianta quadrata, racchiuso fra due torri scalari e sovrastato da un tiburio ottagonale coperto da un tetto a piramide.

La storia della Biennale di Venezia è ovviamente molto più antica: nel 1893 il comune di Venezia colse l'occasione del 25° anniversario delle nozze di Umberto i e Margherita di Savoia per indire un'e. internazionale d'arte da tenersi ogni due anni, con l'obiettivo di incrementare lo sviluppo culturale, turistico ed economico della città, dopo il lungo periodo di emarginazione successivo all'unità d'Italia. Padiglioni diversi furono collocati nei giardini di Castello, progettati nel 1807 da G. Selva. Nel 1886 l'area era stata utilizzata come sede dell'Esposizione artistica nazionale, per la quale era stato realizzato un padiglione provvisorio.

La i Biennale si svolse nel 1895: per l'occasione la facciata del padiglione Italia venne realizzata da M. De Maria e B. Bezzi. Nel corso degli anni si susseguirono diversi progetti di risistemazione di tale padiglione e vennero costruiti i vari padiglioni stranieri. La posizione dei giardini all'estremità orientale della città, una sorta di zona franca svincolata dal passato, permise un'eterogenea sperimentazione. Fra gli anni Cinquanta e Sessanta si susseguirono gli interventi di C. Scarpa: la sistemazione dell'ingresso e la nuova biglietteria (1951-52), il padiglione del Venezuela (1953-56) e i vari allestimenti del padiglione Italia. Degno di nota, in particolare, il padiglione del libro d'arte del 1950 (distrutto da un incendio nel 1980), con struttura asimmetrica in legno e finestre ritagliate nelle pareti curve. Il padiglione finlandese di A. Aalto (1955-56) è caratterizzato dal contrasto fra i grandi elementi triangolari dipinti di bianco e il piccolo volume ligneo verniciato di blu scuro. Il padiglione canadese dello studio BBPR (1956-57) è invece impostato su una matrice a spirale, centrata su un pilastro poggiante nel patio, che sorregge la copertura in profilati metallici. Da ricordare sono anche il padiglione olandese di Th.G. Rietveld (1954) e quello norvegese di S. Fehn (1958-62). Al 1968-74 risale la costruzione del Palazzo dei congressi di L.I. Kahn, un fabbricato rettangolare lungo 150 m e largo 20, vero e proprio intervento a scala urbana, che alterò profondamente l'assetto del sito espositivo della Biennale, e il cui unico riferimento alla cultura del luogo è riscontrabile nelle tre cupole sovrastanti l'aula superiore. Tra le realizzazioni più recenti (1989-91) si ricorda infine il nuovo padiglione del libro progettato da J. Stirling, con struttura metallica, pianta longitudinale e copertura a falde.

Fra le diverse Biennali di architettura di Venezia, successive a quella del 1980, ci si limita a ricordare la v, del 1994 e la vi, del 1996. Due le mostre svoltesi nel 1994 presso il padiglione italiano: la prima, già presentata nel 1988 a Palazzo ducale, proponeva i progetti per il nuovo padiglione Italia (A. Anselmi, G. Canella, F. Cellini, V. De Feo, R. Gabetti e A. Oreglia d'Isola, G. Grassi, V. Gregotti, A. Natalini, P. Nicolin, G. Polesello, F. Purini, F. Venezia); la seconda quelli del concorso internazionale per la ristrutturazione dell'area di piazzale Roma. Le Corderie dell'Arsenale ospitarono invece una mostra dedicata ai progetti di concorso per il nuovo Palazzo del cinema.

La Biennale del 1996 ha avuto come tema: Sensori del futuro. L'architetto come sismografo. H. Hollein, primo straniero chiamato alla direzione, ha individuato come destinatario ideale della manifestazione il visitatore comune, messo in grado di comprendere i cambiamenti in atto sulla scena architettonica e urbana attraverso il lavoro di alcuni grandi maestri.

La mostra principale, ospitata nel padiglione Italia, è stata l'occasione per presentare le più recenti realizzazioni di architetti quali N. Foster, P. Eisenman, R. Krier, R. Piano, Z. Hadid, S. Holl, R. Koolhaas, S. Fehn, E. Miralles, Herzog & de Meuron. Ciò che emergeva era la massiccia presenza della linea decostruzionista. Palesemente polemica la proposta di Arata Isozaki, responsabile del padiglione giapponese: un cumulo di macerie del drammatico terremoto di Kobe del 1995 ironizzava sul pretenzioso titolo della mostra. I padiglioni più interessanti sono risultati quello dell'Austria (Dalle nuvole alle nuvole), dedicato alla visionaria architettura di Coop Himmelb(l)au; quello francese, giocato sulle parole e le cose, che incentrava invece l'allestimento sul termine bloc quale evocazione del monolite all'origine dell'architettura e nome proprio di A. Bloc, architetto e scultore; quello olandese, provocatorio monito contro l'horror vacui: l'architettura può essere anche conservazione del vuoto. Il padiglione americano, interamente dedicato alla Fabbrica dei sogni della committenza disneyana, ospitava progetti di Arquitectonica, F.O. Gehry, M. Graves, Arata Isozaki, A. Rossi e altri. Quello inglese proponeva infine il progetto di N. Foster per il Carré d'Art a Nîmes, e il Paradiso in vitro di N. Grimshaw, struttura in vetro lunga un chilometro, atta a coprire l'area di una cava in Cornovaglia.

La Biennale del 2000, diretta da M. Fuksas, dal titolo Città, sarà incentrata sui problemi delle grandi aree metropolitane del pianeta. È prevista, a consuntivo, la redazione di un Manifesto di Venezia 2001: un impegno degli architetti verso il futuro.

La formula delle biennali di architettura è stata riproposta con successo anche in altri paesi. Significativa, per es., la Biennale di architettura francese (un'istituzione attiva dal 1981): nel 1985, in particolare, si tenne a Parigi, nella Grande Halle al Parc de la Villette, la sua iii mostra intitolata Vu de l'intérieur ou la raison de l'architecture, un'e. organizzata da J. Nouvel e J.-P. Robert dedicata alle architetture recenti, più attente alle problematiche dello spazio interno. Ma la Francia si è anche segnalata per l'attività svolta dal Salon international de l'architecture (SIA), organismo nato nel 1989 con l'obiettivo di creare un punto di incontro tra progettisti, committenti pubblici e privati, imprese di costruzione. A Parigi, nel 1991, si tenne la iv edizione del SIA; riproposta a Milano nel corso dello stesso anno, l'e. era incentrata sul tema del ruolo svolto dalla città europea nella definizione della cultura del progetto. La mostra Progettare la metropoli, in particolare, mise in rilievo le realtà in trasformazione di città quali Berlino e Parigi.

Non dissimile da quella francese la situazione spagnola che, ancora nel 1991, vide l'inaugurazione, a Madrid, della i Biennale dell'architettura spagnola (una selezione della migliore architettura iberica dell'ultimo decennio). E. biennali di architettura si sono diffuse con successo anche nell'America latina, a San Paolo e a Buenos Aires in particolare. La prima edizione brasiliana risale al 1973. Le condizioni politiche non consentirono lo svolgimento di altre edizioni fino al 1993, anno in cui si tenne a San Paolo la ii mostra, sempre all'interno dell'Edificio del Conjuncto di O. Niemeyer nel parco di Ibirapuera, intitolata Architettura, contesto ambientale e sviluppo: articolata in due sezioni - la prima (Territorio e città) dedicata ai progetti alla scala territoriale e urbana, la seconda (Produzione contemporanea) all'architettura degli ultimi trent'anni - si propose di analizzare la vocazione urbana dell'architettura contemporanea. La sezione internazionale, relativamente modesta, presentava una selezione di una dozzina di architetti stranieri. La Biennale di architettura di Buenos Aires è giunta invece nel 1995 alla sua vi edizione, in occasione della quale venne assegnato al catalano E. Donato il premio internazionale e all'italiano G. Canella il premio della critica.

Interbau e IBA di Berlino. - Di particolare rilevanza è stata l'esperienza berlinese (1953-57) dell'Interbau (Internationale Bauausstellung), che vide la partecipazione di architetti di fama internazionale.

Un concorso internazionale, bandito nel 1953, richiedeva di proporre tipologie abitative innovative per alcune aree degradate di Berlino. Il quartiere Hansaviertel che ne nacque, rifacendosi all'esperienza dei quartieri modello del Deutscher Werkbund, si qualificò come vera e propria e. di architettura, in cui architetti come A. Aalto, W. Gropius, A. Jacobsen, Le Corbusier, O. Niemeyer proposero soluzioni abitative con progetti di case multipiano, a schiera e unifamiliari, immerse in un 'verde sociale', luogo di incontro e di aggregazione. Le critiche furono per lo più relative alla mancanza di omogeneità fra i diversi edifici realizzati e alla discutibile integrazione funzionale del quartiere con il preesistente tessuto urbano.

Al termine degli anni Settanta (1979) si avviò a Berlino la grande esperienza dell'IBA (Internationale Bauausstellung), in maniera per molti aspetti simile all'Interbau e per altri in continuità con la tradizione delle celebri mostre promosse dal Werkbund nei primi decenni del 20° secolo. Operando su due livelli - il rinnovo e il risanamento urbano con il coordinamento di H.W. Hämer, e la nuova edificazione con il coordinamento di J.P. Kleihues - l'e., protrattasi sino alla fine degli anni Ottanta, ha affrontato il tema della ricostruzione delle parti urbane devastate dalla guerra o snaturate dagli interventi postbellici.

Il suo piano non ha proposto grandi progetti totalizzanti: ha lavorato per parti, ricucendo i tessuti lacerati, ridefinendo i vecchi isolati, completando frammenti mancanti e sottoponendo comunque i singoli interventi al disegno storico della città. Kleihues, in particolare, ha sperimentato un rapporto fra urbanistica e architettura, fra piano e progetto, totalmente nuovo, abolendo, in linea di principio, tutti i passaggi vincolistici (come normative e standard planivolumetrici); ha proposto invece un primo progetto globale con alcune ipotesi strategiche generali e ha poi continuato a modificarle con la graduale definizione dei progetti delle singole parti, spesso con l'attivo coinvolgimento degli abitanti. L'IBA ha nel complesso realizzato un esteso programma comprendente, oltre ad adeguate infrastrutture e servizi, 9000 nuove unità residenziali in diverse aree della città; programma che ha visto impegnati i più qualificati architetti del panorama internazionale, fra i quali si ricordano P. Eisenman, G. Grassi, Th. Herzog, H. Hollein, Arata Isozaki, H.F. Kollhoff, R. Krier, G. Peichl, A. Rossi, A. Siza, J. Stirling, O.M. Ungers.

Ancora alla città di Berlino e al suo rinnovato ruolo di protagonista del dibattito architettonico a scala mondiale fu dedicata, nel 1991, dopo la caduta del muro (1989), presso il Deutsches Architekturmuseum di Francoforte, la mostra Berlin morgen. Ideen für das Herz einer Grossstadt, che venne successivamente presentata al Martin-Gropius-Bau di Berlino.

Altre esposizioni di rilievo internazionale

Una serie di e., nonostante l'eterogeneità di contenuti e obiettivi, ha rivestito particolare importanza ai fini della documentazione del dibattito architettonico di questi ultimi decenni del 20° secolo.

Una notevole attività è stata costantemente svolta dal Museum of Modern Art di New York. Si pensi, per es., alla celebre e. organizzata nel 1969 da K. Frampton con esiti storico-critici particolarmente significativi, che portò alla ribalta i Five architects (v. App. V) P. Eisenman, M. Graves, Ch. Gwathmey, J. Hejduk e R. Meier, ispirati a una colta rivisitazione del razionalismo di Le Corbusier, G. Terragni e del neoplasticismo olandese. Ancor più influente, forse, l'e. Deconstructivist architecture, organizzata nel 1988 da Ph. Johnson (che era stato il primo direttore della sezione di architettura e design del museo) e M. Wigley. Per la mostra vennero selezionati architetti e gruppi (F.O. Gehry, D. Libeskind, R. Koolhaas, P. Eisenman, Z. Hadid, Coop Himmelb(l)au, B. Tschumi) le cui opere, sin dalla fine degli anni Settanta, avevano seguito strategie progettuali antitetiche rispetto a quelle del classicismo postmoderno, accomunate dall'uso di geometrie instabili e di espressionistica enfasi strutturale, che richiamavano il vocabolario formale del costruttivismo russo degli anni Venti e Trenta e gli assunti teorici mutuati dalle speculazioni filosofiche di J. Derrida. Nel 1994 Light construction, mostra curata da T. Riley, riuniva un panorama di opere eterogenee ma accomunate dall'essere tutte espressione di una nuova sensibilità neomodernista fondata sulla leggerezza, sulla trasparenza, sulle tecnologie avanzate e, spesso, sul minimalismo linguistico. Fra gli architetti rappresentati: Herzog & de Meuron, J. Nouvel, F.O. Gehry, R. Piano, Toyo Ito, S. Holl.

A cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta va anche registrata la nascita di numerosi centri culturali specificamente dedicati all'architettura, concepiti come luoghi per e., convegni e centri di documentazione. Particolarmente significativo il ruolo svolto dal Deutsches Architekturmuseum, a Francoforte, progettato da O.M. Ungers e inaugurato nel 1984. Terminato nel 1988, il Centre canadien d'architecture (CCA) di Montréal si è similmente proposto come museo e importante centro di studi architettonici. L'edificio, concepito da P. Rose, Ph. Lambert ed E. Argun, integrato alla Maison Shaughnessy del 1874, offre una superficie di 12.000 m² e comprende sale per le mostre, un teatro, una libreria e una biblioteca. È del 1990 il concorso, vinto da R. Moneo, per la nuova sede del Moderna Museet di Stoccolma (aperto nel 1998) con il suo Arkitekturmuseet; mentre è del 1992 l'Architektur Zentrum di Vienna. Dal 1993 il Nederlands Architektuurinstituut (NAi) ha stabilito la sua sede in un innovativo edificio progettato da J. Coenen, ai margini del parco dei musei, nel centro di Rotterdam. Interessanti eventi espositivi hanno avuto inoltre luogo presso il Royal Institute of British Architects (RIBA) di Londra, l'Institut français d'architecture (IFA) e la Maison de l'architecture di Parigi, lo Stichting Architektuur Centrum di Amsterdam.

Nel 1995 si sono tenute ad Atlanta, presso il Georgia World Congress Center, la National Convention dell'American Institute of Architects (AIA) e l'Expo AIA '95. La manifestazione ha inteso coinvolgere diversi esponenti dell'industria delle costruzioni al fine di raggiungere una maggiore collaborazione con i progettisti. L'e., molto ampliata rispetto al passato, ha accolto 350 espositori individuati tra le principali industrie del settore, specialisti, studi di consulenza e altre organizzazioni.

Esposizioni universali

Fra le grandi mostre che, negli anni Novanta, si sono poste con ambizioni planetarie e hanno comunque avuto risvolti di ordine architettonico di notevole interesse sono da ricordare quelle organizzate nel 1992, in occasione del quinto centenario della scoperta dell'America, nei luoghi storici dell'epopea colombiana, segnatamente a Siviglia e a Genova.

A Siviglia si tenne l'Esposizione universale del 1992, e per ospitarla si individuò la lunga e deserta isola della Cartuja sul fiume Guadalquivir, di fronte al nucleo storico della città. L'evento costituì il punto d'avvio per una serie di investimenti pubblici e privati destinati a migliorare le infrastrutture cittadine con nuove reti di comunicazione, la costruzione di una stazione ferroviaria, dell'aeroporto e, più in generale, il recupero del rapporto fra la città e il fiume con la creazione del ponte dell'Alamillo di S. Calatrava e del ponte del Quinto centenario di J.A. Fernández Ordóñez e J. Martínez Calzón. Il concorso (1986) per il progetto dell'area espositiva, vinto ex aequo dai gruppi di E. Ambasz e di J.A. Fernández Ordóñez, fornì proposte diverse, poi confluite nel piano finale.

I 95 padiglioni nazionali, l'auditorium, i 21 teatri e i servizi di vario genere furono collocati per la maggior parte all'interno di una griglia conclusa da un lago artificiale, dove l'acqua, il verde, le tende e gli schermi frangisole assumevano un ruolo evocativo della cultura ispano-araba. Le proposte architettoniche oscillarono tra il richiamo alle identità etnico-nazionali, l'ispirazione neorazionalista e l'esibizione tecnologica. Il padiglione del Giappone di Tadao Ando, in particolare, ha rappresentato un riuscito tentativo di reinterpretazione della tradizione nipponica attraverso la tecnologia contemporanea. Con la sua struttura in legno a vista e le pareti imbiancate a gesso, l'edificio privilegia i materiali naturali e le nuove tecniche di lavorazione, ed è una delle più grandi costruzioni in legno del mondo. Altro esempio di riferimento alla tradizione è il padiglione della Finlandia di J. Jaaskelainen e altri, costituito da due volumi contrapposti separati da un pozzo: il primo, la Chiglia, con il suo involucro curvo in abete finlandese, richiama la forma delle imbarcazioni; il secondo, la Macchina, più alto e sottile, è invece segnato da una rigida forma concepita come montaggio di elementi prefabbricati in acciaio. L'ispirazione tecnologica si è palesata anche nel padiglione britannico, cubico contenitore in metallo chiuso da pareti vetrate protette da un sistema di vele montate su tiranti, e in quello francese di J.-P. Viguier e J.-F. Jordy, elegante struttura a baldacchino, priva di pareti, dove l'esile copertura piana diviene potente mezzo espressivo. Il padiglione italiano, di G. Aulenti e P. Spadolini, si presenta invece come un blocco rettangolare scomposto in tre volumi ordinati attorno a uno spazio aperto centrale. Si ricordano infine i padiglioni del Futuro (J.M. Martorell, O. Bohigas, D. Mackay e P. Rice) con copertura arcuata di travi metalliche e rivestimento in granito di Galizia; della CEE di K.K. Krebs e del Portogallo di M. Graça Dias e E.J. Vieira. I propositi di integrazione con il tessuto urbano preesistente sono stati in parte disattesi, soprattutto per la mancata riconversione funzionale di alcuni padiglioni.

A Genova si svolse, sempre nel 1992 in occasione del quinto centenario della scoperta dell'America, l'e. Colombo, la nave e il mare, con la partecipazione di 48 paesi. Nel 1984 l'amministrazione municipale di Genova incaricò R. Piano di un esteso progetto di recupero, con l'obiettivo di 'restituire il mare alla città' eliminando la cesura tra il porto e il centro urbano.

All'interno di questo tema, Piano ha riunito episodi diversi: il restauro dei quartieri del Portofranco, del Millo e dei Magazzini del cotone; l'edificazione di un nuovo centro servizi, della Capitaneria e dell'Acquario (realizzato con la consulenza di P. Chermayeff) e veri e propri apparati scenici quali il 'Bigo' (una struttura a ragno con bracci reticolari), la tensostruttura, la Nave Italia. Da segnalare il progetto di G. Veneziani per il restauro del Baluardo, edificio di origine medievale ampliato nei secoli sino a occupare tutta l'area tra il mare e le mura sulla via del Molo, posto al centro dell'area espositiva. I 5000 m² disponibili sono stati prevalentemente adibiti a uffici e negozi.

Del 1998 infine è l'Esposizione universale di Lisbona, inaugurata in una zona di 340 ettari sul fiume Tago, detta Mar da Palha. La volontà di reintegrare tale area, impropriamente adibita a discarica industriale, al tessuto urbano e di rivalutare il rapporto tra la città e il grande estuario del fiume è stata alla base delle scelte di programma. Il tema prescelto, L'oceano, un patrimonio per il futuro, ha permesso un'ampia riflessione sulla storia dell'uomo, che al mare deve la vita.

Fulcro dell'e. era l'Oceanarium, progettato, come l'Acquario di Genova, dallo specialista americano P. Chermayeff. Si tratta di un edificio quadrangolare che contiene un grande acquario, dalla copertura formata da quattro ali che sembrano staccarsi dal corpo di fabbrica: isolato nell'acqua, è collegato da una passerella alla terraferma. L'Auditorium multifunzionale del Lisbon Exhibition Centre, di A. Barreiros Ferreira e A. França Dória, è un'enorme struttura lignea zoomorfa in grado di contenere 10.000 spettatori. La Stazione d'Oriente, di S. Calatrava, spicca con la sua struttura metallica, la cui neogotica geometria forma una serie di volte a crociera a sesto acuto. Il padiglione portoghese di A. Siza è formato infine da un corpo di fabbrica rettangolare scavato da un impluvium centrale e porticato verso il fiume. L'e. è stata l'occasione per un massiccio riassetto dei principali assi viari cittadini, soprattutto quelli che dall'aeroporto si dirigono alla zona dell'Expo, e per la costruzione di varie infrastrutture, tra le quali occorre ricordare il ponte Vasco da Gama, lungo 13 km. Grande attenzione, nell'ideazione del progetto diretto da V. Rosa, è stata conferita alla possibilità di riconversione funzionale del quartiere espositivo al termine dell'evento: la Stazione d'Oriente si attesta come nodo cruciale per i trasporti ferroviari del paese, mentre l'Auditorium, l'Oceanarium, i centri per i giovani, le residenze, le aree verdi e commerciali, le scuole pubbliche e private, gli alberghi, gli istituti universitari e i centri ospedalieri sono stati tutti pensati per essere utilizzati oltre l'evento.

L'appuntamento espositivo internazionale del 2000 è l'Esposizione universale che si terrà ad Hannover, per la quale è stata progettata, dallo studio Von Gerkan, Marg+Partners, vincitore del concorso europeo bandito nel 1996, una gigantesca sala espositiva. Vedi tav. f.t.

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Esposizioni d'arte

di Angela Vettese

La critica recente ha rivolto un'attenzione particolare alla storia delle e. d'arte antica e contemporanea, rilevandone la complessità e facendone soggetto autonomo di ricerca, come fenomeno connesso al mercato artistico e al collezionismo e come traccia da seguire nell'evoluzione del gusto, nel variare dell'impostazione teorica e dei modi espositivi. Una sempre più ricca bibliografia ha messo in luce nuovi aspetti delle e. dei secc. 17° e 18° tenute a Roma, Firenze, Venezia, delle mostre annuali della Royal Academy e ancora dell'importante evento dell'Armory Show (1913); mentre vengono ripubblicate le critiche di Diderot ai Salons parigini, soggetto peraltro di una mostra specifica (Diderot et la critique des Salons 1984), si dà avvio anche a programmi che, analizzando attraverso il mezzo informatico cataloghi di mostre, si propongono di delineare la fortuna e l'evoluzione dell'attività espositiva a partire dall'Ottocento.

Esposizioni d'arte tra Ottocento e Novecento

Momenti importanti di verifica della produzione e della fruizione dell'opera d'arte, le e. già nella seconda metà del 19° sec. si presentavano nel variegato ventaglio di modi e di intenti che andrà sempre più precisandosi nel corso della prima metà del secolo successivo.

Le vicissitudini dei Salons parigini rimangono esemplari mostrando come il pesante vaglio di una cultura ufficiale sia all'origine di manifestazioni alternative, a partire dal Salon des Refusés (1863) per giungere al Salon des Indépendants (1884) e, varcata la soglia del nuovo secolo, al Salon d'automne (1904). Sempre in contrasto con l'ufficialità accademica fiorivano sul finire del secolo le Secessioni, a Vienna come in varie città tedesche, che più o meno regolarmente organizzavano le proprie esposizioni. Altrettanto esemplare è il Pavillon du Réalisme che G. Courbet allestì nel 1855, presentando i suoi dipinti in sfida al Salon che in quell'anno si svolgeva sotto l'egida della Exposition universelle des produits de l'agriculture, de l'industrie et des beaux-arts.

In risposta a una committenza pubblica e ufficiale, che prediligeva opere prevalentemente rispondenti ai linguaggi accademici, e all'ampliarsi della richiesta di una borghesia colta, prese avvio il moderno mercato dell'arte: critici e mercanti particolarmente sensibili e intuitivi contribuirono a sostenere una produzione innovativa, che trovava nell'e. il mezzo più efficace di diffusione. P. Durand-Ruel (1831-1922) organizzò, oltre che a Parigi, e. di pittori impressionisti a Londra (1870-75) e a New York (1886, Works in oil and pastel by the Impressionists of Paris); A. Vollard (1867-1939) presentò nel 1895 la prima grande e. di opere di Cézanne presso la sua galleria in rue Lafitte a Parigi; R. Fry (1866-1934) allestì a Londra, nel 1910 e di nuovo nel 1912, presso le Grafton Galleries, importanti mostre di quella che lo stesso critico definiva arte postimpressionista. A Berlino Der Sturm, la galleria di H. Walden (1879-1941), dal 1911 accoglieva le esperienze più avanzate dell'arte tedesca, francese e italiana: nel 1912 presentò le opere del gruppo Der blaue Reiter esposte l'anno precedente a Monaco presso la Galerie Thannheuser; nel 1913 organizzò l'Erster deutscher Herbstsalon con oltre 300 opere di artisti quali Kandinskij, Delaunay, Boccioni, Kubin, Gončarova ecc. Nel 1912 a Colonia il mercante A. Flechtheim (1877-1937) fu tra gli organizzatori dell'edizione più imponente dell'e. internazionale del Sonderbund. Evento che si pone come precedente significativo, insieme alle mostre londinesi di Fry, per l'allestimento, al di là dell'oceano, della prima International Exhibition of Modern Art nota come Armory Show: a cura di A. Davies e W. Kuhn (tra i suoi vicepresidenti onorari figuravano Monet, Renoir, Redon e Stieglitz), venne ospitata nel 1913 nel Regiment Armory a New York e quindi trasferita a Chicago (Art Institute) e a Boston (Copley Hall). L'Armory Show, con il suo successo di pubblico (oltre 250.000 persone visitarono l'esposizione a New York), nonostante le reazioni polemiche, critiche e anche derisorie che suscitò, rimane un punto di riferimento importante, e non solo nella cultura americana, per il forte impegno organizzativo che consentì di esporre, tra le circa 1600 opere di varia qualità, molti capisaldi dell'arte moderna, dal Nu descendant un escalier n. 2, ora conservato al Philadelphia Museum of Art, di M. Duchamp, che tanto scandalo provocò, alla Mademoiselle Pogany I di Brancusi (anche se di questa fu presentato un calco, perché la compagnia di assicurazione trovava troppo pericoloso muovere l'originale), a un nutritissimo numero di opere che si collocano tra le più significative delle esperienze postimpressioniste, dal Simbolismo al Fauvismo, al Futurismo. A New York, dal 1907, solo la piccola galleria di A. Stieglitz al 291 della Fifth Avenue aveva offerto un contatto con le esperienze europee più innovative.

Le vicende dell'arte del 20° sec. si snodano sempre attraverso il costante contrappunto delle opere che artisti, singoli o in gruppo, presentano in spazi espositivi privati e in rassegne più o meno ufficiali e consolidate nell'organizzazione. In ambito italiano particolare significato assumono, per esempio, le e. organizzate a Venezia tra il 1908 e il 1920 a Ca' Pesaro dalla Fondazione Bevilacqua La Masa, o quelle tenute in gallerie private, dalla Casa d'arte Bragaglia alla Galleria del Secolo a Roma, dalla Galleria Pesaro a quella del Milione a Milano, solo per citare pochi esempi di spazi espositivi che accolgono esponenti del Futurismo, del Novecento, del primo astrattismo italiano.

Sempre più numerose divennero le gallerie parigine che ospitavano le punte più avanzate della ricerca artistica: nella Galerie de l'effort modern nel 1923 C. van Eesteren e Th. van Doesburg presentarono i loro progetti; nel 1930 Cercle et Carré organizzò la sua unica esposizione alla Galerie 23 di Rue la Boëtie con 46 artisti, tra i quali figuravano Arp, Kandinskij, Mondrian, Le Corbusier, Pevsner, Russolo; e così in Germania, a Berlino, a Monaco, a Dresda, prima dell'avvento del nazismo. È interessante inoltre ricordare l'attività della Kunsthalle di Mannheim che già nel 1912 aveva ospitato una mostra di scultura non accademica, prevalentemente espressionista (Ausdrucks-Plastik), e che nel 1925 appoggiò la Neue Sachlichkeit con la mostra organizzata dal suo direttore G. Hartlaub. E ancora, a Londra presso le New Burlington Galleries nel 1936 R. Penrose (1900-1984) allestì la prima mostra internazionale del Surrealismo, movimento che aveva in quella stessa città la London Gallery come punto di riferimento costante.

Dal 1920 a New York una serie di mostre, affiancate da conferenze e simposi, veniva organizzata dalla Société anonyme di K. Dreier (1877-1952) e M. Duchamp: strumento di promozione dell'arte d'avanguardia, sul modello della galleria Der Sturm di Walden a Berlino, la Société presentò opere di espressionisti tedeschi, di artisti sovietici, del Bauhaus, di de Stijl, di Dada, del Costruttivismo, del Cubismo, di artisti italiani e di modernisti americani; nel 1926-27 promosse l'International Exhibition of Modern Art, presso il Brooklyn Museum con oltre 300 opere di circa cento artisti che rappresentavano ventitré paesi, la più imponente esposizione dell'avanguardia internazionale negli USA degli anni Venti: opere di Mondrian, Kandinskij, Schwitters, Léger e, esposto per la prima volta, il Grand verre (1918-23) di Duchamp. Nel 1921 una mostra di arte moderna venne organizzata nell'ambito del Metropolitan Museum a New York e il suo insuccesso fu uno degli elementi che portarono alla creazione nel 1929 a New York del Museum of Modern Art: i nomi delle sue fondatrici (L.P. Bliss, M. Quinn Sullivan, A. Aldrich Rockefeller) e quello del direttore, A. Barr (1902-1981), sono garanzia dell'impegno costante della nuova istituzione nel sostenere le più avanzate ricerche nel campo dell'arte. Nonostante l'atmosfera inquieta gravante sulla città, la prima esposizione curata dal museo (Cézanne, Gauguin, Seurat, van Gogh), inaugurata appena dieci giorni dopo il crollo di Wall Street, riportò un grande successo di pubblico (49.000 visitatori). Seppure programmaticamente impostato come museo pluridipartimentale (è interessante ricordare le mostre curate da Ph. Johnson sull'architettura moderna, nel 1932, e quella intitolata Machine Art, nel 1934, con esemplari di ingegneria industriale e di design moderno), l'accento era posto sulle arti figurative, anche con una precoce attenzione alla produzione delle culture precolombiane e africane e ai loro nessi con la ricerca artistica contemporanea (del 1932 è la mostra American sources of Modern Art, e del 1935 quella dedicata all'African Negro Art). Organizzate nel 1936, le mostre Cubism and Abstract Art e Fantastic Art, Dada, Surrealism rimangono come pietre miliari nel campo delle e. del Modernismo.

Un discorso parallelo può essere fatto riguardo ai criteri di installazione delle opere esposte: mentre si raffinano e si razionalizzano i sistemi museologici che portano alla tradizionale sala d'esposizione moderna e contemporanea, il cui spazio deve interferire il meno possibile sull'opera d'arte, una serie di e. sembrano costituire il filo rosso che condurrà proprio al coinvolgimento di quello spazio nell'opera. Basta pensare all'approccio totalizzante dell'arte futurista o alle esuberanti manifestazioni dadaiste (come la prima e. internazionale dadaista a Berlino del 1920 organizzata nel salone galleria del dott. O. Burchart), alla mostra di I. Puni presso Der Sturm sempre a Berlino nel 1921, con le opere disposte sulle pareti, sul soffitto, agli angoli, nei modi già avviati da Malevič a Pietrogrado nel 1915 con la Poslednjaja futurističeskaja vystavka kartin: 0.10 ("Ultima mostra futurista di dipinti: 0.10"); ancora al Raum für konstruktive Kunst creato da El Lissitzky all'Internationale Kunstausstellung di Dresda del 1926, preludio all'Abstraktes Kabinett realizzato l'anno successivo dallo stesso artista nel Landesmuseum di Hannover (distrutto dai nazisti nel 1936) e alle mostre dei surrealisti, come quella del 1938 alla Galerie des beaux-arts di Parigi, che costruiscono percorsi emozionali coinvolgendo lo spettatore in uno spazio inondato di sensazioni pulsanti. Emblema della negazione di uno spazio espositivo purista e razionale è la galleria che P. Guggenheim (1898-1979) aprì nel 1942 a New York: Art of this Century, progettata in modi arditamente sperimentali (pareti curve, sedili-piedistalli ecc.) da F. Kiesler, fino al 1947 ospiterà l'arte d'avanguardia europea e americana (nel 1943 J. Pollock vi tenne la sua prima mostra personale).

Se le e. d'arte contemporanea hanno una lunga storia che risale nella forma più organizzata alle rassegne annuali delle accademie e ai Salons, le e. d'arte antica nascono nella seconda metà dell'Ottocento e non a caso con l'affermazione della storia dell'arte come disciplina e con la valutazione e l'orgoglio di un patrimonio culturale che risulta saldamente legato all'idea di nazione.

Nel 1857 Manchester ospitò l'Art treasures exhibition rimasta memorabile certamente per la storia dell'arte, più che per la grandiosa organizzazione, perché per la prima volta fu esposto un dipinto su tavola incompiuto del giovane Michelangelo e noto, appunto, come Madonna di Manchester (dal 1870 conservato nella National Gallery di Londra). Aspetto rilevante della partecipazione delle varie nazioni alle e. universali, le e. d'arte antica trovarono, tuttavia, le loro sedi naturali presso musei e accademie (la Royal Academy presentava a Londra, dal 1871, una serie di mostre intitolata Works by the old Masters; nel 1910 la Königliche Akademie der Künste di Berlino ospitò l'Ausstellung von Werken französischer Kunst des 18. Jahrhunderts), sebbene anche istituzioni come il Burlington Fine Arts Club di Londra si facessero, dal 1868, promotori efficienti di mostre di arte antica. Alle scelte stilistiche e di scuole nazionali che guidavano gran parte di queste e., se ne affiancarono altre, sintomatiche degli interessi storico-artistici, della sensibilità e del gusto del momento. A partire dalla fine del secolo divenivano numerose le mostre dedicate ai 'primitivi' fiamminghi, francesi, tedeschi, italiani e si realizzarono anche e. con l'accento su particolari aspetti o tematiche; tra queste ultime si ricordano l'Exposition de la Toison d'or et de l'art néerlandais sous les ducs de Bourgogne, tenuta a Bruges nel 1907, o quella di Parigi su Les peintres de la réalité en France au XVIIe siècle nel 1934, o ancora quella di Madrid, nel 1935, su Floreros y bodegones en la pintura española.

Esposizioni d'arte nella seconda metà del Novecento

Dal secondo dopoguerra un'attenzione particolare e grandi risorse sono state progressivamente dedicate, da parte di istituzioni statali e private, alle e. d'arte, sia antica sia contemporanea: mostre rivolte a interessi specifici, o tese a ricostruire l'itinerario creativo di un autore o di una civiltà, hanno come obiettivo quello di porsi come 'edizioni critiche' di un 'testo', costituito dal materiale raccolto e messo in mostra.

Rassegne monografiche di grandi maestri, come quelle dedicate a G. Reni a Bologna (1988), a I. Bassano a Bassano del Grappa (1992), a J.-L. David al Louvre e a Versailles (1989-90), a D. Velázquez al Prado (1990), a J. Vermeer nella National Gallery di Washington e nel Mauritshuis dell'Aia (1995), per non citare che pochi esempi, dimostrano come sia oggi possibile raccogliere la produzione di un artista, spesso dispersa in musei e collezioni molto lontane dal luogo d'origine. A queste si affiancano mostre che danno un valore critico ad artisti un tempo ritenuti minori, come J. Wright of Derby (Londra, Tate Gallery, 1990), o che esaminando lo stato degli studi sul catalogo di un autore ne precisano i contorni, differenziando originali e produzione di bottega e recuperando opere disperse attraverso la testimonianza di fonti o di copie contemporanee, come nel caso della mostra dedicata nel 1997 a G. de La Tour (Parigi, Grand Palais).

Una complessità diversa emerge da rassegne relative a lontane civiltà, come quelle sui Fenici (1988, Venezia, Palazzo Grassi), sui Celti (1991, Venezia, Palazzo Grassi), sugli Etruschi (1992, Parigi, Grand Palais), sugli Iberi (1997, Parigi, Grand Palais), sui Maya (1998, Venezia, Palazzo Grassi), che accanto a testimonianze artistiche in senso proprio presentano oggetti legati alla cultura materiale. I vari approcci e le diverse metodologie della storiografia artistica trovano spesso proprio nell'e. un mezzo di stimolo e verifica.

L'esame dei diversi aspetti di un momento culturale - come per es. l'importanza di committenti o mecenati - è stato il filo conduttore delle mostre su Carlomagno (Aquisgrana, 1965), su Filippo il Bello e i suoi figli (L'art au temps des rois maudits, Parigi, 1998), sui Medici nel Cinquecento (Firenze, 1980), sull'arte rudolfina (Prag um 1600. Kunst und Kultur am Hofe Rudolfs II, Vienna, 1988-89), come della serie dedicata alla civiltà napoletana dei secc. 17°-19° (Napoli, 1979, 1984, 1997) o della mostra sul Settecento lombardo (Milano, 1991). Le e. divengono anche l'occasione di mettere a fuoco aspetti particolari della produzione artistica, dai materiali alle tipologie formali, dai generi artistici a tematiche iconografiche: si ricordano, tra le altre, la mostra sugli smalti limosini del Medioevo (Louvre, 1995-96), sul polittico (Louvre, 1990), sulla natura morta o sulle scene di genere (Spanish Still Life from Velázquez to Goya, Londra 1995; I Bamboccianti: Niederländische Malerrebellen im Rom des Barock, Colonia e Utrecht 1991), sulle Schöne Madonnen (Salisburgo, 1965) o su Les amours des Dieux (Parigi, 1991-92). A queste fanno da contrappunto mostre più raccolte, a volte incentrate su un'unica opera sottoposta a un poliedrico esame, come quella promossa dalla National Gallery di Londra sul Dittico Wilton (1990) o quella ideata in occasione del restauro dell'Amor Sacro e Amor Profano di Tiziano della Galleria Borghese (Roma, 1996).

Alle mostre ospitate nelle tradizionali sedi si affiancano anche quelle e. che, estendendosi al luogo e al contesto originari dell'opera, creano itinerari complementari e alternativi al museo. La serie di mostre dedicate a Piero della Francesca nel 1992, nel Palazzo Ducale di Urbino, a Monterchi, ad Arezzo, a Sansepolcro, registrava anche i risultati delle indagini e delle campagne di restauro in corso; la rassegna monografica su Beccafumi a Siena (1990), oltre all'importante nucleo di opere presentate alla Pinacoteca Nazionale, prevedeva un percorso attraverso le più significative tappe dell'attività dell'artista nella sua città, e così la mostra dedicata a Giambattista Tiepolo nel 1997 a Venezia.

Nell'ambito dell'arte dell'Ottocento e Novecento, esemplari sono state le ricognizioni sui maestri francesi del 19° secolo, organizzate a Parigi dalla Réunion des musées nationaux, che hanno contribuito in maniera determinante alla ricostruzione di figure come G. Seurat (1991), H. Toulouse-Lautrec (1992), G. Caillebotte (1994), P. Cézanne (1995). Altrettanto impegnative le e. volte a una critica ricognizione delle avanguardie storiche, come quelle dedicate a Futurismo e Futurismi (curata da P. Hulten a Palazzo Grassi, Venezia, 1986), a Picasso and Braque: pioneering cubism (a cura di W. Rubin del Museum of Modern Art di New York, 1989), a C. Malevič, a partire dalla mostra dello Stedelijk Museum di Amsterdam del 1970, a El Lissitzky presso il van Abbenmuseum di Eindhoven nel 1990.

Con il loro corredo di cataloghi e di pubblicazioni, ricchi di importanti contributi critici ed esaurienti apparati bio-bibliografici (a volte presentati in forma innovativa, come il catalogo della mostra dedicata a M. Duchamp nel 1993 a Palazzo Grassi a Venezia), e ancora con supporti audiovisivi, CD-ROM e gadget, le grandi mostre rispondono a diversi livelli di fruizione: al di là di un loro specifico valore e contenuto, rivolto in particolare agli specialisti del settore, questi eventi enfatizzano il ruolo formativo dell'arte mirando a coinvolgere un pubblico sempre più vasto. Anche l'aumentare del tempo libero, nei paesi economicamente più avanzati, e il diffondersi della pratica del turismo di massa ne ha in qualche modo incentivato lo sviluppo quantitativo. Va sottolineato, tuttavia, che a volte questi eventi sono prevalentemente finalizzati a "raccogliere soldi, a celebrare anniversari senza significato, a cementare alleanze diplomatiche, a promuovere le carriere dei direttori di museo" (Vergo 1989), e ancora a creare un consenso attraverso la stampa, a porsi come spettacoli per un turismo culturale sempre più diffuso ma sempre meno critico.

L'organizzazione e l'allestimento di mostre di questo genere necessitano indubbiamente di grandi mezzi economici, il che ha contribuito a rendere sempre più frequente il ricorso alla figura dello sponsor o a consuetudini come la circolazione delle grandi mostre in varie sedi, dietro compenso all'istituzione organizzatrice o sotto forma di coproduzione tra più enti, accentuando il carattere promozionale che le e. assumono per le istituzioni e per il paese che le ospita.

Fattori economici e sociologici concorrono dunque a dare a questo fenomeno dimensioni senza precedenti. In termini di marketing, le e. rappresentano uno degli esempi più alti di ciò che si intende con 'servizio', ovvero un prodotto caratterizzato dall'intangibilità, la cui fase di erogazione coincide con quella del consumo. Anche se musei e istituzioni sono stati addirittura accusati di rappresentare dei blockbusters (Blattberg, Broderick 1991), ovvero occasioni paragonabili ai saldi dei negozi, è indubbio che la nuova tipologia di grande mostra attiri un pubblico estremamente più vasto di quello delle collezioni permanenti: la mostra su Monet presso la Royal Academy di Londra nel 1990 accolse 650.000 visitatori; la retrospettiva di Cézanne a Tubinga, nel 1993, giunse a 430.000; addirittura 900.000 furono i visitatori della retrospettiva di Matisse a New York nel 1993 (Bagdadli 1997).

Nonostante la diffusione di riviste e pubblicazioni d'arte riccamente illustrate, le e. costituiscono dunque a tutti gli effetti i più efficaci 'circuiti di diffusione' (Moulin 1992) in cui viene delineata la storia dell'arte del passato e viene scritta quella dell'arte del presente.

Se è innegabile che la riproduzione fotografica ha consentito a chiunque di formarsi, anche senza viaggiare, una galleria di immagini mentali che costituisce quel 'museo immaginario' teorizzato da A. Malraux (1947; 1952-54), tuttavia la visione diretta di un'opera d'arte, sia essa un pezzo unico o un complesso monumentale, innesca nel visitatore percorsi emozionali e sensoriali irriproducibili. Questa necessità di esperienza diretta dell'opera segna anche la fruizione dell'arte contemporanea: le riproduzioni fotografiche delle opere del 20° sec., e in particolare del secondo dopoguerra, possono essere considerate al massimo 'prove indiziarie' dei loro soggetti.

Il venir meno della figurazione ha condotto l'attenzione assai più sui particolari materici, sulle dimensioni, sull'impatto psicologico che non sui meri dati iconografici, gli unici che la fotografia è in grado di rendere al meglio; l'affermarsi di un'arte prettamente ambientale, spesso basata sull'interazione diretta tra pubblico e opera, rende l'immagine fotografica un tradimento ipostatizzante dell'opera più che una sua riproduzione; lo stesso può dirsi per l'affermarsi della corrente ottico-cinetica, che ha posto il fulcro dell'opera nell'inganno percettivo e nel movimento indotto al corpo e all'occhio dell'osservatore, o per le forme d'arte processuale, come l'happening e la performance, attente ai metodi operativi più che ai risultati visivi; ancora, la comparsa di opere che ripetono gli oggetti quotidiani con minime variazioni, dalla Pop Art degli anni Cinquanta e Sessanta alla scultura oggettuale degli anni Ottanta e Novanta, rende impossibile apprezzare i dettagli che allontanano l'opera dall'oggetto comune quando non la si possa osservare de visu. In generale, l'uso di materiali diversi da quelli tradizionali e la pratica dell'installazione hanno condotto alla necessità di avere un rapporto fisico con l'opera, in cui la vista è coadiuvata dal tatto, dall'odorato, dalla percezione del tempo che scorre; inoltre spesso l'artista progetta un'opera inserita in un contesto particolare, dentro un'architettura specifica e intorno ad altre testimonianze del suo tempo, e pertanto l'opera eventualmente isolata risulterebbe privata di buona parte del suo senso; senso che neppure una riproduzione filmata da videocamere o una ricostruzione virtuale al computer potrebbe restituirle. Le e., dunque, oltre a rendere spesso accessibili opere che si vedono di rado, contribuiscono a fare mutare la percezione di quelle che già si conoscono, magari solo in fotografia, e contestualizzandole conferiscono loro significati nuovi.

In particolare, gli anni Sessanta sembrerebbero aver marcato una frattura decisiva nei codici e nei canoni espositivi: le rassegne collettive e tematiche si sono moltiplicate, hanno perso il carattere di ricognizioni generiche e hanno assunto quello di luoghi privilegiati della definizione di nuovi significati, ambiti in cui un artista non soltanto si confronta con i colleghi, ma viene inserito in un panorama più ampio e in qualche modo omogeneo (Kelly 1981). Le opere, dunque, diventano parole di una proposizione unitaria formulata da uno o più curatori, figure che stanno assumendo un ruolo senza precedenti: non più solo personale specializzato e dalla formazione prettamente storico-artistica, ma anche filosofi, teorici, organizzatori indipendenti che esprimono il loro pensiero attraverso un progetto espositivo (Alloway 1975). Così la mostra Les Immatériaux (Parigi 1985), concepita dal filosofo J.-F. Lyotard per rendere visibili, attraverso testimonianze artistiche, le sue ipotesi sul rapporto tra mente e materia (Lyotard 1985).

Il curatore tende a emergere come un soggetto creativo autonomo, come un autore egli stesso quantomeno nel senso che alla parola 'autore' è stato dato da M. Foucault (1969): l'autore non precede l'opera, egli è un certo principio funzionale grazie al quale, nella nostra cultura, si limita, si esclude, si sceglie; in breve, attraverso il quale si impedisce la libera circolazione, la libera manipolazione, la libera composizione, decomposizione e ricomposizione della finzione.

Le mostre che ne conseguono sono 'macchine visuali', per adottare una definizione del critico italiano G. Celant (1982), dotate di una loro grammatica e di dispositivi retorici che collegano tra loro le diverse opere secondo un ordine 'a tesi'. Mentre le gallerie private continuano a sostenere il loro storico ruolo di avamposti della ricerca artistica (basta pensare, tra le altre, alla Leo Castelli Gallery a New York, o in Italia alle gallerie Sperone a Torino o L'Attico a Roma, la galleria Maeght a Parigi, la Galerie am St. Stephan a Vienna o la Galerie Schmela a Düsseldorf), anche alcune istituzioni museali hanno cominciato a svolgere, attraverso l'organizzazione di più complessi eventi espositivi, un ruolo di sistematizzazione o promozione di nascenti espressioni dell'arte.

Sempre più numerosi sono proprio i nuovi musei d'arte contemporanea, quali per esempio il Moderna Museet di Stoccolma (1958), mentre anche istituzioni di antica data si rinnovano configurandosi come centri polifunzionali aperti alle nuove istanze culturali e sociali. Si può inoltre considerare come un'emanazione del museo la fitta rete di centri espositivi temporanei che si dipana soprattutto in Francia, in Svizzera, in Germania, ma che dagli anni Settanta prolifera in tutto il mondo occidentale. Per le loro dimensioni limitate, questi luoghi possono ospitare piccole rassegne sperimentali, antologiche di artisti relativamente giovani, che rappresentano occasioni per approfondire la conoscenza di nuovi soggetti da parte del pubblico specializzato. Il Padiglione d'arte contemporanea (PAC) di Milano, nato nel dopoguerra (e ricostruito dopo l'attentato subito nel 1993) come sede espositiva collegata alle raccolte civiche, si è caratterizzato per l'impegno e la vivacità promozionali; un museo come il Luigi Pecci di Prato, sorto nel 1986, ha assunto questo modello: tutto lo spazio è dedicato alle mostre, mentre soltanto i magazzini e le aree esterne conservano una collezione permanente che si costruisce poco a poco, grazie ad acquisti progressivi; da segnalare, ancora, le numerose fondazioni quali la Gulbenkian a Lisbona, Miró e Tàpies a Barcellona, Giannada a Martigny, ecc.

Malgrado i molti problemi ancora insoluti, e forse proprio grazie al dibattito teorico che hanno sollevato le nuove funzioni e prospettive del museo, questa istituzione sembra avere vinto la sfida con il suo stesso statuto conservativo: nonostante la volontà di fuga dai musei proclamata dai futuristi all'inizio del 20° sec. e, negli anni Sessanta, la volontà di ricercare un rapporto più diretto e coinvolgente con il pubblico e l'ambiente (dagli happening alla Land Art, alle diverse espressioni dell'arte concettuale) numerose mostre rilevanti sono legate all'attività del museo. Qualche esempio: nel 1961 la mostra The art of assemblage, curata da W. Seitz presso il Museum of Modern Art (MOMA) di New York, iniziò la parabola ascendente del neodadaismo e in generale la ripresa delle tecniche dadaiste del collage. Il minimalismo nacque ufficialmente con la mostra Primary structures ospitata dal Jewish Museum di New York nel 1966. Anche la mostra When attitudes become form, curata da H. Szeemann nel 1969 con un nuovo approccio e modello espositivo capace di utilizzare pavimenti, angoli, zone cieche al pari delle pareti fu allestita a Berna nella Kunsthalle. L'attenzione sull'arte afroamericana fu focalizzata dalla mostra al Whitney Museum di New York del 1971. Le e. che avviarono un processo di confronto tra l'attività di centri culturali diversi furono Paris-New York, Paris-Berlin, Paris-Moscou e Paris-Paris allestite presso il Centre national d'art et de culture Georges Pompidou tra il 1977 e il 1981 da P. Hulten, suo primo direttore; tra le migliori ricognizioni sull'arte dei singoli paesi, si segnalano Identité Italienne curata da G. Celant al Centre Georges Pompidou e il ciclo sulla pittura italiana, tedesca, inglese e americana organizzato dalla Royal Academy di Londra a partire dal 1985. La mostra che introdusse l'attenzione verso la società multietnica, Magiciens de la Terre (1989), benché allestita in molti luoghi della città di Parigi era stata anch'essa organizzata dal Centre Georges Pompidou. Le e. Post-Human e Helter Skelter, che portarono all'attenzione del pubblico la nuova tematica del corpo, ebbero luogo nel 1992 rispettivamente al Musée Pully di Losanna e al Museum of Contemporary Art di Los Angeles. L'Informe (1996), a cura di R. Krauss, che segnò un momento di riflessione decisiva sull'abbandono dell'estetica della 'buona forma', è stata ospitata ancora una volta dal Centre Georges Pompidou di Parigi.

La ricerca di luoghi 'non deputati' per fini espositivi, tuttavia, ritornò di estrema attualità dagli anni Settanta. Già nel 1973 A. Bonito Oliva organizzò la mostra Contemporanea presso il garage di Villa Borghese a Roma, rifiutando sedi più prestigiose ed esponendo le opere in maniera poco consueta. Nel 1976 K. Koenig organizzò la prima edizione della decennale Skulptur, Projekte, una mostra all'aperto nella cittadina tedesca di Münster, storicamente flagellata da disordini religiosi e sede ai tempi della Riforma di una comunità anarchica, poi completamente distrutta, e dunque luogo di grande valore simbolico per la storia tedesca. I visitatori erano invitati a munirsi di biciclette e a girovagare per prati, strade, palazzi, alla ricerca dei tesori nascosti costituiti dalle opere. Nel 1985 A. von Fürstenberg organizzò la mostra Promenades a Ginevra, sottolineando come la contemplazione delle opere d'arte potesse accordarsi con quella della natura; la stessa curatrice, dal 1995, ha istituito un'organizzazione per l'allestimento di e. in aree di interesse pubblico 'reale', come per esempio la sede delle Nazioni Unite o l'Organizzazione mondiale della sanità. Nel 1986 J. Hoet ideò a Gand una rassegna intitolata Chambres d'amis; il titolo si riferiva al fatto che invece di fare intervenire gli artisti nel museo cittadino, il suo direttore decise di fare ospitare le opere in case private. Il fulcro dell'intera operazione veniva in tal modo spostato dall'opera alla relazione che questa e il suo autore erano in grado di intrattenere con una famiglia comune.

Queste mostre interpretano una nuova esigenza: non più solo quella, importante nei primi anni del 20° secolo, di trovare sedi disposte ad accogliere un'arte che si collochi fuori dagli schemi accademici, ma anche il desiderio di uscire da quei musei che pure avevano iniziato ad accoglierla, per agire fuori contesto penetrando lo spazio pubblico o quello privato.

I curatori, dunque, si sono anche fatti interpreti di indicazioni provenienti dagli artisti: nei tardi anni Sessanta movimenti come quelli della Land Art e di Fluxus scelsero per le opere spazi aperti e vi introdussero la variabile tempo; molti artisti cominciarono inoltre a esporre in spazi lasciati vuoti dal venir meno di un'industria o di una manifattura. I motivi della tenacia con cui l'istituzione museale resta tuttavia al suo posto nell'arte sono vari. Il primo riguarda i finanziamenti: è più facile che sia una sede istituzionale a sostenere i costi di una mostra anche se altamente sperimentale, come la già citata When attitudes become form, capace di rovesciare le norme espositive consuete. Ancora, benché il museo o la Kunsthalle siano lontani dalla vita quotidiana, essi sono anche i luoghi in cui è più prevedibile recarsi in cerca dell'arte; in un'epoca nella quale il tempo libero a disposizione è sempre maggiore, questi luoghi sono divenuti dei reali centri di incontro (Aburdene, Naisbitt 1990). Infine, malgrado il grado di comprensibilità dell'arte contemporanea sia basso, il grado di considerazione in cui il pubblico mostra di tenere 'l'arte' in generale è ancora alto: il pubblico è attirato da mostre di carattere storico, ma queste hanno un'azione di trascinamento anche rispetto alle esperienze artistiche più recenti.

I musei, e per estensione le mostre, che ormai sono parte integrante della loro identità, sono ancora dei "luoghi dello spirito...; la cultura delle immagini trasmesse e riprodotte ha creato il bisogno degli originali; ha prodotto un nuovo medievale pellegrinaggio per accostarsi (almeno una volta nella vita) alle reliquie, per entrare anche solo per pochi istanti nel cerchio magico irradiato dall'arte e dalla bellezza. Vent'anni fa abbiamo scritto sui muri 'meno chiese e più case'. Oggi potremmo rovesciare la frase: perché i musei appaiono come i nuovi templi" (Mottola Molfino 1989). Essi sono ancora luoghi cardine per la formazione dell'identità collettiva e questo spiega gli ingenti investimenti a essi dedicati nell'ultima parte del 20° secolo.

I curatori delle mostre di arte antica o comunque di arte già storicizzata fanno a gara per ottenere opere importanti in prestito da collezioni e altri musei, al fine di organizzare retrospettive complete. Un esempio è lo sforzo spropositato, e solo in parte riuscito, messo in atto da Ch. Joachimides presso il Martin-Gropius-Bau di Berlino nel 1997, per raccogliere tutte le migliori opere del 20° secolo nella mostra The age of Modernism. I curatori di arte contemporanea, invece, se da una parte s'impegnano nello scoprire novità, dall'altra mostrano prudenza nella scelta di autori che potrebbero non avere futuro. La soluzione sta in una costante attenzione ai fenomeni grass roots, cioè provenienti dal basso, come le mostre autogestite dagli artisti in spazi autofinanziati e no-profit. Il punto debole delle mostre museali è infatti la frequente uniformità delle proposte: è raro che un direttore corra il rischio di una mostra completamente originale, che si basi su di una lista di nomi non vagliati da precedenti consensi. Il pericolo di un eccesso di uniformità nelle scelte dei curatori è tanto più attuale quanto più ci si addentra nell'epoca della cosiddetta globalizzazione, che in arte si traduce con lo stereotipo dell'artista internazionale: un artista portatore di una cultura d'origine che, per venire accettata e compresa, deve modificare e semplificare il suo linguaggio al pari di quanto accadde alla koiné alessandrina e al latino medievale. Si è parlato addirittura di un'arte contemporanea che già alla nascita è orientata a essere accettata e omologata dalle e. museali (Moulin 1992).

Biennale di Venezia, Documenta di Kassel e altre rassegne periodiche

Le rassegne periodiche di arte contemporanea, pur presentando problematiche affini alle mostre temporanee dalle quali in certo modo possono anche trarre ispirazione, mantengono delle caratteristiche proprie e inconfondibili, quali per esempio la non trascurabile apertura agli artisti emergenti. La formula veneziana, nella sua cadenza biennale e nella strutturazione per partecipazione nazionale, ha avuto risonanza internazionale: sulla sua scorta sono nati nella seconda parte del 20° secolo, e con particolare vivacità dagli anni Ottanta, numerosi altri appuntamenti quali la biennale di San Paolo (dal 1951) o quella di Parigi (dal 1959) e ancora le biennali di Sydney (dal 1972), dell'Avana (dal 1985), di Cuenca (dal 1988), di Monterrey (dal 1992), di Santo Domingo (dal 1992), di Kwangju (dal 1995), di Johannesburg (dal 1995) ecc. A queste rassegne che accolgono le diverse forme dell'espressione artistica, dalla pittura alla scultura all'incisione, si affiancano mostre periodiche specializzate: dalla biennale dell'incisione di Lubiana (dal 1955) o di Tokyo (dal 1958) alla biennale di scultura all'aperto di Anversa (dal 1959); dalla biennale dell'arazzo di Losanna (dal 1962) alla biennale del bronzetto e della piccola scultura di Padova (dal 1965) e ancora rassegne caratterizzate da comuni denominatori come la Biennale dei giovani artisti dell'Europa e del Mediterraneo, inaugurata a Barcellona nel 1985 e presentata a Roma nel 1999, o la Quadriennale di Roma (istituita nel 1928) che dalla xii edizione (1992-96) si svolge nuovamente nella sede originaria, il Palazzo delle Esposizioni di Roma riaperto nel 1990. Origine e impostazione diversa se non contrapposta hanno avuto rassegne quali Documenta di Kassel (v. oltre) o come la già citata e. decennale Skulpture, Projekte di Münster.

Dal secondo dopoguerra, la Biennale di Venezia si è progressivamente orientata a un più aperto e articolato confronto con le contemporanee esperienze dell'avanguardia internazionale: si va così dall'edizione del 1948, incentrata su un riesame delle avanguardie storiche e segnata da un'inedita apertura alle contemporanee esperienze internazionali, a quella del 1954 improntata a un ritorno del Surrealismo; dall'edizione del 1962, che accolse le diverse espressioni dell'Informale, alla successiva del 1964, caratterizzata dalla presenza dei più significativi esponenti della Pop Art, o ancora all'edizione del 1968, che rappresentò il primo tentativo di impostare una rassegna d'arte internazionale secondo un disegno storico-critico. Il graduale aumento delle partecipazioni nazionali e la volontà di affiancare alle rassegne nei padiglioni nazionali e. diacroniche o sincroniche che approfondiscono tematiche diverse (così, per esempio, nel 1986, M. Calvesi volle indagare le correlazioni tra Arte e scienza o, nel 1995, J. Clair le relazioni tra Identità e alterità del corpo) ha portato al superamento della rigida struttura legata ai soli padiglioni; sempre più svincolata dal semplice compito documentario previsto dallo statuto e articolata in diverse sezioni (particolarmente significativa la sezione 'Aperto' dedicata ai giovani, allestita per la prima volta nel 1980 da Bonito Oliva ai Magazzini del Sale), soprattutto dopo la trasformazione in Società di cultura (1998) la manifestazione ha infatti via via occupato strutture esterne ai suoi padiglioni (i Magazzini del Sale, le Corderie, le Artiglierie, le Tese e le Gaggiandre dell'Arsenale, gli antichi Granai alla Giudecca; ecc.) o penetrato le aree urbane (piazze, chiese o edifici storici).

Un'altra parabola esemplare è stata quella percorsa da Documenta, rassegna ideata da A. Bode e da W. Haftmann negli anni Cinquanta con l'intento di contribuire al reinserimento della Germania nel circuito dell'arte internazionale e di ricomporne l'identità culturale all'interno della più ampia tradizione europea dopo il periodo di isolamento seguito alla dittatura nazista. Incentrata sulle linee teoriche già espresse da Haftmann, nel 1953 in Malerei im 20. Jahrhundert, la rassegna contribuì al recupero di quelle espressioni artistiche messe al bando nel 1937 come 'degenerate' presentando, in una grande retrospettiva storica, un panorama dei movimenti del primo decennio del 20° sec. (Fauvismo, Espressionismo, Futurismo, Cubismo ecc.), sale monografiche dei maestri dell'avanguardia europea (da Klee a Mondrian, da Morandi a Picasso) e una sezione dedicata ai giovani artisti dell'Informale europeo, considerati dal critico espressione 'del moderno senso del mondo'. Per la mostra - allestita nel 1955 nel Museum Fredericianum, un grande edificio neoclassico al centro di un parco di cui rimanevano solo le mura portanti - furono sperimentati da Bode allestimenti non convenzionali che contribuirono a determinare il successo di questa prima edizione; da allora la mostra venne progressivamente aperta all'arte contemporanea e riproposta ogni quattro-cinque anni come alternativa alla Biennale di Venezia. La terza edizione (1964) fu l'ultima organizzata da Bode e l'ultima tesa a tenere fede a un approccio storico, sostanzialmente rivolto a documentare il passato: scommettere sul presente, scegliendo artisti emergenti e di fama non ancora comprovata, fu la scelta che caratterizzò l'edizione del 1968 come le rassegne successive organizzate, a partire dal 1972, a scadenza quinquennale. Il nuovo orientamento apparve evidente specie a partire dalla quinta edizione (1972) di Documenta dedicata da H. Szeemann al rilevamento selettivo dell'attività artistica internazionale, alla ricognizione sulle tendenze più aggiornate e all'individuazione di personalità artistiche di spicco, dando per esempio rilievo al movimento Fluxus e alle diverse espressioni dell'arte concettuale. Personalismi più o meno accentuati hanno caratterizzato le gestioni di M. Schnekenburger nel 1977 e nel 1987 (rispettivamente sulla multimedialità e sulla scultura oggettuale), di R. Fuchs il quale, nel 1982, diede ampio spazio alle soluzioni neoespressioniste, di J. Hoet nel 1992 o di C. David la quale ha dedicato l'ultima edizione del 1997, da lei stessa definita una 'retroprospettiva' (Cestelli Guidi 1997), alla ricerca di fondamenti alternativi per la storiografia artistica a partire dagli anni Sessanta, insistendo sulla sempre più stretta interrelazione tra le arti visive e le altre discipline creative e su temi di forte valenza politica quali la tutela delle minoranze e delle classi sociali disagiate.

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Etnografia

di Claudio Cavatrunci

La presentazione dell'oggetto etnografico e l'ideologia a essa inevitabilmente sottesa sono inscindibili dall'etnologia, la disciplina che affronta le problematiche connesse con la conoscenza delle culture umane, in particolar modo delle società cosiddette tradizionali.

Le prime raccolte di oggetti etnografici si formarono fuori da qualsiasi logica scientifica, da qualsiasi volontà di rintracciare vincoli o matrici culturali: esse accoglievano materiali che rispondessero a un criterio di selezione fondato sul concetto di stranezza e rarità (oggetti in quanto curiosa). Nel corso del Rinascimento nacquero le 'camere delle meraviglie' (Wunderkammern), che sotto la spinta del desiderio di conoscenza del collezionista raccoglievano curiosa provenienti sia dal regno della natura sia da popoli lontani.

Nella seconda metà dell'Ottocento l'interesse per l'esotico, con cui si tendeva ad affermare la superiorità culturale dell'Europa, venne man mano scemando grazie alla nascita della scienza etnologica e alla conseguente costituzione dei primi musei etnografici. Si rese necessario, anche in considerazione dei mutamenti determinati dallo sviluppo delle politiche coloniali, tentare una comprensione delle nuove realtà culturali con cui si veniva a contatto. Parallelamente, l'affermarsi delle scienze sociali - e in particolare dell'etnologia - rese indispensabile una sistematizzazione dei numerosi dati provenienti da quelle popolazioni. Compiti del museo etnografico furono quindi la classificazione, operata su basi evoluzionistiche, e lo studio della cultura materiale delle società definite primitive. Partendo dal presupposto dell'identità psichica del genere umano, il museo etnografico svolse principalmente la funzione di illustrare, attraverso la presentazione di sequenze di oggetti, il postulato dell'evoluzione unilineare dell'umanità (museo a tesi). Sotto la spinta teorica dell'evoluzionismo, sorsero in Italia il Museo di antropologia (1869) di Firenze, per opera di P. Mantegazza, e il Regio museo preistorico-etnografico (1876) di Roma, per opera di L. Pigorini. Nell'esposizione degli oggetti che dovevano testimoniare l'ascesa dell'uomo dalla preistoria alla civiltà, assolutamente prevalente era l'attenzione filologica verso il reperto, considerato un documento carico di informazioni che la scienza etnologica doveva interpretare. Nell'ansia di stabilire permanenze, varianti e percorsi di diffusione, i musei strutturarono le loro sale preferibilmente secondo un ordine geografico-cronologico, optando in alcuni casi per un ordinamento per materia, all'interno di ciascuna area, ma enfatizzando comunque la loro vocazione didascalica attraverso un uso molto spesso accentuato di testi scritti e pannelli illustrativi.

Dopo il i Congresso di etnografia italiana (1911), mentre l'etnologia cominciava ad affrancarsi dagli orientamenti positivistici sino ad allora prevalenti e a intraprendere un percorso peculiare, il museo etnografico restò invece ancorato al passato e non riuscì pienamente a ridefinirsi. In Francia, il Musée de l'homme (Parigi) si mantenne fedele alle premesse di stampo positivista di un museo generale dell'umanità, sintesi delle conoscenze dell'uomo sull'uomo, sviluppando l'idea di un 'museo-laboratorio' che fosse sì luogo di conservazione, ma anche centro di insegnamento, ricerca e documentazione, e affidando all'oggetto il ruolo di 'testimone' attraverso cui si potesse risalire alle valenze sottese al puro aspetto morfologico. In Gran Bretagna, la scuola funzionalista, legando intimamente etnologia e politica coloniale, operò una scissione netta tra museo e disciplina etnologica; per tutt'altre ragioni - a cominciare dall'idealismo crociano - lo stesso avvenne in Italia, dove finì per essere privilegiato l'oggetto d'arte, quello che rivelava la propria 'alterità' attraverso la propria unicità. In Germania, le tendenze prevalenti furono invece quelle ispirate dall'antropogeografia e dalla teoria dei cicli culturali, mediate da una consistente prospettiva storicista.

Tali posizioni teoriche rimasero in sostanza invariate fino all'emergere nel panorama mondiale delle complesse problematiche relative ai rapporti tra potenze imperialiste ed etnie colonizzate, in un momento storico in cui queste ultime divenivano stati indipendenti e assumevano una nuova configurazione nell'assetto generale delle forze mondiali. Apparve allora manifesta l'inadeguatezza della vecchia museografia e sembrò a molti verosimile l'equivalenza stabilita tra museo e morte applicata a reperti cristallizzati in quanto avulsi dal proprio contesto culturale: il museo etnografico classicamente inteso parlava infatti una sua lingua, che non si intendeva con quella delle società tradizionali in rapido mutamento. La museografia etnografica doveva dunque prendere atto dei rivolgimenti storici e culturali ed elaborare una nuova grammatica visuale, dove nuove formule consentissero di presentare oggetti di società non più percepite come immutate o immutabili. Dal punto di vista fattuale la risposta non fu né univoca né sempre scientificamente coerente: occorreva prima di tutto che il museo si aprisse alla consapevolezza di dover offrire al visitatore un quadro di culture vive ed eterogenee, non confinato in un'atemporale e astorica musealizzazione di se stesso e che quindi l'oggetto si trasformasse da reperto in cosa viva e significante. Questa fu la difficoltà maggiore, né a tale scopo era sufficiente l'empatia con il manufatto e con le genti che l'avevano prodotto, di cui parlava C. Lévi-Strauss, per cogliere in una corretta prospettiva storica il senso delle cose. Il museo etnografico, a partire dagli anni Settanta, finì per organizzare le proprie collezioni dibattendosi fra una rappresentazione dell''altro' in cui fossero enfatizzate le divergenze di percorso rispetto alla cultura egemone (esposizione 'esotizzante') e la segnalazione di diversità intese come manifestazioni superficiali di somiglianze soggiacenti (esposizione 'assimilatrice'). Entrambi gli approcci si rivelarono parziali, in quanto finivano per sottacere la dimensione globale di quanto veniva esposto. Si tendeva inoltre a ordinare i reperti secondo criteri e significazioni occidentali, che dissimulavano, più che rivelare, le diverse configurazioni culturali.

Il dibattito museologico attuale offre numerosi motivi di riflessione. Due sono comunque le tendenze più diffuse: un approccio di tipo esclusivamente estetico, che enfatizza il reperto intrinsecamente meritevole e fa sì che da solo esso esista e parli, liberato da ogni legame contestuale e privato anche, in alcuni casi, di supporti didattici; un approccio di tipo ricostruttivo, che privilegia l'oggetto inteso come medium per la comprensione dei modelli culturali che ne hanno forgiato forme, funzioni e significati. In questa prospettiva il manufatto è un particolare che può essere collocato in relazione contigua con un insieme che può non essere ricreato (oggetto in situ): l'oggetto stesso da solo evoca ciò che lo sottende, cioè la cultura da cui proviene, intesa in senso globale. Esso può altrimenti essere inserito, insieme con sofisticati ausili didattici, in un contesto appositamente creato per agevolarne la fruizione (oggetto in contesto). In entrambi i casi l'e. non si sottrae ai limiti propri della museografia etnografica, consistenti nella cristallizzazione del reperto, deprivato della dimensione storica. Il museo, infatti, opera sempre una scelta: gerarchizza, elimina, traspone, traduce, finendo così per trasmutare, e non rappresentare, la realtà. Ciò appare ancora più evidente di fronte a una società globalizzante come quella odierna, in cui i processi di assimilazione di modelli culturali 'marginali' stanno subendo un vistoso processo di accelerazione su scala planetaria.

Uno degli scopi della museografia etnografica dovrebbe consistere allora non tanto nel conservare oggetti 'altri', quanto nel 'restituire' alle culture 'altre' la conoscenza della loro storia (ferma restando la severa valutazione del rischio di fabbricare nuovamente simulacri di identità, da offrire questa volta proprio ai soggetti stessi che ne sarebbero stati portatori). Si tratterebbe di attualizzare quell' 'etnografia d'urgenza', di cui parlò Lévi-Strauss già nel 1965 nel corso della conferenza tenuta alla Smithsonian Institution di Washington - e ripresa da J. Gabus (1975) - che raccomandava ricerche etnografiche di 'salvataggio' insieme alla creazione di musei etnografici nei paesi interessati, con conseguente formazione di personale qualificato. Un ruolo fondamentale in quest'opera di 'restituzione' e di 'interruzione' della progressiva perdita di identità culturale da parte delle società tradizionali potrebbe essere utilmente svolto all'interno dell'istituzione museale dal servizio educativo, intermediario fra museo e pubblico e acceleratore della politica museale, e dalle pubbliche relazioni, che dovrebbero trasformare il museo 'fossile' in centro di informazioni sulla vita dei popoli della Terra, tenendo conto anche delle nuove esigenze proposte da un'utenza multietnica. Ciò dovrebbe essere realizzato attraverso il potenziamento dell'attività di ricerca, la modernizzazione dei metodi di conservazione e immagazzinamento dei reperti e l'ideazione di e. temporanee dedicate ai modelli culturali tuttora operanti presso le società tradizionali. In tal modo l'istituzione museale esalterebbe la molteplicità culturale, focalizzandone al contempo i processi di trasformazione e le strategie di adattamento ai nuovi contesti. Questo mutamento di mezzi, ideologia e strategie consentirebbe al museo di rispondere alle esigenze di una realtà, quale quella delle società tradizionali, in costante e vitale trasformazione.

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