Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale

Libro dell'anno del Diritto 2012

Vedi Esposizione a sostanze tossiche e responsabilita penale dell'anno: 2012 - 2013

Esposizione a sostanze tossiche e responsabilità penale

Stefano Zirulia

Due importanti vicende giudiziarie contrassegnano, nel biennio 2010-2011, la materia dell’accertamento del nesso causale tra l’esposizione a sostanze tossiche e gli eventi lesivi – morti e lesioni – che ne possono derivare. Da un lato, con la sentenza n. 43786/2010, la Cassazione ha scolpito alcuni fondamentali principi in tema di accertamento della causalità e della cd. causalità della colpa. Dall’altro lato, ha preso il via il dibattimento del processo Eternit, il cui impianto accusatorio abbandona i delitti contro la persona a favore di quelli contro l’incolumità pubblica, e sembra fondare la prova della causalità sulla base della sola evidenza epidemiologica. La presente voce passa in rassegna gli snodi centrali di entrambe le vicende, valutandone altresì l’importanza nell’ottica dei procedimenti penali futuri relativi alle medesime tematiche.

La ricognizione. Causalità ed esposizione a sostanze tossiche

L’accertamento della responsabilità penale per i danni derivanti dall’esposizione a sostanze tossiche, ed in particolare ad amianto, rappresenta uno dei contesti nei quali si condensano la maggior parte dei problemi relativi alla causalità, al punto che è lecito parlare di un vero e proprio banco di prova per la ricostruzione processuale del nesso eziologico1. In tale ottica, il biennio 2010-2011 offre senz’altro uno scenario di grande interesse, in ragione di due importantissime vicende giudiziarie che hanno segnato – ciascuna per ragioni proprie, ma entrambe sul terreno della causalità – un punto di rottura rispetto alle esperienze del passato. Anzitutto, con la sentenza n. 43786/20102, la quarta sezione della Cassazione ha annullato con rinvio la condanna inflitta a dodici responsabili della Ferrovie Trento Malè s.p.a., accusati di omicidio colposo in relazione alla morte di un lavoratore che aveva contratto un mesotelioma pleurico dopo essere stato esposto per dieci anni all’amianto. La pronuncia prende le mosse dagli insegnamenti delle Sezioni Unite nella sentenza Franzese (Cass., S.U., 10.7.2002, n. 30328), per poi offrire – nel quadro di una lucida ricostruzione delle categorie della causalità e della cd. causalità della colpa – un iter di accertamento della responsabilità penale del datore di lavoro che fa seriamente i conti con gli scottanti problemi della scelta delle leggi scientifiche di copertura e dell’accertamento della cd. causalità individuale. L’altra vicenda meritevole di grande attenzione è il maxi-processo a carico della Eternit, attualmente in fase di dibattimento innanzi al Tribunale di Torino, nel quale sono imputati i due ex titolari della multinazionale dell’amianto, con l’accusa di aver cagionato migliaia di malattie e di morti tra i lavoratori e la popolazione residente vicino agli stabilimenti, nonché di aver dato origine ad un disastro tuttora permanente. I due procedimenti, come verrà illustrato, si differenziano per molti aspetti, quali il numero delle persone offese coinvolte, i titoli di reato contestati, l’approccio accusatorio al tema della causalità; ma sono accomunate dal tipo di sostanza tossica che viene in rilievo – appunto, l’amianto3.

La focalizzazione

Due le vicende processuali che si ritiene, come anticipato, di segnalare per la delicatezza dei profili giuridici rispettivamente involti.

2.1 Un’importante pronuncia della Quarta Sezione

La sentenza n. 43786/2010 affronta lucidamente i problemi che emergono in tema di causalità e cd. causalità della colpa quando si accerta la responsabilità dei vertici di impresa per gli eventi lesivi causati ai lavoratori dall’esposizione a sostanze tossiche. Per comprendere a fondo la portata della pronuncia, giova riassumere brevemente la vicenda processuale, che del resto è perfettamente rappresentativa dei più scottanti problemi lato sensu causali in tema di responsabilità penale da amianto. Dodici ex vertici della Ferrovie Trento Malè s.p.a. venivano accusati di omicidio colposo in relazione alla morte di un operaio, intervenuta a causa di mesotelioma pleurico. Dal 1971 al 1982 – periodo durante il quale gli imputati si erano avvicendati nella titolarità di posizioni di garanzia – la vittima aveva svolto mansioni di riparatore di treni, che lo avevano messo a costante contatto con fibre di amianto. La Corte d’appello di Trento, confermando sul punto la valutazione dei giudici di prime cure, attribuiva a tali lavorazioni lo sviluppo della patologia, escludendo che la stessa potesse essere insorta a causa di diverse esposizioni, professionali od occasionali, all’amianto (App. Trento, 24.10.2008, n. 132). A differenza di quanto opinato in primo grado, però, i giudici del gravame riconoscevano altresì una posizione di garanzia in capo a tutti gli imputati, e, soprattutto, ritenevano che ciascuna delle loro omissioni avesse rappresentato una concausa dell’evento letale hic et nunc considerato: ad avviso dei giudici del gravame, infatti, la natura dose-correlata del mesotelioma pleurico – dimostrata, principalmente, da affidabili indagini epidemiologiche – consentiva di affermare che al mancato abbattimento dei livelli di polveri di amianto aerodisperse corrispondesse l’accelerazione del decorso della cancerogenesi e dunque l’anticipazione della morte. Pronunciandosi sul ricorso degli imputati, i giudici della Suprema Corte hanno annullato con rinvio la condanna, riscontrando due difetti di motivazione nella parte della sentenza d’appello relativa all’asserito effetto acceleratore della cancerogenesi dispiegato dalla protratta esposizione all’amianto:

a) l’inadeguatezza dei criteri utilizzati per scegliere la legge scientifica di copertura che, associando al protrarsi dell’esposizione all’amianto un effetto acceleratore dello sviluppo del tumore, individua nel mesotelioma pleurico una patologia dose-correlata (dunque un vizio afferente alla verifica della cd. causalità generale);

b) la mancata indicazione di elementi concreti a sostegno dell’affermazione secondo cui, nel caso di specie, si era effettivamente verificata quella correlazione, affermata solo in termini probabilistici dalla legge scientifica di copertura, tra l’incremento della dose di cancerogeno inalata e l’accelerazione della risposta tumorale, tale per cui la condotta di ciascun imputato poteva considerarsi una concausa dell’evento lesivo (dunque un difetto relativo al giudizio di cd. causalità individuale)4.

Le questioni affrontate dalla pronuncia in esame si inseriscono all’interno del più ampio tema dell’impiego delle leggi scientifiche nei giudizi di accertamento della causalità penale.

Quanto al vizio sub a), un’ampia parte della motivazione è dedicata all’illustrazione dei criteri ai quali deve attenersi il giudice nella scelta della legge di copertura, al fine di non incorrere in censure di incompletezza o illogicità argomentativa.

Secondo la Corte, allorché gli esperti intervenuti nel processo prospettino ricostruzioni eziologiche tra loro contrastanti, ma tutte astrattamente plausibili, il giudice deve scegliere quella più attendibile, esaminando «gli studi che la sorreggono»; «il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica », anche alla luce della letteratura internazionale; «l’indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove … l’integrità delle intenzioni».

Alla censura sub b) la Corte perviene all’esito di un complesso iter argomentativo, del quale si possono ripercorrere solo i passaggi essenziali.

La Quarta Sezione critica la corrente giurisprudenziale che, nei processi per gli eventi lesivi cagionati dalle sostanze tossiche, afferma la sussistenza del nesso eziologico sulla base di impianti motivazionali elusivi dell’accertamento della cd. causalità individuale. Due sono elementi caratterizzanti tali pronunce: da un lato la sistematica qualificazione delle condotte degli imputati come omissive; dall’altro lato, il tentativo di aggirare la verifica dell’efficacia salvifica della condotta doverosa omessa attraverso meri espedienti retorici che «imprimono arbitrariamente il suggello dell’elevata probabilità logica su ragionamenti probatori che rimangono altamente incerti», poiché «non si confrontano adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta». Il primo passo per superare tale prassi giurisprudenziale – prosegue il Collegio – consiste nel qualificare correttamente le condotte del datore di lavoro. L’orientamento che ne afferma la natura omissiva, infatti, è fallace sotto due profili: da un lato sovrappone il piano fattuale della condotta con la componente omissiva della colpa (la mancata adozione delle cautele doverose), la quale connota qualunque condotta colposa, anche quelle commissive; dall’altro lato non tiene conto del fatto che, nel campo dell’esposizione a sostanze patogene, «si sia in presenza di causalità commissiva, alimentata dalle perduranti scelte aziendali che determinano uno stato delle lavorazioni che espone a livelli dannosi delle sostanze trattate: si tratta, come è stato osservato in dottrina, di una situazione riconducibile all’archetipo dell’avvelenamento somministrato con dosi quotidiane». La qualificazione delle condotte del datore di lavoro come commissive, invece che omissive, è foriera di rilevanti conseguenze pratiche sul piano dell’accertamento della causalità. Nei reati omissivi impropri, infatti, la struttura predittiva del paradigma controfattuale rende «assai importante il coefficiente probabilistico» della legge di copertura, dal momento che, «per prevedere ciò che sarebbe accaduto … è di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili». Nella materia dell’esposizione a sostanze tossiche, dunque, è proprio la difficoltà di eseguire giudizi prognostici sulla scorta di mere conoscenze statistiche – quali le indagini epidemiologiche – a creare un terreno fertile per le «degenerazioni di tipo retorico » che eludono l’accertamento della causalità individuale. Viceversa, «nell’ambito dei ragionamenti esplicativi tipici della causalità commissiva – non è decisivo che la generalizzazione esprima una relazione immancabile tra condizione ed evento o invece solo una relazione di tipo probabilistico», e nemmeno è importante «il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica ...». Infatti, di fronte ad una pluralità di spiegazioni eziologiche possibili, offerte dal sapere scientifico di copertura (cd. causalità generale), è possibile individuare la catena causale effettivamente verificatasi (cd. causalità individuale) attraverso un ragionamento «di tipo ipotetico, congetturale: ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla. Sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare un’accreditata ipotesi eziologica». Quando il grado di conferma dell’ipotesi è ritenuto sufficiente, si perviene ad una ricostruzione del nesso eziologico non più sorretta da una mera probabilità statistica, bensì dotata di alto grado di probabilità logica, la quale – malgrado il suo ineliminabile contenuto valutativo – può essere posta alla base di una decisione certa oltre ogni ragionevole dubbio. È solo a questo punto – cioè dopo aver riscontrato positivamente il contributo materiale dell’imputato nella produzione dell’evento – che il giudice dovrà interrogarsi in merito all’efficacia salvifica della condotta doverosa omessa. Tale indagine, tuttavia, non si collocherà più sul piano della causalità, bensì sul terreno della colpa. e più specificamente del cd. secondo nesso tra colpa ed evento: infatti non si tratterà – come accade nei reati omissivi – di supplire all’assenza di un collegamento naturalistico tra l’agente e l’evento; bensì di vagliare – sul presupposto della già accertata paternità, in capo all’agente, dell’evento lesivo – «l’adeguatezza, nel caso concreto, del modello di prevenzione inerente alla regola cautelare e dunque l’attitudine della condotta prescritta ad evitare o ridurre il rischio dell’evento ...». Il diverso ruolo assegnato al giudizio predittivo nei reati omissivi ed in quelli commissivi – criterio di imputazione oggettiva nei primi, di imputazione soggettiva nei secondi – incide sul sostegno probatorio che l’accusa deve porvi alla base: alto grado di probabilità logica nei reati omissivi, dove «il problema dell’evitabilità dell’evento … è in primo luogo un problema causale, che si carica quindi del connotato di ragionevole certezza proprio della causalità condizionalistica»; semplice probabilità5 nei reati commissivi. Alla luce delle considerazioni svolte, la Suprema Corte censura la sentenza trentina non già per aver fondato l’affermazione di evitabilità degli eventi lesivi sulla scorta di un sapere meramente statistico; bensì, da un lato, per la qualificazione come omissive delle condotte dei responsabili d’azienda imputati; dall’altro lato, e soprattutto, per essere incorsa in quelle degenerazioni retoriche nell’uso del concetto di probabilità logica che eludono l’esigenza di una rigorosa ricostruzione del nesso causale. L’ impianto motivazionale d’appello – ad avviso dei giudici della Quarta Sezione – è completo solo nella parte in cui esclude che il mesotelioma possa essere derivato da fattori di rischio diversi dall’esposizione all’amianto subita nel corso dei dieci anni di lavoro presso la Ferrovie Trento Malè: sotto questo profilo, l’alto grado di probabilità logica può dirsi raggiunto in base ad un corretto procedimento di esclusione dei possibili decorsi causali alternativi, quali l’esposizione a sostanze diverse dall’amianto in grado di indurre il mesotelioma; ovvero esposizioni del tutto occasionali all’amianto, con riferimento alle quali il «realismo della giurisprudenza» impone di rigettare la tesi della cd. trigger dose. Viceversa, osserva la Cassazione, la sentenza d’appello non ha adeguatamente motivato l’affermazione secondo la quale l’intero periodo di esposizione presso Ferrovie Trento Malè avrebbe effettivamente contribuito all’evoluzione della malattia: sicché, concludono gli ermellini, difetta totalmente la prova relativa all’efficacia concausale che le condotte degli imputati avrebbero avuto nella produzione dell’evento.

2.2 Il processo Eternit

Quasi tremila persone offese, tra dipendenti ed esposti extraprofessionali, morti o ammalati di asbestosi, di tumore polmonare o di mesotelioma, a causa dell’amianto lavorato in quattro stabilimenti italiani della multinazionale svizzero-belga (Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli); oltre seimila parti civili, rappresentate dalle vittime e dai loro famigliari, dai sindacati, dalle associazioni e dagli enti pubblici; due imputati, uno di nazionalità svizzera, l’altro belga, entrambi nella qualità di effettivi responsabili della gestione della Eternit s.p.a., rispettivamente dal 1952 al 1973 e dal 1973 al 1986, anno di chiusura degli stabilimenti. Mentre si scrive sono in corso le ultime fasi del dibattimento Eternit, nelle quali le parti stanno illustrando le rispettive conclusioni: la sentenza di primo grado è attesa nel 2012. A differenza del processo nei confronti della Ferrovie Trento Malè – i cui imputati, come visto, sono accusati di omicidio colposo – in questo caso non vengono contestati delitti colposi contro la persona, bensì delitti dolosi contro l’incolumità pubblica: il disastro cd. innominato, nella forma aggravata dall’evento (art. 434, co. 2, c.p.) e l’omissione di cautele contro gli infortuni sul lavoro, anch’esso nella forma aggravata dall’evento (art. 437, co. 2, c.p.). Nel complesso, tale impianto accusatorio solleva un elevato numero di intricati problemi, sia sotto il profilo ermeneutico, sia sul versante probatorio6. In questa sede, tuttavia, preme evidenziare che la scelta di non contestare le figure di omicidio e lesioni7 potrebbe essere stata ispirata proprio da ragioni connesse alla prova del nesso eziologico. Per spiegare tale affermazione, occorre ritornare al thema probandum: l’accusa deve dimostrare che l’incontrollata esposizione all’amianto prodotto dalla Eternit ha determinato migliaia di eventi lesivi, rappresentati da malattie e decessi. Per giungere a tale risultato, le soluzioni astrattamente prospettabili sono due. La prima, tradizionale, consiste nel dimostrare i nessi di causalità individuale tra l’esposizione all’amianto e ciascuno dei singoli eventi lesivi verificatisi. Applicata al processo Eternit, tuttavia, tale opzione avrebbe verosimilmente avuto l’effetto di paralizzare il dibattimento. L’accusa, infatti, avrebbe dovuto percorrere, in relazione a ciascuna delle quasi tremila vittime, il procedimento bifasico scolpito dalle Sezioni Unite Franzese, nella consapevolezza che la sezione quarta della Cassazione attraverso la già esaminata sentenza Ferrovie Trento Malè – ha iniziato a fare sul serio con la verifica della causalità individuale, richiedendo una dettagliata corroborazione dell’ipotesi generale alla luce di tutte le circostanze del caso concreto. Al contempo, la difesa degli imputati avrebbe senz’altro avanzato numerose richieste di prova, testimoniale e documentale, in relazione alla vita, professionale e non, di ciascuna delle migliaia di persone offese, nel tentativo di individuare plausibili decorsi causali alternativi capaci di minare la credibilità della ricostruzione accusatoria. Proprio l’accenno al tema dei mezzi di prova consente di rivolgere lo sguardo alla seconda, ed innovativa, possibile modalità di accertamento del nesso causale. Infatti, il Tribunale di Torino, con ordinanza del 20108, ha rigettato – ritenendola manifestamente irrilevante rispetto ai fatti contestati – la richiesta di esame testimoniale di tutte le parti civili avanzata dagli imputati e dai responsabili civili. Secondo il Collegio, «nessuno dei due reati contestati richiede, ai fini della relativa integrazione, la verificazione – e dunque l’accertamento – di lesioni personali o di morte delle persone»: in relazione all’art. 434 cpv., i giudici osservano, richiamando la giurisprudenza di legittimità e quella costituzionale, che «le lesioni personali e la morte non sono inerenti alla nozione di disastro, ma sono effetti dannosi prodotti in conseguenza e dopo che il disastro si è verificato»; quanto poi all’infortunio di cui all’art. 437 cpv., esso «non si identifica con specifiche lesioni personali subite da singoli lavoratori e ben può essere accertato in modo assolutamente impersonale, ad esempio anche attraverso accurate indagini epidemiologiche. » Prende forma, sulla scorta di tali affermazioni, il cuore dell’impianto accusatorio del processo Eternit, alla luce del quale risulta possibile comprendere non solo il significato delle scelte compiute dall’accusa in relazione alle norme incriminatrici contestate, ma anche i risvolti che tali scelte comportano sul versante della prova della causalità. Agli imputati non vengono attribuiti migliaia di eventi dannosi singolarmente individuati, bensì quello che si potrebbe definire il danno ad una popolazione, ossia l’aumento dell’incidenza di patologie amianto-correlate, aventi spesso esito letale, all’interno del gruppo di persone esposto al fattore di rischio – l’amianto – promanante dalla Eternit. Tale ipotesi accusatoria mette il pubblico ministero nelle condizioni di non dover ricorrere ai delitti contro la persona – per il cui accertamento si ritiene necessario identificare con nome e cognome le singole vittime – evitandogli in tal modo di dover procedere alla delicata dimostrazione della causalità individuale. Piuttosto, il danno ad una popolazione sembra essere perfettamente intercettato dai delitti contro l’incolumità pubblica, nei quali l’impersonalità del bene giuridico tutelato si proietta sull’impersonalità dell’offesa cagionata. Sul piano causale, in particolare, è sufficiente provare che, eliminando mentalmente l’esposizione alla sostanza tossica, una quota degli eventi lesivi non si sarebbe verificata, senza che assuma rilievo l’impossibilità di dare un nome ed un cognome alle vittime: una dimostrazione senz’altro alla portata dell’epidemiologia, disciplina essenzialmente comparativa, capace di rilevare la diversa incidenza di una manifestazione patologica in distinti gruppi di persone, e di individuare il fattore di rischio responsabile dello scarto.

I profili problematici. Causalità generale ed individuale nei processi per patologie amianto-correlate

Non pochi i profili problematici che nelle segnalate vicende vengono in rilievo.

3.1 Il nesso causale tra la successione di esposizioni all’amianto e gli eventi lesivi

La pronuncia della Quarta Sezione sopra esaminata tiene ben distinti due profili di accertamento della causalità, con riferimento a ciascuno dei quali evidenzia la necessità di procedere ad un attento scrutinio tanto della causalità generale, quanto della causalità individuale: il primo profilo riguarda la riferibilità della malattia alle mansioni svolte dalla vittima presso l’impresa nella quale gli imputati rivestivano la posizione di garanzia, ed impone, nella fase di accertamento della causalità individuale, di escludere che altri fattori di rischio – ossia esposizioni alla stessa o ad altre sostanze tossiche, di origine professionale o extraprofessionale – abbiano autonomamente provocato l’evento; il secondo profilo concerne l’efficacia concausale, nella determinazione dell’evento hic et nunc verificatosi, di ciascuna delle condotte di “avvelenamento” poste in essere da imputati susseguitisi nella posizione di garanzia. Con riferimento al primo profilo causale si è già visto che la sentenza della Corte d’appello di Trento ha superato lo scrutinio di legittimità. Si tratta, in effetti, di un accertamento che non solleva particolari problemi, come si può constatare esaminando le più recenti sentenze di legittimità e di merito, le quali offrono lineari esempi di svolgimento del giudizio controfattuale. Nel caso Michelin, la mancanza di consistenza delle prospettazioni difensive relative alla possibile incidenza di decorsi causali alternativi, ha condotto la stessa Cassazione9 a respingere i ricorsi avanzati dagli imputati – tre responsabili della Michelin Italia s.p.a. –, i quali, essendo stati prosciolti in appello per prescrizione, chiedevano l’assoluzione nel merito: dall’istruttoria risultava infatti che la vittima, deceduta per mesotelioma, era stata esposta all’amianto nel corso dei vent’anni di lavoro presso la Michelin, mentre non erano emersi elementi a sostegno dell’autonoma rilevanza causale di asserite precedenti esposizioni professionali e di una possibile esposizione residenziale all’amianto. Ancora, con la sentenza del 28.4.2011, il Tribunale di Torino10 ha assolto sei responsabili di un centro commerciale Rinascente dall’accusa di omicidio colposo, avanzata in relazione alla morte per mesotelioma pleurico di un dipendente che aveva svolto mansioni di macellaio in locali coibentati ad amianto. Nel dibattimento si era accertato che la vittima aveva subito due diversi periodi di esposizione all’amianto: il primo, di un solo mese ma ad alta intensità, presso un’azienda produttrice di stufe; il secondo, durato sei anni ma a basse intensità, all’interno dei locali del centro commerciale. Il giudice ha ritenuto che, dall’esistenza di possibile decorso causale alternativo (la pregressa intensa esposizione), scaturisse un ragionevole dubbio sulla responsabilità degli imputati. È piuttosto sul secondo profilo di accertamento della causalità, come pure si è già evidenziato, che la sentenza della Corte d’appello di Trento è stata censurata, tanto in punto di accertamento della causalità generale, per non aver svolto una selezione critica delle ipotesi scientifiche prospettate dai consulenti delle parti; quanto in punto di corroborazione delle ipotesi eziologiche alla luce delle circostanze del caso concreto, ossia, in altre parole, per il mancato svolgimento del giudizio di causalità individuale. Sorge allora spontaneo interrogarsi in merito all’iter probatorio che accusa e difesa dovranno seguire per sostenere le proprie tesi in sede di rinvio. Quanto alla causalità generale, occorre notare che i principi affermati dalla Sezione Quarta sono stati nel frattempo applicati, in una diversa vicenda processuale, dal Tribunale di Verbania 11: anche questa pronuncia, pertanto, potrà essere tenuta presente per calibrare le argomentazioni da spendere nella nuova fase processuale. Si tratta della seconda sentenza, in ordine cronologico, pronunciata in relazione alle morti e alle malattie che hanno colpito gli ex dipendenti della Montefibre s.p.a. esposti all’amianto12. Il giudice verbanese ha assolto tutti gli imputati, affermando, all’esito di un articolato confronto critico tra le diverse ipotesi scientifiche formulate dai consulenti, che le uniche leggi di copertura attendibili sono quelle che individuano un rapporto causale tra l’aumento della dose di amianto respirata e l’incremento dell’incidenza della patologia nella popolazione di riferimento, mentre invece non è affatto dimostrabile che esista una relazione tra l’aumento della durata dell’esposizione e l’accelerazione della carcinogenesi. Sul versante della causalità individuale, nessuna pronuncia di merito – a quanto consta – ha ancora fatto applicazione dei principi affermati dalla Quarta Sezione. Sul punto, uno dei passaggi chiave della motivazione pare essere il seguente: «il carattere probabilistico della legge potrebbe condurre alla dimostrazione del nesso condizionalistico solo ove fossero note informazioni cronologiche e fosse provato, ad esempio, che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione. Analogamente potrebbe argomentarsi ove fossero noti i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo ed essi fossero presenti nella concreta vicenda processuale». Quanto alla prima delle due verifiche suggerite, posto che la vittima è deceduta ventuno anni dopo l’inizio dell’esposizione, e che quest’ultima si è protratta per undici anni, l’accusa dovrebbe produrre, ad esempio, studi epidemiologici che associano ad esposizioni più brevi una latenza più lunga, mentre la difesa dovrebbe munirsi di consulenze di segno opposto. Quanto alla seconda verifica, tutto dipende dall’esistenza, e dalla possibilità di accertare la materiale presenza, di fattori che rendono possibile l’effetto acceleratore: se quest’ultimo è connesso, ad esempio, all’età della vittima, piuttosto che all’intensità dell’esposizione, piuttosto che alla tipologia di fibre inalate o a qualche altro fattore, saranno gli esperti a dirlo.

3.2 Evidenza epidemiologica e sufficienza della cd. causalità generale: l’accertamento alternativo

Uno dei problemi più spinosi, già in punto di diritto, che il Collegio giudicante del processo Eternit si troverà invece ad affrontare riguarda la sufficienza della prova epidemiologica a fondare una condanna penale per reati di evento, quali quelli contestati dall’accusa. Verosimilmente, infatti, i difensori degli imputati punteranno il dito contro tale tentativo di fuga dalla prova della causalità individuale, sostenendo che le indagini epidemiologiche evidenziano un mero aumento del rischio di contrarre determinate patologie, ma non sono da sole in grado di stabilire se le condotte degli imputati siano state, oltre ogni ragionevole dubbio, condiciones sine qua non degli eventi: in altre parole, l’argomento forte della difesa potrebbe consistere nell’evocare lo spettro del noto filone giurisprudenziale degli anni Novanta, censurato dalle Sezioni Unite nella sentenza Franzese sotto il duplice profilo dell’arbitraria trasformazione di reati di evento dannoso in reati di condotta pericolosa, nonché della violazione del principio in dubio pro reo. Non mancano, sul versante opposto, argomenti a sostegno della tesi accusatoria. Le indagini epidemiologiche svolte dai consulenti hanno riscontrato, all’interno della popolazione degli esposti all’amianto della Eternit, l’aumento dell’incidenza di determinate patologie: dalla differenza tra i casi attesi e quelli effettivamente riscontrati si ricava un’informazione che non è in grado di dire chi si sarebbe ammalato comunque e chi invece si è ammalato a causa di quel fattore di rischio; ma senz’altro è in grado di dire che una quota di persone non si sarebbe ammalata in assenza di quel fattore di rischio. Tale ipotesi causale è suscettibile di essere corroborata alla luce delle circostanze del caso concreto, in particolare escludendo i decorsi causali alternativi che potrebbero aver determinato l’aumento dell’incidenza degli ammalati. Su queste premesse – e a condizione che le consulenze venissero giudicate affidabili – il Collegio potrebbe fondare l’affermazione che l’esposizione all’amianto non ha determinato un mero aumento del rischio di contrarre quelle patologie, ma ha effettivamente causato, con alto grado di probabilità logica, una quota di eventi lesivi, ritenendo per questa via sussistenti le ipotesi aggravate di cui agli artt. 437 e 434 c.p. A quel punto resterebbe aperto soltanto il problema del risarcimento dei danni, per la cui assegnazione e quantificazione è invece necessario dare un nome ed un cognome alle vittime: vero è, peraltro, che lo standard richiesto dal diritto civile per la dimostrazione della causalità consiste nella mera preponderanza dell’evidenza, e nulla – nel dettato normativo del codice di rito – sembra precluderne l’applicabilità anche all’azione civile promossa all’interno del processo penale. Un’eventuale condanna dei responsabili della Eternit costituirebbe, con tutta probabilità, un precedente con effetti dirompenti su molti futuri processi per i “danni alle popolazioni” cagionati dalle sostanze tossiche. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’attuale indagine della Procura di Taranto relativa alla drammatica incidenza di patologie oncologiche tra i residenti nelle zone limitrofe agli stabilimenti ILVA.

Note

1 Così Blaiotta, Causalità giuridica, Torino, 2010, 435.

2 Cass. pen., sez. IV, 17.9.2010, n. 43786, Cozzini e altri, in Cass. pen., 2011, 5, 1679, con nota di Bartoli, Responsabilità penale da amianto: una sentenza destinata a segnare un punto di svolta?; e in www.penalecontemporaneo. it. con nota di Zirulia, Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità dell’evento in relazione alle morti causate da mesotelioma pleurico.

3 Oltre alle sentenze citate nel testo, si segnalano altresì, in materia di amianto, Cass. pen., sez. IV, 10.6.2010, n. 38991, Quaglierini, in www.penalecontemporaneo. it. con annotaz. di Zirulia; 17.9.2010, n. 36792, L.A.; 1.4.2010, n. 20047, G., in Foro it., 2010, 9, II, 429, con nota di Guariniello. Sul tema, nella dottrina più recente, cfr. Bartoli, Il problema della causalità penale. Dai modelli unitari al modello differenziato, Torino, 2010; Blaiotta, Causalità giuridica, cit.; Id., Il sapere scientifico e l’inferenza causale, in Cass. pen., 2010, 1265 ss.; Donini, Il garantismo della condicio sine qua non e il prezzo del suo abbandono, in Riv. it. dir. proc. pen., 2011, 2, 494 ss.; Palazzo,Morti da amianto e colpa penale, in Dir. pen. proc., 2011, 2, 185 ss.

4 Si noti che, in relazione ad entrambe le censure, la Cassazione chiede altresì ai giudici del rinvio di precisare se il problema dell’effetto acceleratore si atteggi in maniera differente a seconda che l’esposizione avvenga prima o dopo il momento di iniziazione della cancerogenesi.

5 Sul punto la sentenza precisa: «Vi è in proposito, in dottrina, una sfumata varietà di opinioni. Quel che è certo è che la collocazione dell’indagine nell’ambito della colpa attribuisce con ragione e senza difficoltà rilievo ad enunciati probabilistici. L’aggettivazione può cambiare: si parla, a seconda delle sfumate opinioni, di tendenziali, serie, concrete, apprezzabili possibilità di evitare l’evento. Ciò che conta però … è che si è comunque lontani dalle problematiche riguardanti la certezza propria di un connotato obiettivo dell’illecito quale il nesso causale tra condotta ed evento».

6 Basti pensare alla prova del dolo per entrambi i delitti, senza dimenticare che, con riferimento all’art. 434, l’elemento psicologico deve raggiungere almeno il grado di dolo diretto; la qualificazione dei capoversi delle citate norme incriminatrici alla stregua di circostanze aggravanti o titoli autonomi di reato, con tutte le conseguenze pratiche discendenti dall’una o dall’altra opzione ermeneutica, in primis l’individuazione del dies a quo per la decorrenza della prescrizione; la sussunzione degli eventi concreti “malattie” nel concetto descrittivo di “infortunio” di cui all’art. 437, co. 2, facendo ricorso alla controversa categoria della “malattia-infortunio”.

7 Si noti che la giurisprudenza ritiene configurabile il concorso formale tra i capoversi degli artt. 434 e 437 e i delitti di omicidio e lesioni, talvolta collegandoli ai sensi dell’art. 586 c.p.: sicché, ben avrebbe potuto l’accusa contestare tanto i delitti contro l’incolumità pubblica, quanto quelli contro la persona. Sul punto, cfr. Corbetta, sub artt. 434-437, in Dolcini-Marinucci (a cura di), Codice Penale Commentato, vol. II, III ed., 2011, Milano, 4468-4494; Benini, sub art. 437, in Lattanzi-Lupo (a cura di), Codice Penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, vol. IX, 2010, Milano, 501.

8 Trib. Torino, ord., 12.4.2010, in www.penalecontemporaneo.it.

9 Cass. pen., sez. IV, 4.5.2011, n. 33734.

10Trib. Torino, 28.4.2011, in www.penalecontemporaneo. it.

11 Trib. Verbania, 19.7.2011 (dep. 17.10.2011), Bordogna e altri, in www.penalecontemporaneo.it

12 Sul primo processo Montefibre si è recentemente pronunciata la Cassazione con la sentenza n. 38991 del 2001, Quaglierini, cit. alla nota 3.

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