Esperienza

Universo del Corpo (1999)

Esperienza

Claudia Mattalucci

Esperienza (dal latino experiri, "sperimentare, mettere alla prova, tentare") è la conoscenza diretta, personalmente acquisita con l'osservazione o la pratica, di una determinata sfera della realtà. La relazione tra realtà, esperienza e rappresentazione è caratterizzata dalla capacità dei tre poli di influenzarsi l'un l'altro, in quanto l'esperienza è condizionata dalla realtà e dalle forme simboliche che a sua volta determina. Da questo modo di intendere l'esperienza è derivata una nuova visione della cultura, non più considerata come struttura preordinata ma come processo generativo che nasce anche dagli automatismi del 'sapere incorporato', un sapere pragmatico di cui manca ai soggetti una conoscenza esplicita.

Una realtà presente nel linguaggio quotidiano

Comunemente, quando parliamo di esperienza (come nell'espressione 'è una persona di grande esperienza') alludiamo alla familiarità con alcuni aspetti della vita pratica, una familiarità ottenuta grazie alla ripetizione di strategie d'azione e modelli comportamentali. Esperienza si riferisce in questo caso a un sapere acquisito attraverso la pratica, una sorta di saggezza cumulativa che non chiama tanto in causa la creatività quanto piuttosto la ricettività del soggetto. Un certo grado di uniformità nell'esperienza del mondo, degli oggetti pubblicamente accessibili e delle situazioni, costituisce la base della vita quotidiana, ove il successo delle interazioni dipende dal fatto che gli attori sociali condividono, almeno in parte, le stesse esperienze. A questo livello, l'iterazione degli atti e delle prestazioni svolge un ruolo estremamente importante; il tempo e la ripetizione permettono di consolidare l'esperienza. Questa è la ragione per cui i bambini o gli apprendisti, 'privi di esperienza', vengono trattati con indulgenza. Per quanto essenziale, tuttavia, la dimensione cronologica non è di per sé sufficiente a garantire il consolidamento delle competenze; un uomo di esperienza non è meramente un individuo che ha vissuto a lungo, ma colui che ha tratto dalla vita un sapere. All'idea di ripetizione dobbiamo dunque associare quella di acquisizione.

Il linguaggio comune suggerisce inoltre che alcuni eventi, positivamente o negativamente connotati, sono più formativi di altri: vi sono situazioni da cui l'individuo è segnato irrimediabilmente (una guerra, un innamoramento, un rito di iniziazione), tali da imporre al soggetto una ristrutturazione dei propri valori, dei propri schemi cognitivi e comportamentali. Si tratta di accadimenti straordinari, unici, che interrompono il corso normale dell'esistenza e vi producono una rottura. Il carattere formativo, o al limite sconvolgente, dell'esperienza non riposa in questo caso sulla ripetizione, o sull'abitudine a un fare, quanto piuttosto sull'aspetto inusuale e non comune degli eventi. Le esperienze straordinarie possono aver luogo all'improvviso, senza che coloro a cui occorrono siano pronti ad affrontarle, ma possono altresì seguire a lunghi periodi di preparazione (come spesso accade nel caso del matrimonio o, nelle società tradizionali, dei riti di pubertà). Tanto nell'ambito dell'ordinario quanto in quello dello straordinario l'esperienza, in quanto fare significativo, consente di mettere alla prova convinzioni, dottrine, sistemi (è in questo senso che parliamo di 'esperienza mistica', 'esperienza di lotta rivoluzionaria'); essa consolida o destruttura, ma comunque condiziona, sentimenti, comportamenti, pensieri; si sedimenta nella memoria individuale e collettiva.

La società occidentale contemporanea enfatizza il valore delle esperienze (e in particolare di quelle straordinarie), arrivando al punto di farne, come ha osservato R. Abrahams (in The anthropology of experience 1986, p. 48), uno dei tratti caratteristici della modernità: a una concezione della persona come individuo autonomo in costante sviluppo corrisponde una sopravvalutazione dell'esperienza come strumento di autorealizzazione e di crescita. Siamo affamati e assetati di esperienze, di quelle vissute in prima persona e di quelle raccontate, riprodotte, trascritte. I programmi televisivi pullulano, infatti, di gente pronta a raccontare a milioni di spettatori le proprie storie di vita: esperienze traumatiche, sorprendenti, raggelanti; coloro che le hanno vissute ne danno testimonianza, le rendono al pubblico come segni indelebili della propria identità.

Attraverso il linguaggio comune possiamo dunque individuare almeno quattro significati del termine esperienza: 1) familiarità, saper fare; 2) partecipazione a un avvenimento; 3) prova, esperimento o, in senso affine, strumento di crescita delle proprie competenze professionali ('sapere esperto'); 4) componente indispensabile della formazione di una personalità unica e irripetibile. Quando negli anni Ottanta del 20° secolo in antropologia si è incominciato a parlare di esperienza, lo si è fatto con il proposito di delineare un nuovo paradigma: la ricerca etnografica deve tenere conto dei comportamenti e delle emozioni individuali e, simultaneamente, degli schemi comportamentali e delle griglie culturalmente codificate che a questi danno forma rendendoli significativi per gli altri. L'antropologia dell'esperienza è in buona misura una forma di reazione al paradigma strutturalfunzionalista, secondo cui l'interesse si concentrava sulla norma e sulle regole sociali. L'enfasi che essa pone sulle performance, sulle emozioni, sui comportamenti e sulle aspettative attesta la volontà di pervenire a una rappresentazione dinamica della cultura (o della società), nella quale si riconosca il ruolo attivo e creativo degli attori sociali. Mentre per generazioni le monografie etnografiche hanno avuto per oggetto principalmente credenze, istituzioni, rappresentazioni collettive e forme di organizzazione sociale, un'antropologia orientata alla persona tiene conto del valore esistenziale ed euristico delle esperienze ordinarie e straordinarie degli informatori e dell'antropologo stesso (Abrahams, in The anthropology of experience 1986, p. 55).

L'antropologia dell'esperienza

La locuzione antropologia dell'esperienza è stata coniata da un antropologo della scuola di Manchester, V. Turner (1982), e ha dato il titolo a un volume collettivo del 1986, curato dallo stesso Turner e da E. Bruner. Gli autori affermavano di voler studiare il modo in cui gli individui effettivamente esperiscono la loro cultura, cioè il modo in cui gli eventi vengono recepiti dalla coscienza. Questo solleva un problema: se l'esperienza consiste in ciò che viene interiormente vissuto, non è possibile conoscere le esperienze che non vengono vissute in prima persona, non è possibile cioè accedere alle esperienze degli altri. La questione dell'intersoggettività dell'esperienza era già stata sollevata in sede filosofica da W. Dilthey, secondo il quale è possibile trascendere il vissuto personale interpretando le espressioni (i discorsi, le performance, i testi e ogni altra forma di obiettivazione dei fatti di coscienza) che veicolano il vissuto altrui. Vi sono dunque tre livelli: 1) quello della realtà, di ciò che è esterno all'individuo; 2) quello dell'esperienza, della realtà interiorizzata, di cui la coscienza ha una rappresentazione; 3) quello delle rappresentazioni attraverso cui l'esperienza viene organizzata e fatta circolare. Le tre sfere non si sovrappongono mai esattamente: l'esperienza non è semplicemente un insieme di dati, una rappresentazione interna omologa alla realtà, ma è emotivamente connotata, si compone di immagini, aspettative, desideri; a loro volta le rappresentazioni sono, per usare le parole di Turner (1982), 'secrezioni cristallizzate' delle esperienze vissute che vengono strutturate, ma che a loro volta strutturano, condizionano e selezionano l'esperienza e la realtà.

Per l'antropologia, intesa come scienza dell'uomo in società e della differenza culturale, l'individuo costruisce le proprie esperienze, e lo fa non soltanto in quanto unico e irripetibile rappresentante del genere umano, ma in quanto membro di una collettività; l'esperienza è, almeno in parte, un prodotto della mente, del linguaggio e della sensibilità. Il mondo in cui viviamo è in buona misura il prodotto delle abitudini linguistiche della comunità a cui apparteniamo; la nostra percezione degli eventi e l'interpretazione che ne diamo sono condizionate dai codici che regolano i nostri atti verbali. Un bambino che impara a parlare non acquisisce meramente un medium linguistico, in quanto i discorsi sono pratiche che veicolano i codici sociali e morali condivisi, che danno forma al reale e intervengono nella costituzione della personalità individuale. Nella misura in cui siamo in grado di padroneggiare questi codici impariamo che cosa gli altri si attendono da noi, cosicché l'apprendimento del linguaggio comporta l'acquisizione progressiva del corpus di esperienze della comunità, della sua tradizione. Per lo più le competenze linguistiche vengono interiorizzate grazie alla partecipazione immediata ed estemporanea alle interazioni sociali, che giungono così a condizionare anche le esperienze idiosincratiche degli individui e il loro mondo interiore. Il linguaggio tuttavia non è l'unico agente culturale che informa l'esperienza individuale; i processi di apprendimento comportano l'acquisizione di un sapere tacito che non passa attraverso la verbalizzazione e nondimeno svolge un ruolo molto importante per lo sviluppo (fanno parte di quello che in psicologia viene definito 'sapere tacito', le tecniche del corpo, le competenze emozionali e i modelli di realtà utilizzabili, ma non direttamente accessibili alla coscienza).

Anche il rapporto tra esperienza e rappresentazione comporta un margine di trasformazione. Perché sia possibile esprimere un'esperienza occorre innanzitutto che essa sia isolata dal flusso della vita; questo presuppone che il soggetto fissi la propria attenzione su un'unità della propria esistenza, che ne stabilisca i limiti cronologici e ne individui le cause. Le rappresentazioni che traducono le esperienze intese come eventi formativi o sconvolgenti sono generalmente più intense e strutturate di quelle che traducono le vicende ordinarie. Un rito di pubertà, il corso di addestramento con cui si apre il servizio militare, il primo giorno di scuola sono fasi aurorali di un cambiamento nello stile di vita, situazioni caratterizzate da una particolare drammaticità. La forma rituale che le contraddistingue è prodotta dalla tradizione della comunità, che è una sorta di cristallizzazione delle esperienze condivise dei predecessori. Nelle fasi transizionali della vita umana la rappresentazione ritualizzata ha la funzione di consentire il superamento della crisi esperienziale: mentre le norme hanno un carattere eminentemente razionale e risolvono l'ambiguità in riferimento a categorie cognitive più o meno esplicite, le performance manipolano le emozioni e le volontà dei soggetti. Durante i riti che segnano le fasi liminali della vita individuale o collettiva, i 'segreti' trasmessi agli adepti, le competenze che permettono di risolvere la crisi accedendo a una nuova forma di esistenza sociale, non sono immediatamente accessibili in quanto il senso del rito (che l'antropologo, analizzando la performance, vuole rendere esplicito) è vissuto, piuttosto che pensato, dagli iniziandi. Esso emerge solo nel momento in cui viene messo in atto un processo interpretativo. Il senso, dunque, non è a priori il motore dell'azione sociale, ma emerge a posteriori, laddove le circostanze lo richiedono, come prodotto di un'attività riflessiva.

Bruner ha messo in evidenza come ogni forma di rappresentazione umana comporti attività processuali, verbalizzazioni e atti radicati all'interno di una precisa situazione sociale; da un lato essa è condizionata dalla realtà, ma allo stesso tempo è il mezzo attraverso il quale gli individui danno nuova forma alla propria cultura. Le performance ristabiliscono l'ordine compromesso dalle crisi e, per lo più, lo fanno producendo una trasformazione strutturale: i giovani divengono adulti, i morti si mutano in antenati, nuove norme di condotta subentrano alle vecchie, un sistema di valori può essere modificato. La relazione realtà-esperienza-rappresentazione è schematizzata nella fig. 2 attraverso i modelli A, B e C. Nel modello A, che sintetizza la relazione così come essa si configura secondo la prospettiva dell'antropologia dell'esperienza, ciascun polo è connesso agli altri da un flusso di azioni e reazioni che può muoversi in entrambe le direzioni. Esso dà conto della relazione processuale tra i tre termini che vengono intesi come parte integrante di un insieme olistico, e si differenzia da modelli a livelli successivi di una catena causale, presentati, invece, nelle due opposte versioni B (concezione empirista dell'esperienza) e C (concezione idealista). Secondo il modello B, l'esperienza è determinata dalla realtà che si suppone una per tutti i soggetti e opposta, come oggetto, alla mente. All'interno di questo modello le disuniformità a livello esperienziale sono riconducibili alle dis-identità delle facoltà, delle menti, della capacità di controllo e di interpretazione individuali. La rappresentazione traduce i contenuti di coscienza attraverso pensieri, discorsi, performance. Il modello C presuppone che le rappresentazioni ideali siano la conditio sine qua non dell'esperienza. Se sostituiamo a queste quelle collettive, culturalmente determinate, il modello ci permette di rappresentare l'esperienza del reale dal punto di vista di un estremo relativismo culturale, ove si ritiene che l'esperienza venga massivamente determinata dalla cultura locale. Se, per es., un individuo appartiene a un gruppo che considera un cane come una persona (e non soltanto in senso metaforico), la sua esperienza di quello che noi percepiamo come un animale sarà di fatto quella di un membro della comunità. L'importanza delle categorie culturali può essere quindi enfatizzata sino al punto di dubitare che sia possibile condividere transculturalmente un senso della realtà che vada al di là della mera materialità degli oggetti.

Tanto nello schema B che in quello C, l'esperienza funge da mediatore tra il livello del reale e quello rappresentativo. Il modello A costituisce quella che T. Ingold (1986) ha definito una 'cosmologia evolutiva', e che, aderendo alla terminologia di Turner, potremmo definire 'cosmologia processuale'. L'esperienza è condizionata dalla realtà e simultaneamente dalle 'secrezioni' cristallizzate delle esperienze altrui, vale a dire dai discorsi o dalle forme simboliche che circolano nella comunità. La realtà e il suo senso dipendono dalle rappresentazioni condivise e la produzione rappresentativa, che interpreta le esperienze individuali e collettive dei membri di una comunità, ordina e trasforma il senso del reale. Talvolta, inoltre, come accade nel caso delle scoperte scientifiche, sono le esperienze individuali (nel senso di 'esperimenti') a produrre una modificazione o a mettere in crisi l'ordine della realtà precedentemente accettato. Infine, le rappresentazioni, che entrano costitutivamente a far parte delle esperienze e del senso del mondo, possono essere modificate dagli eventi e dalle esperienze che i soggetti ne hanno. Lo schema individua una trama di relazioni tripolare ove i confini di ciascun polo non sono mai definitivamente tracciati. La rottura che A introduce in rapporto a B o a C risiede nel fatto che esso non riposa su di una contrapposizione tra realtà e soggettività (tra natura e cultura, individuo e società). Le premesse di una cosmologia processuale sono che il mondo sia uno, che esso non consista meramente di materia inerte ma che gli esseri umani, le loro coscienze e le rappresentazioni siano parte attiva di un continuo movimento.

Il sapere incorporato

L'esperienza come saggezza, come sapere altro rispetto alla conoscenza esplicita o esplicitabile, allude a tutte quelle competenze utilizzate ma non direttamente accessibili a cui si riferisce l'espressione 'sapere incorporato' (o, secondo le formulazioni più classiche, 'sapere tacito', 'sapere come'). Si tratta di un sapere pragmatico che riguarda un insieme di competenze o di abilità che non possono essere formalizzate, ma che sono comunicabili attraverso l'esempio. Per essere un buon cacciatore, per es., è necessario conoscere le differenti specie di animali, il loro habitat, le loro abitudini. Presso molte popolazioni di cacciatori-raccoglitori, questo sapere viene acquisito in modo esplicito durante l'infanzia assai rapidamente: all'età di 14 anni un adolescente achuar (Brasile centrale) conosce il nome e le caratteristiche di circa trecento specie di animali. Eppure i cacciatori più abili sono i membri adulti della comunità, e questo sta a indicare che tra il momento in cui un giovane padroneggia con estrema precisione il sapere esplicito e quello in cui, fattosi uomo, ritorna regolarmente dalla caccia con un ricco bottino, accade qualcosa. Egli ha evidentemente acquisito un saper fare che va al di là delle conoscenze verbalmente trasmissibili (Descola 1986).

Sono parte del sapere incorporato tutti quegli automatismi che si mettono in atto in presenza di date circostanze e che permettono di selezionare, spesso inconsapevolmente, un corso d'azione efficace. Il sapere tacito non riguarda esclusivamente le abilità motorie o corporee, ma include anche il senso degli oggetti, del mondo, delle persone con le quali interagiamo e le competenze emozionali. La soglia del pudore o della vergogna, il senso dell'onore, le situazioni e i comportamenti che originano ed esprimono la gioia o la paura sono condizionate dal sapere implicito condiviso dalla comunità. Le emozioni, secondo una formula coniata da M. Rosaldo (1984), sono 'pensieri vissuti nel corpo' la cui esperienza dipende dalla forma dei rapporti sociali. In relazione all'approccio esperienziale, Turner ha proposto di adottare il concetto diltheyiano di Weltanschauung, che viene generalmente tradotto con 'visione del mondo', ma che allude in realtà a un corpus esperienziale (di cui il sapere tacito è una componente essenziale) che vive e cresce con la comunità, in luogo di modelli di pensiero e di azione statici, quali quelli di cosmologia, ideologia, sistema filosofico. L'esperienza comporta simultaneamente pensieri, sentimenti e desideri; la Weltanschauung ha una parallela struttura triadica, essa consiste di: 1) una struttura di conoscenze e pensieri su ciò che è ritenuto 'il mondo reale'; 2) un insieme di giudizi di valore e sentimenti relativi al mondo e al suo significato; 3) un sistema di fini, di ideali e principi che dipendono dalla valutazione affettiva del mondo e guidano l'azione umana. Il fascino del concetto di Weltanschauung risiede, secondo Turner, nella sua natura dinamica; dato che le 'visioni del mondo' sono continuamente soggette a revisioni, le metafore e le sineddochi di cui si compongono sono infinitamente più mutevoli e malleabili dei concetti e delle strutture di cognizione.

Del pari, il modello A, che abbiamo tracciato nel paragrafo precedente e presentato come rappresentazione di una cosmologia processuale, permette di superare tutta una serie di dicotomie che hanno dominato le scienze umane sin dalla loro prima costituzione (soggetto/oggetto; anima/corpo; società/individuo; cultura/natura), e di considerare, in luogo delle opposizioni, la trama di relazioni che orienta la vita degli esseri umani. Al momento della sua nascita l'antropologia si delineò come scienza delle culture, ovvero dei modi di vita tradizionali inglobati in comportamenti, istituzioni, artefatti. Successivamente l'interesse della disciplina si spostò dal dominio dell'osservabile al suo sostrato, alle rappresentazioni mentali e alle strutture di significato soggiacenti ai comportamenti e alle elaborazioni simboliche pubbliche. Prendendo le distanze dalle precedenti formulazioni, il paradigma esperienziale individua nelle pratiche umane l'origine della cultura la quale non è intesa come un insieme di ragnatele di significato all'interno delle quali il mondo viene rappresentato, ma piuttosto come un processo generativo emergente dalle relazioni e dalle esperienze quotidiane.

Cosmomorfismo

M. Leenhardt, un missionario protestante francese che all'inizio del 20° secolo lavorò per circa un ventennio in Nuova Caledonia, unì alla vocazione evangelica un profondo interesse per l'etnografia. Le sue osservazioni costituiscono un caso piuttosto singolare in rapporto alle produzioni antropologiche dell'epoca. In Do Kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien (1947), testo dedicato alla vita 'mitica' dei melanesiani e alla relativa concezione dell'essere umano, egli impiegò, per descrivere l'esperienza del mondo degli isolani, l'espressione 'cosmomorfismo'. Questa comporta che il corpo dell'uomo non sia chiaramente differenziato dall'ambiente che lo circonda: la sua carne è la stessa dell'igname che nasce dalla terra ove gli antenati si dissolvono, la sua pelle è la scorza di un albero, i suoi polmoni il fogliame. Secondo Leenhardt, l'uomo vive in maniera indeterminata all'interno della natura, ne è invaso ed è per mezzo di essa che si conosce. L'identità tra l'uomo e la natura non è pensata ma vissuta quotidianamente attraverso un'esperienza ove non vi sono confini tra l'io e il mondo.

A differenza della visione antropomorfica (che per Leenhardt caratterizza uno stadio successivo di sviluppo delle civiltà), in cui gli attributi umani vengono proiettati sulla natura, nell'esperienza cosmomorfica l'uomo percepisce il proprio essere come una serie di fatti naturali e i suoi ritmi, così come le sostanze che compongono il suo corpo, sono identici ai ritmi e alle sostanze organiche del mondo animato. Il 'personaggio' melanesiano non è unificato, egli non si conosce che attraverso le sue relazioni con gli elementi del mondo naturale e con gli altri uomini. Il termine personaggio rinvia, in questo contesto, all'assenza di autonomia della persona. I rapporti dell'uomo con il suo universo sociale e naturale vengono descritti da Leenhardt come rapporti partecipativi, relazioni esperite tra un essere e un altro, siano essi interiori o esteriori, immanenti o trascendenti.

Nonostante la terminologia impiegata da Leenhardt rechi il segno del suo tempo, i suoi contributi teorici, malgrado l'esiguo riconoscimento accordato loro nell'ambito della disciplina, sono estremamente interessanti. La nozione di cosmomorfismo annulla la distanza tra umano e non umano. Ciò che Leenhardt si sforza di mettere in evidenza, con gli strumenti epistemologici di cui dispone, è che quando alcuni individui parlano di rapporti di parentela con il mondo naturale, non si limitano a metaforizzare la relazione. Il loro mondo, diversamente da quello occidentale, ove la separazione tra società e natura è consolidata da una tradizione filosofica plurisecolare, è rappresentato e vissuto tramite una cosmologia non dualista: gli esseri che noi consideriamo facenti parte della natura possono essere considerati come persone, cioè esseri sociali, allo stesso titolo degli umani. Il discorso sul cosmomorfismo mette inoltre in discussione la pretesa universalità della concezione unitarista del corpo umano, secondo la quale la componente materiale dell'essere umano è una e unica e ne rappresenta l'individualità. I melanesiani non hanno, ci dice Leenhardt, la consapevolezza del corpo nella sua generalità, e il linguaggio e le tecniche figurative non permettono loro di descriverlo nella sua totalità. Le rappresentazioni possibili traducono un'esperienza non delimitata e conclusa. Il corpo, sostegno della vita, non è per loro un fattore di individuazione. In molte culture la forma corporea non garantisce l'identità: il corpo umano può essere abitato da un agente non umano, come accade nel caso della possessione, e specularmente un corpo che in apparenza si presenta sotto forma animale o vegetale può nascondere un'identità umana o sovrannaturale. Attingendo dalla letteratura etnografica si potrebbero moltiplicare gli esempi che rinviano a una rappresentazione, a un'esperienza e a una realtà del corpo molto distante da quella che ci è familiare.

L'esperienza sociale del corpo

Attraverso le rappresentazioni e le forme di produzione del corpo (le teorie sulla dinamica dei processi riproduttivi, sugli organi e sulle loro funzioni; i tagli, le cicatrici, l'alimentazione) possiamo vedere in che modo gli individui si inscrivono nell'ordine sociale. Secondo M. Douglas (1970), il corpo sociale determina il modo in cui viene percepito il corpo fisico; elaborando il progetto di M. Mauss di un'analisi delle 'tecniche del corpo', Douglas tenta di stabilire una correlazione tra controllo del corpo e controllo sociale, e afferma che tanto più il gruppo è strutturato tanto più gli atti fisiologici devono essere controllati. Il corpo fisico è globalmente un simbolo naturale del sistema sociale. La distanza tra l'approccio simbolico e quello esperienziale risiede nell'opposizione fondamentale che il primo individua tra realtà da un lato ed esperienze/rappresentazioni dall'altro: la realtà del corpo è una sorta di riserva simbolica che esprime nella sua totalità la correlazione delle parti con l'organismo nel suo insieme.

Accanto alla forma dell'organizzazione sociale, la realtà del corpo è il presupposto universale di tutte le elaborazioni contestualmente variabili che lo investono. Quando Douglas parla di uso del corpo (di abilità) e del corpo come mezzo di espressione sembra separare il polo 3 (modello A) dall'interconnessione dinamica di 1 e 2: la realtà del corpo entra in gioco soltanto in quanto ordinata dalle categorie sociali, ma si assume che il suo contenuto, vale a dire la sua unità (ove le parti si connettono al tutto), sia lo stesso in Occidente come altrove. La società dà un senso al corpo, ma il senso e la realtà restano, per così dire, su due piani distinti: quello delle rappresentazioni convenzionali che permettono l'esperienza sociale e quello della realtà materiale, una sorta di sostrato noumenico inconoscibile eppure postulato come universale. Il corpo, in definitiva, non è altro che uno strumento passivo al servizio della ragione. L'antropologia dell'esperienza propone di eliminare la scissione tra realtà e rappresentazioni, affermando, come abbiamo osservato in precedenza, che il corpo riguarda simultaneamente l'universo degli eventi fisici, quello degli eventi mentali e quello degli atti linguistici o performativi. Le performance, da un punto di vista esperienziale, non sono meno reali delle funzioni fisiologiche: pensiamo, per es., alla trasformazione che la circoncisione o la clitoridectomia producono sul corpo. Il corpo non è dunque un mero strumento di cui la ragione dispone, ma è la modalità attraverso cui il soggetto partecipa al proprio mondo, è uno degli elementi di base tramite il quale gli individui definiscono la propria identità (o disidentità) e affrontano le contraddizioni e le ambiguità della vita quotidiana.

Prendiamo la differenza tra i sessi: essa è rappresentata ed esperita come differenza di organi, di sostanze, di ruoli nella riproduzione. È una differenza vissuta nella carne a cui si riferiscono tanto il sapere verbalmente elaborato (le teorie del concepimento, quelle che riguardano le componenti della persona ecc.), quanto il sapere implicito (le competenze emozionali dell'uomo e della donna, i comportamenti, i gesti e le aspettative adeguate a ciascuno dei due generi). La configurazione che la differenza maschile/femminile assume in un determinato contesto sociale dà forma al senso dell'identità degli individui, alla percezione che essi hanno di sé stessi e del proprio corpo in quanto uomo o donna. Il sesso, inoltre, inscrive l'individuo nei rapporti di potere, determina le relazioni di parentela e i rapporti economici che l'individuo stesso può assumere all'interno della comunità. Da un punto di vista analitico possiamo distinguere: 1) il piano degli eventi fisici, ove la differenza tra i sessi si riduce essenzialmente a una differenza anatomofisiologica; 2) l'universo degli eventi mentali, ove la differenza anatomica si connette a un insieme di percezioni più o meno articolate del sé in quanto essere sessuato, e a un insieme corrispondente di emozioni e di strategie di azione; 3) quello degli eventi costituiti culturalmente: le norme di condotta, di accesso all'eredità, quelle che determinano la paternità e la maternità ecc. Sono i tre piani della realtà, dell'esperienza e della rappresentazione del corpo. A livello di vissuto individuale, tuttavia, l'interazione tra i tre poli è tale da rendere problematica la definizione dei rispettivi confini, poiché essi sono fluidi e interagiscono secondo modalità non sempre prevedibili.

Bibliografia

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T. Ingold, Evolution and social life, Cambridge, Cambridge University Press, 1986.

M. Leenhardt, Do Kamo. La personne et le mythe dans le monde mélanésien, Paris, Gallimard, 1947.

M. Rosaldo, Toward an anthropology of self and feeling, in Culture theory: essays on mind, self and emotion, ed. R.A. Shweder, R.A. Le Vine, Cambridge, Cambridge University Press, 1984, pp. 137-57.

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V. Turner, From ritual to theatre, New York, Performing Arts Journal Press, 1982 (trad. it. Bologna, Il Mulino, 1986).

Id., On the edge of the bush. Anthropology as experience, Tucson, University of Arizona Press, 1985.

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