LUBITSCH, Ernst

Enciclopedia del Cinema (2003)

Lubitsch, Ernst

Guido Fink

Regista e attore cinematografico tedesco, naturalizzato statunitense nel 1936, nato a Berlino il 28 gennaio 1892 e morto a Los Angeles il 30 novembre 1947. Per molti anni incompreso o sottovalutato dalla critica ufficiale, L. occupa in realtà un posto di rilievo nella storia del cinema come autore di alcune fra le più ammirevoli commedie cinematografiche mai realizzate, basate su uno humour allusivo, un ritmo perfetto e una rassegnata consapevolezza ‒ senza dubbio legata alla sua origine ebraica e mitteleuropea ‒ dei limiti e della natura transitoria di ogni umana esperienza. Celebre è divenuta l'espressione Lubitsch touch, a indicare un 'tocco' unico e inimitabile, che si può definire soltanto attraverso l'insieme e, al tempo stesso, le singole tappe di una filmografia fra le più rigorose e 'coerenti' della storia del cinema. Nonostante fosse uno dei registi di punta di Hollywood, solo nel 1947 ricevette un Oscar alla carriera.

Di modesta famiglia ebrea, emigrata a Berlino dalla Polonia (il padre aveva una piccola sartoria), L. riuscì ben presto a dimostrarsi inadatto a lavorare come contabile nella ditta paterna e poco dopo il diploma conseguito al Sophien Gymnasium cominciò a esibirsi, diciassettenne, in qualità di comico nei music hall berlinesi. Fu un suo amico, l'attore Victor Arnold, ad aiutarlo a entrare nel 1911 nella compagnia teatrale di Max Reinhardt, il quale lo utilizzò per piccoli ruoli (il Secondo becchino in Amleto di W. Shakespeare, Kostylev in L'albergo dei poveri di M. Gor′kij) ma gli fu prodigo di insegnamenti relativi all'arte della recitazione e della messa in scena. Già due anni dopo, nel 1913, L. cominciò a fare del cinema come attore, in una serie di brevi comiche imperniate sulle buffe disavventure di un piccolo e avido commesso ebreo, di nome Meyer, proverbiale indicazione dell'ebreo berlinese. Dopo il successo di Der Stolz der Firma (1914) di Carl Wilhelm, decise di dirigere personalmente i suoi film, basandosi su sceneggiature scritte in collaborazione, prima con l'attore Erich Schönfelder e dopo la morte di quest'ultimo con Hanns Kräly, che rimase il suo soggettista di fiducia fino al 1929, anno in cui il sodalizio si interruppe bruscamente in seguito alla causa di divorzio fra L. e la sua prima moglie Helene Kraus. Cercò anche di proporsi al pubblico in vesti drammatiche, con Als ich tot war (1915), ma l'insuccesso di questo film lo convinse a ritornare al comico con Schuhpalast Pinkus (1916), e a puntare su una serie di opere interpretate da una giovane attrice, Ossi Oswalda, che aveva rivelato insospettate doti di commediante in una piccola parte di questo film. Vennero così Ossi's Tagebuch (1917), Das Fidele Gefängnis (1917), il delizioso Ich möchte kein Mann sein (1918), con Ossi Oswalda en travesti, e altri film imperniati su questa 'Mary Pickford tedesca', come veniva a quei tempi definita. Gli ultimi due, Die Austernprinzessin (1919; La principessa delle ostriche) e Die Puppe (1919; La bambola di carne) ‒ dove in un prologo divenuto famoso L. stesso appare intento a montare un teatrino di marionette che poi diviene la scenografia del film ‒ sono già assoluti capolavori, rispettivamente una visione satirica dell'America come regno di Bengodi e una fantasticheria, degna di E.T.A. Hoffmann, su una bambola meccanica e il suo 'doppio' in carne e ossa, in cui L. dimostra una conoscenza perfetta delle poetiche espressioniste e al tempo stesso ne prende ironicamente le distanze. A quell'epoca peraltro il regista aveva già accettato le proposte di una ballerina polacca, Apollonia Champoluc, sua ex collega in piccole parti ai tempi di Reinhardt, che godendo della protezione del ricco 're dei nickelodeons', Paul Davison, aveva deciso di lanciarsi nel cinema come attrice drammatica; per lei, ribattezzata Pola Negri, L. realizzò un melodramma di ambientazione pseudo-egiziana, Die Augen der Mumie Mâ (1918, interpretato anche da Emil Jannings), una Carmen (1918; Carmen, noto anche con il titolo Sangue gitano) e un kolossal pseudo-storico, Madame Dubarry (1919), che, ripresentato come film 'europeo' al pubblico statunitense, con il titolo Passion, avrebbe aperto a L., alla Negri, a Jannings e al cinema tedesco, fino ad allora tacitamente proibito, le porte degli Stati Uniti. Ma prima di trasferirvisi definitivamente, nonostante un giro trionfale nel 1921, L. realizzò ancora nel suo Paese vari film di successo, riproponendo Pola Negri nelle vesti della favorita di uno sceicco (Sumurun, 1920), oppure in quelle di Anna Bole-na nel film omonimo (Anna Boleyn, 1920, Anna Bolena), ma anche nel ruolo insolito di Rischka, la 'gatta selvaggia' figlia di un bandito, in una satira antimilitarista ambientata in una cadente 'fortezza' dalle scenografie accesamente liberty e ispirata a un gusto anarcoide che da un lato appare un ritratto sarcastico e amaro, forse inconsapevole della finis Austriae e dall'altro prelude in un certo senso al mondo folle e surreale dei fratelli Marx (Die Bergkatze, 1921, Lo scoiattolo).

A Hollywood, e con un ricco contratto offertogli dall'attrice (e produttrice) Mary Pickford, con la quale peraltro non riuscì mai a trovare un vero accordo sul piano artistico, L. si recò nel 1923 per rimanervi fino alla morte, con occasionali viaggi negli anni Trenta a Parigi, a Roma, a Londra (nonché nella Russia di Stalin per prepararsi segretamente a Ninotchka, 1939), ma non nella sua Germania, alla quale non avrebbe mai perdonato il nazismo e le persecuzioni antisemite. E a Hollywood, dopo un poco felice esordio con la Pickford attrice e produttrice (Rosita, 1923, dal Don César de Bazan di A.P. Dennery e P.P. Dumanoir), realizzò una serie di film eccellenti per la Warner Bros. (The marriage circle, 1924, Matrimonio in quattro; Three women, 1924, Tre donne; Kiss me again, 1925; Lady Windermere's fan, 1925, Il ventaglio di lady Windermere, da O. Wilde; So this is Paris, 1926, La vita è un charleston), dove la mancanza di sonoro non si avverte mai come un'assenza, nemmeno quando le parole sottintese o ridotte a rapide didascalie appartengono originariamente al genio di O. Wilde, come nello splendido Lady Windermere's fan, grazie all'uso raffinato e allusivo del materiale scenico, al gioco fantasioso e malizioso della macchina da presa, e alla sapiente guida degli attori. Qualche contrasto con il produttore Irving G. Thalberg rese meno facile la realizzazione del pur suggestivo The student prince, noto anche con il titolo In old Heidelberg (1927), primo incontro di L. con la Metro Goldwyn Mayer, lo studio dove alcuni anni dopo avrebbe realizzato capolavori come The merry widow (1934; La vedova allegra), Ninotchka e The shop around the corner (1940; Scrivimi fermo posta). Tre opere che rivelano ancora una volta suggestioni teatrali nelle ambientazioni (il café chantant di The merry widow, il grande albergo di Ninotchka, il negozio di The shop around the corner) ma anche soluzioni di straordinaria ricchezza nel gioco, spesso esilarante, talora melanconico, fra detto e non detto, mostrato e non mostrato, nella consueta galleria di allusioni che ne fanno uno dei molti segni del 'tocco alla Lubitsch'. Ma probabilmente il periodo più felice del regista ‒ anche se risulta particolarmente difficile scegliere ‒ fu quello della sua stagione alla Paramount, dorata, anche se resa un po' troppo impegnativa da notevoli responsabilità anche produttive.

Alla Paramount L. entrò nel 1928 e l'avvento del sonoro gli permise di rivisitare ironicamente, e al tempo stesso nostalgicamente, l'operetta viennese in una serie di film (iniziata con The love parade, 1929, Il principe consorte, per il quale ottenne una nomination all'Oscar e in cui emergono soluzioni tipicamente lubitschiane nel gioco di alterazione della colonna sonora e del parlato, ma anche nell'uso, complesso e polisemico, della macchina da presa) generalmente interpretati dall'attrice-cantante Jeanette MacDonald, da L. trasformata in squisita immagine preraffaellita, insieme, ma non sempre, a Maurice Chevalier, altro attore e chansonnier che L. sapeva usare in modo magistrale. Particolarmente significativi, tra i film che riproposero la coppia, The smiling lieutenant (1931; L'allegro tenente), storia di un ufficiale viennese che ama una violinista ma sposa una principessa, vivace soprattutto nei numeri musicali. Mentre è presente la sola MacDonald in Monte Carlo (1930), di cui si ricorda soprattutto il virtuosismo del 'numero' iniziale, la canzone Beyond the blue horizon, destinata a divenire l'incisione più popolare dell'attrice. Ma i vertici della commedia lubitschiana si ebbero in commedie non musicali bensì ambientate in una Europa altrettanto stilizzata e se si vuole convenzionale, un mondo che sollecita nello spettatore (non solo americano) una sorta di maliziosa e divertita complicità: basterà pensare al gioco erotico perennemente frustrato e pur sublimato di Trouble in Paradise (1932; Mancia competente), commedia di seducenti ladri-gentiluomini ambientata a Venezia e Parigi, preceduta da uno dei pochi film drammatici di L., Broken lullaby (1932; L'uomo che ho ucciso), un ritorno alla Germania abbandonata in cui L. sa cogliere, accanto al fascino nostalgico delle immagini materne, sintomi inquietanti di revanscismo e di militarismo. A queste opere fece seguito uno dei vertici della filmografia di L., quel Design for living (1933; Partita a quattro) che, valendosi delle interpretazioni di Miriam Hopkins, Fredrich March e Gary Cooper, narra con una certa audacia e con un'organizzazione del racconto fra le più calibrate, un intrigante ménage à trois.Per Trouble in Paradise e Broken lullaby, realizzati dopo la dolorosa rottura con Kräly, L. si era assicurato la collaborazione in sede di sceneggiatura di uno scrittore e commediografo statunitense, Samson Raphaelson, autore fra l'altro del racconto originario da cui era stato tratto il primo film parlato della storia del cinema, The jazz singer (1927) di Alan Crosland. Insieme, praticando quel che lo stesso Raphaelson definiva 'una sorta di scrittura parlata', dettando cioè a una silenziosa segretaria battute e correzioni, regista e sceneggiatore realizzarono nove film tra i più perfetti della storia del cinema: fra questi molti successi e un insuccesso commerciale (Angel, 1937, Angelo), che in realtà si doveva rivelare uno dei più misteriosi e affascinanti della serie, dominato com'è da una rigorosa costruzione geometrica, con interminabili panoramiche che dall'esterno fanno intuire allo spettatore quel che accade nella casa parigina della protagonista (una Marlene Dietrich ai vertici del suo fascino). Quindi, quasi al termine della collaborazione fra regista e sceneggiatore, due film-testamento, il già citato The shop around the corner, affettuosa rievocazione, ancorché ambientata a Budapest, del piccolo mondo della bottega paterna, e Heaven can wait (1943; Il cielo può attendere), per il quale ottenne una nomination all'Oscar, sorridente e commossa apologia dell'effimero, e del goethiano 'attimo fuggente'. È comunque sintomatico che in questi e in quasi tutti gli altri suoi film, un regista che sembrava privo d'interesse per le ricerche formali ‒ e in realtà sapeva sempre quel che stava facendo (esistono, soleva dire, tanti modi di piazzare la macchina da presa e in realtà ce n'è uno solo) ‒ partisse quasi sempre da una commedia di provenienza europea, pur se non sempre dovuta ad autori di primissimo piano (M. Lengyel, L. Bus-Fekete, M. Rostand, N. Coward, A. Savoir, L. Schmidt, L. Aladar e altri), e ne affidasse la sceneggiatura a un autore statunitense (Raphaelson, appunto, o Donald Ogden Stewart, o al massimo a un duo europeo-americano, come nel caso della coppia Charles Brackett-Billy Wilder). E un regista che come pochi altri conosceva gli attori, e poteva indifferentemente rovesciare l'immagine corrente di una diva (per es., Greta Garbo di Ninotchka) oppure con eguale sapienza accettarne le premesse e portarle a una sorta di rarefatta sublimazione (Marlene Dietrich di Angel e di Desire, 1936, Desiderio, film diretto insieme a Frank Borzage), al teatro (al mondo patetico e polveroso che Peter Brook avrebbe chiamato 'il teatro mortale' ossia quello dei guitti di second'ordine) dedicò l'unico fra i suoi film che forse rimpianse di aver fatto: To be or not to be (1942; retoricamente tradotto Vogliamo vivere) con Carole Lombard e Jack Benny. Un'opera strepitosa che al momento dell'uscita sembrò troppo frivola, inadeguata alla drammatica situazione vissuta in Europa a causa degli orrori del nazismo. E che invece appare, nella sua sublime confusione-combinazione di 'finzione' e 'realtà' ‒ insieme al chapliniano The great dictator (1940; Il grande dittatore) ‒ il solo vero film dedicato dal cinema statunitense alla minaccia hitleriana, combattuta con le uniche armi a disposizione della finzione scenica, ovvero le barbe finte degli attori di una compagnia teatrale polacca nella Varsavia invasa dai nazisti e il repertorio slapstick. Nel dopoguerra il cinema di L., pur raggiungendo ancora un momento di grande intensità in Cluny Brown (1946; Fra le tue braccia), ultimo saluto ironico e commosso a quel mondo inglese già dipinto con tenero sarcasmo in Lady Windermere's fan e in Angel, poteva senza dubbio sembrare legato al passato. Ma sarebbe stato il più grande dei suoi non pochi allievi, B. Wilder, a dimostrare come si potesse ancora 'fare del Lubitsch' in un mondo che aveva conosciuto Auschwitz e Hiroshima.

Bibliografia

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