MACARIO, Erminio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 66 (2006)

MACARIO, Erminio

Giorgio Pangaro

MACARIO, Erminio. – Nacque a Torino, il 27 maggio 1902, da Giovanni e da Albertina Berti, ultimo figlio dopo Ester, Maria e Felicina.

Trascorse infanzia e adolescenza nel popolare quartiere di Porta Palazzo; il padre, decoratore, avendo difficoltà a far quadrare il bilancio dovette emigrare negli Stati Uniti, dove dopo qualche anno morì. La madre, priva di risorse, trovò un posto di portinaia, mentre le sorelle si impiegarono come commesse in un negozio di tessuti.

Il M. frequentò le classi elementari presso la scuola statale Patacchioni, la stessa che, cinquant’anni avanti, aveva fornito a E. De Amicis ambiente e personaggi per Cuore. Il luogo in cui egli ebbe le prime avvisaglie della vocazione teatrale fu l’oratorio salesiano Don Bosco, annesso alla chiesa di Maria Ausiliatrice. Il debutto nella filodrammatica dell’oratorio avvenne con il bozzetto Il sacrificio di un innocente.

Il risultato fu talmente convincente che ben presto il M. divenne l’attore principale della piccola filodrammatica. La madre, contenta di quelle frequentazioni che toglievano il bambino dalla strada, avrebbe volentieri favorito il suo ingresso in seminario, ma quel che vi si opponeva, prima ancora dell’assenza di vocazione sacerdotale, era il disinteresse del M. per lo studio.

Conclusa la parentesi scolastica senza lode e senza infamia, per il ragazzo fu quindi giocoforza accantonare i sogni di gloria e cominciare a pensare a un mestiere. Il che fece di buon grado, e anzi ne provò tanti, e nessuno gli durava più di qualche settimana.

Come più tardi ebbe a ricordare: «Feci tutti i mestieri – se non imparati almeno iniziati» (Olivieri - Castellano, p. 23). In circa un anno di permanenza alla FIAT, tra il 1917 e il 1918, riuscì a cambiare quasi tutti i reparti.

Nel frattempo aveva già fondato una sua filodrammatica, e tutte le domeniche, presso il circolo S. Donato, dava rappresentazioni di prosa leggera. Qui il M. svolgeva tutti i ruoli e tutte le funzioni, dal costumista al cassiere, dal primo attore al regista. La prima occasione vera arrivò di lì a poco. Era l’inverno del 1918 e il M. rispose a un annuncio trovato su di un giornaletto di settore, in cui si cercavano «giovani attori generici per compagnie minime di provincia». Avuta risposta positiva, in una fredda giornata di dicembre il M. partì per la sua avventura.

La realtà si rivelò molto meno gloriosa dei sogni. La compagnia del cavalier Salvetti era la classica famiglia di guitti dove, dalla suocera all’ultimo nato, tutti avevano un ruolo nel repertorio. La tradizione veniva più o meno direttamente dalla commedia dell’arte. In repertorio I martiri del lavoro di F. Cavallotti, La maestrina di D. Niccodemi, ma anche I figli di nessuno e La signora di Saint Tropez.

Furono anni di duro apprendistato, ma il talento del M. si andava forgiando. Cambiò compagnia con grande frequenza, ma sempre seppe trarne vantaggio, e il suo nome, a poco a poco, andò facendosi noto anche fuori dell’ambiente degli «scavalcamontagne», le piccole formazioni che davano spettacolo durante le fiere di paese.

Il M. passava con grande eclettismo dai ruoli melodrammatici a quelli leggeri della farsa, e il bagaglio acquisito sarebbe stato il patrimonio che di lì a qualche anno ne avrebbe fatto uno dei più amati artisti della rivista e del varietà a livello nazionale.

La necessità di passare dalla Cavallina storna a I due sergenti, da Cavalleria rusticana a La sposa e la cavalla, da ruoli di primo piano all’incombenza del carico e scarico delle masserizie, fu la palestra che temprò l’attore, ma l’uomo non aveva ancora ben chiara la via precisa da prendere dentro la grande strada maestra del teatro. Nel 1924, una parentesi torinese portò il M. a imbattersi in G. Mulasso, in arte il cavalier Molasso, coreografo, ballerino e impresario di un certo livello, che era alla ricerca di volti nuovi per lo «spettacolo di balli e pantomime» che intendeva allestire al teatro Romano. L’audizione fu brevissima e il M. scritturato su due piedi alla paga di 15 lire al giorno. L’esordio avvenne con Sei solo stasera? seguito a ruota da Senza complimenti! Gli spettacoli, ambedue «riviste di Nicola», andarono benissimo, anche grazie a quel comico stralunato che in breve tempo divenne la star dello spettacolo. In quel periodo il M. conobbe Maria Giuliano, una diciassettenne che danzava al teatro Regio, fu un amore fulmineo e reciproco, così il M. non fece gran fatica a convincerla a entrare in compagnia, e di lì a poco a convolare a nozze.

Il matrimonio ebbe breve durata, ma il sodalizio professionale tra i due durò oltre vent’anni e la Giuliano fu la coreografa di un gran numero di riviste allestite dal Macario.

La fama del M. si diffondeva a macchia d’olio (dal settembre del 1924 recitò a Milano, in teatri quali il Dal Verme, il Lirico e il Fossati in lavori di P. Mazzuccato, C. Rota, C. Veneziani) e il suo nome arrivò alle orecchie di una delle signore del palcoscenico di rivista: Isa Bluette (Teresa Ferrero), la quale stava costituendo una propria compagnia. Era l’aprile del 1925. Racconta il M. che la Bluette partì da Modena dove era in scena, avendogli dato appuntamento alle tre del mattino all’hotel Commercio di Torino. L’intesa tra i due fu immediata, la paga venne fissata in 60 lire al giorno con la garanzia di una stanzialità torinese di almeno sei mesi. Il debutto avvenne al teatro Odeon di Torino con La valigia delle Indie di Ripp (pseud. di L. Miaglia) e Bel Ami (pseud. di A. Francini), autori di molti altri copioni per la compagnia della Bluette – con la quale il M. rimase in ditta fino al 1929 – e ben presto, e a lungo, per lo stesso M. quando questi ebbe a costituire la sua prima compagnia.

Nelle riviste – spettacoli che legavano insieme, intorno a una tenue trama e soprattutto a prime parti, il comico, la soubrette, bene individuabili e caratterizzate, i numeri del vecchio varietà – il M. sperimentò le più disparate macchiette, e da queste, e dalle esperienze fin lì accumulate, come per decantazione, per sintesi si potrebbe dire, nacque la maschera che lo avrebbe accompagnato trionfalmente per tutto il resto della carriera. Gli spettacoli che seguirono (Il dito di Giove, Sottane al vento, ambedue di Ripp e Bel Ami) vennero ricordati dal M. come i momenti in cui si attuò il passaggio dalle molte macchiette al personaggio unico che in breve lasso di tempo si sarebbe fissato permanentemente. L’omino con la faccia a uovo e il ricciolo ribelle, gli occhi tondi, sotto la cui superficie ingenua e indifesa si poteva leggere facilmente un fondo di malizia furbetta. A questo proposito E.F. Palmieri, critico autorevole, ebbe a dire: «Si rinnova in Macario il fulgido miracolo delle maschere: abbiamo, cioè, un personaggio definito, immutabile, con una sua sillaba, un suo significato.[…]. È finalmente fiorita dalla commedia dell’arte – arte nostra, gloria nostra – un’altra maschera. E Macario è un classico»(cfr. Macario story, p. 11).

Una breve parentesi, verso la fine del 1927, separò il M. dalla compagnia della Bluette, e fu per allestire con l’allora famosa Titina (Tina Cocchia), ex bambina prodigio, alcuni spettacoli, sempre di Ripp e Bel Ami, che ebbero un buon successo (Gatte di lusso, Minorenni a noi, Madama Follia). La Bluette, pur di riaverlo in compagnia, gli diede il nome in ditta e il M. fece ritorno.

Dal 1929, data della definitiva separazione dalla Bluette, fino alla fine della carriera, cioè agli ultimi anni Settanta, il M. ebbe, quasi ininterrottamente, ditta a suo nome. La crisi del ’29, la cui onda lunga del ’30 con gli strascichi europei mandò in crisi quasi tutto il sistema dello spettacolo, fu l’occasione per il M. di prendersi una pausa; sciolse la compagnia da poco organizzata, e tornato a Torino si dedicò con impegno a quello che era stato uno dei suoi primi amori: il teatro dialettale.

La proposta gli venne da U. Fiandra che dirigeva la compagnia La Stabile al teatro Rossini di Torino. Poteva sembrare un arretramento, per il capocomico che stava riscuotendo un successo senza precedenti in tutte le piazze della penisola. Invece si rivelò un’abile mossa strategica, che se da una parte gli consentì di superare la bufera con il minor danno possibile, dall’altra lo mise sulla scena accanto a eccellenti professionisti della prosa, e da ciò la sua arte non poteva che trarre vantaggio.

Già dal 1932-33, però, la voglia di ridere era tornata, e la ripresa economica indusse il M., con gesto inusuale e con grande coraggio, a investire di tasca propria ben 12.000 lire (all’epoca un capitale) per fondare la sua seconda compagnia che ebbe come sede il teatro Maffei, anni prima rinomato Bal tabarin. Il debutto avvenne con Pelle di ricambio, l’autore era Ripp. I seguenti furono anni di successi ininterrotti, tra gli altri: Mondo allegro, Follie d’America, Piroscafo giallo, ancora Carosello di donne, Tutte donne, Trenta donne e un cameriere.

Il nome del M. era di per sé una certezza. Ma ciò non accadeva per caso, poiché da innumerevoli testimonianze ci è stato tramandato come l’omino dalla faccia a uovo pasquale, chiuso il sipario e uscito il pubblico, si trasformasse in un critico spietato del suo e dell’altrui lavoro. Fu in quegli anni che il M. si affermò come grande scopritore di talenti, soprattutto talenti femminili.

La lista dei nomi delle soubrette che debuttarono con lui, negli anni e decenni seguenti, è una parte consistente della storia del teatro di rivista: da Tina De Mola a Marisa Maresca, da Isa Barzizza a Lauretta Masiero, da Carla Del Poggio a Marisa Del Frate, da Dorian Gray a Sandra Mondaini, dalle Bluebell Girls a Raffaella Carrà. Lavorò ripetutamente con Wanda Osiris (Chicchirichì, Disse una volta un biglietto da mille, le citate Follie d’America e Piroscafo giallo, e ancora Aria di festa, Tutte donne meno io), la quale in compagnia con il M. mise a punto il suo personaggio, e acquisì quella sicurezza del palcoscenico che ne fece per molti anni la regina incontrastata del teatro leggero. Fu ancora il M. a usare per primo la locuzione «donnine» riferita a quelle presenze femminili, né soubrette né ballerine, ma che avevano un ruolo fondamentale nel calamitare l’attenzione del pubblico.

Comunque il M. fu sempre vigile affinché il tono dei suoi lavori fosse scevro da cadute nella volgarità, e ciò gli garantì il costante favore di un pubblico di massa eterogeneo che poteva andare a teatro con la famiglia intera, bambini compresi, e con la garanzia di un divertimento garbato. Anche la satira, quand’era presente, fosse politica o di costume, era sempre discreta e controllata. Il M. in ogni caso riuscì a passare lavorando, con alterne vicende, tanto il ventennio fascista che il periodo della guerra.

Il secondo dopoguerra trovò il M. con la sua compagnia lanciato per l’ennesima serie di successi con riviste e commedie musicali (Febbre azzurra, 1945, di M. Amendola e del M.; Moulin Rouge, 1946, stessi autori; Oklabama, 1949, di Amendola e R. Maccari, ecc.).

In questo periodo si accentuò ancor più la vena surreale e stralunata della maschera Macario, che, se fosse lecito il paragone, sarebbe più opportuno accostare a un Pierrot malizioso piuttosto che ai vari Arlecchini e Pulcinella della tradizione italiana.

È forse questa una delle ragioni che danno conto della presenza del M. sui palcoscenici francesi, dove nel 1951 aveva portato Votez pour Venus, versione franco-maccheronica di Votate per Venere (di D. Falconi e O. Vergani), lavoro che – con debutto al Sistina di Roma, al suo fianco la soubrette Elena Giusti e il giovane G. Bramieri come spalla, costumi di Schubert – aveva avuto un grande successo in tutta Italia. La parentesi francese gli consentì anche di legalizzare l’unione con Giulia Dardanelli, che durava ormai da tempo e dalla quale la coppia aveva già avuto due figli, Alberto e Mauro (nati rispettivamente nel 1943 e nel 1947).

Dagli anni Cinquanta in poi il M. frequentò a più riprese il teatro di prosa, e sono circa una ventina i titoli in carnet, da Il coniglio di A. Novelli, del 1954, a Ditegli sempre di sì! di E. De Filippo, del 1971, Le finestre sul Po di A. Testoni del 1960, Pautasso Antonio esperto in matrimonio, Carlin Ceruti sarto per tutti, Due sul pianerottolo, tutte di Amendola e Corbucci, tra il 1973 e il ’76 (di quest’ultima, grandissimo successo accanto a Rita Pavone nella stagione 1975-76, si fece anche una versione filmata per la regia di M. Amendola), per finire, in chiusura di carriera, con uno Sganarello medico si fa per dire, scritto dal figlio Mauro con C.M. Pensa, del 1978. Nel 1970 aveva dato vita a un’indimenticabile versione de Le miserie di Monssù Travet, capolavoro di V. Bersezio, uno dei rari testi che sono riusciti a emergere nettamente dal teatro dialettale per diventare, con il nome dell’eroe eponimo, metafore universali di una condizione esistenziale.

Dagli anni Trenta il M. si era avvicinato anche al cinema, che coltivò con varia intensità e con esiti alterni.

All’inizio l’esperienza cinematografica non fu proprio soddisfacente: deluso dal risultato del suo primo film, Aria di paese del 1933, un copione piuttosto debole, diretto da E. De Liguoro, fece passare ben cinque anni prima di riprovarci, e questo nonostante le offerte e le sollecitazioni arrivassero fitte e regolari. Fu solo grazie alla competenza e alla sensibilità di M. Mattoli, che lo diresse in Imputato, alzatevi! del 1938, Lo vedi come sei? del 1939 e Non me lo dire! del 1940, tutti lavori di grande successo, al punto che i titoli erano diventati dei veri e propri «tormentoni» a livello nazionale, che il M. si riconciliò con il cinema e che infine la sua filmografia poté assommare una trentina di titoli. Non si tratta di capolavori, ma alcuni di essi andrebbero riscoperti non fosse altro che per trovarvi una certa atmosfera surreale e svagata che ne fa certamente delle rarità nella cinematografia italiana coeva. Nei primi anni Cinquanta, sull’onda di alcune pellicole di grande successo (La famiglia Passaguai fa fortuna, del 1952 diretto da A. Fabrizi; Agenzia matrimoniale, del 1953 diretto da G. Pastina) era pure cresciuta la fiducia del M. nel cinema, al punto che fondò una propria società di produzione, la Macario Film, che ebbe vita breve e provocò all’interessato un discreto dissesto economico. Del 1955 è un film che è documento prezioso di un’epoca e di un’arte: Carosello del varietà, diretto da A. Bonaldi e A. Quinti, vede in scena tra gli altri, oltre al M., Josephine Baker e Mistinguett (Jeanne Florentine Bourgeois), E. Petrolini e R. Rascel, Anna Magnani e Clelia Matania, Totò e la Osiris.

Dall’incontro con M. Soldati nacque l’unica interpretazione drammatica del M. per il cinema, Italia piccola del 1957, con N. Taranto e un E. Tortora alle prime armi. Fu la conferma, se di conferma c’era bisogno, che dietro alla maschera (a detta di qualche critico ripetitiva e monocorde) dell’omino con la testa tonda, c’era un attore completo e pronto a entrare in qualsivoglia parte o ruolo. Agli anni Sessanta risalgono le numerose pellicole interpretate dal M. al fianco di Totò: si tratta in genere di lavori di piuttosto basso profilo, che perlopiù portavano il nome di Totò nel titolo (Totò sexi, Totò di notte n° 1, Lo smemorato di Collegno, Il monaco di Monza, La cambiale), dato che quest’ultimo, a differenza del M. era divenuto una star cinematografica.

Il M., pur continuando a calcare principalmente il palcoscenico, non si rifiutò alla televisione, prestandosi ripetutamente al mezzo che, nel giro di un decennio, tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta fu probabilmente la causa prima del rapido declino e poi della definitiva sparizione del varietà, il genere teatrale dove il M. aveva lasciato più ampia e significativa testimonianza e impronta.

Il M. morì a Torino il 26 marzo 1980, a causa di una malattia che lo aveva costretto a interrompere le recite di Oplà, giochiamo insieme.

Lo spettacolo, da lui scritto insieme con il figlio Mauro, era in scena al teatro di via S. Teresa, che il M. aveva restaurato e che portava il suo nome.

Fonti e Bibl.: Macario story, a cura di E. Macario, Torino 1971; M. Ruberi, M.: lo vedi come sei?, Ovada 1992; M. Ternavasio, M.: vita di un comico, Torino 1998 (oltre che eccellente fonte biografica e bibliografica, offre nelle appendici delle pressoché esaurienti teatrografia e filmografia). Utili anche: L. Ramo, Storia del varietà, Milano 1956, ad ind.; Sentimental, Almanacco Bompiani 1975, a cura di R. Cirio - P. Favari, Milano 1975, ad ind.; M. Morandini, Gli anni d’oro della rivista, Milano 1978, ad ind.; Follie del varietà, a cura di S. De Matteis - M. Lombardi - M. Somarè, Milano 1980, ad ind.; A. Olivieri - A. Castellano, Le stelle del varietà, Roma 1989, ad indicem. Si vedano inoltre: Enc. dello spettacolo, VI, s.v.; Enc. della televisione, a cura di A. Grasso, s.v.; Enc. del cinema, III, sub voce.

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