ERESIE

Federiciana (2005)

Eresie

AAntonia Fiori

Dal momento dell'incoronazione romana fino alla scomunica del 1239, la repressione delle eresie impegnò Federico II in un'articolata attività legislativa, tanto imperiale quanto regia. In questa attività consiste l'aspetto più rilevante della politica antiereticale del sovrano svevo, perché nella concreta esecuzione delle misure adottate la persecuzione dell'eterodossia non seguì percorsi autonomi, rispetto alla lotta contro i comuni o al controllo del dissenso nel Regno di Sicilia. In altre parole, Federico II considerò gli eretici come nemici propri e dell'Impero ‒ oltre che della Chiesa ‒ e li colpì dove a suo avviso dilagavano: ma, nel farlo, rese l'accusa di haeretica pravitas uno strumento politico, del quale si seppe servire. È impossibile dire, ad esempio, dove finisse il conflitto con le città lombarde e dove iniziasse quello con i "perfidi" patarini, tanto che persino il pontefice, schieratosi con i comuni, divenne per lo Svevo un "difensore di eretici" (Historia diplomatica, I, p. 468).

La legislazione federiciana fu invece di più ampio respiro, e non soffrì le contingenze storiche che l'avevano talvolta prodotta, né le vicende alterne dei rapporti con il Papato: costituì una disciplina organica, recepita dalla Chiesa, e che la Chiesa stessa si sforzava di far recepire alle città. Nel corso del XIII sec. almeno cinque pontefici richiesero l'inserzione negli statuti della normativa antiereticale emanata da Federico II, nonostante che due tra loro (Gregorio IX e Innocenzo IV) lo avessero scomunicato.

Come legislatore, lo Svevo svolse il suo ufficio in ideale continuità con la tradizione degli imperatori cristiani ‒ una tradizione di difesa dell'ortodossia nata con l'editto di Tessalonica, testimoniata dalle codificazioni teodosiana e giustinianea e perpetuata dall'Impero medievale 'sacro' e 'romano' ‒ ed interpretò perciò il suo compito come esecutivo, senza sconfinamenti nel dogma e lasciando alla Chiesa il primato nell'individuazione dell'eterodossia. Un ruolo di 'braccio secolare' che riteneva però direttamente affidatogli da Dio, e non delegato dall'autorità papale: tanto più, come si vedrà, nel suo Regno siciliano.

Disposizioni antiereticali erano contenute già nella legge dell'incoronazione del 1220.

Fin dal 1213 il giovane Federico aveva espresso in forma solenne a Innocenzo III l'intento di prestare aiuto alla Chiesa "super eradicando haeretice pravitatis errore" (M.G.H., Constitutiones, 1896, p. 60; v. Constitutio in basilica Petri), e l'impegno era stato ribadito nel 1219 ad Onorio III. Combattere l'eresia e partire per la Terrasanta erano e sarebbero state le costanti richieste rivolte allo Svevo dai pontefici succedutisi nel corso del suo regno; ma se l'impegno di crociato non sarà mai considerato sufficiente dalla Curia romana, maggiore riconoscimento avrà la sua legislazione antiereticale.

Al momento dell'incoronazione imperiale ‒ il giorno stesso, 22 novembre 1220 ‒ l'aiuto più volte promesso si tradusse in intervento legislativo, il primo e dunque simbolicamente assai significativo. In quell'occasione Federico II promulgò un insieme di leggi note con l'indicazione unitaria di constitutio in basilica beati Petri, in prevalenza dirette alla tutela della libertas ecclesiae (ibid., nr. 85, pp. 106 ss.). Due delle dieci disposizioni (capp. 6-7) riguardavano la repressione dell'eresia: colpivano gli eretici, i loro favoreggiatori e le pubbliche autorità negligenti nel perseguirli; recepivano ‒ rafforzandole con il bannum imperiale ‒ le deliberazioni in materia del IV concilio lateranense, celebrato nel 1215 sotto la guida di Innocenzo III.

La sinodo lateranense aveva conseguito risultati rilevanti sotto il profilo giuridico ed era stata segnata da una serie di importanti avvenimenti storici: la nascita dell'Impero latino con la presa di Costantinopoli del 1204, l'annuncio di una nuova crociata in Terrasanta e anche lo svolgersi di una crociata di tipo diverso, quella contro gli albigesi, avviata alcuni anni prima nella Francia meridionale. Ai cattolici che vi si fossero impegnati il capitolo 3 prometteva la stessa indulgenza concessa ai crociati della Terrasanta. I provvedimenti in materia di eresia, pesanti sotto il profilo sanzionatorio, si collocavano in questo contesto.

La costituzione federiciana aveva fatto propria la disciplina lateranense, e non per caso: la cancelleria pontificia aveva infatti svolto un ruolo rilevante nella formazione del testo. In vista dell'incoronazione la Santa Sede non si era limitata a richiedere il provvedimento, ma lo aveva concretamente approntato ‒ almeno nelle linee essenziali ‒, forse nell'ambito di un disegno più ambizioso di Onorio III: celebrare a Roma un imponente concilio, nel quale il papa e il nuovo imperatore avrebbero legiferato insieme sui temi di maggior interesse per la Chiesa.

Nelle intenzioni del pontefice un simile avvenimento, espressione della concordia tra le massime autorità, avrebbe dovuto evocare e rinnovare l'esito del concilio che si era svolto a Verona nel 1184, presieduto da Lucio III alla presenza del primo Federico, il Barbarossa (Kuttner-García y García, 1992, pp. 167 ss.). A Verona era stata promulgata la decretale Ad abolendam, che comminava pene aspre contro gli eretici e i loro favoreggiatori e colpiva le autorità laiche che non fossero state abbastanza zelanti nell'aiutare la Chiesa a estirpare l'eresia. Nel glossare la decretale ‒ pochi anni dopo introdotta da Bernardo di Pavia nella sua Compilatio I (I Comp. 5.6.11) e quindi nel Liber Extra di Gregorio IX (X 5.7.9) ‒ Tancredi considerava che la si sarebbe potuta correttamente definire lex, perché emanata con il consenso dell'imperatore (Diehl, 1989, p. 9).

Nel 1220 il progetto di Onorio non trovò attuazione, ma l'accordo tra il papato e lo Svevo fu comunque sancito da quelle norme emanate in S. Pietro "sub nomine regio in leges publicas" (M.G.H., Constitutiones, 1896, nr. 83, pp. 104 s.).

La reiterazione dei deliberati lateranensi era pressoché pedissequa, ma non inutile. La Chiesa, che definiva e condannava l'eresia, usava poi affidare l'esecuzione materiale delle pene al potere civile, limitandosi a comminare sanzioni spirituali. Per quanto si ritenesse giustificato l'uso della forza nella difesa dell'ortodossia, la delega ai laici salvaguardava apparentemente il principio secondo il quale "ecclesia non occidit sed vivificat" (Maceratini, 1994, pp. 218 ss.) e consentiva un'effettività dei provvedimenti altrimenti difficilmente realizzabile. Dunque, l'emanazione delle norme lateranensi sub nomine regio comportava l'impegno da parte di Federico a svolgere il ruolo di 'braccio secolare' che la Chiesa insistentemente richiedeva. Oltre tutto, il fondamento romanistico della quasi totalità delle disposizioni le rendeva consone a una promulgazione imperiale.

La legge dell'incoronazione avrebbe dovuto essere applicata in tutto l'Impero e prevalere su consuetudini e statuti ad essa contrari, da abrogarsi entro due mesi dalla promulgazione romana. In concreto, però, nei dieci anni successivi furono pochi i comuni ad aver provveduto in tal senso.

Scarsi effetti sortì, sotto questo profilo, la missione diplomatica di Ugolino dei Conti di Segni, futuro Gregorio IX e allora cardinale di Ostia, mandato nel 1221 come legato pontificio nell'Italia comunale, con il compito specifico ‒ tra gli altri ‒ di curare che si provvedesse all'inserimento delle norme federiciane negli statuti. Ancora nel gennaio 1227, nell'atto di mediare tra lo Svevo e le città della ricostituita Lega lombarda, Onorio III incluse tra le condizioni a carico della Lega la recezione, l'inabrogabilità e il rispetto delle costituzioni antiereticali. Neanche questo fu però sufficiente; nel decennio successivo aumentò il numero dei comuni che accolsero le norme, ma nel 1252 Innocenzo IV tornò a ordinare con una bolla (la Cum adversus haereticam) l'introduzione delle leggi federiciane negli statuti.

Poco dopo la promulgazione, la costituzione fu mandata dall'imperatore allo Studium di Bologna perché se ne facesse oggetto di insegnamento (M.G.H., Constitutiones, 1896, p. 110): fatto insolito, perché l'invio di leggi alla scuola era una recente consuetudine papale (De Vergottini, 1952, p. 161; Liotta, 1993, p. 81). Nei primi anni la fortuna del testo legislativo fu tanto canonistica quanto civilistica.

Subito accompagnata da una formula confirmatoria pontificia e ulteriormente confermata da Onorio III, pochi mesi dopo, con la decretale Noverit (4 gennaio 1221), la constitutio in basilica beati Petri fu inserita nell'ultima delle Compilationes antiquae, la quinta, voluta dallo stesso Onorio III nel 1226. I capitoli vennero introdotti secondo la struttura sistematica dell'opera (che si apriva con la decretale Noverit), e le norme sull'eresia formarono il titolo De haereticis (V Comp. 5.4). Quando, però, nel 1234 Gregorio IX decise di mettere ordine nelle Compilationes antiquae e promulgò il suo Liber Extra (cui la bolla Rex pacificus attribuiva efficacia esclusiva), le norme della constitutio federiciana ne furono lasciate fuori.

Parificate, in quanto leggi imperiali, alle Novelle giustinianee, le disposizioni federiciane furono introdotte nel Corpus iuris civilis. In un primo momento, vennero inserite nel Codice in estratti ‒ come authenticae ‒ in corrispondenza delle costituzioni che innovavano. I capitoli sull'eresia furono divisi in quattro frammenti: l'authentica Statuimus nel titolo de episcopali audientia (post l. Iubemus [C. 1.4.19]); le authenticaeSi vero e Credentes (post l. Manichaeos [C. 1.5.4]) e l'authentica Gazaros (post. l. Cognovimus [C. 1.5.19]) nel titolo de haereticis et manichaeis.

In un secondo momento, la legge dell'incoronazione trovò posto tra i libri legales anche nel suo testo integrale, come constitutio finalis in quella decima collatio (contenente i Libri feudorum e norme dei Federici e di Corrado) che ‒ secondo il racconto di Odofredo ‒ sarebbe stata aggiunta da Ugolino Presbiteri alle nove collationes in cui erano divise le Novelle giustinianee (Lectura in Codicemad auth.Cassapost C. 1.2.12). Una collocazione forse inizialmente limitata al solo libermagistralis di Ugolino, ma divenuta stabile nel corso della seconda metà del XIII sec. (Cortese, 1995, II, pp. 166 s.).

Nei decenni immediatamente successivi alla promulgazione l'interesse dei dottori poté dunque riguardare le sole authenticae al Codice, peraltro con un lavoro esegetico tutto sommato modesto: qualche costituzione, come l'authenticaCassa et irrita, sembrò meritevole di attenzione, assai meno ne fu dedicata alle norme in materia di eresia. Con il tempo, a partire dalla Lectura al Codice di Odofredo, l'impegno dei civilisti sulle Novelle federiciane divenne sempre maggiore e, con l'inserzione della constitutio in basilica beati Petri nella decima collatio, coinvolse anche i feudisti (Di Renzo Villata, 1999, II, pp. 177 ss.).

Si vedano ora i capitoli 6-7 della constitutio in basilica beati Petri.

1) Configurazione dell'eresia come crimen laesae maiestatis (v.). Da un punto di vista giuridico l'aspetto più significativo delle disposizioni consisteva nell'inquadramento dell'eresia nel crimen laesae maiestatis. Anche questa, un'innovazione canonistica che lo Svevo aveva fatta propria.

Nella decretale Vergentis in senium del 1199 (Die Register, 1979, nr. 1, pp. 3 ss.) Innocenzo III aveva accostato l'eresia alla laesa maiestas ‒ il reato che il diritto romano puniva più severamente ‒ configurandola addirittura come ipotesi aggravata perché lesiva di una maiestasaeterna, superiore a quella temporale difesa dalle leggi civili. Sebbene prima di lui Graziano e la decretistica avessero già accennato a una similitudine tra i due crimini, la relazione era rimasta limitata al profilo processuale dell'accusatio, alla quale venivano ammessi anche gli infami sia per il crimen maiestatis sia per il crimen haeresis e la simonia (Ghisalberti, 1955, p. 161).

I precedenti prossimi della costruzione giuridica di Innocenzo III si possono rinvenire nella legislazione antiereticale dei sovrani aragonesi: un primo editto di Alfonso II del 1192 (confermato poi dal concilio di Lerida del 1194) e uno successivo di Pietro II del 1197 (a sua volta confermato dal concilio di Gerona dello stesso anno). In questi provvedimenti l'eresia veniva chiaramente avvicinata alla lesa maestà ("se tamquam reum criminis lesae maiestatis puniendum" [Mansi, 1778, col. 674]), però si trattava di una maiestas civile. In modo analogo ‒ anche se non in specifico riferimento all'eresia ‒, già la legislazione normanna di Ruggero II aveva equiparato l'offesa alla Chiesa (nei suoi beni) al crimenlaesae, ma come delitto contro la propria sovranità (Zecchino, 1984, pp. 132 s.). La laesa maiestas aeterna era invece una costruzione innocenziana e secondo la formulazione innocenziana era stata recepita dalla legislazione imperiale di Federico II.

Il diritto romano non aveva posto alcuna esplicita relazione tra i due crimini, se non con "l'eccezione" (De Vergottini, 1952, p. 27) riguardante i manichei ‒ seguaci di un culto orientale e non propriamente eretici ‒ la cui persecuzione era stata più antica e più aspra rispetto a quella delle sette ereticali. In una costituzione di Arcadio e Onorio che li riguardava (l. Manichaeos [C. 1.5.4]) si parlava infatti di publicum crimen commesso "in religione divina" e se ne paragonava la gravità al crimen maiestatis ("nam si in criminibus maiestatis licet memoriam accusare defuncti, non immerito et hic debet subire iudicium"). L'ispirazione della tesi innocenziana nasceva verosimilmente da questa norma, la cui applicazione alle eresie medievali non doveva in realtà sembrare 'eccezionale' o troppo ardita. Non solo perché la si leggeva nel titolo de haereticis et Manicheis et Samaritis del Codice, ma anche perché 'manichee' venivano allora definite, spesso, tutte le eterodossie e l'appellativo più propriamente era riservato ai catari (v.), le cui dottrine si fondavano sul dualismo tra bene e male. I catari ‒ albigesi in Francia o patarini in Italia ‒ erano avvertiti in quegli anni come il principale pericolo per la cattolicità e lo stesso Innocenzo III ne parlava come di "impii Manichaei" (Patrologiae, 1891, col. 1147). Per Innocenzo, insomma, i catari dovevano essere i naturali destinatari della l. Manichaeos.

Dall'applicazione in via analogica delle pene fissate per il crimen maiestatis, derivavano per il reato di eresia conseguenze assai più severe di quelle previste dai canoni e dalle leges. La disciplina giustinianea aveva punito gli eretici con pene criminali, con l'infamia e l'esclusione dai pubblici uffici, dall'avvocatura, dal ruolo di giudici e dalla militia, e con una serie di limitazioni della capacità di diritto privato.

Gli eretici propriamente detti erano esclusi dalla testimonianza contro gli ortodossi; non potevano testare né donare, e non potevano trasmettere il proprio patrimonio né ex testamento, né ab intestato agli eredi non ortodossi. Per gli "esecrabili" manichei la legislazione era ancora più severa: incapacità totale di disporre e contrattare, esclusione assoluta dalla testimonianza, espulsione dalla città, pena di morte, confisca dei beni.

Ora, il reus maiestatis era stato perseguito ancor più duramente. Innanzi tutto, veniva colpito dalla poena capitis e diveniva infamis: ma il legislatore canonico avrebbe potuto far applicare le stesse sanzioni anche appellandosi alle severissime norme dettate dagli imperatori cristiani contro i manichei. Era piuttosto sul piano delle incapacità di diritto privato che inquadrare l'eresia nel crimen laesae portava a conseguenze più gravi, cioè alla confisca irreversibile del patrimonio del condannato.

Secondo il diritto romano gli eretici erano privi della testamenti factio, tuttavia la norma giustinianea faceva salvi i diritti successori dei figli ortodossi. Innocenzo III aveva invece specificato che anche questi ultimi avrebbero dovuto essere esclusi dall'eredità, così come previsto per il crimen laesae (dalla l. Quisquis, C. 9.8.5 riprodotta anche nel Decretum di Graziano [C. 6 q.1 c. 22]).

Una tale severità non aveva precedenti nel diritto canonico, e infatti il successivo dibattito dottrinale vide un disaccordo tra i canonisti sull'ipotesi di applicazione integrale della norma innocenziana, alla quale veniva talvolta preferita l'aequitas della disciplina di diritto romano.

Era la posizione, tra gli altri, di Tancredi, Vincenzo Ispano e Goffredo da Trani, i quali sostenevano che solo nei domini pontifici lo ius strictum della Vergentis avrebbe dovuto trovare letterale applicazione, mentre nelle altre terre sarebbe prevalsa l'aequitas delle leges (Piergiovanni, 1971-1974, II, pp. 184 ss.; Pennington, 1993, 6 ss.; Maisonneuve, 1965, pp. 936 ss.). Proprio sulla base della federiciana l. Gazaros (ossia il capitolo 6 della constitutio in basilica beati Petri), inserita nel Codice giustinianeo, a partire dal Trecento i giuristi ‒ anche i civilisti ‒ optarono in prevalenza per la tesi contraria: perché la norma, conforme alla Vergentis, era stata promulgata da Federico per tutto l'Impero (Pennington, 1993; Bellomo, 1978, p. 28).

Federico II aveva accolto il principio della Vergentis nella legge dell'incoronazione (cap. Catharos). Gli eretici "utriusque sexus quocumque nomine censeantur" (M.G.H., Constitutiones, 1896, nr. 83, pp. 104 ss.) erano colpiti da perpetua infamia, e alla scomunica disposta dai canoni l'imperatore aggiungeva il suo bannum. I loro beni dovevano essere confiscati e divenivano intrasmissibili ai figli, "cum longe sit gravius aeternam quam temporalem offendere maiestatem" (ibid.). Un temperamento rispetto alla decretale era però stato adottato ‒ come già nel canone lateranense dal quale la norma era stata testualmente ripresa ‒ e consisteva nel limitare l'applicazione di queste misure ai soli eretici, laddove il testo innocenziano nella forma originale puniva allo stesso modo anche i favoreggiatori dell'eresia.

Questi ultimi, o più precisamente credentes, receptatores, defensores e fautores degli eretici, in base al comma finale del capitolo 7 della legge dell'incoronazione (cap. Credentes), erano colpiti dal bannum, e dopo un anno dalla scomunica sarebbero divenuti infames: perciò non avrebbero potuto accedere a uffici pubblici, avrebbero perso l'elettorato attivo e passivo e la testamenti factio attiva e passiva, nonché il diritto di agire in giudizio "super quocumque negotio" (ibid.), potendo essere solo convenuti; non sarebbero inoltre stati ammessi alla testimonianza, e le loro sentenze, se giudici, sarebbero state nulle, nulli i loro atti se notai, non sarebbero stati più abilitati al patrocinio se avvocati. Sanzioni durissime, naturalmente, ma che rientravano nella tradizione teodosiana e giustinianea di repressione ereticale, al di fuori di un'estensione analogica della disciplina del crimen laesae maiestatis.

Di lì a pochi anni Raimondo di Peñafort, nell'introdurre la Vergentis nel Liber Extra (X 5.7.10) compirà la medesima scelta, adattando il testo della decretale in modo da riferire ai soli eretici le prescrizioni più dure che Innocenzo aveva dettato per i favoreggiatori (Hageneder, 1963, p. 149; Capitani, 1976, pp. 49 ss.).

2) Purgazione dei sospetti e responsabilità delle autorità secolari. Non aveva precedenti nel diritto romano il trattamento riservato ai semplici sospetti di eresia (cap. Catharos,in fine). Ad essi, e secondo le sue regole, il diritto canonico offriva la possibilità di purgarsi (la purgazione canonica consisteva in un giuramento di innocenza prestato con coniuratores, ed era un rimedio concesso all'imputato per liberarsi da un'accusa che non fosse stata adeguatamente provata), ma il concilio lateranense aveva stabilito il termine di un anno, trascorso il quale la colpevolezza si presumeva (Giovanni Teutonico, gl. ex tunc vel heretici ad cap.Excommunicamus). Allo stesso modo, Federico II aveva stabilito che colui che non si fosse purgato ad mandatum ecclesiae sarebbe stato considerato infamis e bannitus, e decorso l'anno sarebbe stato condannato come eretico.

La responsabilità della persecuzione dell'eterodossia ricadeva, a livello locale, anche sulle autorità cittadine e sui signori feudali (cap. Statuimus). Ai funzionari municipali ‒ potestates, consules e rectores ‒ era richiesto di prestare un giuramento al momento dell'assunzione nell'ufficio e a pena di non potervi altrimenti accedere, giuramento con il quale si sarebbero impegnati a exterminare ‒ dunque cacciare ‒ chi si fosse reso colpevole di eresia dalle terre soggette alla propria giurisdizione.

Il giuramento delle pubbliche autorità era stato introdotto nel 1184 dalla decretale Ad abolendam: riguardava secondo la norma anche conti e baroni e aveva il più generico contenuto di aiutare la Chiesa e far applicare ecclesiastica simul et imperialia statuta contro gli eretici. Le sanzioni previste in caso di inottemperanza erano durissime: perdita dell'ufficio senza possibilità di essere assunti ad altro, scomunica, interdetto della Chiesa sulle terre; la civitas sarebbe stata privata della dignità episcopale ed esclusa dai commerci con le altre città. Anche questa norma aveva un fondamento romanistico e rientrava nella tradizione degli imperatori cristiani: la legislazione del Basso Impero puniva le autorità provinciali e cittadine negligenti nella vigilanza sull'applicazione delle norme antiereticali, benché la sanzione, più modesta, fosse generalmente limitata a una multa (cf. ad esempio Cod. Theod. 16.5.40.8 e C. 1.5.8.13).

Più difficile rinvenire dei precedenti per la statuizione successiva, che interessava i signori feudali (cap. Si vero), se non, forse, in quelle costituzioni che punivano con la confisca della casa o della terra chi avesse ospitato riunioni di eretici: norme che colpivano, con pene differenziate, anche il procuratore o l'amministratore o il conduttore del fondo, qualora le riunioni fossero avvenute nesciente domino (Cod. Theod. 16.5.21 e 16.5.40.7; C. 1.5.5.1 e 1.5.8.4).

Piuttosto, l'estremo rigore con cui il concilio lateranense aveva stabilito che fossero trattati i domini temporales, se negligenti nel contrastare l'eterodossia, si spiegava come una legittimazione ex post dei recenti avvenimenti francesi. In Linguadoca i crociati di Simone di Montfort erano andati a occupare le terre di quei signori che non erano stati solerti nel purificarle "ab haeretica foeditate" (Constitutiones Concilii quarti Lateranensis, 1981, c. 3, p. 46). In particolare il conte di Tolosa Raimondo VI era stato l'obiettivo di quella singolare crociata: più volte scomunicato, il suo dominio era stato colpito da interdetto e in gran parte occupato, e i suoi vassalli erano stati sciolti dal papa dal giuramento di fedeltà. Il canone lateranense aveva pertanto stabilito la scomunica per dinasti feudali e detentori di cariche pubbliche inattivi nel combattere l'eresia e, trascorso un anno, lo scioglimento dei vassalli dal vincolo di fedeltà e la possibilità che i principi cattolici occupassero la terra del negligente, per provvedere a estirparne essi stessi gli eretici. L'occupazione doveva essere sì provvisoria e salvo iure domini principalis, ma la durata era discrezionalmente determinata secondo le esigenze della repressione ereticale. Era una formula ambigua, che rappresentava un compromesso tra la brama di annessione dei principi cattolici e la salvaguardia, almeno formale, di chi vantava legittimamente diritti sulle terre occupate (De Vergottini, 1952).

Il capitolo federiciano citava letteralmente il capitolo 3 del concilio lateranense, introducendo solo due varianti che riconducevano le disposizioni all'auctoritas imperiale anziché pontificia: era il sovrano a 'esporre' le terre dei negligenti all'occupazione dei cattolici, e sparivano la scomunica e lo scioglimento dei vassalli dal giuramento di fedeltà, che erano invece competenze della Santa Sede. Il De Vergottini ha efficacemente sottolineato come questa norma costituisse, per certi aspetti, una "abdicazione […] a ogni difesa dei diritti imperiali di fronte all'ingerenza papale" (ibid., p. 114), posto che spettava al pontefice decidere l'occupatio e la sua durata. Di lì a qualche anno lo stesso Federico II ne avrebbe subito le conseguenze, quando la crociata di Luigi VIII (1226), spinti i 'cattolici' contro il Regno imperiale di Arles, portò all'assedio di Avignone.

Forse per la discontinuità della norma rispetto alla tradizione giustinianea, o forse proprio per la sua troppo specifica rispondenza alla situazione francese, una volta inserito nei libri legales il capitolo Si vero fu quasi ignorato dalla dottrina, tanto che una glossa avvertiva "non legitur haec in scholis" (Di Renzo Villata, 1999, p. 194).

Tanto passiva era la riproposizione del canone lateranense, e tanto modeste le varianti che riconducevano le norme alla giurisdizione imperiale, che il testo sommariamente trasformato e tagliato qua e là si presentava alla fine un po' farraginoso (De Vergottini, 1952, pp. 90 ss.): ad esempio, nel riferire a podestà, consoli e rettori una potestas sive perpetua vel temporalis, retaggio di una proposizione più ampia del capitolo 3, nella quale il giuramento di exterminare de terris suae iurisdictioni haereticos era indicato come dovere di tutte le saeculi potestates e non solo delle magistrature comunali.

Nel complesso, la comminazione del bannum era l'unica, solitaria integrazione del testo rispetto al canone del 1215, ed era anche l'unico elemento che ne connotasse la provenienza imperiale. Il ruolo ancillare del provvedimento rispetto a quello canonico era peraltro reso esplicito dalla sua automaticità: il bando seguiva ipso iure alla scomunica e ne rappresentava il corrispettivo temporale; secondo un'espressione di Ottone IV, costituiva infatti la separazione dal consorzio dei fedeli che si realizzava corporaliter nell'ambito dell'Impero (M.G.H., Constitutiones, 1896, pp. 43 s.). E benché il bannum ‒ tanto nel senso più generale di prescrizione regia o imperiale, quanto in quello più definito di provvedimento di espulsione ‒ fosse un istituto giuridico tipicamente medievale, anche l'idea di 'esclusione' degli eretici dalla comunità era già caratteristica della legislazione degli imperatori romano-cristiani (C. 1.5.4 pr.: "nihil ex moribus nihil ex legibus sit commune cum ceteris").

Federico II introdusse anche la pena del rogo per gli eretici.

Dopo il 1220, l'imperatore infatti tornò più volte sul problema della repressione ereticale: fino al 1232 con provvedimenti sostanzialmente nuovi, da quell'anno con leggi autonome che talvolta si limitavano a confermare le precedenti, talvolta le integravano.

Nel marzo 1224, da Catania, Federico II inviò al suo legato Alberto di Magdeburgo una nuova costituzione contro gli eretici, affinché fosse pubblicata "per totam Lombardiam" (cap. Cum ad conservandum, in M.G.H., Constitutiones, 1896, nr. 100, pp. 126 s.). Il livello di penetrazione dell'eresia nei comuni lombardi era elevatissimo, in particolare a Milano, "nutrix ac tutrix haereticorum et toti imperio rebellium" (Matteo Paris, 1888, ad a. 1236). La costituzione del 1224 è il primo degli atti di ostilità dell'imperatore nei confronti degli eretici di Lombardia, in uno scontro che si confonderà costantemente con la sua politica anticomunale.

Lo Svevo sosteneva di agire come difensore della Chiesa, un ruolo che da Dio stesso gli sarebbe stato assegnato contra inimicos suae fidei, concedendogli il gladio materiale e la plenitudo potestatis; da questo rapporto diretto con Dio il pontefice, non nominato, sembrava per la prima volta escluso. Federico dichiarava di provvedere in forza dell'autorità 'dell'uno e dell'altro diritto', ovvero del civile e del canonico ("utriusque iuris auctoritate muniti", in M.G.H., Constitutiones, 1896, nr. 100, pp. 126 s.). L'espressione ‒ che ha fatto sospettare un arrogante sconfinamento dell'imperatore nella giurisdizione ecclesiastica, peraltro apparentemente giustificato dalle premesse appena esposte ‒ è meno altisonante se messa in relazione alla concreta e ripetutamente dichiarata finalità della norma: ovvero l'exterminium haereticorum, che il IV concilio lateranense e la stessa legge dell'incoronazione avevano posto come dovere delle autorità temporali, tanto da farne oggetto di giuramento al momento dell'assunzione all'ufficio. Nel dovere di exterminare rientravano, secondo il diritto canonico, tutte le attività legate alla definizione ed esecuzione della pena ("dampnati vero presentibus secularibus potestatibus aut eorum baliuis reliquantur, animadversione debita puniendi", ibid.): e scopo della costituzione catanese era appunto quello di dettare nuove e più severe sanzioni nei confronti dei patarini e di tutti gli eretici, quocumque nomine censeantur. In questo senso, e a buon diritto, l'imperatore poteva dirsi legittimato anche dall'auctoritas iuris canonici.

Le misure previste si segnalavano specialmente per la loro durezza: per la prima volta, una norma imperiale fissava nella morte per vivicombustione (e non nel bando) la pena ordinariamente prevista in relazione al reato di eresia. Gli eretici condannati dal giudice ecclesiastico avrebbero dovuto essere arsi o, altrimenti, sarebbe stata loro troncata la lingua con la quale avevano insultato la fede cattolica e il nome di Dio.

Parte della storiografia ha ravvisato in queste sanzioni il riconoscimento di consuetudini germaniche (Ficker, 1880, p. 181; Maisonneuve, 1942, p. 225); tuttavia, pene cruente come il taglio della lingua erano più consone agli usi bizantini, e la stessa punizione sarà dettata per i bestemmiatori nel Liber Augustalis (Const. III, 91). Per quanto riguarda il rogo, era di fatto, e da tempo, misura adottata contro l'eterodossia: nel secolo precedente gli esempi erano stati numerosi (Havet, 1880, pp. 570 ss.). D'altronde, se si vuol rintracciare un'origine dell'infelice tradizione di bruciare gli eretici, già una costituzione di Diocleziano aveva disposto roghi nella persecuzione dei manichei e la conoscenza della norma ‒ pur non accolta nella compilazione giustinianea ‒ doveva essersi conservata in ambiente ecclesiastico perché tramandata dalla Collatio legum Mosaicarum et Romanarum, o Lex Dei (15.3.6), un'operetta tardoantica di solida tradizione altomedievale. Se poi vi sia stata nella decisione di promulgare la norma l'influenza della Chiesa, o almeno il forte desiderio di compiacere il papa ‒ cui in quegli stessi giorni Federico scriveva per rassicurarlo in merito ai preparativi della crociata ‒, è questione aperta. È stato più volte sostenuto che i pontefici, ben lontani dall'accogliere favorevolmente la disposizione federiciana, l'avrebbero tutt'al più con il tempo tollerata: Onorio III non facendovi alcun cenno, Gregorio IX recependola, senza però mai nominare le fiamme. Fino ad allora, del resto, non si erano mai spinti a definire la pena che il braccio secolare avrebbe dovuto infliggere agli eretici. Attraverso l'uso di espressioni volutamente indeterminate ‒ quali la debita animadversio invocata nei riguardi dei condannati dalla decretale Ad abolendam e dal capitolo 3 del IV concilio lateranense ‒, sembravano aver lasciato carta bianca alle potestà temporali nello scegliere le forme di repressione, entro i limiti di un dovere di purificazione delle proprie terre dall'haeretica pravitas. Animadversio debita poteva essere il bando, che era la pena tipicamente prevista dagli imperatori contro l'eterodossia, ma poteva anche essere il rogo, se un potere locale (come accadeva) l'avesse disposto. Era così formalmente salvaguardato il principio per cui ecclesia non occidit, ma restava tutta da dimostrare un'avversione della Chiesa per la pena di morte, pur mai apertamente invocata.

La stessa iniziativa canonistica di configurare il crimen haeresis come laesa maiestas, di per sé, apriva le porte all'applicazione della pena capitale (per gli eretici prevista solo marginalmente dal diritto romano); e la condanna a morte era ovviamente implicita nell'idea di 'crociata' contro gli eretici (Miccoli, 1985, pp. 689 ss.), per tacere della ferocia nella sua attuazione. Già Pietro II d'Aragona, nel 1197, aveva disposto la pena del rogo (Mansi, 1778, coll. 673 ss.) in una norma troppo sorprendentemente simile nei principi alla decretale Vergentis, di poco successiva, per non far pensare a una influenza romana: tanto più che (fino alla crociata albigese) i re di Aragona erano in rapporti privilegiati con il pontificato e beneficiavano della protezione papale; in modo particolare Pietro, che pochi anni dopo, nel 1204, sarebbe stato incoronato a Roma da Innocenzo III.

Se è vero che la costituzione catanese non è stata inserita nella Compilatio Quinta, né nel Liber Extra, né apertamente citata da Onorio III, è vero anche che sono diversi gli episodi che attestano vi fosse tra papa e imperatore, in quel giro d'anni, non solo una comunanza di intenti, ma anche una complementarità d'azione intorno al problema ereticale (Piazza, 1999, pp. 30 ss.). Basti pensare alla predisposizione del famoso lodo tra Federico II e i comuni, per il quale nel gennaio 1227 Onorio richiedeva a questi ultimi di recepire e osservare tutte le norme promulgate in passato e in futuro contro gli eretici dalla Chiesa romana e dagli imperatori romani, "et specialiter ab ipso imperatore" (M.G.H., Epistolae saec. XIII, 1883, nr. 327, p. 247); e se non c'è ragione per escludere la costituzione catanese dal novero di queste leggi, ve n'è ancor meno per ipotizzare che il papa raccomandasse l'applicazione di norme che disapprovava.

Di eresia si occupa anche, naturalmente, il Liber Augustalis.

Il 1231 e il seguente furono anni cruciali per la repressione dell'eterodossia. La pace di San Germano (agosto 1230) aveva segnato l'inizio di un periodo, tra i pochi, di relativo accordo tra le due massime autorità; la politica antiereticale, ancora una volta, divenne motivo di azioni convergenti.

La lunga assenza del papa aveva favorito persino a Roma lo sviluppo di comunità ereticali, la cui repressione fu decisa e violenta, e diede avvio a una serie di provvedimenti pontifici. Nel gennaio 1231 la costituzione contro gli eretici lombardi, che comminava la pena del rogo, fu inserita nel Registro di Gregorio IX. A febbraio, la bolla Excommunicamus stabiliva che i condannati per eresia dalla Chiesa fossero lasciati al giudizio secolare (dunque arsi) o, se disposti alla penitenza, incarcerati a vita. In quello stesso mese, il papa otteneva dal senatore Annibaldo un editto che, tra le altre durissime misure repressive, disponeva il termine di otto giorni dalla sentenza per la messa a morte del reo. Ancora in febbraio, tra i patarini scoperti a Roma, gli "inconvertibiles" furono bruciati, gli altri incarcerati a Montecassino e Cava dei Tirreni (Riccardo di San Germano, 1725, ad a. 1231, col. 1026). A maggio, Gregorio richiese ai comuni dell'Italia centro-settentrionale la pubblicazione delle statuizioni romane. A novembre, la bolla Ille humani generis ‒ che affidava ai Predicatori la persecuzione degli eretici ‒ fu inviata per la prima volta al priore e al subpriore dei Domenicani di Friesach (Acta Imperii, nr. 624, pp. 499 s.), gettando le basi per il successivo sviluppo dell'inquisizione delegata.

In quei mesi, Federico II ‒ recentemente assolto dalla scomunica inflittagli nel '27 ‒ emanava norme antiereticali come imperatore e come rex Siciliae.

Nonostante l'apparente intesa, la notizia che Federico II nel 1231 fosse sul punto di promulgare un corpus di leggi per il Regno siciliano aveva allarmato il pontefice, al quale evidentemente erano stati anticipati i contenuti. Da Rieti, il 5 luglio, Gregorio IX ammonì l'imperatore a non pubblicare le nuove norme, per non rendersi "persecutore della Chiesa" (Historia diplomatica, III, p. 289). Come si sa, la richiesta del pontefice non venne accolta e, a Melfi, il Liber Augustalis vide ugualmente la luce. Alcuni timori del papa si rivelarono però fondati. Già il proemio, in cui il sovrano espone la propria ideologia politica, dà l'idea di come per Federico i rapporti tra Regno e sacerdozio in Sicilia fossero cosa diversa rispetto all'Impero (Kantorowicz, 1927). Nella sua terra il re difendeva la Chiesa, ma nel farlo la dominava e inglobava.

Allo stesso modo, la repressione ereticale in Sicilia assumeva forme diverse rispetto alle regioni dell'Impero. Anche qui, la costituzione Inconsutilem tunicam (Const. I, 1) ‒ che significativamente apriva il Liber Augustalis ‒ riconosceva l'eresia come crimen publicum e attentato alla maiestas divina; ma, diversamente dal resto dell'Impero, l'inquisitio in materia di eresia era riservata agli ufficiali regi. Se da questa fosse emerso il pur lieve sospetto di una deviazione dalla fede cattolica (è evidente il riferimento a C. 1.5.2.1) sarebbero intervenuti giudici ecclesiastici, i quali, accertata l'eventuale colpevolezza ‒ e ammonito il reo a recedere dall'errore ‒ avrebbero poi nuovamente lasciato il campo all'autorità secolare per l'esecuzione della pena, determinata dalla norma nel pubblico rogo.

Benché la competenza ecclesiastica nella fase del giudizio fosse stata doverosamente salvaguardata, affidare la ricerca degli eretici a ufficiali regi significava, di fatto, avocare al sovrano la repressione dell'eterodossia. Per il Regno, il provvedimento rappresentava un'innovazione legislativa: Ruggero II, pur riservando al monarca la giurisdizione sui crimini ritenuti maggiormente dannosi per la pace sociale, aveva lasciato l'eresia interamente alle corti ecclesiastiche (Caravale, 1998, pp. 157 s.). La disposizione non era però neanche del tutto originale: a Brescia, l'anno precedente, il dovere di inquirere d'ufficio o su denuncia del vescovo era stato incluso nel giuramento del podestà di exterminare gli eretici (Padovani, 1985, pp. 362 s.). Anche Marino da Caramanico, nel glossare il testo federiciano, vedrà in quel giuramento, dovuto dalle saeculares potestates, il fondamento giuridico della competenza affidata agli ufficiali regi. Si trattava, in entrambi i casi, di un'interpretazione estensiva dei doveri assegnati alle autorità civili dal IV concilio lateranense e dalla costituzione del 1220. Interpretazione che creava localmente delle alternative non solo alla tradizionale inquisizione vescovile, ma anche a quella monastica che andava allora muovendo i primi passi.

A partire dal 1233 il sistema fu in parte modificato e la ricerca degli eretici affidata congiuntamente a magistrature regie ed ecclesiastiche. In una lettera del 15 giugno di quell'anno, Federico II comunicò al papa di aver affidato l'inquisitio, per ogni provincia del Regno, a un suo giustiziere e a un prelato, che avrebbero dovuto istruire la causa e redigere un processo verbale in base al quale il sovrano avrebbe inferto la condanna (Historia diplomatica, IV, 1, pp. 435 s.). Quando nel 1234, da Messina, progettò il sistema delle curie regionali fissandone sedi, periodicità e composizione, lo Svevo stabilì anche che in quelle assemblee fosse denunciata dai vescovi la presenza di eretici nelle proprie diocesi. Nelle curie ‒ nelle quali si sarebbero dovuti discutere gli abusi dei giustizieri e ogni possibile violazione di diritti ‒ l'istruzione della causa spettava a un nuntiusspecialis del sovrano, assistito da due vescovi, che avrebbe poi trasmesso gli atti alla Curia regia (Riccardo di San Germano, 1725, ad a. 1234). In tal modo il crimen haeresis era fatto rientrare nella competenza del re: con la conseguenza non solo di soffocare, o controllare, l'ordinaria inquisizione vescovile, ma anche di impedire lo sviluppo in Sicilia di un'inquisizione papale delegata.

La seconda delle due costituzioni dedicata dal Liber alla repressione ereticale, il capitolo Patarenorum receptatores (Const. I, 2), riguardava favoreggiatori degli eretici e chi semplicemente prestava loro fede. La legge del 1220 li aveva colpiti dichiarandoli infames e facendo discendere una serie di incapacità da questa condizione; la nuova norma disponeva pene assai più severe, la confisca dei beni e la relegazione perpetua, oltre a rendere infami anche i loro figli. Questi ultimi, privati di qualsiasi honor ed esclusi dalla testimonianza (nei casi in cui fosse inibita agli infami), per speciale concessione imperiale avrebbero potuto riacquistare la fama originaria, qualora avessero fatto scoprire un eretico.

Seguiva, al titolo terzo, una costituzione di Ruggero II contro gli apostati (cap. Apostatantes; Const. I, 3). Tra apostati ed eretici esisteva una certa confusione anche tra i giuristi; secondo Odofredo, ad esempio, l'apostasia "est species haeresis" (Ruffino, 1973, p. 94). La costituzione sarà confermata a Verona come legge autonoma il 26 giugno 1238 (Historia diplomatica, V, 1, pp. 215 s.).

Quali fossero gli eretici dei quali lo Svevo si preoccupava, è chiarito dallo stesso incipit della norma: anche in Sicilia, il problema di Federico restavano i patarini, i cui "rivoli di perfidia" (Const. I, 1) erano giunti dalla Lombardia a minacciare il suo Regno. Malgrado l'enfasi dei provvedimenti repressivi, però, sappiamo ben poco sulla diffusione dell'eresia nell'Italia meridionale. La presenza di gruppi eterodossi alla fine del XII sec. è testimoniata dagli scritti di Gioacchino da Fiore, ma si tratta di scarse notizie riferite probabilmente a catari; difficile dire se a distanza di qualche decennio il fenomeno fosse divenuto allarmante. Non sembra, peraltro, che prima del '31 il monarca avesse preso iniziative per combatterlo. In quell'anno, in febbraio, la presenza di eretici dalle parti di Napoli e Aversa era stata segnalata dal papa; il vescovo di Reggio e il marescalco del Regno, mandati da Federico "pro capiendi Paterinis", ne avevano scoperti e catturati alcuni (Riccardo di San Germano, 1725, ad a. 1231); ma i roghi, a quel tempo, furono accesi soprattutto per sedare le rivolte di Messina, Siracusa e Nicosia (ibid., ad a. 1233; Annales Siculi, 1866, ad a. 1232). Per questa ragione, allo Svevo, che nel 1233 riferiva di aver arso eretici nel Regno, Gregorio IX rimproverò di essersi nascosto dietro l'accusa di eresia per liberarsi dei propri nemici e di aver dolosamente confuso haeretici ed errantes che avessero offeso la sua "celsitudo", facendoli bruciare tutti (Historia diplomatica, IV, pp. 444 s.). La critica aveva un fondamento nella visione politica della difesa dell'ortodossia fatta propria da Federico II: una difesa che ‒ almeno guardando la sua azione nel Regno ‒ aveva poco a che fare con motivazioni teologiche. Basti pensare che non solo egli aveva mostrato tolleranza nei confronti di ebrei e saraceni, ma, pochi anni dopo la condanna da parte del IV concilio lateranense della dottrina trinitaria di Gioacchino da Fiore, aveva tranquillamente confermato privilegi e donazioni, proprie e dei genitori, al convento gioachimita di S. Giovanni in Fiore (Grundmann, 1977, p. 221).

Il fatto che le profezie gioachimite, e molte pseudogioachimite, siano state quasi subito interpretate in chiave antifedericiana, ha stimolato l'idea di una presunta ostilità tra Federico II e i seguaci di Gioacchino da Fiore. L'abate calabrese aveva previsto l'avvento imminente di un terzo e ultimo stato del mondo, l'età dello Spirito Santo, preceduta da una fase di nuove persecuzioni per la Chiesa. L'Anticristo prossimo venturo fu identificato dai primi esegeti con Federico II; identificazione corrente e fatta propria da Gregorio IX nella celebre decretale Ascendit de mari bestia (dove, con metafora apocalittica, "bestia" designava l'imperatore). In realtà, sarà solo dopo la scomunica del 1239, quando il coinvolgimento dei Francescani nella politica antimperiale di Gregorio IX scatenerà la violenta reazione dello Svevo, con la persecuzione e la cacciata dei Mendicanti dalle terre del Regno, che anche i gioachimiti resteranno coinvolti nello scontro (Berg, 1990).

Non era la salvaguardia del dogma, in definitiva, ciò che più interessava Federico, quanto la difesa dell'ordine. Considerava parte di un'unica categoria "perversores fidei et rebelles imperii" (Historia diplomatica, IV, 1, p. 410): chi parteggiava per i nemici dell'Impero diveniva a sua volta eretico; fino al paradosso, cui lo Svevo giungerà nel 1239, di accusare il papa stesso, schieratosi con i Lombardi, di essere "defensor et publicus consiliarius haereticorum" (ibid., p. 468). Davvero, nell'"ideologia antiereticale" dello Svevo, l'eresia come crimen laesae maiestatis "si mostrava in tutta la sua ambivalenza politico-religiosa" (Merlo, 1995, p. 63).

Così come in Sicilia anche in Germania, nei primi anni di regno di Federico II, non c'erano state iniziative rilevanti contro gli eretici, se non occasionali condanne. Dal 1231, invece, anche per le regioni tedesche furono prese misure più energiche, da parte sia imperiale sia pontificia. Il papa diede poteri speciali d'inchiesta a un prelato di Magonza, Corrado di Marburgo, che ne abusò brutalmente, tanto da creare un clima di terrore, fino a quando non fu assassinato nell'estate del 1233. Contestualmente, con la bolla Ille humani generis mandata ai Frati predicatori di Friesach (27 novembre 1231; Acta Imperii, nr. 624, pp. 499 s.) e poi alle autorità episcopali di Salisburgo e Magonza (nel 1232), Gregorio IX organizzava un'inquisizione speciale delegata. In quello stesso periodo veniva avviata una vera e propria crociata contro gli Stedinger, una comunità di contadini che avevano rifiutato di pagare tributi all'arcivescovo di Brema ed erano stati fatti passare per eretici, subendo così un massacro.

Nel marzo 1232, da Ravenna, Federico II promulgò il Mandatum de haereticis Teutonicis persequendis (cap. Commissi nobis, in M.G.H., Constitutiones, 1896, nr. 158, pp. 96 s.), noto come 'editto di Ravenna'. A rigore, come rilevato dal Weimar (1997, p. 86), non si trattava di una legge ma di un vero e proprio mandatum, indirizzato a principi, ecclesiastici, signori laici e pubbliche autorità. Sarà confermato a Cremona il 14 maggio 1238: da quel momento le norme dell'editto saranno estese a tutto l'Impero, e tra i destinatari saranno inseriti i podestà (Ficker, 1880). Altre conferme si avranno a Verona il 26 giugno 1238 (Historia diplomatica, V, 1, pp. 215 s.) e a Padova il 22 febbraio 1239 (ibid., pp. 279 s.).

Con il mandato, Federico II aggiungeva il crisma dell'autorità imperiale all'opera degli inquisitori, svolta in Germania in virtù dei decreti di Gregorio IX. Esistono, non a caso, evidenti affinità tra la costituzione Commissi nobis e la decretale Excommunicamus di Gregorio IX, del febbraio 1231 (X 5.7.15; M.G.H., Epistolae saec. XIII, 1883, nr. 399, pp. 318 ss.).

La norma federiciana stabiliva, prima di tutto, che gli eretici condannati dalla Chiesa e assegnati al giudizio secolare fossero puniti animadversione debita, un eufemismo che ormai indicava tecnicamente la pena capitale. Se, per paura della morte, il reo avesse deciso di tornare all'ortodossia, sarebbe stato comunque punito con il carcere perpetuo, come stabiliva la decretale del 1231, riprendendo a sua volta un canone del concilio di Tolosa del 1229 (cap. 11, in Mansi, 1779, coll. 191-205).

La pena di morte veniva inflitta non solo agli eretici, ma anche ai favoreggiatori e a chi, dopo aver abiurato nel timore della morte, fosse tornato all'eresia. A eretici e favoreggiatori era anche negata la possibilità di presentare appello, e i loro discendenti fino alla seconda generazione non avrebbero potuto ricevere benefici temporali, uffici pubblici e honores; una distinzione era fatta per i figli ortodossi che avessero collaborato con gli inquisitori, svelando le colpe paterne. Anche questa disposizione ‒ contenuta nel § Ceterum, che avrà molta fortuna tra i giuristi pur non essendo stato inserito nel Corpus Iuris (Bellomo, 1978, p. 21) ‒ era complementare a quanto stabilito dalla decretale di Gregorio IX, con la quale erano stati esclusi da ogni "ecclesiasticum officium seu beneficium" (M.G.H., Epistolae saec. XIII, 1883, nr. 399, pp. 318 ss.) i figli degli eretici e dei loro favoreggiatori fino alla seconda generazione.

L'ultimo capoverso era dedicato ‒ come si è detto ‒ alla speciale protezione imperiale sui frati degli Ordini predicatori, mandati dal papa contro gli eretici. Alle autorità pubbliche destinatarie del mandato gli accusati sarebbero stati affidati in custodia, fino a quando non avessero ricevuto la propria condanna. In sostanza, Federico II concedeva in Germania ‒ con l'appoggio alle iniziative di Gregorio IX ‒ ciò che in Sicilia aveva impedito avocando a sé la competenza sul crimen haeresis, ovvero la nascita di un'inquisizione delegata dalla Curia romana; a riprova di una differente concezione nei panni di imperatore o di rex Siciliae, dei rapporti tra i due gladii.

Il mese precedente all'emanazione del mandato (22 febbraio 1232), e sempre da Ravenna, Federico II aveva confermato le norme antiereticali della constitutio in basilica beati Petri (cap. Incipiunt capitula), promulgandole in forma di legge autonoma, con l'aggiunta di un breve capitolo finale. La nuova norma inserita (cap. Adicimus insuper) e il mandatum per i territori tedeschi pubblicato in marzo (cap. Commissi nobis) saranno le ultime disposizioni antiereticali originali dello Svevo che, negli anni seguenti, non farà altro che riproporre costituzioni già emanate, combinando leggi imperiali a norme dettate per la Sicilia o la Germania, che venivano così estese a tutto l'Impero.

A partire dalla promulgazione ravennate il capitolo Adicimus insuper fu annesso stabilmente in calce ai capitoli 6 e 7 della legge del 1220. Era un testo conciso che dettava una regola procedurale ‒ un eretico poteva esser fatto condannare da un altro eretico ‒ e l'ennesima pena in capo a eretici e favoreggiatori: le loro case dovevano essere distrutte e mai più ricostruite, una sanzione consueta nelle legislazioni antiereticali.

La legge dell'incoronazione aveva dichiarato infames tutti gli eretici e li aveva espressamente privati della capacità di testimoniare in giudizio. Il capitolo Adicimus insuper introduceva una deroga sostanzialmente corrispondente alla disciplina romanistica: il Codice giustinianeo concedeva ai seguaci delle eresie meno gravi e meno pericolose di testimoniare in cause in cui non fossero coinvolti ortodossi (C. 1.5.21; la novella 45 di Giustiniano aveva anche concesso la facoltà di testimoniare quando una parte in causa fosse cattolica, purché a suo favore, ma questa disposizione non fu recepita dallo Svevo).

Anche il secondo provvedimento sembrerebbe affine, nel contenuto, a una legge giustinianea (C. 1.5.17) che, con riguardo alle sinagoghe dei samaritani, prevedeva che venissero rase al suolo per non essere mai più ricostruite (Dilcher, 1987, p. 311); si tratta, però, di una delle costituzioni greche del Codice ‒ che si ritiene nel Duecento non circolassero ‒ ed è difficile che abbia potuto ispirare il capitolo federiciano (Padovani, 1985, p. 359). Non mancavano, del resto, modelli più recenti.

Dalle Assise di Clarendon (1166) in poi, la distruzione delle case che avessero ospitato eretici era stata prescritta più di una volta, da norme canoniche, statuti comunali e di-sposizioni imperiali (ad esempio, da Ottone IV nel Mandatum contra haereticos Ferrarienses del 1210). Le fonti potevano insomma essere diverse: la prossimità cronologica suggerisce una relazione della norma con l'analoga disposizione contenuta nell'editto romano del senatore Annibaldo, quasi contemporaneo alla decretale Excommunicamus (febbraio 1231) e ispirato da Gregorio IX. Il testo, a sua volta, citava quasi letteralmente la decretale Ad eliminandam di Innocenzo III del 1207.

Come si è detto, il 14 maggio 1238 Federico II confermava ed estendeva a tutto l'Impero l'editto di Ravenna (Historia diplomatica, V, 1, p. 201).

Il 26 giugno dello stesso anno, da Verona, promulgava per l'Impero la costituzione Inconsutilem tunicam (Const. I, 1) come legge autonoma; confermava l'editto di Ravenna; confermava ancora una volta le norme antiereticali contenute nella Constitutio in basilica beati Petri facendole introdurre dalla costituzione Patarenorum receptatores (Const. I, 2) e seguire dal capitolo Adicimus insuper (Historia diplomatica, V, 1, pp. 215 s.).

Da Padova, infine, il 22 febbraio 1239 rinnovava le conferme (ibid., pp. 279 s.). Poiché le norme federiciane saranno successivamente recepite dalla Chiesa secondo la formulazione padovana ‒ da Innocenzo IV, Alessandro IV e Clemente IV ‒, quest'ultima può essere considerata come una sorta di "codice imperiale sull'eresia", che circolava autonomamente e con un contenuto più ampio della legislazione antiereticale inserita nei libri legales (Bellomo, 1978, p. 21).

La promulgazione padovana rappresentò anche l'ultimo atto della politica legislativa antiereticale promossa da Federico II, che il mese dopo ‒ il 24 marzo 1239 ‒ fu colpito dalla scomunica di Gregorio IX.

Con la scomunica infertagli nel 1239, Federico II cessò la promulgazione di norme antiereticali. Gli ultimi provvedimenti, se emanati per disporre benevolmente Gregorio IX nei propri riguardi, non avevano sortito l'effetto desiderato. Da allora, il contrasto con il Papato sarà totale e la repressione dell'eterodossia non più terreno di convergenza politica: al punto che con l'ultima scomunica, accompagnata dalla deposizione dello Svevo nel corso del concilio di Lione del 1245, l'accusa di eresia sarà rivolta nei confronti dello stesso imperatore.

Da difensore dell'ortodossia Federico diventerà dunque "sospetto eretico" ("haeresi […] difficilibus et evidentibus argumentis suspectus", in M.G.H., Constitutiones, 1896, p. 509), sulla base di argomentazioni davvero poco stringenti: essersi circondato di musulmani assumendone i costumi corrotti, aver più volte spergiurato, aver impedito a dei prelati di prender parte a un concilio. 'Peccati' di carattere anzitutto politico: equiparando 'eretici' e 'ribelli' in modo non dissimile dallo Svevo, Innocenzo IV qualificava come eterodossia il dissenso dell'imperatore.

Si è parlato a questo proposito di "eresia politica" e di una correlazione tra eresia e ghibellinismo. Quanto ‒ a dispetto delle posizioni ufficiali ‒ l'azione di Federico II possa aver stimolato la tendenza degli eretici a schierarsi per il partito filoimperiale, è tema ampiamente dibattuto (cf. da ultimo Orioli, 1994); parte della storiografia ha ben evidenziato come di un rapporto tra eresia e ghibellinismo si possa parlare solo per l'epoca successiva alla morte di Federico II, ovvero la seconda metà del secolo (ibid., p. 430; Merlo, 1995, p. 59). Tuttavia, le ragioni per cui si è intravisto una sorta di incoraggiamento alle aspettative dei movimenti eterodossi nelle istanze riformatrici dello Svevo in campo religioso, o in una sua negligente applicazione pratica della propria disciplina antiereticale (Volpe, 1997, pp. 119 ss.; Manselli, 1980, p. 316), risiedono su un dato di fatto incontrovertibile: l'azione antiereticale di Federico II espresse il suo aspetto migliore nella legislazione, non in concreti interventi repressivi. Nell'esecuzione delle norme il sovrano svevo realizzò ‒ per quel poco che è dato saperne ‒ operazioni politicamente sbilanciate a danno dei propri avversari, concentrando la propria azione contro i comuni ribelli dell'Italia centrosettentrionale e mandando al rogo i rivoltosi nel Regno di Sicilia. Fu troppo labile il confine tra persecuzione dei suoi oppositori e persecuzione degli eretici per valutare le dimensioni effettive di quest'ultima.

Al contrario, come legislatore ‒ e specialmente come legislatore imperiale ‒ Federico II si inserì nel solco della tradizione giustinianea, inamovibilmente legato al ruolo di defensor ecclesiae e quindi di protettore dell'ortodossia. I dissapori con i pontefici non alterarono questo stato di cose: la sua produzione normativa fu, caso mai, un mezzo per blandirli e procedette costantemente in parallelo con la contemporanea legislazione della Chiesa, seguendo il passo delle innovazioni e delle esigenze del diritto canonico. Gli esempi sono numerosi: fece propria la costruzione innocenziana dell'eresia come crimen laesae maiestatis aeternae, promulgò i canoni lateranensi in forma di costituzione imperiale, appoggiò l'inquisizione dei Predicatori in Germania. E ancora: legittimò il rogo per gli eretici mentre il pontefice richiedeva pene più dure alle autorità secolari, uniformò man mano alla disciplina canonistica il regime delle incapacità per i figli degli eretici e dei favoreggiatori, ordinò la distruzione delle case degli eretici nello stesso momento in cui veniva prevista dallo statuto romano.

Per questa ragione, a ben vedere, anche il fondamento romanistico piuttosto evidente nei provvedimenti ‒ che avevano quasi tutti un precedente nella legislazione teodosiana e giustinianea ‒ non era effetto diretto della tecnica legislativa federiciana, quanto prodotto per il tramite della normazione canonica di volta in volta recepita.

Fu nelle Costituzioni melfitane che lo Svevo espresse maggiore autonomia, come se, nel suo Regno, non si sentisse più tenuto a rispettare quella tradizionale preminenza papale in materia di eresia per la quale nelle vesti imperiali riteneva di dover mostrare ossequio. Riservando ai propri ufficiali l'inquisitio sugli eretici, da un lato si fornì di un ulteriore strumento per colpire i propri avversari ‒ e non mancò di servirsene ‒, ma, dall'altro, poté evitare che nelle sue terre si verificassero gli eccessi che l'inquisizione delegata avrebbe prodotto in Germania.

fonti e bibliografia

 Riccardo di San Germano, Chronicon, in R.I.S., VII, 1725 (anche in M.G.H., Scriptores, XIX, a cura di G.H. Pertz, 1866, pp. 321-384).

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