ERCOLE I d'Este, duca di Ferrara Modena e Reggio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 43 (1993)

ERCOLE I d'Este, duca di Ferrara Modena e Reggio

Trevor Dean

Nacque a Ferrara il 24 ott. 1431 da Niccolò (III), signore di Ferrara, e dalla terza moglie di questo, Rizzarda di Tommaso di Saluzzo. Al momento della nascita di E. Niccolò aveva già altri figli, tutti illegittimi, dei quali prediligeva Leonello e Borso, nati dalla relazione con Stella Tolomei. Leonello già nel 1429 era stato designato dal padre a succedergli nella signoria e questa decisione fu confermata da Niccolò nel testamento redatto il 26dic. 1441, poco prima della mrte.

Poco si sa della giovinezza di Ercole. Fu armato cavaliere, insieme con i fratelli, nel 1433 dall'imperatore Sigismondo durante il soggiorno di questo a Ferrara; Guglielmo Capello si occupò della sua istruzione; nel 1443 sua madre lasciò Ferrara in seguito alla successione di Leonello; nel 1445 Leonello inviò E. insieme col fratello minore Sigismondo presso la corte di Alfonso re di Napoli, perché facessero compagnia al figlio di questo, Ferrante. Rimasero a Napoli per molti anni, e lì E. si fece una certa fama come cavaliere, ma nel 1460 abbandonò Ferrante, succeduto al padre nel 1458, per unirsi alle truppe di Giovanni d'Angiò che avevano invaso la Puglia. Ferrante rimase colpito dall'ingratitudine di E., passato dalla parte del suo più pericoloso avversario, soprattutto perché questi era stato (a detta di papa Pio II) suo compagno non solo di caccia, ma in tutti gli affari segreti. All'epoca ci fu chiaramente il sospetto che Borso, dal 1450 signore di Ferrara, in quanto coordinatore italiano dei negoziati in favore dei Francesi, avesse ordinato ad E. di unirsi a Giovanni d'Angiò, il tutto col consenso di Venezia. Quando però, nel 1463, cominciò a profilarsi il fallimento della spedizione angioina Borso richiamò E. e Sigismondo a Ferrara, delegandoli in qualità di governatori rispettivamente a Modena e a Reggio.

In seguito E. fu anche ingaggiato come condottiero da Venezia, e poté svolgere così un ruolo di sostegno militare all'azione antimedicea promossa da Borso, da Venezia e da Bartolomeo Colleoni nel 1466-67. Nella battaglia del 23 luglio 1467 combattuta presso Molinella (Bologna) tra il Colleoni e le forze difensive fiorentine, E. combatté valorosamente per salvare il Colleoni e venne ferito in modo grave al piede sinistro: il che lo rese zoppo e gli procurò forti dolori per il resto della vita. A causa di questa azione, E. fu ricevuto con onore durante la sua visita a Venezia nel 1468, e nel 1469 venne nuovamente assoldato come condottiero dai Veneziani. Sempre nel 1469 E., che era ancora governatore di Modena, fu invitato a partecipare ad un complotto contro Borso che il feudatario modenese Gian Ludovico Pio veniva tramando con l'appoggio non ufficiale di Piero de' Medici e di Galeazzo Maria Sforza. Ad E. venne offerta una grande condotta, territori nelle Romagne e l'esistente signoria estense, ma egli denunciò il complotto a Borso e i cospiratori vennero arrestati. Per questo nel 1470 venne premiato da Borso con la cooptazione nel Consiglio segreto.

Il rifiuto di E. di cedere alle lusinghe dei cospiratori, aggiungendosi alle sue precedenti azioni antimedicee e contro il re Ferrante, lo lasciò però sguarnito di alleati esterni (eccetto Venezia) nella crisi per la successione che insorse nel corso dell'estate del 1471, quando fu chiaro che Borso era moribondo. Il rivale di E. per la successione, Niccolò figlio di Leonello, che al momento della morte del padre era stato escluso dalla successione perché troppo giovane, aveva il sostegno di Milano, Mantova e forse di Lorenzo de' Medici, ma E. riuscì ad ottenere il controllo dell'accesso a Borso, che venne invece negato a Niccolò, ed ebbe inoltre il decisivo sostegno di Venezia, che spostò le proprie truppe in posizioni donde potessero venirgli in appoggio e gli inviò anche del denaro. In un clima di violenze in città e movimenti di truppe lungo i confini, Niccolò di Leonello lasciò Ferrara alla volta di Mantova, benché non sia chiaro se fosse spinto dalla paura di venir assassinato o se seguisse un ordine di Borso. Alla morte di Borso, avvenuta il 19 ag. 1471, E. veniva così a trovarsi in una posizione tale da garantirgli la successione mediante l'occupazione militare della città.

La successione di E. fu contraddistinta da un cerimoniale alquanto in sordina (come dimostrano l'insediamento nella cattedrale e i funerali di Borso), nonché da concessioni al popolo (amnistie, elargizioni di cibo) e da azioni contro i sostenitori di Niccolò. Molti vennero dichiarati ribelli e non furono amnistiati fino al 1493; un complotto scoperto a novembre portò a molte esecuzioni; ci fu poi un tentativo di far avvelenare Niccolò, mentre Alberto, fratellastro di E., venne mandato in esilio a Napoli nel 1474. Solo nel 1472 E. riuscì ad assicurarsi dal papa, signore feudale di Ferrara, il rinnovo del titolo ducale, concesso per la prima volta a Borso ed ora confermato ad E. e ai suoi legittimi eredi maschi fino alla terza generazione contro un censo annuo di 7.000 fiorini.

Negli affari interni le prime azioni di E. rivelano un marcato senso di insicurezza (sostituì infatti funzionari chiave, ed usò una guardia armata) e danno quasi subito un indizio di quelli che saranno poi alcuni dei suoi interessi permanenti, in particolare la caccia (nel 1472 creò un grande parco per la caccia a nord della città, chiamato il Barco), l'attività edilizia (iniziarono i lavori nel cortile ducale e sugli edifici della piazza di Ferrara) e la devozione religiosa: nell'Epifania del 1473 diede inizio alla prassi, in seguito ripetuta quasi ogni anno, di percorrere la città "cercando la sua ventura" (doni in natura). Anche la spiccata inclinazione di E. per intrattenimenti cavallereschi e cortesi e per l'attiva partecipazione alle festività carnevalesche risultò immediatamente evidente.

Negli affari esteri cominciò in questi primi anni il ribaltamento del rapporto d'amicizia con Venezia e del rapporto di ostilità col re Ferrante. Nell'agosto 1472 venne concluso un accordo matrimoniale tra la figlia di Ferrante, Eleonora, ed Ercole. L'effettivo scioglimento, dopo l'alleanza di Napoli con Venezia, della lega tra Milano, Firenze e Napoli, nonché i timori di E. per un attacco da Milano e la preparazione da parte del Colleoni di un'altra spedizione contro i Medici erano tutti fattori che gli facevano sembrare auspicabile un'alleanza con Napoli: presto però dovevano insorgere tensioni tra Venezia e Napoli a causa di Cipro e in seguito Venezia dichiarò che il matrimonio napoletano di E. era stato un tradimento della loro amicizia. Tale matrimonio avvenne per procura il 1º nov. 1472, mentre venivano rinviati i negoziati sulla dote. Nel maggio 1473 Sigismondo, fratello di E., andò a Napoli per prendere Eleonora e concludere i negoziati sulla dote. Si pattuì la cifra di 60.000 ducati, anche se il negoziatore di E. insistette per far scrivere sui documenti ufficiali una cifra più alta, pari a 80.000 ducati.

Il corteggio di Eleonora fu festeggiato durante tutto il viaggio da Napoli, e raggiunse Ferrara solo il 3 luglio. Qui la sposa venne salutata da complicate scene allegoriche e da un ricevimento nel palazzo estense al suono di numerosi flauti e trombe. Fecero seguito una messa nella cattedrale ed una settimana di festeggiamenti di vario genere, comprendenti giostre, banchetti e danze. Presto Eleonora diede alla luce la prima figlia, Isabella (maggio 1474), seguita da una seconda (Beatrice, nata nel giugno 1475), prima di partorire il primo maschio, Alfonso (luglio 1476), la cui nascita venne celebrata con una grande festa. Seguirono altri quattro figli maschi: Ferrante nel settembre 1477, Ippolito nel marzo 1479; Sigismondo nel settembre 1480; e Alberto nell'ottobre 1481. E. ebbe anche due figli illegittimi: Lucrezia, natagli prima del matrimonio, da Ludovica Condulmieri, e Giulio, figlio di Isabella Arduini. Eleonora ebbe un ruolo attivo anche nell'amministrazione e governo dei territori estensi.

Niccolò di Leonello non aveva peraltro abbandonato ogni speranza di cacciare E. da Ferrara. Nel giugno 1476 si levarono a Ferrara e a Modena voci che minacciavano, non sempre con fondamento, appoggio a Niccolò, mentre si stava preparando un colpo di Stato apparentemente con il sostegno di Ludovico Gonzaga. E. preferì ignorare gli avvertimenti che gli vennero dati. Il 1º sett. 1476 Niccolò, avendo appreso da una spia a Ferrara che E. era in procinto di partire per la sua villa di campagna a Belriguardo, fece imbarcare una compagnia di diverse centinaia di sostenitori armati che scesero su barche lungo il Po, fino a Ferrara, e penetrarono in città attraverso un varco nelle mura lasciato temporaneamente aperto dai lavori in corso. Con l'occupazione della piazza, Niccolò si aspettava che la città si sollevasse e lo appoggiasse, ma la reazione generale fu di paura e di fuga, invece che di benvenuto. E. comunque, ricevuti rapporti che esageravano il successo di Niccolò, si ritirò fino a Lugo per raccogliervi delle truppe. I suoi fratelli rimasti a Ferrara incoraggiavano frattanto la resistenza, e se ne misero a capo, riuscendo presto a scacciare gli invasori, molti dei quali vennero catturati in seguito. Le condanne furono numerose: Niccolò fu decapitato senza che venisse concesso al pubblico di assistere all'esecuzione; lo stesso accadde ad un parente più lontano, Azzo di Gerardo d'Este; più di 30 insorti furono impiccati; 280 vennero condannati alla mutilazione. Siccome però molti di loro venivano da "bone famiglie", ci si limitò a multarli lasciandoli liberi. Stando alla lettera del 4 settembre a Ludovico Gonzaga (che protestava la propria estraneità ai fatti, il che E. finse di credere), E. avrebbe veramente voluto evitare l'esecuzione di Niccolò, ma, nel timore di ulteriori congiure, aveva finito col preferire "la salute nostra et de li nostri a la vita de uno solo". In ogni modo lo aveva fatto seppellire "honoreficentissimamente", con la testa ricucita al corpo e tutta la pompa di un funerale di Stato.

Secondo il Frizzi, questo tentativo di colpo di Stato aggravò i crescenti sospetti tra E. e Venezia, poiché molti seguaci di Niccolò venivano dal Veneto e alla loro entrata in Ferrara si erano sentite grida di "Marco, Marco". E. cercò allora alleati altrove, promettendo il figlio Alfonso in marito ad Anna Sforza nel 1477 e la figlia Lucrezia in moglie ad Annibale Bentivoglio nel 1478. Al tempo stesso coltivava il rapporto coi Gonzaga, che presto doveva sfociare nell'accordo per il matrimonio di Isabella con Francesco Gonzaga. Venezia tuttavia fece una dichiarazione formale di completa estraneità al colpo di Stato e le relazioni diplomatiche continuarono esteriormente cordiali: nell'ottobre del 1476 Venezia funse da madrina al battesimo di Alfonso e ancora alla fine del 1479 diede assicurazioni ad E. della propria buona disposizione nei suoi confronti. Cionondimeno risulta abbastanza chiaro l'avvicinamento di E. a Milano e a Firenze, mentre i rapporti tra Milano e Venezia, che erano ancora alleate, si facevano tesi nel 1477. E. si rivolse allora a Lorenzo de' Medici per consultazioni sull'evolversi degli eventi a Milano, lo invitò a far da padrino a suo figlio Ferrante e mandò truppe a dar man forte ai Milanesi nella riconquista di Genova (azione da cui invece si astenne Venezia). Offrì inoltre asilo a Carlo Manfredi, che era stato estromesso dalla signoria di Faenza dal fratello, di concerto con Venezia.Questi segni di una spaccatura dell'alleanza tra Milano, Venezia, Firenze e Ferrara e di tensione tra E. e Venezia furono in parte occultati dalla guerra che oppose Firenze ed i suoi alleati a papa Sisto IV e a re Ferrante (1478-80). La lega si ritrovò priva di un comandante militare di rango adeguato e prese in considerazione la nomina di E., nonostante la sua posizione fosse compromessa dal rapporto di vassallaggio col pontefice e dal rapporto di parentela acquisito col re di Napoli. Inoltre Venezia era riluttante a consentire che E. avesse interessi in comune con altri Stati italiani ed infine rifiutò di dare il proprio contributo alla sua condotta. E. comunque era incline ad accettare il comando, e dopo difficili trattative risolte solo dall'intervento personale di Lorenzo (anch'egli membro della lega) si avviò alla volta di Firenze, concludendovi il contratto per una condotta triennale in qualità di capitano generale col compenso di 60.000 fiorini in tempo di guerra (E. però insistette affinché nel contratto risultasse la cifra di 70.000 fiorini). La conduzione della guerra provocò notevole delusione a Firenze, specie quando E. non riuscì a difendere Monte San Savino (novembre 1478) e perché preparò con evidente lentezza l'attacco contro Roberto Sanseverino quando questi mosse contro Pisa (aprile 1479) e, infine, soprattutto perché nel giugno 1479 scoppiò una vera battaglia per la spartizione del bottino tra le sue truppe e quelle di Federico Gonzaga: perfino la tenda di E. venne saccheggiata e lui stesso per poco non rimase ferito. Come conseguenza, le truppe al comando di Federico Gonzaga dovettero venir separate da quelle comandate da E., con gravi conseguenze per la strategia bellica della lega, che non poté raggruppare le proprie forze e fece rimanere in ozio E., responsabile di quanto restava dell'esercito, accampatosi a Poggio Imperiale. Ad ogni modo la presa di Tortona in agosto ad opera del Sanseverino obbligò E. a recarsi a Milano per rinforzarvi la resistenza. Nell'ottobre era di ritorno a Ferrara. Sperava di essere confermato come capitano generale della lega dopo la conclusione della pace (marzo 1480), ma in realtà la sua carriera militare si era ormai conclusa.

Venezia abbandonò la lega in risposta ai negoziati segreti di pace promossi dai Fiorentini nel 1479-80, e tra il febbraio e l'aprile 1480 concluse una pace separata e l'alleanza con il pontefice. E. si ritrovò allora a far parte dell'alleanza contrapposta formatasi tra Firenze, Milano e Napoli: tale posizione venne suggellata dal fidanzamento della figlia Beatrice con Ludovico Sforza (aprile 1480) e di Isabella con Francesco Gonzaga (maggio 1480). Fu questo lo sfondo globale del progressivo peggioramento dei rapporti tra Ferrara e Venezia negli anni 1480-81, che portò alla guerra di Ferrara (1482-1484), il cui esito fu veramente disastroso per Ercole.

Non è facile comprendere le ragioni che portarono allo scoppio di questa guerra. Tra i tardi anni '70 e i primi anni '80 erano sorte una serie di dispute tra Venezia e Ferrara: Venezia aveva presentato le proprie rimostranze per la produzione illegale di sale a Comacchio, per problemi di confine nel Polesine di Rovigo, per violazioni degli accordi che regolavano le relazioni commerciali tra le due città e per il cattivo trattamento subito dal suo console (visdomino) a Ferrara. Dal canto suo E. lamentava le troppe immunità di cui i Veneziani godevano a Ferrara e l'eccessivo rigore con cui il visdomino perseguiva il contrabbando, nonché i dazi imposti da Venezia sui prodotti ferraresi. Tutti questi problemi erano insorti di frequente anche in passato e probabilmente si sarebbero potuti risolvere ancora una volta tramite negoziati, come era evidente desiderio di E., se solo fosse esistita la volontà politica di farlo. Nell'impedire la soluzione diplomatica però svolse un ruolo determinante il nuovo alleato di Venezia, Sisto IV, o meglio, suo nipote Girolamo Riario, anche se certo vi ebbe parte la feroce ostilità del pontefice verso Napoli. Nel settembre 1481 il Riario visitò Venezia stabilendovi contatti segreti: senza il sostegno autorevole del papa in cambio dell'aiuto veneziano contro Napoli è chiaro che Venezia non avrebbe mai dichiarato guerra ad una città membro dello Stato pontificio.

Le prime mosse ostili furono compiute dai Veneziani, con l'erezione di "bastie" entro il Polesine di Rovigo (novembre 1481) e lo spiegamento di truppe lungo l'Adige. E. rispose con contromisure puramente difensive, migliorando le fortificazioni di confine ed aumentando le guarnigioni, mentre i suoi alleati esercitavano pressioni diplomatiche tanto su Roma che su Venezia. Quando Venezia, che si diceva fosse decisa ad una rottura con E., ne respinse l'offerta di risolvere la disputa tramite negoziati, gli alleati di quest'ultimo cominciarono ad inviargli aiuti militari; tuttavia le difese di Ferrara si rivelarono presto inadeguate a resistere ad un attacco su due fronti (dal fiume e via terra) quale quello preparato da Venezia. A seguito della strabiliante offerta di annettersi Ferrara, che il pontefice fece a Venezia nel maggio 1482, il comandante veneziano Roberto Sanseverino fece una mossa audace e rapida, attaccando e prendendo Melara e Bergantino sul Po, mentre la flotta veneziana si impadroniva di Adria e di Comacchio. L'inadeguatezza delle difese ferraresi consentì al Sanseverino di continuare ad avanzare durante l'estate del 1482, occupando dapprima i capisaldi lungo la riva settentrionale del Po di Venezia (dove incontrò una resistenza prolungata solo a Ficarolo) e volgendosi poi alla conquista del Polesine (Rovigo, Lendinara, Badia).

All'avanzata veneziana facevano riscontro una serie di scacchi dei Ferraresi: truppe veneziane intercettarono in Romagna i rinforzi inviati da Napoli, impedendone l'arrivo; il duca d'Urbino, comandante delle truppe alleate, morì; la peste fece la sua comparsa a Ferrara, e lo stesso E. cadde ammalato. L'avanzata veneziana fu rallentata per un po' dalla resistenza ferrarese lungo il Po, ma alla fine in novembre il Sanseverino attraversò il fiume e stabilì delle basi da cui compiere incursioni fin quasi alle porte della città. La stella di E. toccò in questa occasione il suo punto più basso: egli era seriamente malato ed Eleonora si trovò a dover fare pubblicamente appello ai principali cittadini di Ferrara per rafforzare la loro determinazione a continuare la lotta. Con l'inverno le sorti di E. migliorarono: la sua salute si ristabilì, il papa abbandonò Venezia unendosi alla lega e inoltre arrivarono a Ferrara altri aiuti militari dai suoi alleati, in particolare dal duca di Calabria. Tali rinforzi, uniti ad un potenziamento delle difese cittadine, consentirono ad E. di resistere agli attacchi del Sanseverino del marzo 1483; in seguito il teatro del conflitto si spostò in Lombardia, dove la lega aprì un secondo fronte contro Venezia, mossa che peraltro lasciò E. privo di forze sufficienti a sferrare un contrattacco per cacciare i Veneziani dal Polesine. Attorno a Ferrara l'azione si andava frammentando in razzie e schermaglie, e l'unico atto degno di nota fu la riconquista ferrarese di Comacchio. La lega però era indebolita da dissensi tra i suoi comandanti, dalla mancanza di determinazione e di un interesse comune, dalle diserzioni e dai problemi di vettovagliamento. Anche se la lotta riprese nel 1484 dopo la tregua invernale, tutte le parti erano ormai desiderose di giungere alla pace.

Come nella guerra dei Pazzi, la solidarietà all'interno della lega venne a mancare non appena ebbero luogo trattative segrete. In questo caso chi ne fece le spese fu E., poiché Ludovico Sforza e il duca di Calabria, che erano in disaccordo tra di loro, non insistettero affinché Venezia restituisse tutti i territori che aveva occupato. Mentre la situazione si veniva chiarendo, Lorenzo de' Medici non mancò di notare il parallelismo tra la propria posizione nel 1479 e quella di E.; pertanto gli consigliò di mettersi nelle mani dei nemici, com'egli stesso aveva fatto. E. invece accettò, sbagliando, le assicurazioni dei suoi due alleati, col risultato che nella pace conclusa a Bagnolo il 7 agosto fu consentito a Venezia di tenersi il Polesine e di vedersi confermati tutti i privilegi di cui già godeva a Ferrara.

Per lo Stato estense le conseguenze della guerra furono serie: perdite territoriali, migrazioni di massa - soprattutto da Modena e da Reggio - determinate dalla carestia, devastazioni di proprietà e di colture, pesante indebitamento ed inflazione, donde il crescente disinteresse di E. per le faccende di governo e la ricerca di una posizione neutrale nei successivi conflitti italiani. Nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, E. si assentò più volte da Ferrara, recandosi prima a S. Maria di Loreto, poi a S. Maria delle isole Tremiti per adempiere ad alcuni voti; andò quindi a Modena "a sollazo". Nel 1485 si portò a Venezia per un tentativo di definire il problema dei confini nel Polesine, proseguendo poi per le terme del Monferrato. Nel 1487 annunciò in lacrime ad un gruppo di alti funzionari l'intenzione di recarsi in pellegrinaggio a Santiago di Compostella, ma riuscì a raggiungere solo Milano dove il papa gli impose di fermarsi: questo fatto riflette un sospetto largamente diffuso tra gli altri Stati italiani, per cui il pellegrinaggio sarebbe stato solo un pretesto per visitare il re di Francia e persuaderlo ad intervenire in Italia, forse al fine di ricuperare il Polesine. A quel punto, E. cambiò meta e andò a Roma, dove ottenne l'approvazione papale (che precedentemente gli era stata rifiutata) per la nomina del figlio Ippolito ad arcivescovo di Strigonia (in Ungheria) e per quella di Niccolò Maria di Gurone d'Este a vescovo d'Adria.

Benché neutrale, E. non rimase estraneo agli affari italiani: nel 1486-88 esercitò pressioni sia su Lorenzo de' Medici sia su Ludovico Sforza onde appianare certe questioni sorte tra Firenze e Milano che minacciavano la stabilità della lega, e si offrì come mediatore. Fece inoltre da intermediario tra Ludovico Sforza ed il suo inaffidabile protetto bolognese, Giovanni Bentivoglio.

In quegli anni si celebrarono anche i matrimoni di Lucrezia (nel 1487), di Isabella e Beatrice (nel 1490) e di Alfonso (nel 1491), importanti dal punto di vista dinastico. Ciascuno fu accompagnato da spettacoli costosi e pieni di sfarzo. Gli stessi anni videro la rapida carriera ecclesiastica di Ippolito, divenuto cardinale nel 1493, e la morte di Eleonora (ottobre 1493). E. continuò a viaggiare, recandosi a Venezia nel 1488, 1491 e 1492; a Lucca nel 1489; a Milano nel 1492 e 1493; a Firenze e Roma nel 1492; a Mantova quasi ogni anno. Le frequenti assenze di E., insieme con i forti costi delle cerimonie di corte che imponevano notevoli gravami fiscali, erano almeno in parte responsabili di un problema che pare si sia fatto più serio in quegli anni, cioè il crescente tasso di criminalità ed illegalità nello Stato estense. E. era sempre più preoccupato di far raggiungere ai suoi sudditi "el bene e honesto vivere" e sempre più convinto della corruzione dei suoi funzionari. La sua risposta consistette pertanto in misure di polizia più severe: decreti per bloccare il numero di reati commessi a carnevale, rifiuto di qualsiasi amnistia, nomina di personalità notoriamente integerrime ai gradi più alti della polizia.

Tuttavia in questo periodo E. spese gran parte della sua energia e delle sue entrate in attività culturali e ricreative che rivestivano per lui un interesse particolare: teatro e spettacolo, pittura ed architettura, devozione religiosa e musica. Nella storia del teatro rinascimentale, Ferrara occupa un posto a sé a causa del revival, promossovi con successo, delle commedie classiche di Plauto e di Terenzio, messe in scena in traduzione italiana. La prima ad essere rappresentata fu i Menaechmi di Plauto nel 1486, seguita nel 1487 dall'Anfitrione. A partire dal 1491 le commedie vennero addirittura rappresentate in serie: di tre nel 1491 e 1499, quattro nel 1500 e 1503, cinque nel 1502. Ci fu anche un esperimento, che incontrò minore successo, di mettere in scena commedie contemporanee, quali il Cefalo di Niccolò Postumo da Correggio. Spesso queste rappresentazioni traevano occasione da avvenimenti dinastici: il matrimonio di Alfonso nel 1491, la visita di Ludovico Sforza nel 1493, l'arrivo della seconda moglie di Alfonso (Lucrezia Borgia) nel 1502.

Tali attività teatrali comportavano varie altre operazioni collaterali e congruenti: traduzioni da parte di letterati attivi nell'ambito della corte, quali Niccolò da Correggio, Pandolfo Collenuccio, Battista Guarino, ecc., e decorazione dei posti per il pubblico, palcoscenico e scene, che cercavano di ricreare l'aspetto di un teatro classico; la creazione dei costumi e l'esecuzione di intermezzi musicali e di danza, soprattutto moresche. I costi erano elevati, stimabili in migliaia di ducati, ma anche l'attenzione che suscitavano questi intrattenimenti era assai vasta: i contemporanei stimavano il numero degli spettatori in alcune migliaia ed asserivano che le sedi delle rappresentazioni (il cortile, la sala grande) erano piene zeppe di gente. Gli spettacoli attiravano come spettatori membri di tutta l'aristocrazia dell'Italia settentrionale, e al tempo stesso fornivano un diversivo alla cittadinanza ferrarese. Ludovico Sforza ne fu a tal punto colpito da chiedere ad E. alcune commedie da mettere in scena a Pavia, e nel 1496 Francesco Gonzaga volle prendere in prestito alcuni copioni. In tali occasioni E. fungeva da impresario teatrale in proprio, stabiliva i criteri da seguire nelle traduzioni, esigeva che ogni parte avesse il proprio costume e dirigeva anche la messa in scena: durante lo spettacolo restava spesso seduto sul palcoscenico.

Le rappresentazioni teatrali rivestivano anche una funzione politica: a causa del momento in cui venivano offerte, verso l'inizio dell'anno, esse aprivano alla partecipazione popolare le feste carnevalesche dell'aristocrazia, e può darsi siano servite anche ad ammorbidire le critiche che tacciavano E. di eccessivo attaccamento al proprio esclusivo piacere. Analogamente, anche la partecipazione degli Este alle feste popolari, alcune delle quali ebbero origine proprio durante la signoria di E., aveva un significato politico; è il caso della "festa del maio", quando i cavalieri, colto il maio (o maggio) cavalcavano poi con esso attorno alla piazza. C'erano anche le corse di cavalli: al tradizionale palio del giorno di S. Giorgio, E. aggiunse altre gare, ad esempio una corsa il giorno di s. Pietro del 1480 "per piacere del populo" (Zambotti); gare di imbarcazioni lungo il Po il giorno di s. Giacomo del 1498; gare di tiro con l'arco per il giorno di s. Giovanni Battista.

Gli interessi culturali di E. erano ampi. Favorì notevolmente le acquisizioni della Biblioteca estense, soprattutto nel campo delle traduzioni dei classici antichi; ampliò le collezioni antiquarie estensi, aggiungendovi medaglie, gemme e cammei, in buona parte acquistati da un fornitore veneziano; fece impartire un'istruzione classica ai suoi figli, che impararono anche a suonare alcuni strumenti musicali; impiegò un buon numero di artisti celebri, quali Cosmè Tura, Boccaccino, Mantegna, Ercole Roberti (talora chiamato dalle fonti Ercole Grandi) che dipinsero ritratti e decorarono i palazzi estensi e le chiese di Ferrara, oppure prepararono cartoni per arazzi e tappezzerie. Uno stuolo di artisti minori vennero poi impiegati per dipingere scudi e gonfaloni, archi trionfali temporanei, scene teatrali, decorazioni di minore importanza nei palazzi, e poi cassettoni, carrozze e imbarcazioni. Il medaglista Sperandio da Mantova coniò diverse medaglie col ritratto di E. e di membri di spicco della sua corte. Architettura ed urbanistica furono però le attività artistiche che maggiormente impegnarono la sua attenzione.

Nel corso della prima metà del suo periodo di governo, gli interventi architettonici di E. consistettero prevalentemente in modifiche di edifici già esistenti: la costruzione di una loggetta coperta tra il palazzo ed il castello di Ferrara (1471), i lavori nel cortile (1473), la risistemazione della piazza grazie alla ridipintura di tutti gli edifici pubblici, l'installazione di una fontana e di una loggia lungo il palazzo (1473-491); l'erezione di una nuova cappella dedicata alla Vergine Maria dentro il medesimo palazzo (1476); i grandi lavori nel castello, per creare l'appartamento di Eleonora (1477), cui fece seguito la ricostruzione di una parte del palazzo secondo un disegno che E. inviò dal campo di battaglia in Toscana ove era impegnato (1478-81); le modifiche ai palazzi di Belfiore e di Belriguardo, in cui c'era un importante ciclo ad affresco, ora perduto, raffigurante E. con la sua corte.In seguito gli interessi architettonici di E. si accrebbero ulteriormente: nel 1492 si lanciò in uno dei maggiori progetti urbanistici del Rinascimento italiano, la cosiddetta Addizione, ovvero l'inclusione nel territorio cittadino di una vasta porzione di terreno agricolo a nord della città, comprato nei mesi precedenti. Seguendo i progetti preparati in segreto dai suoi "inzegneri", vi vennero tracciate ampie strade rettilinee e costruite nuove chiese e la nobiltà fu incoraggiata ad erigervi palazzi. Solitamente si danno quattro ragioni per giustificare questo piano urbanistico: la crescita della popolazione cittadina, il desiderio di una maggiore sicurezza difensiva nei confronti di Venezia (almeno uno dei cronisti contemporanei era convinto che proprio questa fosse la ragione principale), il desiderio di emulare altre città che avevano splendide chiese e palazzi, e infine la volontà di provvedere nuove aree residenziali per la nobiltà. In dieci anni vennero edificati nell'Addizione più di venti palazzi e dieci chiese. L'architetto soprintendente all'intera operazione, cui si devono anche molti degli edifici, era l'"inzegnere" personale di E., il ferrarese Biagio Rossetti.

I lavori cominciarono nell'agosto del 1492 con lo scavo di nuovi fossati lungo il perimetro dell'Addizione. Negli anni seguenti vi si andarono lentamente aggiungendo mura, torri e porte, che costituirono una delle prime applicazioni su vasta scala del nuovo sistema bastionato di difesa urbana. I maggiori sviluppi dell'Addizione finché visse E. furono i seguenti: vennero edificati i palazzi lungo la via degli Angeli già esistente e all'incrocio con la nuova via dei Prioni, in particolare il palazzo dei Diamanti di Sigismondo; fu creata la piazza Nova (ora piazza Ariostea) dove si progettò di innalzare un monumento ad E., mai completato; e vennero costruite le chiese di S. Benedetto, S. Cristoforo alla Certosa, S. Giovanni Battista, S. Gabriele. Ci vollero molti anni per portare a compimento questa vasta impresa e, nonostante venissero reclutate forze di lavoro straordinarie dalla campagna romagnola, nonostante si imponessero delle economie a corte per far fronte ai costi, nonostante si lavorasse anche di domenica ed E. seguisse con costante attenzione il progredire dei lavori esercitando pressioni per accelerarli, ben poco venne completato prima della sua morte. Rossetti ricostruì inoltre un certo numero di chiese nella città vecchia, e cioè S. Francesco, S. Maria del Vado, l'abside della cattedrale. E. era ampiamente coinvolto in tutto ciò: collaborò col Rossetti nella stesura e discussione dei progetti; andava spesso a vedere le nuove strade ed edifici in costruzione; assegnava rendite e forniva danaro per costruire le nuove chiese, di alcune delle quali sostenne l'intero costo di costruzione.

L'altra passione di E. era la musica. Musicista dilettante egli stesso, cominciò ad ampliare il coro della sua cappella fin da quando assunse il potere. In parte era motivato a farlo da uno spirito di emulazione nei confronti del re Alfonso di Napoli, la cui cappella egli aveva conosciuto in gioventù, in parte era in competizione anche con Galeazzo Maria Sforza, ma soprattutto era ben cosciente della funzione di raffinamento individuale operata dalla musica. Costituì una delle cappelle musicali più numerose d'Europa, impiegata nelle funzioni religiose ordinarie, nei drammi sacri e nel canto secolare da camera. Egli raccolse con passione le opere dei maggiori compositori dell'Europa settentrionale, quali Josquin Desprez, Obrecht, Isaac, ecc., e riuscì addirittura a persuadere alcuni di loro a venire a Ferrara, sia pur per breve tempo, e a scrivere composizioni per lui, come la Missa Hercules dux Ferrariae di Josquin e i mottetti di Johannes Martini. Sembra che E. sia stato l'impresario dei suoi cantori, come lo era degli attori. Ai cantori si aggiungevano i suonatori di strumenti, e Ferrara divenne uno dei centri più importanti per l'esecuzione di musica per viola. I musicisti di E. avevano una tale fama che il re Carlo VIII di Francia, per le sue entrate vittoriose in Pisa e a Firenze nel 1494, prese in prestito alcuni dei suoi "piffari" e cercò di riaverli anche nel 1496.

Il sentimento di pietas religiosa, approfonditosi dopo la morte di Eleonora, sembra essere l'elemento unificatore di questi molteplici interessi drammaturgici, edilizi e musicali. Ad esso si univa anche il senso della propria responsabilità verso il benessere spirituale della città. Ogni giorno E. ascoltava messa e uno dei suoi primi progetti edilizi fu, come s'è detto, la costruzione di una cappella a corte per ospitarvi un'immagine miracolosa della Vergine Maria. Forse ad imitazione della corte di Napoli, istituì la prassi di sfamare ogni anno oltre un centinaio di persone in occasione del giovedì santo. In tale occasione era E. stesso, insieme con i suoi fratelli, tutti vestiti di bianco, a servire il pasto nella sala grande, con l'accompagnamento musicale dei cantori di cappella. E. provvedeva poi di persona a lavare i piedi dei commensali, a dar loro abiti e danaro, a baciarli. Era solito presenziare alle processioni del Corpus Domini, aiutando a portare il baldacchino (per quanto glielo consentivano le condizioni del piede offeso) e frequentava le prediche quaresimali nella cattedrale: a lui dovevano l'invito a Ferrara predicatori famosi come fra' Mariano da Genazzano. Metteva anche in scena drammi sacri (dal 1481 ci furono. rappresentazioni della Passione, a cui nei giorni seguenti ne furono aggiunte altre sull'Annunciazione e la Natività). Regolarmente, ogni giorno od ogni settimana, E. faceva doni di abiti, cibo e danaro ai poveri della città, al clero secolare e a quello regolare.

Seguì con attenzione le riforme savonaroliane a Firenze: nel 1495 chiese al suo ambasciatore colà di riferirgli le prediche del Savonarola, che era ferrarese di nascita, e di chiedere l'opinione del frate sullo stato dell'Italia ed il probabile corso degli eventi, nonché di invocarne le preghiere per sé ed i suoi sudditi. In seguito si sviluppò uno scambio epistolare tra il duca e il frate, in cui il primo cercava la guida spirituale del secondo, ottenendone copie delle prediche e degli altri scritti. Ispirato da Savonarola, E. prese nuove misure per ripulire la città dal vizio, e la domenica di Pasqua del 1496 pubblicò un proclama in cui si proibivano le bestemmie, il gioco d'azzardo, la sodomia, il commercio nei giomi festivi e l'affitto di case a prostitute. Parimenti sviluppò una sorta di attaccamento ossessivo nei confronti delle donne in odore di santità: nel 1499 riuscì a far venire da Viterbo, nonostante le proteste dei Viterbesi, Lucia Brocadelli da Narni, che si diceva avesse le stigmate. Per lei e per altri gruppi di suore fatte venire da Viterbo e da altri luoghi fece costruire conventi nell'Addizione, tra cui va ricordato il convento di S. Caterina da Siena.

Gli ultimi dieci anni di governo di E. (1494-1504) videro le invasioni francesi di Carlo VIII e di Luigi XII, e l'espansione dei Borgia, ma il duca riuscì a non farsi coinvolgere direttamente nella guerra e a conservare una fragile neutralità che gli consentì di evitare danni al suo Stato. Riuscì in ciò nonostante i suoi legami familiari e matrimoniali con Milano e Napoli, nonostante la sua francofilia e la sua ovvia vulnerabilità rispetto alle pressioni veneziane e pontificie. E. oscillava seguendo il flusso degli eventi politici ed offrendosi regolarmente come mediatore nazionale ed internazionale.

Nei primi anni '90 fu strettamente associato alla politica di Ludovico Sforza, e partecipò all'alleanza da questo promossa con Venezia ed il papa, alleanza che ebbe peraltro vita breve. Nel frattempo mantenne anche stretti contatti col re di Napoli Ferrante. A differenza dello Sforza, all'arrivo di Carlo VIII E. non si impegnò per la causa francese, pur non facendo un mistero delle sue simpatie in tal senso. Concesse infatti ai Francesi il passaggio attraverso i suoi territori, ne ricevette con calore gli ambasciatori e visitò il re ad Asti, subentrando infine allo Sforza nel governo di Milano, durante l'assenza di questo. Inoltre egli consentiva la libera espressione di sentimenti francofili a Ferrara. Per conseguenza si attirò l'accusa, allora ed in seguito, di essere stato uno dei responsabili della venuta dei Francesi in Italia. Nel 1495, tuttavia, E. dichiarò la propria neutralità, che da allora in poi cercò di mantenere: annunciò infatti che "se ne stava neutrale et che la attenderà alle cose del stato suo, non se volendo per modo alchuno travagliare in queste pratiche che hora occorreno, essendo ... horamai di etade che recercha riposo più che altro". Cionondimeno ancora nel 1496 si pensava che E. fosse "tutto francese" (Sanuto).

Per coerenza con la sua professione di neutralità, uno dei figli (Ferrante) prestò servizio nell'esercito di Carlo VIII, mentre l'altro (Alfonso) entrò in quello della Lega italiana. Nel 1495, quando Carlo si ritirò, ad E., in quanto neutrale, fu affidato in custodia per due anni il castelletto di Genova, come pegno della piena esecuzione da parte dello Sforza degli accordi di pace stipulati con Carlo. L'azione di E. però suscitò il sospetto e l'avversione di Venezia: non a caso, un cronista veneziano lo descrisse come "el più perfido inimigo che habbia habu la Signoria in la guerra de Franza", e Venezia cominciò ad esercitare pressione sui confini estensi in Romagna. Per conseguenza, visto che Carlo VIII non rientrava in Italia, E. riconobbe che "il ni è stato necessario ... de rendulcirne con la Signoria de Venetia". A tal fine rese gli onori al visdomino e fece pubblica dichiarazione di devozione a Venezia, vietò a Ferrara gli abiti di foggia francese, richiamò Ferrante dalla Francia per collocarlo al servizio dei Veneziani e visitò Venezia nel novembre del 1497, il che aveva rifiutato di fare quando era incaricato della custodia del Castelletto. Tuttavia E. continuò a rimanere estraneo alla guerra di Pisa in corso in quegli anni e trascorreva il suo tempo a pesca, visitando chiese, ascoltando le messe cantate ed occupandosi dei lavori di costruzione nell'Addizione ("atende a darse piacere ... et lassa fare la guerra a chi vole fare": Diario ferrarese).

In seguito, nel 1498 inoltrato, E. cercò col sostegno di Ludovico Sforza di intervenire per comporre il conflitto tra Firenze, Venezia e Milano circa le sorti di Pisa, ribellatasi a Firenze nel 1494, che Venezia voleva mantenere indipendente. Benché tutte le parti accettassero il suo arbitrato, Venezia nutriva tali sospetti su di lui da insistere perché prendesse preliminarmente degli impegni segreti. E. subì però forti pressioni anche da parte di Napoli e Milano affinché si giungesse ad un accordo accettabile per Firenze, cosicché questa potesse poi aderire alla Lega. Per conseguenza, quando il lodo arbitrale si rivelò più favorevole a Firenze mentre accoglieva solo in parte le richieste dei Veneziani, Venezia lo respinse e costrinse E. a fare alcune correzioni, sbarazzandosi contemporaneamente di suo figlio Ferrante. Il risultato finale fu che il lodo di E. non fu mai applicato.

Quando Luigi XII invase nuovamente l'Italia nel 1499 E. incontrò ancora una volta il re francese, mise Ferrante a sua disposizione e consentì il passaggio alle sue truppe, ma rifiutò di farsi ulteriormente coinvolgere nelle campagne militari di Luigi, così come rifiutò di aiutare Ludovico Sforza durante la sua breve riconquista di Milano nel 1500, evitando in tale modo la vendetta francese subita dai vicini. Fu con la protezione francese però, accordatagli in forma ufficiale nell'ottobre 1499, che si salvò dalla minaccia delle campagne militari promosse da Cesare Borgia nello Stato della Chiesa. Ancora, fu Luigi XII a spingere E. ad abbandonare il progetto di far sposare Alfonso (la cui prima moglie, Anna Sforza, era morta nel 1497) con una rappresentante della famiglia reale francese e ad accettare invece la proposta del papa, che caldeggiava un matrimonio con la figlia Lucrezia, sgradito tanto ad E. quanto, e più, ad Alfonso.

E. riuscì comunque a concludere un affare assai vantaggioso, tanto che il papa lo accusò di comportarsi da mercante: riuscì infatti ad estorcere una riduzione del censo gravante su Ferrara, ad ottenere la reinvestitura perpetua della signoria ferrarese per tutti i suoi discendenti legittimi, la concessione di Cento e Pieve di Cento, che furono staccate dalla diocesi Bologna, ed inoltre una dote di 100.000 ducati nonché vari benefici per Ippolito ed altri. Per di più E. insistette per la totale attuazione delle condizioni del contratto dotale prima dell'invio della scorta che doveva accompagnare Lucrezia a Ferrara. Il corteo ferrarese mosse finalmente alla volta di Roma nel dicembre 1501. Lucrezia fece il suo ingresso a Ferrara il 2 febbr. 1502, e seguì una settimana di festeggiamenti. Il vantaggio politico di questo matrimonio estense durò tuttavia solo fino alla morte del papa nel 1503.

Benché in quello stesso anno E. venisse trascinato a concedere un sostegno militare più attivo alla Francia a causa delle sconfitte francesi a Milano e Napoli, i suoi interessi consueti continuarono a prevalere: mise in scena commedie classiche nel 1503 ed un nuovo dramma sacro nel 1504; andò a pesca a Comacchio nel settembre del 1503; a Mantova per assistere alla rappresentazione di alcune commedie nel febbraio 1504 e si recò in visita a Firenze nel luglio del 1504 per esaudire un voto fatto all'immagine dell'Annunziata. Fu questo il suo ultimo viaggio: morì infatti il 25 genn. 1505 a Ferrara.

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