GONZAGA, Ercole

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 57 (2001)

GONZAGA, Ercole

Giampiero Brunelli

Nacque a Mantova, secondogenito del marchese Francesco II e di Isabella d'Este, il 22 nov. 1505. Ricevette al battesimo il nome Luigi, ma fu chiamato Ercole in onore del duca di Ferrara Ercole d'Este, avo per parte materna, morto nello stesso anno.

Fu indirizzato agli studi umanistici dalla madre (figura di spicco della vita culturale del primo Cinquecento), prima sotto la guida di F. Vigilio, quindi, dal 1514 al 1522, di A. Guarino. Il G. mostrò presto grande interesse per le lettere e questa attitudine rafforzò la decisione di indirizzarlo alla carriera ecclesiastica, in luogo del fratello minore Ferrante: già nel 1520 fu nominato coadiutore (cioè amministratore) della diocesi di Mantova (cedutagli dallo zio, il card. Sigismondo Gonzaga) e ricevette la commenda dell'abbazia di Felonica. Leone X tentò in un primo momento di opporsi al passaggio di cospicui benefici ecclesiastici nelle mani del giovane; poi però, stretti legami politici con suo fratello, il marchese di Mantova Federico, ratificò l'operazione nel maggio 1521. Alla fine dello stesso anno il G. accompagnò il cardinal Sigismondo al conclave che avrebbe eletto papa Adriano VI e allacciò rapporti con gli umanisti attivi a Roma, tra cui affermati esponenti della corrente classicista quali Pierio Valeriano.

Tornato a Mantova, il G. mostrò di dilettarsi tanto "della conversatione de letterati" (lettera di Isabella d'Este del 19 luglio 1522, cit. in Brown - Delmarcel, p. 50) che fu chiesto a Baldassarre Castiglione e Gian Giorgio Trissino di esaminarne le inclinazioni.

I loro giudizi furono molto lusinghieri e il G. nel dicembre 1522 fu inviato allo Studio di Bologna, con una raccomandazione di Isabella diretta a P. Pomponazzi. Intraprese studi classici con Lazzaro Buonamici e seguì quotidianamente anche i corsi del Pomponazzi, che interpretava il pensiero di Aristotele in modo contrastante con le consolidate dottrine scolastiche e rivendicava l'autonomia della speculazione filosofica. Fatti rapidi progressi nel latino e nel greco, il G. apprese anche rudimenti di arabo e maturò una passione di bibliofilo divenuta poi tratto distintivo dei suoi interessi culturali. Solo dopo la morte del Pomponazzi (maggio 1525), distintosi in occasione delle sue onoranze funebri, il G. lasciò Bologna. Il legame con il filosofo sarebbe sempre rimasto molto forte: gli fece innalzare una statua in bronzo in S. Francesco (a Mantova) e ne conservò l'immagine effigiata in un quadro e in un sigillo del quale, nel 1545, non volle privarsi nemmeno per prestarlo a P. Giovio, collezionista di ritratti di uomini illustri.

Tornato a Mantova, il G. invitò a corte il retore e umanista R. Amaseo. Nel contempo intrattenne rapporti con letterati come F.M. Molza, conosciuto a Bologna, e avviò una corrispondenza in lingua latina con P. Bembo. Nello stesso 1525 la morte del card. Sigismondo sembrò avvicinare la sua nomina a cardinale, ipotizzata sin dal 1521 ma poi lasciata cadere da Adriano VI e non seguita nemmeno durante i primi anni del pontificato di Clemente VII, nonostante la dichiarata buona disponibilità a riguardo. Per raggiungere lo scopo Isabella d'Este si trasferì a Roma: in udienza, papa Medici le confermò che presto avrebbe conferito la berretta al G. e già nel maggio 1526 la notizia doveva essere divulgata, se l'ambasciatore veneto a Roma, M. Foscari, l'inserì nella sua relazione al Senato. Tuttavia la crisi fra Clemente VII e Carlo V determinò un ritardo: la bolla di creazione, redatta nel settembre 1526 in forma riservata, fu consegnata a Isabella il mese successivo, ma non fu pubblicata. Tra il 1526 e il 1527, infatti, prese corpo la minaccia di uno scontro militare tra il papa e l'imperatore e non passò inosservato che fra le truppe asburgiche militasse il fratello del G., Ferrante. Isabella si attivò nuovamente per rimuovere diffidenze e ostacoli, ma solo dopo l'invasione dello Stato della Chiesa e nell'imminente pericolo di un assalto a Roma, il 3 maggio 1527, Clemente VII decise di pubblicare la creazione cardinalizia nella quale era compreso il Gonzaga. Per far fronte all'emergenza finanziaria causata dalle spese di guerra il pontefice stabilì che i nuovi eletti dovessero versare ciascuno una forte somma all'Erario e il G. rese disponibili circa 20.000 ducati (ma alcuni osservatori fecero circolare la cifra di 40.000). Pochi giorni più tardi (5 maggio 1527) Isabella ebbe in consegna la bolla del 4 ott. 1526, che creava il figlio cardinale diacono di S. Maria Nuova, e insieme il berretto rosso.

La nomina cardinalizia e l'esordio sulla scena politica giunsero dunque proprio alla vigilia del sacco di Roma e il G., allora in visita informale a Venezia, ebbe notizia della sua elezione solo alla fine di maggio, quando tornò a Mantova. Quindi, nei concitati mesi seguenti, raggiunse il gruppo di cardinali italiani riuniti a Parma per trattare la liberazione del pontefice. Nell'occasione ricoprì i primi incarichi politici: fu nella commissione che nel novembre 1527, "in nome de' cardinali i quali promettevano la ratificazione del collegio" (Guicciardini, Storia d'Italia, p. 1892), firmò gli accordi tra la Sede apostolica e il duca di Ferrara, che entrava nella confederazione contro Carlo V. All'inizio del febbraio successivo il G. raggiunse Clemente VII, rifugiatosi a Orvieto, da dove informava il fratello marchese di Mantova - entrato anch'egli, sia pure provvisoriamente e dopo molte incertezze, nella lega antimperiale - sugli sviluppi della guerra; poco dopo, alla metà di aprile, ricevette gli ordini del subdiaconato e del diaconato.

La sua posizione politica apparve presto filofrancese: mentre il Regno di Napoli era ancora oggetto di scontro fra gli Imperiali e le truppe di Odet de Foix visconte di Lautrec, la Curia romana dovette scegliere se accettare il tradizionale tributo del Regno, la chinea, dal rappresentante di Carlo V o da quello di Francesco I, e in concistoro il G. sostenne senza successo le ragioni francesi, invocando la neutralità del pontefice. Quindi, alla fine dell'estate 1528 si trasferì a Roma con la corte pontificia, stringendo rapporti - protratti e consolidati nei decenni successivi - con l'ambasciatore veneziano Gasparo Contarini, personalità di alto profilo intellettuale, con una spiccata vocazione religiosa.

Nello stesso anno tenne, attraverso vicari, l'amministrazione della diocesi di Fano: cessò dalla funzione nel 1530, quando entrò in carica il vescovo eletto, Cosimo Gheri, col quale rimase in contatto. Tuttavia ebbe altri impegni di governo, spirituale e temporale: tra 1529 e 1532 amministrò la diocesi di Soana, nel 1528 fu nominato governatore di Coldiscepoli (Terni) e nel 1534 passò a Tivoli con lo stesso incarico.

Trascorsa a Mantova la primavera del 1529, il G. presenziò all'ingresso di Clemente VII in Bologna (21 ott. 1529), partecipando poi alle manifestazioni per l'incoronazione di Carlo V (24 febbr. 1530). Nel marzo successivo fu nel corteggio che accolse l'imperatore in Mantova. Politicamente il G. appariva "más francés que el embajador de Francia" (il card. J. García de Loaysa a F. de los Cobos, 27 giugno 1530, in Montesinos, p. XXVIII n. 4), guadagnandone in cambio benefici ecclesiastici quali i frutti dell'abbazia di Lésart, valutati 2500 ducati annui, assegnatigli nell'ottobre 1531 da Francesco I.

Questa collocazione creava imbarazzo nella corte gonzaghesca, che, dopo la pace di Cambrai e nell'eventualità di un matrimonio tra il duca Federico e Giulia d'Aragona, era ormai passata fra i partigiani dell'imperatore. Ciò aveva causato un raffreddamento dei rapporti del G. con Mantova, donde riceveva limitati aiuti finanziari. Così, nel nuovo incontro a Bologna tra Carlo V e papa Medici (fine 1532), il G. si rese protagonista di un'improvvisa defezione: il duca di Mantova infatti, avuta dall'imperatore conferma dell'investitura del Monferrato, aveva offerto in cambio la disponibilità del G. a passare fra i cardinali filo-imperiali. In un primo tempo egli si era schermito, forse per un gioco delle parti concordato; poi, però, quando il fratello si era recato da Carlo V assicurandolo che "etiam Sua Reverendissima Signoria voleva esser con Soa Cesarea Maestà" (M.A. Venier al Senato, Bologna, 18 dic. 1532, in Sanuto, LVII, col. 383), non si era opposto e si era presentato a Carlo V, addirittura giustificandosi per aver tardato a offrirgli il proprio appoggio. Temendo le reazioni dei Francesi, poco dopo il G. avvisò il papa e il governo veneziano; non vi furono però ripercussioni immediate (a parte la sospensione di benefici ecclesiastici come i proventi dell'abbazia di Grandmont, disposta per ordine di Francesco I) ed egli raccolse presto incarichi connessi alla sua nuova posizione, come quello di accompagnare l'imperatore a Genova quale legato pontificio, nei primi mesi del 1533. Tornò a Roma nel settembre 1534, quando si diffusero voci sulla malattia di Clemente VII e, dopo la morte di papa Medici, entrò in conclave. Rifiutando di aderire a uno schieramento di cardinali italiani, il G. scelse di legarsi a quelli spagnoli, tedeschi e italiani fedeli a Carlo V; tuttavia previde l'elezione d'un candidato neutrale, confermata dalla rapida ascesa al soglio del card. Alessandro Farnese (13 ott. 1534).

L'azione del G. si concentrava ormai nella tutela degli interessi asburgici: quando Carlo V intervenne a proteggere il card. Benedetto Accolti, imprigionato nell'aprile 1535 con pesanti imputazioni penali, il G. si impegnò perché fosse commutata la condanna a morte inflittagli. Quindi, ricevuto (novembre 1536) il titolo di protettore delle chiese spagnole di Roma, si distinse come informatore politico di alto profilo: sorvegliava le articolate strategie di Paolo III e le manovre dei principi italiani, riferendo ai ministri imperiali (anzi tutto a N. Perrenot de Granvelle e F. de los Cobos). Papa Farnese, presto informato, si adoperò per screditare l'attendibilità delle notizie fornite dal G. ma questi, pur avvertendo i corrispondenti delle crescenti difficoltà oppostegli in Curia, continuò a riferire, oltre che sugli incarichi di governo e le dignità ecclesiastiche assegnate, anche sulle maggiori novità del quadro politico internazionale.

Nel contempo il G., definito sarcasticamente dall'Aretino "dotto come la sapienza Capranica" (Un pronostico satirico di Pietro Aretino, p. 31), partecipava con interesse alla vita culturale romana e non rifuggiva le occasioni pubbliche (fu visto talvolta in compagnia di celebri cortigiane). Dimostrava anche inclinazioni a coltivare la vita religiosa: dal 1532 (quando lo aveva incontrato a Mantova, in occasione della visita imperiale) era in contatto con Juan de Valdés, promotore a Napoli di un'esperienza di spiritualità radicale; corrispondeva altresì con Vittoria Colonna e nella primavera del 1535, come altri cardinali, ascoltò le prediche di Bernardino Ochino in S. Lorenzo in Damaso. Il G., nondimeno, sapeva muoversi abilmente nel mosso quadro degli atteggiamenti religiosi di quel torno di anni: mentre la sua casa romana era nota per la libertà con la quale vi si discettava delle dottrine d'Oltralpe, egli riuscì a guadagnare la considerazione di esponenti del gruppo più intransigente della Curia, come mostravano pubblici elogi di Gian Pietro Carafa.

Nello stesso periodo le prime visite pastorali ordinate nella diocesi di Mantova rivelarono casi di ignoranza e condotta riprovevole fra i religiosi. Il G. diede disposizioni per porvi rimedio, non esitando a chiedere appoggio al fratello, il duca Federico. Nel contempo promosse l'insediamento della Società del Corpo di Cristo (presente almeno dal 1529), associazione laicale votata anche a compiti di assistenza sociale.

A Roma la posizione del G. si fece progressivamente più difficile: lamentava di trovarsi "senza un benedetto quattrino et ancho senza alcuna speranza d'haverne" (a F. Gonzaga, Roma, 22 dic. 1536, in Segre, p. 403), doveva contendere al card. Alessandro Farnese il beneficio dell'abbazia di Lucedio in Monferrato, sperava dagli Imperiali appoggi per benefici ecclesiastici (anche ambiziosi, come l'arcivescovato di Reggio) ma doveva accontentarsi di assegnazioni occasionali e della diocesi spagnola di Tarazona in commenda (giugno 1537). Il fattore decisivo del suo allontanamento da Roma fu, nondimeno, il tramonto dell'ipotesi di convocare il concilio a Mantova.

Il 2 giugno 1536, con la bolla Ad dominici gregis curam, Paolo III aveva intimato il concilio a Mantova per il 23 maggio dell'anno seguente, ma solo nel febbraio 1537 aveva preso contatti formali col duca Federico per invitarlo ai preparativi necessari. Il G. invitò il fratello a non opporre impedimenti, perché riteneva che l'imperatore, favorevole all'iniziativa, in cambio avrebbe acconsentito a rescindere il legame feudale di Mantova con l'Impero. Le sue valutazioni, tuttavia, si dimostrarono inadeguate: Carlo V aveva appoggiato solo formalmente l'ipotesi di aprire il concilio, per non rompere con i principi tedeschi mentre era ancora in guerra con la Francia, e il duca di Mantova, da poco riconosciuto anche marchese del Monferrato, aveva accolto le richieste di Roma con grande freddezza, domandando un nutrito corpo di guardia a spese del pontefice e soprattutto chiedendo di mantenere integra giurisdizione in città durante le sessioni. Nel mese successivo Paolo III aveva ancora tentato di aprire un negoziato, ma su richiesta del fratello il G. aveva dovuto presentare in concistoro, il 9 apr. 1537, una lettera giustificatoria, che sostanzialmente ribadiva le condizioni; ne era scaturita la decisione del concistoro (20 aprile) di rinviare l'apertura del concilio al successivo novembre e la responsabilità della dilazione era stata addossata al duca.

Nella primavera del 1537 il G. prese a pretesto le non buone condizioni di salute della madre e, chiesta licenza a Carlo V, tornò a Mantova, prendendovi stabile dimora, sebbene a Roma circolasse la voce che il papa avrebbe punito l'assenza con la scomunica. Sotto la guida di Pietro Bertano (che nel successivo autunno fece eleggere vescovo di Fano, contro l'iniziale intenzione della corte pontificia) egli intraprese studi teologici, concentrandosi su testi scritturali allora molto battuti (come le lettere di s. Paolo) e sui fondamenti della filosofia tomista. A queste lezioni, aperte ai religiosi della diocesi e al pubblico colto, affluiva "buon numero de preti et molti gentilhuomini di questa città" (al card. G. Contarini, Mantova, 16 giugno 1537, in Friedensburg, p. 169).

Il G. dette poi nuovo impulso alla riforma della propria diocesi: fondata la scuola dei chierici della cattedrale per la formazione del clero, si concentrò sugli insediamenti di regolari, con particolare attenzione ai monasteri femminili. Riuscì a rimediare a diffusi e frequenti disordini disciplinari e a imporre gradatamente una più stretta "regola di vivere nelli preti et altri di chiesa" (a Vittoria Colonna, Mantova, 18 giugno 1537, in Luzio, 1885, p. 30 n. 1).

Egli era ormai compreso a pieno titolo tra i prelati più sensibili alle istanze di rinnovamento religioso, mantenendo contatti con importanti esponenti del gruppo degli "spirituali": il già citato G. Contarini, il card. R. Pole (insieme gli fecero visita nell'estate 1538), Gian Matteo Giberti (che addirittura nel settembre 1523 aveva caldeggiato presso Adriano VI la concessione della porpora al G.), Gregorio Cortese, Federico Fregoso. Queste relazioni denotavano un aperto schieramento: egli definì infatti "cianze" (lettera a Vittoria Colonna da Mantova, 18 giugno 1537, in Luzio, 1885, p. 31 n. 1) le prime accuse di eterodossia mosse all'Ochino e lo invitò a predicare a Mantova nell'Avvento del 1538 e nella primavera del 1539. Ebbe altresì un ruolo non secondario nel passaggio verso opzioni religiose più impegnative di Pietro Paolo Vergerio, allorché questi, noto ancora prevalentemente per l'attività diplomatica e controversistica, fu a Mantova nell'inverno 1537 e nel 1539. Infine il G. accolse con apprensione le notizie delle resistenze nel S. Collegio (soprattutto da parte dei cardinali Marcello Cervini e G.P. Carafa) alla creazione cardinalizia di Pietro Bembo.

La relativa libertà con cui tra gli anni Trenta e Quaranta si trattava di materie religiose alla sua corte fu poi ricordata dal suo segretario e stretto collaboratore E. Calandra, cui il G. aveva affidato la cura della propria biblioteca; in questa, grazie a licenze concessegli da Clemente VII e Paolo III, si potevano trovare opere di Lutero, Melantone, Zwingli. Nondimeno, a un'esplicita richiesta circa le opinioni del G. in materia di fede (durante il processo inquisitoriale del 1567-68), il Calandra confermò di non averlo mai considerato apertamente eretico. Piuttosto, il G. a Mantova mostrava "grandissimo desiderio di intendere qualche cosa della vera riformatione" (al Contarini, da Mantova, 6 giugno 1537, in Friedensburg, p. 167). Da Roma, però, giungevano poche notizie confortanti: già nel maggio 1537 egli seppe del sostanziale fallimento della riforma della Dataria; nel giugno 1538 gli giunse copia del Consilium de emendanda Ecclesia (programma di riforma elaborato nel 1536), ma fu presto informato della delusione di molti suoi amici, soprattutto dei cardinali Pole e Contarini e di Vittoria Colonna, per i ritardi nella lotta agli abusi. Così, le notizie sulle successive e più moderate "nove Reformationi" della Curia (O. Lotti al G., Roma, 18 marzo 1539, in Solmi, p. 34) lo trovarono progressivamente più scettico sulle iniziative di Paolo III e sulla reale possibilità di convocare quel concilio che pure gli appariva necessario.

Furono gli impegni politici a distoglierlo dal dibattito sulla riforma della Chiesa. Nel giugno 1540, morto il duca Federico e succedutogli il giovane Francesco III, il G. assunse la reggenza del Ducato, nominalmente col fratello Ferrante e la cognata Margherita Paleologo, ma di fatto addossandosene quasi per intero la responsabilità (che si aggiungeva a un'informale soprintendenza su Guastalla, feudo acquistato l'anno precedente dal fratello Ferrante). Fra i primi provvedimenti, ridusse le spese di corte, perseguì la corruzione fra i cortigiani, abrogò imposte impopolari (come il macalufo, addizionale del 24%) e promosse il commercio. Quindi varò riforme dell'amministrazione: la cancelleria fu divisa tra quattro segretari, scelti in base alla maggiore professionalità, mentre la trattazione delle materie ordinarie di governo fu affidata a un Consiglio segreto, lasciando le sole funzioni giudiziarie supreme al più antico Consilium domini.

Anche il governo del territorio fu rafforzato con l'istituzione di uffici podestarili e nel 1541 si progettò l'introduzione (seguita nel 1557) di una rota, massimo tribunale d'appello. L'azione del G. acquistò consenso anche per le politiche sociali, come l'istituzione di opere di assistenza e l'ingrandimento dell'ospedale.

In politica estera la reggenza promosse accordi con gli Stati confinanti; rispetto alle maggiori potenze, il G. si sforzò particolarmente di mantenere il Ducato in neutralità, pur continuando nei rapporti privilegiati con l'imperatore. Infatti, mentre era concluso e annunciato (in un incontro del giugno 1543 con Carlo V) il matrimonio tra Francesco Gonzaga e Caterina d'Austria, figlia di Ferdinando d'Asburgo, la ripresa del confronto militare tra Francia e Impero (dal luglio 1542) obbligava alla massima cautela; così, quando nel 1544 la guerra toccò il Piemonte e il Monferrato, minacciando lo stesso Mantovano, il G. non consentì al comandante imperiale Alfonso d'Ávalos marchese del Vasto, di acquartierare truppe nel Ducato, ritenendo che si dovesse "perseverare nella divotione et servitù di Sua Maestà per quello che bonamente et iustamente si possa fare senza aventurare più di quello che se have havuto da Sua Maestà propria" (a Ferrante Gonzaga da Mantova, 6 maggio 1544, in Mantova. La storia, II, p. 316). L'armistizio dell'agosto 1544 e la pace di Crépy, seguiti alle brillanti vittorie di Ferrante Gonzaga nel Lussemburgo e in Francia, allontanarono i pericoli per lo Stato mantovano, mentre per il G. si aprì, negli ultimi anni di pontificato di Paolo III, una fase particolarmente intensa sul fronte religioso.

Nel 1540 egli aveva dovuto impegnarsi a dirimere gravi disordini verificatisi nella Congregazione lateranense (i canonici regolari di S. Agostino), di cui era protettore. Superata l'irritazione perché in un primo momento Paolo III ne aveva affidato la soluzione al card. Contarini, con l'aiuto di Pietro Martire Vermigli (nominato visitatore) il G. aveva intrapreso il riassetto dell'Ordine, disinnescando le diffuse tensioni personali fra i padri. Quindi aveva convocato a Mantova e presieduto il capitolo generale del 1542, chiamando di nuovo il Vermigli in una commissione straordinaria che ottenne risultati soddisfacenti, isolando i maggiori responsabili.

Ebbe rilievo anche il suo coinvolgimento negli ultimi tentativi di conciliazione con i protestanti. Ricevuta all'inizio di maggio dal Contarini la bozza di accordo sulla giustificazione (secondo la formula Nos iustificari fide efficaci per charitatem: la fede operante attraverso la carità giustifica), il G. la sottopose a un suo teologo (Angelo, un monaco mantovano non identificato) e a G. Cortese, abate di S. Benedetto. Il primo sollevò obiezioni che il G. inviò al Contarini con una relazione sulle accuse diffuse a Roma circa il suo operato. Il cardinale veneziano stese in risposta l'Epistola de iustificatione, trasmettendola al G. insieme con considerazioni pessimistiche sulla possibilità di ricomporre la frattura confessionale. Quindi, nell'estate 1542, il G. seppe del dissenso religioso in importanti città italiane (quali Lucca) e delle indagini condotte dal card. Juan Álvarez de Toledo sul card. Pole e la sua cerchia (la Ecclesia Viterbiensis, accusata di adesione a dottrine eterodosse), che manifestavano il crescente irrigidimento di Roma e l'incipiente sfaldamento del movimento di rinnovamento religioso, al quale egli tentò cautamente di opporsi.

Il G. fu implicato nelle fughe dell'estate 1542. Incontrò l'Ochino, che aveva predicato in Mantova di nuovo nel 1541 e stava progettando di abbandonare l'Italia, sulla strada per il santuario delle Grazie (presso Mantova). Sostenne poi di non averlo riconosciuto, perché travestito da soldato, ma di fatto gli assicurò una sostanziale copertura, non dando notizia delle sue intenzioni. Invece, avrebbe voluto avere nelle mani il Vermigli, fuggito Oltralpe nella stessa estate, ritenendo che un capitolo straordinario della Congregazione lateranense avrebbe potuto precedere i provvedimenti del S. Uffizio. Intervenne poi prontamente a favore di P.P. Vergerio, vescovo di Capodistria, denunciato nel dicembre 1544 per opinioni e attività sospette e convocato a Roma nel marzo 1545. Lo ospitò a Mantova e nell'aprile successivo, dopo un incontro con il cardinal nipote Alessandro Farnese, ottenne che il caso fosse giudicato dal legato di Bologna, il card. Giovanni Morone, esponente di spicco degli "spirituali". Il G. coinvolse il Vergerio anche in studi che allora stava conducendo. Lavorarono insieme a un'opera non pervenuta intitolata Il modo di consolar gli infermi et condannati alla morte; il G. gli sottopose anche un commento al Pater noster (anch'esso perduto), che stava stendendo e che avrebbe poi inviato al card. Pole e al duca di Ferrara Ercole d'Este. Il G. si mostrò apertamente schierato: tentò di far passare il procedimento sul Vergerio a Girolamo Grimani, patriarca di Aquileia, poi a sua volta oggetto delle indagini del S. Uffizio; addirittura, a fine dicembre 1545, parve che potesse nominare Vergerio suo suffraganeo nella diocesi di Mantova. Gli eventi precipitarono poco dopo: nel gennaio successivo il Vergerio minacciò larvatamente il notaio inviato per notificargli una convocazione a Roma perché non rivelasse di averlo visto e ribadì di contare sul completo appoggio del Gonzaga. Questi sostenne il tentativo del Vergerio di farsi giudicare dal concilio riunito a Trento e lo raccomandò al card. Cesare Madruzzo, ma dopo il fallimento del tentativo si fece più cauto, anche perché Paolo III considerava gravi le responsabilità del G. nella protezione dell'eretico. Così, alla metà di agosto 1546, il G. diede generali rassicurazioni al Vergerio ma interruppe ogni rapporto con lui, chiedendogli persino di cessare di scrivere a qualunque religioso in Mantova.

Il decreto tridentino sulla giustificazione (gennaio 1547) spense molte aspettative e il G. si adeguò rapidamente. Nel 1548 richiamò "a non dar scandalo alle brigate" (Firpo, 1993, p. 76) l'agostiniano Andrea da Volterra, le cui azzardate prediche mantovane del 1543 pure aveva apprezzato. Infatti, mentre aveva sostanzialmente tollerato prudenti scambi di idee nella propria cerchia e l'azione di predicatori che non esitavano a proporre temi scottanti, non aveva mai inteso permettere manifestazioni dal basso di dissenso religioso e aveva appreso con preoccupazione dei primi segnali di presenze definite luterane nel territorio dello Stato (soprattutto a Viadana, Gonzaga e Castel Goffredo). Così negli anni Quaranta avviò un'aperta lotta all'eresia: in una grida del 4 dic. 1543 previde per i novatori pene fino al rogo e il 10 genn. 1545 ne emanò un'altra contro il possesso di libri eretici. Ne scaturirono diversi processi nel 1545-46 contro religiosi accusati di propagare errori luterani.

Con una bolla del 7 febbr. 1545 Paolo III lodò pubblicamente lo zelo del G., il quale però non aveva rivisto la propria avversione nei riguardi del pontefice: accolse con rabbiose invettive la notizia dell'infeudazione di Piacenza e Parma a Pierluigi Farnese e nel 1546 non dissimulò il fastidio per essere stato proposto ma non nominato tesoriere generale della Camera apostolica. Aiutò persino occultamente il duca di Firenze, Cosimo de' Medici, in un conflitto giurisdizionale con Roma.

La notizia della morte di papa Farnese giunse a Mantova mentre ancora duravano i festeggiamenti per il matrimonio di Francesco III con Caterina d'Austria. Il G. si recò a Roma ed entrò in conclave alla fine del novembre 1549: la carica di protettore dei regni di Castiglia e León (dal 1545), poi di Spagna (1546), con cospicue pensioni su vescovati di quei regni (Badajoz, Siviglia, Sigüenza, Burgos) ne palesavano l'appartenenza alla fazione asburgica. Nondimeno, informato da Girolamo Muzio sulle accuse di eterodossia al candidato imperiale R. Pole (le cui possibilità si infransero nel successivo dicembre), si espose a favore di Giovanni Salviati, l'elezione del quale già nell'aprile 1549 aveva raccomandato ai ministri imperiali. Continuò a sostenerlo anche quando fu chiaro che un cardinale schierato con i Francesi non poteva incontrare il favore di Carlo V: così, fu uno degli ultimi a cedere all'ipotesi Del Monte e si rifiutò di partecipare alla sua elezione per adorazione (7 febbr. 1550). Il nuovo pontefice, Giulio III, non si mostrò tuttavia risentito, anzi gli regalò un prezioso smeraldo antico.

La morte del giovane duca Francesco III, nel febbraio 1550, richiamò il G. (col fratello Ferrante) al governo di Mantova, dove rientrò nel marzo per celebrare le esequie del duca. Rinunciando alla reggenza dello Stato di Sabbioneta, che teneva da dieci anni, si concentrò subito sull'ordine pubblico e sull'amministrazione della giustizia. Nel gennaio 1551 varò una prammatica contro il lusso per disciplinare l'autorappresentazione degli attori sociali più eminenti, favorendo un'immagine omogenea del ceto aristocratico. Emise quindi provvedimenti in ambito finanziario, creando (febbraio 1553) l'ufficio di presidente della Camera ducale, responsabile generale dell'amministrazione. Fu di rilievo anche l'azione in difesa dell'ortodossia: non solo proseguì nei provvedimenti contro le infiltrazioni luterane nell'Alto Mantovano, emanando (13 maggio 1551) una grida sugli inconfessi, ma abbandonò anche la protezione di religiosi sospettati dal S. Uffizio. Quando, nel 1550, ebbe una richiesta di aiuto da Luciano degli Ottoni, abate benedettino di S. Benedetto in Polirone accusato di violazioni all'ortodossia (col quale era stato in stretti rapporti), si mostrò disponibile solo a difendere la giurisdizione del potere sovrano di fronte agli inquisitori, ma si ritirò non appena emersero contatti con l'eretico Giorgio Siculo, i seguaci del quale, anzi, esortò il duca di Ferrara Ercole II a perseguire fermamente.

In politica estera la guerra mossa a Ottavio Farnese da Giulio III e dagli Imperiali (1551-52) richiamò il G. a un'attenta vigilanza per evitare che lo Stato mantovano fosse coinvolto: fece demolire la fortezza di Sermide perché non fosse occupata da uno dei contendenti e presidiare luoghi di confine (Poggio, Quistello, Viadana). Tuttavia non poté opporsi all'invasione del Monferrato (San Damiano e Alba) da parte dei Francesi; spettò agli Imperiali (guidati da Ferrante Gonzaga) impegnarsi su quel teatro di guerra, ma, quando le vicende poco felici della campagna militare in Piemonte rischiarono di compromettere la posizione di Ferrante, il G. si schierò decisamente a favore del fratello. La loro comunione di intenti doveva impensierire la corte imperiale, che temeva potessero segretamente appoggiare i disegni antiasburgici. La diffidenza fu amplificata dall'atteggiamento del G. nei successivi conclavi. Alla morte di Giulio III giunse a Roma il 3 apr. 1555; in conclave si dichiarò subito a favore del card. Ippolito d'Este, schierato apertamente con i Francesi. Nondimeno, fu ugualmente soddisfatto dell'elezione (9 apr. 1555) di Marcello II, con la quale disse che si poteva finalmente "sperare la reformatione et la correctione d'infiniti scandalosi abusi" (lettera a Ferrante Gonzaga da Roma, 10 apr. 1555, in Pastor, Storia dei papi, VI, p. 621). Parve, quindi, molto vicino al neoeletto, che lo consultò sull'assegnazione di governi temporali nello Stato della Chiesa e per la revisione della bozza della bolla sui conclavi promossa da Giulio III. Fu richiamato a Mantova dalle esigenze del governo, ma l'improvvisa morte di Marcello II lo fece rientrare a Roma già a metà maggio. Nel conclave si schierò decisamente tra i cardinali filoasburgici e contrastò sino all'ultimo la candidatura del Carafa, eletto il 23 maggio col nome di Paolo IV.

Tornato di nuovo a reggere lo Stato mantovano (passò le consegne al duca Guglielmo solo nel gennaio 1557), il G. si dedicò anche alle cure pastorali. Stimando la Compagnia di Gesù un motore di rinnovamento religioso, affidò al p. Antonio Possevino l'educazione dei nipoti Scipione e Francesco e avviò il progetto di un collegio, per il quale fece un cospicuo lascito nel proprio testamento. Promosse quindi catechismi per la formazione del clero, riprendendo l'esempio di G.M. Giberti: ne fu frutto la pubblicazione, dopo un Catechismo del vicario L. Marini (1555), delle Constitutioni per la chiesa cathedrale di Mantova (1558), del Libro del debito del sacerdote di s. Thomaso d'Aquino (1560) e di un testo d'istruzione intitolato Breve ricordo… delle cose spettanti ala vita de chierici… (1561), ricalcato letteralmente sull'omonima opera promossa dal Giberti per la diocesi di Verona (uscita nel 1530). Vita più difficile ebbero invece le scuole della dottrina cristiana, istituite dal 1542 per l'insegnamento ai fanciulli dei fondamenti della fede cattolica, ma già quasi dissolte dopo la metà del secolo.

I rapporti con Roma rimasero difficili. Nel luglio 1556 Paolo IV gli indirizzò un fermo breve per stimolarlo a rientrare e, durante la crisi con gli Asburgo, fece imprigionare il suo segretario, Camillo Capilupi. Con il ritorno della pace la situazione non parve migliorare: nel 1558 il duca di Firenze Cosimo lo avvisò che la sua corrispondenza era regolarmente intercettata da "quelli signori papisti" (in Firpo, 1997, p. 387). Infine, durante il 1559, il G. si espose ripetutamente a favore del card. G. Morone, inquisito per eresia, promuovendo e sollecitando in suo aiuto l'azione degli Asburgo. Il suo consiglio di cercare di dilatare i tempi, in particolare, si dimostrò opportuno, perché Paolo IV morì nell'agosto 1559, prima della conclusione della vicenda processuale. Nel conclave che seguì il G. ebbe un ruolo di primo piano, potendo contare sull'appoggio di alcuni principi italiani (i duchi di Firenze, di Ferrara e d'Urbino, oltre a quello di Mantova); in più nell'estate 1558 aveva fatto sondare l'atteggiamento dei Farnese nei suoi confronti, e a fine agosto del 1559 la sua candidatura aveva guadagnato l'appoggio francese in caso non fosse possibile far eleggere i cardinali più apertamente schierati (come Ippolito d'Este o Jean de Tournon).

Il G. raggiunse Roma nel settembre 1559: subito fu proposto il suo nome, come bene accetto a tutte le fazioni. Il card. C. Madruzzo, tuttavia, non riuscì a far convergere su lui tutto il gruppo dei cardinali legati agli Asburgo, perché solo apparentemente egli era gradito agli Spagnoli. Un tentativo di sua elezione per adorazione (nella notte fra il 22 e il 23 settembre) fu sventato da Alessandro Farnese e Guido Ascanio Sforza (capo del partito spagnolo), guadagnando solo 22 voti. Con l'arrivo a Roma dell'ambasciatore di Filippo II, Francisco Vargas, le speranze del G. si assottigliarono e già all'inizio di ottobre era chiaro che il suo nome non era gradito al sovrano spagnolo: a nulla valsero una verifica delle residue possibilità, che egli commissionò a Francesco Gonzaga, conte di Novellara, presso Cosimo de' Medici, come alcuni tentativi di guadagnare appoggi in conclave col denaro. Il G. tentò allora di forzare la mano con un colpo di scena: il 10 novembre annunciò il ritiro della candidatura con un discorso in conclave, cui seguirono trattative per guadagnare la fazione legata ai cardinali Carafa e un ultimo, improvviso tentativo di elezione per adorazione, il 13 dic. 1559.

Pochi giorni dopo fu raggiunto l'accordo sul card. Giovan Angelo de' Medici, eletto col nome di Pio IV il 25 dicembre. Il G. (assunti incarichi di governo nello Stato della Chiesa, come la legazione della Campagna e Marittima) tornò a Mantova e curò di verificare la propria posizione alla corte di Filippo II, in vista di un futuro conclave. A Roma poteva giovarsi dei legami contratti tra i Gonzaga e la famiglia del pontefice, che secondo l'ambasciatore spagnolo Vargas mostravano la creazione di una "fación mantuana" (cit. in Drei, La politica di Pio IV…, p. 96), pronta a garantire al G. la successione al soglio. Egli tuttavia non doveva esporsi eccessivamente: rimase in disparte durante il processo ai Carafa e diede istruzioni al nipote Cesare Gonzaga (recatosi a Roma nell'agosto 1560) di guadagnare consenso a suo favore sollecitando nuove nomine cardinalizie, curando i rapporti con le potenze cattoliche e mostrandosi disponibile verso i Farnese, noti come i più acerrimi oppositori. Nel dicembre successivo fu concluso un accordo di riconciliazione fra le due famiglie, in forma di un vero atto pubblico.

A questa data il G. era pienamente coinvolto nel progetto di papa Medici di riaprire il concilio di Trento (indetto con la bolla del 29 nov. 1560 Ad Ecclesiae regimen). Pio IV intendeva nominarlo legato, sebbene egli si fosse dichiarato indisponibile: il G. infatti temeva che l'entrata nel dibattito sulla riforma della Chiesa avrebbe pregiudicato le sue speranze di ascendere al soglio pontificio e probabilmente conosceva la fiera opposizione in merito dell'ambasciatore Vargas, il quale, alludendo alla sua debolezza d'udito e alla lacunosa preparazione teologica, aveva criticato il papa per volere una "lecación sorda y muda" (lettera a Filippo II da Roma, 22 dic. 1560, in Firpo, 1992, p. 323) e soprattutto sospetta per le frequentazioni del G. negli anni Trenta e Quaranta.

Così, solo dopo aver ricevuto alla fine del 1560 un breve pontificio di sollecito e accolto una missione del nobile romano Giuliano Cesarini, che lo convocava a Roma, il G. accettò l'incarico (inizio del febbraio 1561), ponendo comunque specifiche condizioni volte a guadagnare l'appoggio spagnolo. Pio IV si dimostrò disponibile ad assecondarlo, ma il contesto internazionale lo obbligò a pubblicare la sua nomina in concistoro già il 14 febbraio e a spedirgli poco dopo l'ordine di recarsi in Trento.

Il G. mosse il 1° apr. 1561 e il 16 entrò in città insieme con Girolamo Seripando, collega di legazione, prendendo alloggio in palazzo Thun insieme con un folto seguito. Con modi principeschi accolse poco dopo Eleonora d'Austria, diretta a Mantova per sposare Guglielmo Gonzaga, offrendole un banchetto nel castello del Buon Consiglio. Poiché l'afflusso di vescovi e teologi era stentato e mancavano informazioni sulle trattative con i principali regni cattolici per l'accettazione della bolla del concilio, il G. confessò di sentirsi "mezzo fuor del mondo, nelle Indie" (a B. Pia, da Trento, 11 maggio 1561, cit. in Drei, Il cardinale E. G.…, p. 184 n. 1) e iniziò a studiare gli antichi concili e le materie trattate nelle precedenti sessioni del Tridentino; quindi, nell'estate seguente, cercò spazi per assicurare l'intervento dei protestanti all'assemblea e in settembre, giudicando necessario conoscere l'esatta portata del proprio mandato, sottopose al card. nipote Carlo Borromeo alcuni quesiti sulla natura dell'assemblea (continuazione dei precedenti concili tridentini o nuova indizione), sulle materie da trattare, sulla reazione da adottare in caso fosse posta in discussione la superiorità del papa sul concilio. Roma rispose in difesa dell'autorità pontificia e limitò l'ipotesi di ammissione dei protestanti agli oltremontani privi di carichi pendenti con l'Inquisizione. Il G. come decano presiedeva il collegio dei cardinali legati (che includeva anche G. Seripando, Iacopo Simonetta e Stanislao Hosius): mancandogli però poteri effettivi, si convinse che le ripetute attestazioni di stima del pontefice erano poco più che formali; colse così l'occasione dell'arrivo in Trento del card. Simonetta (dicembre 1561) per dichiararsi di nuovo inadatto all'incarico. Pio IV continuò ad assicurargli ampio credito, confidando probabilmente nella sua autorità per controllare le spinte autonomiste dell'assemblea. Se ne ebbe prova già nel gennaio 1562: quando i prelati spagnoli, capeggiati da Pietro Guerrero, arcivescovo di Granata, chiesero che il concilio si definisse ufficialmente come la continuazione di quello tenuto sotto Paolo III e Giulio III (contro il volere dell'imperatore Ferdinando e dei Francesi), fu il G. a farli recedere.

In occasione dell'apertura dei lavori (18 genn. 1562) il G. cantò la messa dello Spirito Santo. Fin dalle prime discussioni il suo punto di vista apparve chiaramente non allineato a quello di Roma: insieme con il progetto di revisione dell'Indice di Paolo IV, emerse infatti la proposta di concedere ad autori ed editori condannati la possibilità di essere ascoltati e di consentire a chi si fosse allontanato dalla Chiesa di presentare le proprie ragioni al sinodo generale. A differenza del Simonetta, patrocinatore degli interessi della corte romana, il G. considerava opportuno mitigare il rigore fino allora dimostrato, anche concedendo un perdono generale agli eretici che si fossero recati a Trento. Una parte dei vescovi si raccolse attorno a questo disegno, ben visto dalla corte imperiale, e a metà febbraio 1562 fu proposto di concedere un salvacondotto a coloro che volessero presentarsi al concilio: per le forti resistenze fra i prelati più vicini al pontefice e fra quelli spagnoli (che temevano fosse pregiudicata l'autorità dell'Inquisizione spagnola) il G. fu costretto prima ad attendere istruzioni da Roma (che giunsero il 20 febbraio, con la richiesta di evitare i principali temi di riforma della Chiesa), poi ad accettare una forte restrizione. Nella congregazione generale del 4 marzo, infatti, un salvacondotto simile a quello del 1552 fu offerto esplicitamente solo ai seguaci della Confessio Augustana.

Cautamente, il G. seguitò a tentare di imprimere una maggiore spinta ai lavori conciliari, insieme con il card. Seripando. Si dedicò soprattutto a governare gli umori dell'assemblea, per mantenere un indirizzo unitario; tuttavia le fasi successive della discussione videro divisioni vieppiù laceranti. L'11 marzo 1562 era stato presentato un elenco di temi di riforma, selezionati da un memoriale ispirato alle esperienze di governo pastorale dei vescovi, noto come "libello italiano di riforma". Esso conteneva materie che Pio IV aveva avocato a sé; soprattutto faceva esplicita menzione dell'obbligo di residenza dei vescovi nelle diocesi, argomento scottante e fortemente avversato all'interno della corte di Roma. Nella seconda metà di marzo il papa tentò, senza successo, di bloccare la discussione sulla questione se l'obbligo di residenza fosse de iure divino (quindi cogente indipendentemente dall'autorità pontificia); nel mese successivo il tema fu al centro di dispute accese che il G., mostrandosi neutrale, riuscì, pur con qualche difficoltà, a governare. Quando però si trattò di trarre le conclusioni, non aderì alla proposta del Simonetta di eliminare dal progetto di decreto ogni accenno all'obbligo de iure divino e verificò le posizioni in campo: il 9 aprile inviò a Roma Federico Pendaso, per conoscere dal papa le reali possibilità del concilio di varare una riforma della Chiesa di ampio respiro, e acconsentì a una votazione che facesse conoscere il parere della maggioranza dell'assemblea.

La consultazione (20 apr. 1562) vide sconfitti i sostenitori dello ius divinum: il G. parve particolarmente impensierito per il voto espresso da un quarto dei padri non secondo coscienza, ma "consulto sanctissimo domino nostro" (Sarpi, p. 789), cioè secondo le disposizioni di Roma. Si era infatti formato fra i padri conciliari uno schieramento (capeggiato da Giantommaso Sanfelice, vescovo di Cava) che difendeva aggressivamente gli interessi romani e muoveva forti critiche nei confronti dei legati e del G. in particolare. La sua posizione si indebolì: la risposta di Pio IV al Pendaso (fine aprile) era sembrata conciliante verso più ampie prospettive di riforma, ma poche settimane dopo giunsero da Roma un secco ordine di bloccare le discussioni sulla residenza e l'ammonizione a procedere uniti (cioè a seguire il Simonetta). In più, si diffusero voci della nomina di nuovi legati e il cardinale Francesco Gonzaga, da Roma, inviò a Trento A. Cavriano per informarne il G. e disporlo ad accettare l'ipotesi. Quando il Cavriano tornò a Roma (maggio 1562), mentre era temporaneamente tramontata l'ipotesi di allargare il collegio dei legati, il G. gli affidò ampie giustificazioni del proprio operato per il card. Borromeo, dimostrando nondimeno irritazione e ferma intenzione di partire. Il suo rapporto di fiducia con Roma, del resto mai decollato, parve vieppiù in crisi: con nuova convinzione Pio IV, pur giudicando in pubblico soddisfacenti le sue giustificazioni, era deciso a nominare nuovi legati e solo l'intervento del Borromeo lo dissuase. Nel contempo sul G. si addensavano nuovi motivi di insoddisfazione: non aveva voluto soddisfare la richiesta dell'ambasciatore spagnolo al concilio (Fernando Francisco d'Ávalos) di una pronuncia sulla continuità con le precedenti sessioni tridentine e, tentando di arginare le richieste dei prelati fautori della riforma, il 23 maggio 1562 aveva promesso che si sarebbe tornati sulla residenza nell'esame del sacramento dell'ordine. Il G. si difese addossando all'Hosius la responsabilità d'aver ignorato la richiesta di Roma di dichiarare il concilio prosecuzione di quello tenuto a Trento; sostenne pure che aveva dovuto concedere nuovi dibattiti sulla residenza per le forti pressioni dell'assemblea, soprattutto dei vescovi spagnoli.

I lavori erano in stallo, mentre le condizioni di salute del G. peggioravano; egli comunque intervenne alla congregazione generale del 6 giugno, esponendosi per porre fine a una polemica sulla residenza tra gli arcivescovi Giovan Battista Castagna e P. Guerrero. Assicurando l'assemblea che si sarebbe tornati sull'argomento, però, irritò di nuovo Pio IV, che negli stessi giorni lo richiamò ufficialmente al ruolo di legato, obbligato ad attenersi alle disposizioni superiori. Questo argomento dovette pungere con forza il G., che giustificò ancora il proprio operato, sottoposto a pressioni da più parti, ma soprattutto rivendicò la qualifica di "servitore che si truova a trattare un negotio d'importanza del principe" (a F. Gonzaga, da Trento, 15 giugno 1562, in Drei, La corrispondenza…, p. 63) e dunque nel farlo deve avere piena autonomia.

Poco dopo la discussione sui primi articoli di una bozza di decreto sull'eucarestia riportò i dibattiti alle materie dottrinali e il G. si recò a Pergine Valsugana per curarsi. Le notizie dei crescenti malumori della Curia, la continua opposizione a Trento dei prelati riuniti attorno al vescovo Sanfelice, appoggiati dal Simonetta, lo fecero risolvere a inviare a Roma un suo gentiluomo Francesco Arrivabene, per chiedere di essere congedato. A Trento il suo atteggiamento era noto e creava disappunto soprattutto fra i rappresentanti diplomatici; Pio IV, tuttavia, non accettò la richiesta e anzi, con breve del 29 giugno 1562, gli rinnovò la fiducia e lo sollecitò a rappacificarsi col Simonetta (come avvenne nel luglio).

Nelle stesse settimane i lavori si erano concentrati su un altro tema delicato, la concessione del calice ai laici nella celebrazione dell'eucarestia (la comunione sotto le due specie). Il G. (ancora insieme con il Seripando) si mostrava favorevole, ma prevedendo le opposizioni di Roma nei confronti di quanto sarebbe parso una concessione al fronte protestante agì per rinviarne la discussione, nonostante le pressioni delle rappresentanze imperiale e francese. Così, la sessione del 16 luglio 1562 approvò solo quattro canoni sull'uso dell'eucarestia e un decreto di riforma su materie marginali, destando nuova insoddisfazione a Roma.

Perciò il G. si tenne relativamente in disparte durante le lunghe discussioni fra teologi sul sacrificio della messa (estate 1562), aderendo al proposito della maggioranza dei padri di ribadirne con forza il carattere sacrificale. Si schierò più apertamente sulla concessione del calice ai laici, trattata dalla fine di agosto: quando, infatti, emerse la proposta di limitarla ai domini asburgici (con la denominazione di "indulto"), la appoggiò. Le resistenze degli intransigenti (appoggiati di nuovo dal Simonetta) sfociarono a metà settembre nella proposta, non approvata, di deferire la questione al papa e il G. cercò di contenere i malumori degli ambasciatori imperiali, interessati alla materia. Il 17 settembre furono così ammessi i decreti sul sacrificio della messa e la sua forma liturgica, insieme con uno di riforma su materie di scarso rilievo. Con forti opposizioni, fu altresì sanzionato un nuovo decreto sulla trasmissione al papa della questione dell'indulto.

Nelle settimane seguenti, quando iniziò il dibattito sul sacramento dell'ordine, il G. si assentò più volte dai lavori, lasciando la presidenza al card. Hosius. Nella congregazione generale del 20 settembre, sollecitò la conclusione della revisione dell'Indice dei libri proibiti: in materia aveva preso peraltro iniziative personali di rilievo, difendendo un'edizione purgata di alcune opere del Machiavelli, dovuta al Muzio. Dovette difendersi comunque da nuove accuse di aver favorito la concessione del calice ai laici e supponendo "che alcuni di quelli signori inquisitori restino mal satisfatti di me et aspetti tempo di risentirsi nel conclavi [sic]" (a F. Gonzaga, da Trento, 1° ott. 1562, in Drei, La corrispondenza…, p. 110), denunciò questi sospetti dottrinali come strumentali. In un tale clima, all'inizio del successivo novembre, tornò a occuparsi dei dibattiti sulla residenza: sventato il disegno del Simonetta di affidare la questione al papa, nella forma utilizzata per la concessione del calice ai laici, fece stendere una bozza di decreto secondo le indicazioni romane (favorevoli a sanzioni contro l'inosservanza della residenza, ma senza cenno allo ius divinum) e la propose all'assemblea. Tuttavia il quadro mutò all'arrivo della delegazione francese (13 nov. 1562), che avanzò a riguardo proposte male accette a Roma. Seguirono settimane di dibattito molto acceso. Il G. si concentrò sulle ipotesi di compromesso, affidandosi alle capacità di mediazione del cardinale Carlo di Guisa, capo della delegazione francese. Quando però comprese i rischi di nuove lacerazioni e addirittura di una rottura, paventando le minacce degli ambasciatori francesi di rivendicare la superiorità del concilio sul pontefice, chiese di nuovo - ancora senza essere ascoltato - di essere sostituito.

Tentò allora di tenere la sessione prevista per il 4 febbr. 1563, sollecitando i lavori sul sacramento dell'ordine e l'obbligo di residenza. Anche quando si impose comunque un rinvio propose di accelerare i lavori, con più frequenti congregazioni di teologi e con la nomina di commissioni per trattare gli abusi. Ormai, però, si mostrava pessimista sulla possibilità che il sinodo generale affrontasse la riforma, poiché aumentavano le pressioni esterne da parte di Roma e dei sovrani cattolici; presagì persino un possibile scioglimento dell'assemblea, poiché molti padri chiedevano di partire.

Alla fine di febbraio il G. cadde malato. I medici diagnosticarono dapprima una influenza, ma si trattò più probabilmente di una polmonite. Indebolito da ripetuti salassi, dopo qualche giorno parve in evidente pericolo di vita. Ricevuti i conforti religiosi da Diego Laínez, preposito generale della Compagnia di Gesù, spirò poco prima della mezzanotte del 2 marzo 1563.

Nel testamento fece lasciti per il Monte di pietà di Mantova, per i gesuiti, per prelati del concilio a lui più prossimi e per i funzionari del seguito. Non vi nominò invece i quattro figli: Anna, monaca nel convento domenicano di S. Vincenzo (insieme con Ippolita Gonzaga, sorella del G.), Camillo, Isabella (o Elisabetta, sposata al conte Federico Maffei) e Giulio Cesare, nato nel 1557 e più tardi (nel 1576) attore di una causa di riconoscimento di paternità presso il Senato mantovano. Anna poté comunque contare su un breve di Pio IV (29 maggio 1563), che ingiungeva agli esecutori testamentari di provvedere alla sua tutela. Precedenti lasciti avevano altresì riguardato le collezioni librarie e d'arte del Gonzaga. Fu smembrata, invece, la biblioteca, che vantava 482 testi di teologia e di scienze bibliche, 140 libri "luterani", 186 di filosofia, 471 "di humanità" e 150 "libri antiqui, parte scritti a mano et parte stampati, di diverse materie" (Brown, p. 223 n. 12). Quanto alle collezioni, i pregiati arazzi raffiguranti puttini commissionati nel 1542 a N. Karcher, insieme con quelli della serie degli atti degli apostoli, ritessitura dai celebri disegni di Raffaello per la Sistina, furono lasciati al duca Guglielmo Gonzaga.

Il G. aveva amato particolarmente le arazzerie. Il Karcher aveva tessuto su sua commissione una serie sulla Storia di Mosè, insieme con pezzi minori. Altri manufatti il G. aveva fatto acquistare nelle Fiandre, servendosi della mediazione del genero F. Maffei, come testimonia un documento nel quale gli commissionò lavori che "havessero dentro della seta et un poco d'oro et d'argento, et che insieme fossero di cosa conveniente al grado et profession sua, cioè che non contenessero favola o cosa lasciva, ma qualche istoria della scrittura et del Testamento vecchio" (Peretti, p. 34). La sua committenza si era espressa però anche in altri campi. A Mantova innanzitutto, durante i primi anni della reggenza, era stato a stretto contatto con Giulio Romano: nel 1540 gli aveva commissionato il rinnovo degli appartamenti nel palazzo vescovile (in un'ala demolita nel sec. XIX) e, nell'aprile 1545, dopo che quegli si era occupato della chiesa dell'abbazia di S. Benedetto Polirone, gli aveva affidato il completo restauro del duomo, che manteneva ancora fogge romaniche. Furono così demoliti la cripta, il vecchio coro e le cappelle, mentre il corpo centrale fu articolato in cinque navate e, a partire dal 1552, furono eseguite dieci pale d'altare per le nuove cappelle laterali. In questi lavori furono coinvolti, fra gli altri, I. Costa, G. Bedoli, F. Ghisoni. Quest'ultimo, in particolare, fra gli artisti locali, aveva goduto della stima del G., che nel 1538 gli aveva commissionato una pala raffigurante l'Assunzione di Maria per la chiesa dell'abbazia di Felonica e nel 1545 un Ritratto del Pomponazzi per il Museo di Paolo Giovio. Lo stesso fu probabilmente autore della Deposizione con il card. Ercole Gonzaga (Mantova, chiesa di S. Egidio), uno dei pochi ritratti del G., insieme con quello, in età avanzata, conservato nella sacrestia del duomo di Mantova.

La committenza pubblica non esaurisce i rapporti del G. con le arti. Già nel 1528 a Roma aveva commissionato lavori a B. Cellini, e negli anni Trenta aveva seguito quelli di Michelangelo (anche se con questi non sono documentati rapporti diretti), procurandosi copie di suoi disegni (tra cui quello del Cristo con la Samaritana, da un originale per Vittoria Colonna). Nella sua collezione di tele, insieme con molti ritratti di famiglia e con quelli "de signori todeschi et luterani" (Brown, p. 218), spiccava il Ritratto allegorico di Carlo V del Parmigianino (ora a New York, coll. privata Rosenberg & Stiebel Inc.). La relazione più stretta fu però quella con Giulio Romano, cui commissionò molti oggetti d'argento per la casa e le proprie armi (rimaste in due versioni, presso la Devonshire Collection a Chatsworth e il Teylersmuseum di Haarlem). Quando Giulio Romano morì, nel 1546, il G. dichiarò al fratello Ferrante il proprio smarrimento in una celebre lettera, confessando di sembrargli "perduta la mano destra" e di consolarsi solo col pensiero di poter ora "spogliarsi dell'appetito del fabbricar, degli argenti, delle pitture" e di "sepelir con lui tutti i miei desiderii" (Brown - Delmarcel, p. 53).

Al G. risale anche, più o meno direttamente, un certo numero di scritti ed edizioni. Apparvero col suo nome l'Ordo baptizandi secundum ritum Romanae Ecclesiae ad usum civitatis Mantuae (Mantuae, apud Venturinum Ruffinellum, 1558) e il Breve ricordo di monsignor illustrissimo et reverendissimo monsignor Hercole Gonzaga cardinale di Mantova delle cose spettanti ala vita de chierici, al governo delle chiese, et alla cura delle anime di questo vescovato di Mantova. Ristampato nel mese di marzo 1561… (Mantova, per Giacomo Rossinelli, 1561). Rimane anche una sua orazione al concilio (Responsio illustrissimi principis et reverendissimi cardinalis Mantuani, ad illustrissimum cardinalem a Lotharingia… acta et habita omnia in congregatione generali. Die XXIII nov. 1562, Tridenti-Bononiae, Typis Ioannis Rubei, 1562).

Fonti e Bibl.: Per la corrispondenza e le fonti manoscritte vedi: A. Segre, Un registro di lettere del cardinale E. G. (1535-1536), con un'appendice di documenti inediti, in Miscellanea di storia italiana, s. 3, XVI (1913), pp. 273-458, in partic. pp. 271 ss.; J.F. Montesinos, Cartas inéditas de Juan de Valdés al cardenal G., Madrid 1931, pp. XX s. n. 1; Mantova. Le lettere, II, L'esperienza umanistica. L'età isabelliana e autunno del Rinascimento mantovano, a cura di E. Faccioli, Mantova 1962, ad ind., in partic. p. 479 n. 110.

Relazione di Mantova dell'anno 1540, in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, II, Firenze 1841, pp. 9-24; M. Sanuto, I diarii, Venezia 1879-1903, XXVII-LVII, ad indices; V. Colonna, Carteggio, a cura di E. Ferrero - G. Müller, Torino 1889, pp. 137-140; W. Friedensburg, Der Briefwechsel Gasparo Contarinis mit E. G., in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, II (1899), pp. 161-222; Concilium Tridentinum. Diariorum, actorum, epistularum, tractatuum nova collectio, I-XIII, Friburgi Brisgoviae 1901-38, ad indices; G. Drei, Per la storia del concilio di Trento. Lettere inedite del segretario Camillo Olivo (1562), in Arch. stor. italiano, LXXIV (1916), pp. 246-287; Id., Il cardinale E. G. alla presidenza del concilio di Trento, in Arch. della R. Società romana di storia patria, XL (1917), pp. 205-245; XLI (1918), pp. 171-222; Id., La corrispondenza del card. E. G. presidente del concilio di Trento, in Arch. stor. per le provincie parmensi, n.s., XVII (1917), pp. 185-242; XVIII (1918), pp. 29-143; L'Archivio Gonzaga di Mantova, I-II, a cura di P. Torelli - A. Luzio, Verona 1920-22, ad indices; F. Guicciardini, Storia d'Italia, a cura di S. Seidel Menchi, Torino 1971, ad ind.; P. Sarpi, Istoria del concilio Tridentino, a cura di C. Vivanti, Torino 1974, ad ind.; P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, I-IV, Bologna 1987-93, ad indices.

Herculis Gonzagae cardinalis Mantuani Laudatio habita pridie cal. Aprilis MDLXIII a Lodovico Corado Mantuano in aede divi Augustini, Pisauri 1563; Componimenti volgari, et latini di diversi eccellentissimi autori in morte di monsignor Hercole Gonzaga, cardinal di Mantova. Con la vita del medesimo descritta dall'Asciutto, accademico Invaghito [Giulio Castellani], Mantova, appresso Giacomo Ruffinelli, 1563; A. Luzio, Vittoria Colonna, in Riv. stor. mantovana, I (1885), pp. 1-52; Id., E. G. allo Studio di Bologna, in Giorn. stor. della letteratura italiana, VIII (1886), pp. 374-386; A. Luzio, Un pronostico satirico di Pietro Aretino, Bergamo 1900, pp. 8, 31, 62, 87 ss., 108 s., 150-152; A. Luzio - R. Renier, Coltura e relazioni letterarie d'Isabella d'Este, Torino 1903, passim; E. Solmi, La fuga di Bernardino Ochino secondo i documenti dell'Archivio Gonzaga di Mantova, in Bull. senese di storia patria, XV (1908), pp. 23-98; G. Buschbell, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVI. Jahrhunderts, Paderborn 1910, ad ind.; G. Drei, La politica di Pio IV e del card. E. G., in Arch. della R. Società romana di storia patria, XL (1917), pp. 65-115; L. von Pastor, Storia dei papi, IV-VII, Roma 1923-28, ad indices; L. Bertazzi Nizzola, Infiltrazioni protestanti nel Ducato di Mantova (1530-1563), in Boll. stor. mantovano, I (1956), pp. 102-130, 258-286; II (1957), pp. 205-228 e passim; Mantova. La storia, II, Da Ludovico secondo marchese a Francesco secondo duca, a cura di L. Mazzoldi, Mantova 1961, ad ind.; A. Prosperi, Di alcuni testi per il clero nell'Italia del primo Cinquecento, in Critica storica, VII (1968), pp. 137-168; Id., Tra evangelismo e Controriforma. G.M. Giberti (1495-1543), Roma 1969, ad ind.; G. Fragnito, Gli "spirituali" e la fuga di Bernardino Ochino, in Riv. stor. italiana, LXXXIV (1972), pp. 777-813; H. Jedin, Il figlio d'Isabella d'Este, il cardinale E. G., in Id., Chiesa della fede, Chiesa della storia, Brescia 1972, pp. 499-529; Ph. McNair, Pietro Martire Vermigli in Italia. Un'anatomia di un'apostasia, Napoli 1972, ad ind.; C. Ginzburg - A. Prosperi, Giochi di pazienza. Un seminario sul "Beneficio di Cristo", Torino 1975, pp. 164 s., 174-177; P. Simoncelli, Il caso Reginald Pole. Eresia e santità nelle polemiche religiose del Cinquecento, Roma 1977, ad ind.; C. Mozzarelli, Lo Stato gonzaghesco. Mantova dal 1382 al 1707, in L. Marini - G. Tocci - C. Mozzarelli - A. Stella, I Ducati padani, Trento e Trieste, Torino 1979, pp. 357-495, ad ind.; H. Jedin, Storia del concilio di Trento, Brescia 1979-88, ad indices; R. Rezzaghi, Il Catechismo di Leonardo de Marini nel contesto della riforma pastorale del card. E. G., Roma 1986; R. Rezzaghi, Il cardinale E. G. al conclave del 1559. Nuovi contributi dal manoscritto di Thomaso Vertua, in Civiltà mantovana, XV (1987), pp. 41-52; A. Jacobson Schutte, Pier Paolo Vergerio e la Riforma a Venezia. 1498-1549, Roma 1988, ad ind.; C.M. Brown, Paintings in the collection of cardinal E. G., in Giulio Romano. Atti del Convegno internazionale di studi 1989, Mantova 1991, pp. 203-226; S. Pagano, Il processo di Endimio Calandra e l'Inquisizione a Mantova nel 1567-1568, Città del Vaticano 1991, ad ind.; M. Firpo, Inquisizione romana e Controriforma. Studi sul cardinal Morone e il suo processo d'eresia, Bologna 1992, ad ind.; Id., Riforma protestante ed eresie nell'Italia del Cinquecento. Un profilo storico, Roma-Bari 1993, ad ind.; F. Rurale, I cardinali di casa Gonzaga, in Annali di storia moderna e contemporanea, I (1995), pp. 371-389; C.M. Brown - G. Delmarcel - A.M. Lorenzoni, Tapestries for the courts of Federico II, E., and Ferrante Gonzaga, 1522-63, Seattle-London 1996, ad ind.; R. Rezzaghi, Infiltrazioni protestanti nel Mantovano all'epoca di E. G., in Castiglione delle Stiviere. Un principato imperiale nell'Italia padana (sec. XVI-XVIII), a cura di M. Marocchi, Roma 1996, pp. 231-242; La corte di Mantova nell'età di Andrea Mantegna 1450-1550. Atti del Convegno, a cura di C. Mozzarelli - R. Oresko - L. Ventura, Roma 1997, ad ind.; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a S. Lorenzo. Eresia, politica e cultura nella Firenze di Cosimo I, Torino 1997, ad ind.; G. Peretti, La pittura a Mantova nell'età di E., in Manierismo a Mantova. La pittura da Giulio Romano all'età di Rubens, a cura di S. Marinelli, Milano 1998, pp. 33-52; R. Tamalio, La memoria dei Gonzaga, repertorio bibliografico gonzaghesco, 1473-1999, Firenze 1999, ad ind.; A. Prosperi, L'eresia del libro grande. Storia di Giorgio Siculo e della sua setta, Milano 2000, ad ind.; Enc. Italiana, XVII, sub voce; Dict. d'hist. et de géogr. ecclésiastiques, XXI, coll. 620-628.

CATEGORIE
TAG

Castiglione delle stiviere

Indice dei libri proibiti

Baldassarre castiglione

Pietro martire vermigli

Marchese del monferrato