BENTIVOGLIO, Ercole

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 8 (1966)

BENTIVOGLIO, Ercole

Nicola De Blasi

Nacque da Annibale II e da Lucrezia, figlia naturale di Ercole I d'Este, non a Bologna o a Ferrara nel 1506, come per lungo tempo si è ripetuto, ma a Mantova nel 1507, secondo quanto ha dimostrato il Verdina con buona attendibilità.

Nell'elenco dei Bentivoglio espulsi da Bologna nel novembre 1506, in virtù dell'interdetto lanciato da Giulio II, Ercole ancora non compare, e che a quella data non fosse nato è attestato da una lettera della madre Lucrezia a Ippolito d'Este, spedita da Mantova il 3 apr. 1507. In essa ella afferma che, essendole stato intimato di lasciare la città nella quale aveva trovato rifugio con i suoi figli, soltanto per riguardo al suo stato di avanzata gravidanza le si sarebbe concesso di dimorarvi fino al 26dicembre. Una successiva lettera di Lucrezia a Ippolito d'Este, datata da Mantova il 18 ag. 1507, consente di stabilire meglio i termini entro i quali va fissata la data di nascita del B.: in essa Lucrezia chiede aiuti al fratello, "per ritrovarme - ella dice - con diexe figliuoli alle spalle". Poiché al momento della fuga da Bologna ad Annibale II venivano attribuiti soltanto nove figli, il decimo non può essere altri che Ercole, che avrebbe dunque visto la luce in un giorno compreso fra il 3 aprile ed il 3 agosto del 1507.

In quello stesso anno la madre lo condusse con sé a Milano e poi a Ferrara, dove i Bentivoglio avevano trovato un asilo sicuro presso la corte estense. Qui il B. visse fino al 1511, anno in cui il Trivulzio, occupata Bologna, la restituiva alla signoria dei Bentivoglio. Il B. seguì suo padre in questa città, per esulare definitivamente a Ferrara l'anno dopo, quando, in seguito alla battaglia di Ravenna, i Francesi abbandonarono il ducato di Milano e Giulio II riaffermò il suo predominio sull'Italia centrale.

L'educazione del B. si compì dunque alla corte dello zio, Alfonso I d'Este, nel periodo in cui Ferrara raggiungeva il suo massimo splendore. Affinò il suo gusto naturale, portato più alla riflessione che all'azione, sugli autori latini del periodo aureo e sui classici della letteratura volgare, traendo frutto anche dalla compagnia dei letterati che in quegli anni frequentavano la corte estense, e soprattutto dall'amicizia con l'Ariosto. Oltre agli studi di umanità, si dedicò con successo alla musica, arte nella quale - come sembra - fu più che un semplice dilettante.

La serenità di questa vita, dedita alle lettere e agli esercizi cavallereschi nel raffinato ambiente di corte, fu bruscamente interrotta nel 1529 dalle vicende della guerra che coinvolsero anche lo scrittore. In quell'anno, infatti, le truppe imperiali ponevano l'assedio a Firenze e il B. fu costretto a lasciare Ferrara e ad arruolarsi fra gli uomini di Ferrante Gonzaga. Furono mesi tristi per lui, che di quell'esperienza serbò sempre un cattivo ricordo.

Tornò a Ferrara nel 1530, dopo la caduta della Repubblica fiorentina, e pose mano a dar l'ultima veste a un suo poemetto, il Sogno amoroso, dato alle stampe in quell'anno stesso a Venezia e dedicato al cancelliere del duca Alfonso I, Pietro Antonio Acciaiuoli.

Il poemetto, in ottava rima, appare opera giovanile e immatura. Svolto in forma di visione-trionfo, con chiari intenti laudativi e adulatori, mescola reminiscenze dantesche a ricordi classici. Qualche squarcio descrittivo vi è condotto con piacevole garbo discorsivo che fa presentire il futuro scrittore di satire. È in questi versi che si ritrova il primo accenno alla sua familiarità con l'Ariosto, oltre che con altri letterati della corte estense, quali Francesco Maria Molza e lo stesso Acciaiuoli.

Nel 1534 il duca Alfonso I moriva, e il B. venne progressivamente distaccandosi dalla vita di corte, desideroso di maggior tranquillità e di una vita appartata, da dedicare agli studi e all'attività letteraria. Molto lo indispettivano gli incarichi diplomatici e le noiose faccende che gli Estensi venivano via via assegnandogli: piccoli incarichi, ma che bastavano a turbare la sua serenità.

Non per questo s'appartò dalla vita culturale della città. Era giunta a Ferrara in quegli anni Tullia d'Aragona, e presso di lei molti giovani si radunavano per comporre versi e far della musica, godendo della briosa conversazione della celebre cortigiana. Fra gli altri intervenivaanche il B., che per Tullia d'Aragona compose alcuni dei suoi primi sonetti: versi d'occasione, ma non privi talvolta di grazia e di spontaneità.

Pure, i suoi ozi letterari non erano più così sereni come nel passato. Leone X aveva restituito ai Bentivoglio i beni confiscati loro da Giulio II, ma alcune dispendiose liti familiari ne avevano intaccato la consistenza. La scarsità dei raccolti e altre traversie economiche distolsero il B. dall'attività poetica. Intorno al 1539 sposava tal Sigismonda Sugana, donna di nascita assai inferiore alla sua. Nel 1540 moriva il padre Annibale II e tre anni dopo, nel 1543, il B. perdeva anche la figlia, Giulia.

S'inizia tuttavia ora il periodo più proficuo per la sua attività letteraria. Il poeta ha contatti frequenti con l'ambiente culturale veneziano, grazie ai suoi numerosi viaggi in quella città. Nel 1540 dimora per un periodo forse non breve a Padova. A Ferrara, intanto, partecipa alle riunioni dell'Accademia degli Elevati e, quando essa nel 1541 si scioglie, passa all'Accadernia dei Filareti, nella quale stringe affettuosa amicizia con Alberto Lollio. Nel 1544 escono a Venezia due sue commedie in endecasillabi sciolti: I fantasmi e Il geloso.

La prima è quasi una versione, sia pur agile ed elegante, della Mostellaria plautina. Oltre all'edizione del 1544, se ne conoscono altre due uscite, sempre a Venezia, nel 1545 e nel 1547.

Più viva e originale è l'altra commedia del B., Il geloso, di cui uscirono a Venezia ben sei edizioni, oltre alla prima, nel 1545, 1547, 1548, 1560, 1592 e 1627; e che fu anche rappresentata a Verona nel carnevale del 1549 a cura dell'Accademia Filarmonica. I meriti dell'opera non sono nella trama, che sviluppa una situazione canonica del teatro comico: Mastro Erminio, un vecchio medico geloso, tormenta Madonna Brigida, la sua giovane moglie, senza che ella abbia la forza di reagire, finché la serva Nuta non interviene con le sue trappole e i suoi raggiri a punire la protervia del padrone. La novità è nei caratteri che molto hanno della vita, nei sentimenti che raramente appaiono artefatti o sforzati, nella lingua che è semplice, schietta, garbata, non priva di efficacia descrittiva.

Entrambe le commedie furono tradotte in francese e uscirono nel 1731 ad Oxford con il titolo Les Fantômes et le Jaloux, traduites par Jean Fabre. Tre altri lavori teatrali avrebbe scritto il B.: due commedie, Gli spiriti (ma si tratta assai probabilmente della commedia I fantasmi con il titolo mutato) e I romiti; nonché una tragedia, L'Arianna: opere tutte perdute, se pur mai portate a compimento.

Nel 1546 usciva a Venezia una raccolta di poesie del B. intitolata Le Satire, e altre rime piacevoli, ristampata sempre a Venezia nel 1550, 1557 e 1558.

Le satire sono sei, tutte scritte negli anni intorno al 1530, e vanno considerate la parte più valida di tutte la sua produzione letteraria. Il modello che di continuo gli è presente non è tanto l'Ariosto, pur ammirato ma del quale gli mancano i toni più aspri e risentiti, quanto Orazio dei più lievi Sermones. I tratti più riusciti di queste satire sono, infatti, quelli nei quali il B. inclina a una serena considerazione della vita quotidiana - come nella satira V che narra le pacifiche occupazioni della sua giornata ferrarese - o al doloroso stupore di fronte agli aspetti più violenti della vita - come nella satira II, nella quale le tristi esperienze vissute durante l'assedio di Firenze lo consigliano a lodare sommamente la pace. Meno efficaci appaiono, invece, quei componimenti in cui l'autore si rifà ai temi consacrati di questo genere, alla polemica, sempre un po' generica, contro i difetti del mondo.

La satira I riprende coloro che, innamorandosi in età adulta, fanno di questo amore l'unico scopo della loro vita. La satira II, dedicata ad Antonio Pietro Acciaiuoli, è una delle più vivaci: alcuni episodi di ferocia compiuti dalle truppe spagnole ai danni dei contadini di Toscana sono narrati con grande evidenza e con profonda umanità. La satira III, ad Antonio Musa, afferma che i buoni medici sono assai rari e che più d'ogni altro rimedio conviene all'uomo, quando sia sofferente, lasciar fare alla natura o ricorrere ai rimedi empirici, consacrati dall'esperienza dei padri. La satira IV riprende l'avarizia insaziabile degli uomini e invita alla moderazione nei desideri e negli affetti. Nella satira V il B. traccia con semplicità un quadro della sua giornata dedita agli studi, alle tranquille occupazioni di corte, alle conversazioni con gli amici. Fra gli altri, un brano gustoso rappresenta l'Ariosto mentre, passeggiando nel cortile del palazzo ducale, si fa beffe con il B. di alcuni poetastri. La satira VI, infine, esalta ancora una volta la vita mediocre, ma tranquilla, di coloro che sanno porre un freno ai propri bisogni. Le rime burlesche comprese nel volume si compongono di alcuni capitoli: versi di stretta e pedissequa derivazione bernesca.

Le satire del B., pur lodate dai contemporanei, non ebbero gran fortuna e si confusero ben presto nel gran mare di componimenti simili, che in quegli anni furono dati alle stampe. Va rilevato tuttavia che della satira I scrisse un'imitazione unpoeta spagnolo, Pedro de Padilla, con la sua Sátira en tercetos contra los enamorados, compresa nel volume Thesoro de varias poesías (Madrid 1580), che spesso ripete fedelmente intere terzine del Bentivoglio.

Intorno al 1550 il B. si stabilì pressoché definitivamente a Venezia. Qui, assieme con Anton Francesco Doni e con Francesco Sansovino, venne ascritto all'Accademia dei Pellegrini, che, oltre ai soliti esercizi poetici, si proponeva anche scopi umanitari, quali il soccorso dell'infanzia abbandonata e l'assistenza dei letterati bisognosi.

Il 30 maggio 1561 il B. dettò a Venezia nella canonica di S. Marco il testamento, dal quale apprendiamo che egli ebbe quattro figlie naturali: Ginevra, Emilia, Lucrezia e Violante.

Tornava spesso a Ferrara. Nel 1562 è al seguito del duca Alfonso II, durante la visita compiuta da quest'ultimo a Venezia; nel 1566 dimora per un certo tempo nella città estense. Come patrizio veneto, inoltre, in virtù dei privilegi ottenuti dal suo avo Giovanni II, prendeva parte alle sedute del Maggior Consiglio.

Morì a Venezia il 6 nov. 1573 e fu sepolto con un solenne rito funebre nella chiesa di S. Stefano degli Agostiniani.

Della sua produzione letteraria uscì a Parigi nel 1719 una raccolta completa, a cura dell'abate Giuseppe da Capua, con il titolo Opere poetiche del signor Ercole Bentivoglio. Oltre ai componimenti già citati, la raccolta comprende ventisette sonetti, alcune canzoni e capitoli, un epigramma latino a Lilio Gregorio Giraldi e infine due ecloghe: Galatea e Argilla.

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