Epitafi

Enciclopedia Dantesca (1970)

epitafi

Augusto Campana

Narra il Boccaccio nella Vita (prima redazione, ediz. Guerri, I 26-27; ediz. Ricci, 598-600; senza differenze di sostanza nelle redazioni compendiose, ediz. Guerri, I 82) che, conosciuto subito dopo la morte di D. il proposito di Guido Novello da Polenta di erigergli un magnifico sepolcro, parecchi poeti di Romagna composero e. metrici (evidentemente latini) e li mandarono al signore di Ravenna; che nessuno di essi fu realmente posto sulla tomba, avendo Guido perduto la signoria (1322) ed essendo poi morto esule a Bologna (1330); che tali componimenti furono in seguito mostrati a lui Boccaccio (certamente a Ravenna) e che egli, volendo sceglierne uno, giacché non più di uno sarebbe stato inciso sulla tomba, e avendoli tutti esaminati, " per arte e per intendimento più degni " giudicò i versi di Giovanni del Virgilio, che riporta. Anche se non fu " un vero e proprio concorso... ma una gara spontanea " (P.G. Ricci) l'episodio s'inquadra nelle consuetudini del tempo, testimoniate da più e. coevi per una sola persona conservati insieme nei manoscritti, e in qualche caso persino incisi sulla stessa pietra, e pertanto è credibilissimo.

Il più noto è appunto l'e. di Giovanni del Virgilio, di 7 distici, che comincia Theologus Dantis, nullius dogmatis expers, che fu trasmesso dal Boccaccio ma ebbe poi diffusione manoscritta anche in numerosi codici della Commedia e altrove (è possibile, sebbene finora non accertato, che qualcuna di queste copie sia indipendente dall'opera del Boccaccio). L'e. comincia con la presentazione di D. come sommo teologo, filosofo e poeta (su questo punto il riscontro più prossimo e più decisivo è quello con il commento di Pietro); prosegue ricordando la maggiore opera in volgare e l'ultima in latino, la Monarchia (" qui loca defunctis, gladiis regnumque gemellis / distribuit, laycis rhetoricisque modis ", vv. 5-6, altrettanto chiari quanto discussi), a cui aggiunge, com'è naturale per la parte che Giovanni stesso vi aveva avuto, le Egloghe, purtroppo interrotte dalla Parca (accenno importante per l'interpretazione tanto controversa dell'ovis gratissima e dei decem... vascula di Eg II 58-64); seguono la deplorazione dell'esilio e le lodi della ‛ pia ' ospitalità di Ravenna e di Guido Novello; l'e. si chiude con la data della morte (v. Giovanni del Virgilio).

Quando il Boccaccio scriveva la Vita, nessuno degli e. a lui noti era stato inciso sulla modesta tomba del poeta, e ugualmente, si direbbe, al tempo delle redazioni compendiose: bisognerà ammettere che il Boccaccio seguitasse a esprimersi così perché non ebbe notizia che la situazione nel frattempo era cambiata. In effetti, a una data abbastanza alta, le didascalie di alcuni e. trascritti in codici della Commedia c'informano che due di essi, quelli che cominciano Iura monarchiae, superos, Phlegetonta lacusque e Inclita fama cuius universum penetrat orbem, erano stati incisi sulla tomba, e almeno per il primo le testimonianze ci riportano a una data anteriore alle redazioni compendiose del Boccaccio. Questo fu certamente inciso sulla fronte dell'arca lapidea già usata per la sepoltura del poeta, il secondo invece in una posizione meno precisabile. Di più, qualche manoscritto isolato tra i molti ci ha fortunatamente conservato il nome dei loro autori. Non hanno invece, com'è stato dimostrato da C. Ricci, nessun carattere di attendibilità le indicazioni secondo le quali anche l'e. di Giovanni sarebbe stato inciso sulla tomba (testo interpolato della rubrica del Villani in alcuni codici della Cronica, F. Villani, codice Corsiniano 1365, G. Manetti).

Il primo, Iura monarchiae, appare già nel Laur. 40 22, codice scritto a Sassoferrato nel 1355, ma aggiuntovi dopo, forse poco dopo, questa data, con precise indicazioni topografiche: " Hy versus sunt scripti Ravennae in tumulo Dantis, in introitu ecclesiae beati Francisci a sinistra parte parvae portae ipsius ecclesiae, pro eius epitaphio ". Più importa il Canon. ital. 97 della Bodleiana di Oxford, il solo che ci fa conoscere l'autore: " Epitaffium ad sepulcrum Dantis in Ravenna urbe factum per dominum Bernardum de Canatro " (leggi " Canatio "); ivi seguono un " Sonettus de laude dicti domini Bernardi ", caudato con due versi, e un altro " Responsio dicti domini Bernardi ", con le stesse rime. L'autore del primo sonetto, che si professa " minimo dantista ", ringrazia calorosamente Bernardo di aver finalmente fatto incidere l'e. sulla tomba di D., dando prova dell'amore che gli aveva portato in vita. È evidente l'importanza di questo insieme di testi e la provenienza di tutto il dossier dallo stesso Bernardo, confermata da una variante d'autore al v. 5 dell'epitafio. L'ipotesi che il primo sonetto sia di ser Menghino Mezzani e che la breve corrispondenza si riferisca al periodo di una sua prigionia (maggio 1357-1360) e di una dimora di Bernardo a Ravenna (attestata nell'agosto 1356), sembra tuttora molto probabile. Il testo dell'e., di sei esametri rimati a coppia, conviene perfettamente a tutto ciò che sappiamo dell'autore, Bernardo di Canaccio Scannabecchi, cavaliere e uomo di cultura, membro di un'importante famiglia bolognese di parte lambertazza esiliata dal 1284 circa e ospite e protetta degli Scaligeri; Bernardo da giovane poté sicuramente conoscere D., come più tardi essendo podestà di Vicenza ebbe con sé, quale giudice e vicario, Pietro Alighieri. Il canone delle opere è limitato nell'e. alla Commedia e alla Monarchia: il rilievo dato a questa e l'insistenza sul motivo dell'esilio hanno probabilmente un significato personale che riceve luce dalla situazione della sua famiglia e dalle circostanze dei contatti con Dante (v. Scannabecchi, Bernardo). L'e. si vede tuttora sull'arca di D., ma non nella forma primitiva, certo in maiuscole gotiche, nella quale lo lessero gli antichi visitatori della tomba, giacché fu reinciso, probabilmente sulla medesima arca, quando Bernardo Bembo nel 1483 rivestì la tomba di forme rinascimentali. Al testo dell'e. furono allora premesse le lettere che significano " S[ibi] V[ivus] F[ecit] " (di altre interpretazioni non è nemmeno il caso di parlare): l'opinione che si trattasse di un autoepitafio poté facilmente nascere (è testimoniata già prima da Desiderio Spreti) semplicemente perché in esso, secondo un normale artificio retorico, parla il defunto in prima persona; e forse a questa credenza si deve la decisione di conservare nel rifacimento il testo dell'e., come d'altra parte al gusto epigrafico rinascimentale ormai invalso, del quale altre prove ci ha lasciato Bernardo Bembo anche nello stesso monumento, è da attribuire la sostituzione delle originarie forme gotiche con le nuove forme capitali d'imitazione romana.

Forse pochi anni dopo quello di Bernardo, fu inciso sulla tomba anche l'e. Inclita fama, in una posizione che le testimonianze disponibili non permettono di precisare: sulla stessa fronte o in altra parte dell'arca (per es. sul coperchio), o in una lastra infissa nel muro retrostante. Anche questo è comunque scomparso nel rifacimento del 1483. Il più antico dei codici della Commedia che ce ne dà notizia, scritto da Francesco di maestro Tura cesenate nel 1378, ora a Cologny (Ginevra) nella Biblioteca Bodmer, è anche il solo che c'informi dell'autore: " factum fuit per discretum virum S [er] Minghinum Meçanum de Ravenna ". Si tratta del conosciuto notaio ravennate, nato non dopo il 1295, morto nel 1375 o '76, in giovinezza amico e in qualche modo allievo di D., rimatore, epitomatore in rima della Commedia e cultore della poesia dantesca (" minimo dantista " nel sonetto citato). L'e., composto di 6 esametri ritmici (aspetto sinora non accertato: giudizio di S. Mariotti), si distacca dagli altri anche per il suo contenuto: nel giro di un solo periodo indica il nome, la patria e la data della morte, con un breve ma interessante elogio. Il primo verso sembra echeggiare il v. 2 di quello di Giovanni. L'interesse maggiore è dato dal v. 3: " conditor eloquii lumenque decusque latini ", vale a dire " fondatore e onore e lume della lingua italiana ". Non sembra che sia stata rilevata l'importanza a quella data di una tale definizione e neppure il calco di " lumenque decusque " da If I 82 (v. Mezzani,Menghino).

Niente si oppone a ritenere che i due e. di Bernardo e di Menghino siano stati composti già al tempo della morte di D., siano insomma di quelli che furono mostrati al Boccaccio. Ad essi si può accostare, sebbene per la sua estensione non potesse certamente essere un e., il carme in morte di D. di Ferreto Ferreti, del quale un testimone ineccepibile ci ha conservato i primi 4 dei 110 esametri di cui si componeva, con una data della morte diversa da quella tradizionale (" Idibus atra dies Augusti Caesaris ibat "; ediz. C. Cipolla, Le opere di Ferreto de' Ferreti vicentino, III, Roma 1920, 115). Nessun altro e. sicuramente contemporaneo è pervenuto fino a noi.

Certamente trecentesco, ma e. letterario, non reale, nonostante la didascalia, è l'" Epitafium ad sepulcrum Dantis Ravenae " tramandato anonimo nel codice Braidense ag XII 5, da cui lo trassero C. Ricci e indipendentemente da lui il Barbi (" Bull. " IV [1897] 159 n. 1), e con il medesimo titolo nel codice Ambrosiano C 145 inf. Ma il testo era già conosciuto da un altro codice, il Marc. lat. XIV 245, che lo presenta come " Epitaphium... compositum per... D. Franciscum Petrarcha ". Sono 17 esametri (inc. Hic iacet eloquii moles facunda latini; il primo verso sembra dipendere dall'e. di Menghino) che è difficile credere del Petrarca, come ha supposto lo Zingarelli, nonostante il buon livello stilistico. Si tratta a ogni modo di un componimento notevole per il ritratto di D. come poeta, sapiente e ‛ profeta ', e più ancora per la calda e consapevole esaltazione delle sue virtù di uomo e della sua fermezza di fronte alle avversità dell'esilio. Le singolari affinità di contenuto (soprattutto per questo ultimo punto) e qualche riscontro formale, che lo avvicinano a un altro componimento, sicuramente di Benvenuto (i 23 esametri Nescio quo tenui sacrum modo carmine Dantem, ediz. Del Balzo, II 476-478, e cfr. 494-496), rende probabile l'attribuzione a Benvenuto anche dell'epitafio Hic iacet eloquii. Uno dei due sembra rifacimento dell'altro.

Alla storia della tomba di D. spettano, sebbene non siano in senso stretto e., due epigrafi metriche umanistiche. La prima è l'iscrizione postavi da Bernardo Bembo per la sua ricostruzione del 1483 e certamente da lui composta, in tre distici, che cominciano Exigua tumuli, Dantes, hic sorte iacebas, più due linee con la data e il nome: " Bernardus Bembus prae[tor] acre suo pos[uit] ". Fu conservata nelle successive vicende della tomba, anche nelle ricostruzioni del 1660 e del 1780, e si legge ancora nella parete destra all'interno del sacello. La seconda è un'epigrafe di almeno due distici, il secondo dei quali mutilo e corrotto nel solo testo che se ne sia conservato (inc. Hoc iacet in tumulo Dantes, modo linquere saxum), che si leggeva " Apud S. Petrum ", cioè in S. Pier Maggiore, la stessa chiesa dantesca di S. Francesco. Il mistero che ha avvolto finora questo testo si può in parte chiarire, giacché la fonte dell'edizione datane da C. Spreti (I 401) è la silloge epigrafica di Giuliano Fantaguzzi (m. 1521) nel codice Classense 468, c. 76 v. L'epigrafe non è pertanto posteriore ai primi due decenni del Cinquecento, anzi si può considerare un testo umanistico quattrocentesco che fu sicuramente inciso presso la tomba di D., anche se ce ne rimangono ignoti origine e significato.

Le due epigrafi metriche ravennati s'inseriscono evidentemente nella tradizione degli e. letterari e dei componimenti affini iniziata già nel Trecento, come si è visto, e che ebbe un nuovo sviluppo nell'età del pieno Umanesimo per effetto della ripresa della fortuna di D. e in concomitanza con l'interesse crescente per la poesia epigrafica. Nella seconda metà del Quattrocento anche i primi tre e. trecenteschi, che fino allora avevano avuto una diffusione limitata quasi esclusivamente a codici della Commedia o a vite di D. e spesso contaminata con strane confusioni tra i vari testi, conobbero un nuovo tipo di tradizione manoscritta, meno nota ai dantisti, giacché furono spessissimo trascritti, non solo singolarmente, ma a due o a tre insieme, in numerose miscellanee umanistiche manoscritte.

Degli e. metrici esclusivamente letterari basterà ricordare quello di Cristoforo Landino (Xandra III 8, Carmina omnia, a c. di A. Perosa, Firenze 1939, 114; il Landino scrisse un epigramma anche per la ricostruzione del Bembo, Carm. varia 10, ibid 175 ss.). Del resto già allora e. vero e proprio (reale o destinato a esserlo), e. letterario, epigramma laudativo, prosopopea, sono generi che tendono a confondersi; quando il Dionisi comincerà a mettere un po' di ordine filologico intorno ai tre e. più antichi (1799) aggiungerà alla sua ricerca una raccoltina di ‛ epitafi ', nessuno dei quali è un vero epitafio.

Bibl. - D. Spreti, De amplitudine... urbis Ravennae..., a c. di C. Spreti, Ravenna 1793-1796, I 33, 276, 401; II I 346-351; G.I. Dionisi, Nuove indagini intorno al sepolcro di D. Allighieri in Ravenna (Serie di aneddoti, n. VII), Verona 1799; A. Reumont, Dichtergraeber. Ravenna, Arquà, Certaldo, Berlino 1846; A. Borgognoni, Il vero autore dell'epigrafe che si legge sul sepolcro di D., in " Rassegna settimanale " IV (1879) 239 ss.; [E. Alvisi], Sepulcrum Dantis, Firenze 1883; E. Moore, The tomb of D., in " English Historical Review " III (1888) 635-654 (poi in Studies on D., IV, Oxford 1917, 166 ss.); La vita di D. di G. Boccaccio, a c. di F. Macrì-Leone, Firenze 1888 (per la tradizione manoscritta dell'e. di G. del Virgilio); Il sepolcro di D., Documenti raccolti da L. Frati e C. Ricci, Bologna 1889, V-XXII, 1-14, con importante Bibl. retrospettiva alle pp. 135-148; C. Del Balzo, Poesie di mille autori intorno a D.A. raccolte..., I, Roma 1889, 261-268 (G. del Virgilio), 269-273 (Menghino); II, 1890, 72-81 (Bernardo), 163-164 (Hic iacet eloquii), ecc.; E. Moore, Contributions to the textual criticism of the D.C., Cambridge 1889, 509-685 passim (sui manoscritti della Commedia; indica sempre la presenza degli epitafi); C. Ricci, L'ultimo rifugio di D., Milano 1891 (ibid 19212, nuova ediz. a c. di E. Chiarini, Ravenna 1965); riguardano gli e. di D. e le iscrizioni metriche della tomba, nella parte II i capitoli 5, 8; nella III, i capitoli 1-4, 6, 11: si vedano nella terza ediz. le pp. 248, 260-262, 266-267, 287-308 per i tre più antichi e Hic iacet eloquii, 313-319 per B. Bembo, 346-350 per Hoc iacet in tumulo, e 532-534 note di aggiornamento di E.C.); La vita di D.-Testo del così detto Compendio attr. a G. Boccaccio, a c. di E. Rostagno, Bologna 1899, XXIII-XXIV, XXVIII, XXXIV (tradizione manoscritta dell'e. di Giovanni); P.H. Wicksteed, Del Virgilio's epitaph on D., in " The Athenaeum " n. 3795, 21 lug. 1900; n. 3796, 28 lug. 1900 (resoconto in " Bull. " IX [1901-02] 191); O. Antognoni, L'epigrafe incisa sul sepolcro di D., in Scritti vari di filologia [dedicati a E. Monaci], Roma 1901, 325-343 (attribuzione di Tura monarchiae a D. stesso; contra M. Pelaez, in " Bull. " IX [1901-02] 295-297); P.H. Wicksteed ed E.G. Gardner, D. and Giovanni del Virgilio, Westminster 1902, 130, 174-175, 243-244 (commento); C. Cipolla, La data della morte di D. secondo Ferreto dei Ferreti, in " Atti Accad. scienze Torino " XLIX (1913-14) 1214-1219 (poi in Gli studi danteschi, Verona 1921, 371-376); Zingarelli, Dante 1349-1357, 1360 (con posizioni ipercritiche); A. Rossi, Boccaccio autore della corrispondenza D.-Giovanni del Virgilio, in Scritti su G. Boccaccio, Firenze 1964 (già in " Miscellanea Stor. Valdelsa " LXI [1963]), 20, 22-36 (i tre e. più antichi; attribuisce al Boccaccio Theologus Dantes); P.G. Ricci, in G. Boccaccio, Opere in versi, Milano-Napoli 1965, 598-600 (commento).