EPIGRAFIA

Enciclopedia Italiana (1932)

EPIGRAFIA (dal gr. επιγραϕή "iscrizione")

Giulio FARINA
Michelangelo GUIDI
Mario GIORDANI
Antonino PAGLIARO
Ambrogio BALLINI
Luigi BONELLI
Francesco BEGUINOT
Giuseppe CARDINALI
Giacomo DEVOTO
Gioacchino MANCINI
Angelo SILVAGNI
Giulio NATALI
*
Giuseppe Vacca

Scienza che ha per scopo lo studio, il deciframento e l'interpretazione delle iscrizioni.

È una delle più importanti scienze ausiliarie della storia, specialmente per la storia antica, per la quale le iscrizioni rappresentano spesso gli unici documenti su cui ci si può fondare; e anche per popoli che ci hanno tramandato le loro memorie storiche, le iscrizioni rappresentano un prezioso materiale di controllo.

Oriente antico.

Epigrafia egiziana e meroitica. - La scrittura geroglifica è usata su ogni genere di materiale; il corsivo ieratico è scritto su papiro, pelle, ostraca, tavolette; il corsivo demotico anche inciso. Le forme dei segni variano nel tempo. I geroglifici, per motivi decorativi, si possono disporre in ogni senso, meno che dal basso in alto; di regola muovono dalla destra in linee verticali, senza divisione tra parola e parola; lo ieratico nel medio regno incomincia a scriversi orizzontale, direzione mantenuta dal demotico. Le iscrizioni egizie, copiosissime, non sono mai state raccolte in corpus; le loro edizioni lasciano spesso a desiderare. In Nubia le epigrafi più arcaiche sono in geroglifico; verso il periodo romano appare un alfabeto di 23 lettere scelte da quello, e un corsivo di varî tipi. Le linee procedono da destra, però i segni guardano a sinistra.

Bibl.: Dell'epigrafia egiziana è stata studiata solo quella dei testi delle Piramidi, nel vol. IV dell'edizione di L. Sethe (1922). Le collezioni più importanti delle iscrizioni sono indicate sotto la voce egitto. Per il meroitico; L. Griffith, Karanòg, in Coxe Expedition to Nubia, VI, Filadelfia 1911; id., Meroitic Studies I-III, in Journ. of Egypt. Archaelogoy, II-IV; id., Meroitic funerary inscriptions from faras, in Recueil Champollion, 1922, pp. 565-94; id., Oxford Excavations in Nubia, in Annals of Archaelogy, XII.

Epigrafia semitica. - Dalle trattazioni di epigrafia semitica sono di solito escluse le iscrizioni assiro-babilonesi, le quali, scritte in caratteri cuneiformi, sono generalmente studiate insieme con gli altri monumenti delle letterature mesopotamiche, di cui, con le tavolette di argilla delle biblioteche, i cilindri, ecc., sono parte essenziale. Si veda quindi per esse la v. Babilonia e assiria. Egualmente lo studio delle iscrizioni arabo-musulmane costituisce, si può dire, un ramo a sé dell'epigrafia semitica; le altre formano l'oggetto di una disciplina ben distinta da una serie di problemi intimamente connessi. Si accennerà qui sotto al contenuto e alla importanza delle iscrizioni nelle singole lingue semitiche (eccettuato l'assiro-babilonese, ma compreso l'arabo settentrionale preislamico), senza speciale riguardo all'alfabeto in esse usato, per il quale v. alfabeto. Per le varie lingue semitiche usate nelle iscrizioni v. Semitiche, lingue.

Le iscrizioni semitiche, nel senso ora indicato, sono prevalentemente dedicatorie o funerarie; ma pur tuttavia anche non poche di queste hanno non lieve importanza storica. La vicenda del rinvenimento, della lettura e della decifrazione delle epigrafi semitiche (opera compiuta per la maggior parte nella seconda metà del secolo scorso) è una gloriosa pagina della storia delle esplorazioni archeologiche e delle ricerche filologiche.

Iscrizioni in dialetti cananei (fenicio, punico, neopunico, moabitico, ebraico). - Iscrizioni fenicie sono state rinvenute, oltre che nella Fenicia propriamente detta, anche nei paesi del Mediterraneo, dove i commerci e le migrazioni hanno portato quel popolo industrioso (v. fenici). Assai recentemente si è trovato a Rās Shamrā, a nord di el-Lādhiqiyyah (Laodicea, Lattaquié), una serie di testi fenici del sec. XIII a. C. (che meno propriamente si direbbero epigrafici, essendo scritti, come i testi assiri, su tavolette d'argilla), in caratteri cuneiformi a sistema alfabetico. Alcune tavolette contengono testi di carattere sacro, mentre in altre non ancora pubblicate è scritto un poema mitologico, monumento assai importante per la conoscenza della letteratura dei Fenici (della quale non avevamo finora che notizie dateci dai Greci). Un altro testo della stessa epoca, anche recentemente scoperto, è scritto in un carattere che, non ancora decifrato, sembra unisca caratteri ideografici con altri di tipo fenicio; infine il terreno di Byblos, famosa città fenicia, ha restituito una serie d'iscrizioni arcaiche dei secoli XIII-X, preziosissime per la storia delle antichità mediterranee, e scritte in caratteri fenici. Poi più nulla fino al sec. V, al quale forse rimonta l'iscrizione del re Yehawmilk di Byblos; del IV son quelle di Tabnīt e di Eshmūn‛azar, re e sommi sacerdoti di Sidone. Altre del sec. IV e più recenti, trovate a Cipro, in Grecia e altrove nel Mediterraneo, dànno qualche luce sulla storia e sulla vita dei Fenici in tale periodo. Si chiamano puniche quelle iscrizioni fenicie che furono trovate in Cartagine e in paesi compresi nella cerchia politica e culturale di essa; il carattere vi tende al corsivo, ma la lingua non differisce in modo sensibile dalla fenicia. Le più antiche rimontano al sec. III a. C. e per la maggior parte sono votive (circa 2000 con la stessa formula). Alcune però, come la tariffa di Marsiglia e quella di Cartagine e altre ancora, hanno notevole valore storico-religioso. Caduta la repubblica cartaginese nel 146 a. C., lingua e scrittura punica continuarono ad essere usate nell'Africa del nord, in Sicilia e in Sardegna; nei quali paesi furono trovate, di questo periodo, numerosissime iscrizioni (dette neopuniche), per lo più votive e funerarie. Tanto lingua quanto scrittura vi subiscono cambiamenti: e le forme di alcune lettere si confondono, donde viene grave difficoltà nella lettura. In Tripolitania sono state recentemente trovate iscrizioni di contenuto importante storicamente e nelle quali la scrittura è bella e regolare, forse per influsso anche dell'epigrafia romana.

D'iscrizioni nel dialetto di Moab (simile al fenicio e all'ebraico) non ne abbiamo che una, ma notevolissima, essendo la stele nella quale il re di Moab Mesha (sec. IX a. C.) fece incidere il racconto delle principali vicende del suo regno e la sua ribellione al re Ahab d'Israele. L'iscrizione integra la narrazione della Bibbia e considera gli avvenimenti dal punto di vista dei nemici d'Israele. Di epigrafi ebraiche anteriori all'esilio non abbiamo che il cosiddetto calendario agricolo di Gezer (forse del sec. IX a. C.) e l'iscrizione trovata nel 1880 a Gerusalemme, nella galleria che congiunge la sorgente della Vergine con la piscina di Siloe; essa narra un incidente avvenuto durante lo scavo della galleria, sotto il re Ezechia, nel 700 a. C. circa. A tale epoca appunto ci riporta anche il tipo della scrittura. Il carattere ebraico antico, simile al fenicio (v. alfabeto), fu ancora usato per le monete fino al tempo di Adriano; ma dopo l'esilio gli Ebrei adottarono le forme aramaiche, dalle quali deriva la scrittura quadrata, usata poi nelle numerosissime iscrizioni giudaiche, di cui non trattiamo qui (v. ebrei).

Iscrizioni aramaiche, nabatee, sinaitiche, palmirene. - Assai notevole per la storia dell'Asia anteriore è un gruppo d'iscrizioni aramaiche che rimontano al sec. VIII a. C., ritrovate nel villaggio turco di Zengīrlī (tra Antiochia e Marash) e che c'informano sulle sorti del piccolo regno aramaico di Sam'al; grande importanza ha pure l'iscrizione, anch'essa del sec. VIII, del re Zakir di Hamāh. Queste iscrizioni aramaiche antiche sono redatte in una lingua che ha molti elementi del fenicio, ciò che mostra l'importanza culturale di tale lingua: mentre in puro fenicio è redatta un'altra iscrizione trovata egualmente a Zengīrlī, di epoca poco più antica e riferentesi allo stesso regno di Sam'al. Numerose altre iscrizioni aramaiche trovate in Siria, Babilonia, Asia Minore, Egitto, anche in Arabia, che vanno dal sec. VII al IV a. C., se meno importanti storicamente, testimoniano però della grande diffusione della lingua e della cultura aramaica anche fuori del paese di origine (v. aramei).

Tale diffusione è anche dimostrata dal fatto che un dialetto aramaico fu usato come lingua letteraria da un popolo di origine araba, i Nabatei (v.), che fondarono un regno il quale si estese man mano dal Higiāz alla Siria (fino a Damasco per qualche tempo) e fu prospero specialmente nel sec. I avanti e dopo Cristo, finché Roma nel 106 d. C. lo ridusse a sua provincia. Le iscrizioni nabatee, assai numerose e trovate in ogni parte di sì esteso territorio, sono per lo più funerarie e dedicatorie, ma d'importanza storica per menzione di re e per datazioni, per notizie su titoli di funzionarî (derivati per lo più dal greco), ecc. Il carattere usato nelle iscrizioni nabatee è quello che diede poi origine all'arabo (v. alfabeto; arabi: Scrittura).

Di caratteri e lingua nabatea sono i graffiti numerosissimi ma brevissimi (per lo più nomi seguiti da formule di saluto) trovati nel Wādī-el-Mukattab nella penisola del Sinai e perciò detti iscrizioni sinaitiche (da non confondersi con le antichissime sinaitiche, trovate a Sarābīt al-Khādim, su eui v. alfabeto e qui sotto); sono probabilmente dovute a impiegati e scribi nabatei che, aspettando ivi le carovane provenienti dal sud per scortarle nel loro viaggio verso la Siria, incidevano nelle lunghe ore d'ozio i loro nomi nel sasso (secondo altri tali graffiti sarebbero invece di natura religiosa). Anche nel regno di Palmira, che ebbe il suo apogeo dal 130 al 270 d. C. e la cui popolazione era prevalentemente di Arabi (che avevano occupato il vecchio regno aramaico di Tadmor, nome che ancor oggi ha la città), fu usato in numerose iscrizioni un dialetto aramaico occidentale (con qualche carattere però che lo ravvicina all'orientale; v. semitiche, lingue), spesso bilingui (in greco e in palmireno), per lo più onorarie, dedicatorie e funerarie. Le più antiche risalgono al sec. I d. C.; di singolare interesse è la celebre tariffa bilingue palmirena-greca (decreto del senato del 137 d. C., che fissa tasse di commercio).

Iscrizioni nord-arabiche (v. arabi: Lingua). - I più antichi monumenti dei dialetti dell'arabo settentrionale (tra cui sorse la lingua letteraria araba usata nella poesia antica, nel Corano e in tutte le scritture arabe fino ad oggi) sono epigrafici e consistono in una stele funeraria del re lakhmita Imra' al-Qais (del 328 d. C.) ancora in caratteri nabatei: e in altre due brevissime iscrizioni rispettivamente del 51 e del 568 d. C., nelle quali appare già formato il tipo arabo di scrittura (v. alfabeto; arabi: Scrittura). Poi, con l'affermarsi dell'Islām e il progredire della cultura, le iscrizioni arabe si moltiplicano fino a divenire numerosissime, sparse in tutte le regioni d'Africa, d'Asia e d'Europa ove è giunta la conquista e l'influenza musulmana; nel periodo più antico sonn scritte nei caratteri detti cufici, che furono poi sostituiti quasi interamente da quelli detti naskhī di tipo rotondo. Ma le più antiche sono andate quasi interamente distrutte: e le iscrizioni antecedenti all'epoca fāṭimita sono assai rare; recentemente se ne sono trovate due al Cairo, della prima metà del sec. I dell'egira (VII d. C.). Nondimeno lo studio del numero sterminato di epigrafi arabe è di grande interesse storico, religioso, culturale ed artistico; esso è stato posto su basi veramente scientifiche per opera dell'orientalista svizzero M. van Berchem.

Vi è inoltre un gruppo d'iscrizioni redatte in dialetti dell'arabo settentrionale, ma scritte con caratteri che si riannodano direttamente alla scrittura sudarabica (v. alfabeto). Se ne accennerà qui sotto.

Iscrizioni sudarabiche. - L'antica civiltà del Yemen, nei suoi varî aspetti e nelle sue varie vicende, ci è stata rivelata da documenti originali fin dalla seconda metà del secolo scorso, quando i semitisti decifrarono le iscrizioni sudarabiche; in esse appaiono varietà dialettali di una lingua che, sebbene più vicina all'arabo che alle altre semitiche, si allontana dall'arabo per molti caratteri, così da formare un tipo a sé; esse sono scritte in alfabeto speciale. Le più antiche iscrizioni note non risalgono oltre il sec. IX a. C. secondo l'opinione più probabile (altri le fa risalire al sec. XIII), mentre le più recenti sono del sec. VI d. C. Dal punto di vista del dialetto adoperato, se ne distinguono più varietà, minee, sabee, ḥimyarite, qatābāniche, ḥaḍramiche; egualmente si nota qualche varietà nella forma d'alcune lettere. Il contenuto è per lo più sacrale e dedicatorio; ma non mancano documenti di molta importanza storica, specialmente per la narrazione d'avvenimenti politico-militari e per notizie sull'economia e l'amministrazione pubblica.

Il commercio portò i Yemeniti verso il nord; e nel Ḥigiāz a al-‛Ölà, ove risiedeva una stazione minea di commercio, furono seoperte iscrizioni sudarabiche assai antiche. Ma in al-‛Ölà stessa e in alcuni altri luoghi del Ḥigiāz (come anche in Siria e Transgiordania) si rinvennero epigrafi in caratteri connessi con il sudarabico, ma redatte in dialetti settentrionali. Così in alcune parti del Ḥigiāz si trovano graffiti che sono stati attribuiti al popolo di Thamūd (citato nel Corano e noto alla tradizione greco-romana) e detti quindi thamūdeni da alcuni studiosi, protoarabici da altri. Altre iscrizioni invece, di tipo assai simile al mineo di al-‛Ölà, sono state trovate, sempre nel Higiāz, tra al-‛Ölà e al-Higr, e son dette liḥyānite, dallo stato di Liḥyān a cui esse si riportano, fiorito forse tra il 200 a. C. e i primi secoli d. C. Infine nell'aṣ-Ṣafā, regione vulcanica ad est del Ḥaurān, ed anche sino a Dura-Europo sull'Eufrate, fin giù in Transgiordania, sono state trovate numerose iscrizioni dette ṣafaitiche (si cfr. il Zeus safatenos), di tipo anch'esso ben distinto; le più antiche di esse risalgono agli ultimi tempi del regno nabateo, le più recenti sono contemporanee alle più antiche arabe. La popolazione a cui si debbono tali iscrizioni dovette essere di origine araba, partita dalle sue sedi per cercare verso il nord condizioni migliori di vita; essa poi si assimilò man mano gli Aramei di colà, con un processo tipico per la storia dell'Asia anteriore. Queste iscrizioni, thamūdene, liḥyānite e ṣafaitiche, che son documento importante per la storia dei dialetti arabi, son generalmente assai brevi (per lo più semplici nomi e saluti): e perciò ritenute dai più graffite solo per ricordare dimora o passaggio nei singoli rispettivi luoghi. Ma secondo un'altra opinione esse sarebbero invece di natura religiosa. Recentemente è stata anche emessa l'ipotesi che il thamūdeno (attraverso sue forme antichissime che rimonterebbero oltre il 1000) sia la prima derivazione dall'alfabeto sinaitico antichissimo: le altre forme sudarabiche, compresa l'etiopica, si riannoderebbero al sinaitico attraverso il thamūdeno.

Iscrizioni etiopiche. - In Abissinia sono state trovate, insieme con iscrizioni sudarabiche, e greche, alcune importantissime epigrafi in caratteri etiopici (i più antichi senza vocali) e lingua etiopica (qualcuna in caratteri sudarabici e lingua etiopica); tanto i caratteri quanto la lingua etiopica sono derivati dal Yemen. Tra le più importanti sono le iscrizioni del re ‛Ezānā del sec. IV, che c'informano delle condizioni del regno di Aksum (v. etiopia).

Bibl.: A cura dell'Académie des Inscriptions et Belles-Lettres si va pubblicando dal 1881 un monumentale Corpus Inscriptionum Semiticarum, diviso in quattro parti (iscrizioni fenicie, aramaiche, ebraiche, arabiche antiche). È anche pubblicato a fascicoli, dal 1914, un Répertoire d'Épigraphie Sémitique. - M. Lidzbarski, Handbuch der nordsemitischen Epigraphik, Weimar 1898 (con atlante); G. A. Cooke, A text Book of Nord-Semitic Inscriptions, Oxford 1903; M. Lidzbarski, Ephemeris für semitische Epigraphik, voll. 3, Giessen 1900-1915: D. Chwolson, Corpus Inscriptionum Hebraicarum, Pietroburto 1882; M. van Berchem, Matériaux pour un Corpus Inscr. arabicarum, I-II, Pargi 1903-1927; Deutsche Aksum-Expedition, Berlino 1913; C. Conti Rossini, Chrestomathia Arabica merid. epigraphica, Roma 1931. Per studî particolari v. le bibliografie a semitiche, lingue e alle voci concernenti i singoli popoli semitici.

Epigrafia iranica. - L'epigrafia iranica nell'età degli Achemenidi dipende direttamente dall'epigrafia babilonese. Le iscrizioni provengono dal periodo che va dalla presa di Babilonia (539 a. C.) al regno di Artaserse III (358-337) e sono redatte per la maggior parte in varie lingue: le più importanti, quelle di Dario I, Serse e Artaserse II, sono quasi tutte nelle tre lingue ufficiali dell'impero persiano, e cioè l'antico persiano, il babilonese e l'elamita. Dalla scrittura cuneiforme babilonese è appunto derivato l'alfabeto cuneiforme in cui è redatta la parte iranica; esso è il risultato dell'adattamento del sistema cuneiforme alla fonetica del persiano, attuato certo da funzionarî che conoscevano il sistema alfabetico aramaico: i segni sono ridotti a 36 ed hanno ciascuno in origine un proprio valore fonetico; gl'ideogrammi sono ridotti a quattro e indicano nomi di uso assai frequente.

Le grandi iscrizioni di Dario e di Serse, di moltissima importanza per la storia dell'impero achemenide, non sembra fossero destinate ad essere lette; quella sulla roccia di Bīsutūn, ad es., si eleva a circa 160 metri dalla pianura e non può essere letta che mediante apposite impalcature. Con ogni probabilità l'iscrizione voleva essere solo una parte integrante del monumento al quale era apposta, quasi un elemento del costume ufficiale inaugurato da Dario. Sorge legittimo il dubbio che l'uso del cuneiforme per la lingua ufficiale del regno fosse limitato a queste manifestazioni, e che già in periodo achemenide si stesse svolgendo dall'alfabeto aramaico quella scrittura alfabetica che fu usata nelle iscrizioni posteriori. Anche la lingua aramaica venne adoperata nelle iscrizioni degli Achemenidi accanto alle tre lingue ufficiali, come è provato dai resti di una versione aramea dell'iscrizione della tomba di Dario trovati di recente presso Naqsh-i Rustam.

Dell'età sāsānidica ci sono pervenute numerose iscrizioni per la maggior parte bilingui e cioè in pahlavīk, dialetto iranico settentrionale e in pārsīk, dialetto iranico meridionale; fra i rispettivi alfabeti si notano alcune differenze più o meno lievi. Sono apposte ai monumenti sepolcrali dei Grandi Re, continuando così la tradizione imperiale degli Achemenidi.

Epigrafia indiana. - In India l'epigrafia, oltre che per i numerosissimi documenti che di essa ci sono pervenuti, sparsi in tutta la grande penisola (e particolarmente nella sua parte meridionale, ove si sono scoperte iscrizioni a migliaia), assume tra quelle di ogni altro paese importanza notevolissima, giacché costituisce la fonte principale - resaci nota nei secoli XVIII e XIX - di sicure informazioni sulla storia dell'India, il cui popolo non diede vera e propria forma alla storiografia (v. india: Letteratura). Vero è che pur gli autori delle epigrafi, particolarmente nelle parti di esse chiamate praśasti, artificiosi canti di lode, escono, per compiacere al desiderio del principe o del donatore di essere celebrati, dall'ambito della narrazione propriamente storica; ma ciò non impedisce tuttavia che la varietà dei soggetti trattati e la molteplicità dei documenti epigrafici forniscano una vera e propria congerie di notizie dalla quale la storia politica, religiosa, letteraria del popolo indiano trae preziosissima luce.

E pur le monete, specialmente dal tempo della spedizione di Alessandro Magno (v.), offrono, nelle loro leggende, notevole contributo allo stesso fine; quasi unica fonte d'informazione, anzi, per le dinastie battriane, indo-greche, indo-partiche.

Il materiale su cui le iscrizioni ci sono state tramandate è vario: rocce in massima parte, pilastri di pietra; qualche volta creta cotta o al naturale; rame, bronzo, ferro; raramente oro, argento: tali, se mai, quando si tratti d'iscrizioni votive.

I caratteri indiani delle iscrizioni (rarissimi sono gli esempî di epigrafi con caratteri greci misti agl'indiani) risalgono a due tipi profondamente diversi tra loro. Il primo è detto kharoṣṭhī o kharoṣṭhrī e fu usato dal sec. IV a. C. al IV d. C. nel Gandhara (Afghānistān orientale e Panjab settentrionale, ov'era stato introdotto al tempo della dominazione persiana); ha direzione da destra a sinistra; è di origine certamente semitica e appare precisamente una forma modificata dell'antica scrittura aramaica. L'altro tipo, detto brāhmī, che s'è sparso in tutto il resto dell'India, potrebbe chiamarsi la scrittura nazionale indiana; da essa, difatti, tutte le altre che sono sopravvissute, compresa la classica nāg arī o devanāgarī, in uso per il sanscrito, e quelle che sopravvivono nell'India settentrionale e occidentale, risultano derivate, pure essendosi svolte - in parte - in modo affatto diverso. La scrittura brāhmī ha direzione da sinistra a destra (soltanto in una moneta del sec. IV a. C. si ha esempio di direzione opposta) ed è ritenuta anch'essa generalmente di origine semitica. Alcuni invece la considerano invenzione diretta degl'Indiani, che ne avrebbero fatto dato l'alto grado di civiltà raggiunto in tempo antico, appunto la scrittura nazionale.

Varie sono pure le lingue nelle quali sono state redatte le iscrizioni: nell'India settentrionale, anzitutto, i pracriti; parlate popolari nelle loro diverse specie; una forma mista di pracrito e di sanscrito, poi, e finalmente il sanscrito quasi esclusivamente - indice questo che gl'Indiani lo preferivano e che in un certo tempo esso era comunemente inteso. Le iscrizioni dell'India meridionale (tutte posteriori, nella loro grandissima quantità, a quelle dell'India settentrionale, e quasi nessuna anteriore all'era volgare) sono redatte in dialetto misto, nei pracriti e raramente in sanscrito, dal sec. III al VI d. C.; più tardi solo in dialetti neo-indiani arî e in lingue dravidiche (v. india: Lingue).

Anche per il contenuto, oltre che per le proporzioni (da alcune consistenti in un solo nome si giunge sino a composizioni poetiche costituenti veri e proprî poemetti), le iscrizioni indiane divergono notevolissimamente tra di loro: commemorative, dedicatorie in massima parte e generalmente incise su pietra; votive, pur di diverse fedi: versioni sanscrite di prediche buddhistiche, celebrazioni di gesta e di virtù di monarchi, magnificazione di opere pubbliche, esaltazione di vittorie, accenni ad alleanze, ricordi di donazioni, generalmente incise su rame; persino drammi, nozioni grammaticali, norme di architettura e di musica, saggi di numerosi dialetti e delle più varie scritture. Ma lo spirito animatore delle iscrizioni è generalmente e soprattutto il religioso, sia che si tratti di celebrare la ragione di una donazioue o d'una dedica, o di esaltare un protettore di fedi e di religiosi, o di accennare a propaganda morale, o, comunque, ad avvenimenti che risultano apparentemente estranei, ma sono in realtà sempre strettamente connessi con la religione.

Le iscrizioni di Aśoka. - D'importanza capitale, per contenuto e per la forma e perché rappresentano i più antichi documenti di scrittura dell'India (solo un'iscrizione su rame, trovata nel distretto di Goralghpur si è potuta certamente considerare anteriore ad esse), sono le iscrizioni di cui il grande imperatore Maurya Aśoka (v.) - che regnò in India tra il 264 e il 227 a. C. - disseminò nel 17° e 18° anno del suo monarcato, e verso la fine di esso, quasi tutta la grande penisola "dal Himālaya, al N., al Mysore, a S.; dalla Baia del Bengala, ad est, al Mare Arabico, ad ovest", nei luoghi più idonei alla lettura di esse (ampie strade, centri di pellegrinaggio, ecc.). Preziosissime pure sono esse per gli accenni storici contenuti, come quelle in alcune delle quali si determina ad es. con piena sicurezza, la posizione del parco Lumbinī, in cui nacque il Buddha, o si dà notizia della capitale dell'impero di Aśoka (Pāṭaliputra) e delle sedi dei viceré; si danno i nomi di principali popoli dell'India, si ricordano conquiste memorabili, ecc. Posteriormente ad Aśoka le iscrizioni si sono seguite in India per un lunghissimo periodo: le più varie dinastie ne sono state illustrate.

Bibl.: J. F. Fleet, in Indian Antiquary, 1901, p. 1 seg.; Epigraphy, in Imperial Gazetteer, II (1908), pp. 1-88; Indian Inscriptions, in Encyclopœdia Britannica, 11ª ed., XIV, s. v. Inscriptions. - Pubblicazioni periodiche: Epigraphia Indica: South Indian Inscriptions; Epigraphia Carnatica; Indian Antiquary. - Ampia bibliografia sulle iscrizioni di Aśoka in Vincent A. Smith, the early History of India, 4ª ed., Oxford 1924, pp. 180-183.

Epigrafia in Cina e nell'Asia orientale. - Gli antichi Cinesi. fin dai tempi più remoti, incidevano iscrizioni sui vasi di bronzo destinati al culto (v. cina, X, p. 306). La prima descrizione di una raccolta di antiche iscrizioni su pietra, intitolata Chi ku lu, è dovuta al celebre storico Ou-yang Hsü (v. X, p. 308). Un'altra raccolta intitolata Chin shih lu, in trenta libri, stampata durante la dinastia Sungh, riproduce duemila iscrizioni conservate nel tempio della famiglia dell'autore. Nel 1167 d. C. fu stampata una più vasta raccolta, che, con vari supplementi, pubblicati nel 1168 e 1180, comprende quaranta libri. I Cinesi riprodussero fin dal principio dell'era volgare, incidendoli in pietra, gli autografi dei più celebri calligrafi e da essi fin dai primi secoli dell'era volgare trassero e traggono continuamente copie su carta sottile, ottenute applicando la carta umida sull'iscrizione, annerendo poi con inchiostro denso la carta per mezzo di uno stoppaccio, di guisa che i caratteri incisi risultano bianchi sul fondo nero. Da questo procedimento, sviluppatosi nel sec. IV d. C., sorse più tardi l'invenzione della stampa. In ogni città vi sono ancor oggi speciali negozî, accanto alle librerie, che vendono calchi di antiche iscrizioni e riproducono calchi a richiesta degli studiosi. Questi calchi sono spesso poi montati in album. Le raccolte di calchi costituiscono una parte importante delle biblioteche. I calchi sono naturalmente tanto più pregiati, quanto più antichi, poiché le pietre sono soggette al logorio del tempo e delle vicende atmosferiche ed anche all'opera danneggiatrice degli operai che fanno i calchi.

L'incisione in pietra, fino dalla dinastia Han, fu adoperata per conservare in forma sicura i testi dei classici. Le antiche tavole di questi testi sono raccolte e conservate con cura nei musei e nei templi delle varie città della Cina.

Le raccolte epigrafiche cinesi sono di vario tipo. Alcune di esse raccolgono iscrizioni di un periodo storico determinato, altre di un determinato argomento, altre infine sono raccolte topografiche, cioè iscrizioni di una determinata provincia, di una città, o anche soltanto di un luogo celebre, monti, laghi, ecc. Gli epigrafisti cinesi del sec. XX hanno aggiunto ai vecchi mezzi di riproduzione quelli più precisi della tecnica europea, fotografie, fotolitografie, ecc. Manca ancora però un corpus completo delle iscrizioni della Cina.

Il Tibet è pure ricco di antiche iscrizioni, pochissime delle quali sono state finora raccolte e pubblicate. Iscrizioni importanti, specialmente cinesi, si trovano in India, nell'Asia centrale, nel Turkestān, nella Mongolia, in Manciuria. Maggiore attenzione hanno avuto in questi ultimi tempi le iscrizioni della Birmania e del Siam. In Indocina il governo francese sta raccogliendo e pubblicando, specialmente con l'opera dell'École française de l'Extrème Orient di Hanoi, le iscrizioni più importanti di quella regione. In Corea le antiche iscrizioni sono state raccolte e studiate in questi ultimi anni specialmente da studiosi giapponesi. In Giappone, ove la civiltà è più recente, le raccolte epigrafiche hanno un interesse minore. Gli studiosi giapponesi hanno presto capito l'importanza dell'epigrafia. L'epigrafia cinese, la parte più importante dell'epigrafia dell'Asia orientale, è ora studiata specialmente in Giappone.

Lo studio dell'epigrafia in Cina ed in Giappone ha avuto da molti secoli una popolarità assai maggiore che in Europa, per le sue strette relazioni con la paleografia (v.).

Bibl.: Per i bronzi, si veda R. Petrucci, L'épigraphie des bronzes rituels de la Chine ancienne, in Journ. Asiat., Parigi 1916, pp. 1-76. La descrizione di una trentina di opere epigrafiche cinesi si trova in A. Wylie, Notes on Chinese literature, Shanghai 1902, pp. 76-80. Notizie importanti si trovano pure nelle opere cinesi di paleografia, ibid., p. 135. E. Chavannes nel suo scritto; Le jet des dragons, in Mém. conc. l'Asie Orient., III, Parigi 1919, pp. 53-220, ha fatto vedere quanti preziosi risultati si possano estrarre dalle raccolte epigrafiche cinesi pubbliche e private.

Si vedano per altri esempî, le due raccolte di E. Chavannes, Inscriptions et pièces de Chancellerie chinoise de l'époque mongole, s. 1ª: T'oung Pao, 1904-1905; s. 2ª: inid., 1908, che comprende quasi esclusivamente editti imperiali, ordinanze, iscrizioni di monumenti, dei quali è dato spesso il testo e la riproduzione fotografica. Notevoli in esso le iscrizioni trascritte in caratteri del Phagspa Lama, alcune delle quali erano state pubblicate nel Recueil de Documents de l'époque mongole del principe Roland Bonaparte, tradotte da G. Dévéria (Journ. Asiat., 1896, pp. 439-443). Si veda altresì: E. Chavannes, Épitaphes de deux princesses turques de l'époque des T'ang, in Festschrift Thomsen, Lipsia 1912, pp. 78-87, ecc.

Per le iscrizioni dell'Indocina: G. Coedès, Inventaire des inscriptions du Champa et du cambodge, Hanoi 1923. Per le iscrizioni del Tibet: A. H. Francke, Erste Sammlung tibetischer historischer Inschriften auf Felsen und Steinen von West Tibet, Berlino 1906. G. Tucci ha iniziato (1930) una nuova raccolta di iscrizioni tibetane. Molto antiche ed importanti iscrizioni in birmano e in una lingua Pyu, ora estinta, della stessa famiglia tibetobirmana, sono raccolte in: Epigraphia birmanica, Rangoon 1919.

Epigrafia turca preislamica. - All'epigrafia appartengono i più antichi monumenti scritti della lingua turca: essi sono le iscrizioni runiformi trovate nell'alto bacino del Jenissei e nella vallata del fiume Orkhon al sud del lago Bajkal. Le prime, scoperte dal Messerschmidt nel 1722 e tuttora molto venerate dai Soyuti abitanti quella regione, non furono oggetto di serie ricerche se non nel 1847 con il Kastrén: nel 1889 la Società finnica di archeologia pubblicava il testo di 32 di esse e tale materiale epigrafico veniva, nel 1892, sistemato e illustrato dal Donner. Più ampie e interessanti sono quelle dell'Orkhon, dette anche di Kosho-Tsaidam, scoperte nel 1889 dal Jandricev: le più importanti fra esse sono una stela funeraria con iscrizione in turco e cinese, portante una data corrispondente al 732, in onore di Kiul-Teğin, e un'altra narrante la festa del sovrano (kaġan) turco Bilğe-Khan. Una terza iscrizione, probabilmente dell'800 o 805, fu trovata in Kara-Balgassun. Esse furono decifrate dal Radlov e dal Thomsen: i caratteri dell'alfabeto Jenissei-orkhonico hanno solo una somiglianza apparente con le rune: essi, secondo il Donner, offrono la maggiore somiglianza coi caratteri delle monete arsacidi del sec. II e del III d. C.; come tale forma relativamente antica dell'alfabeto aramaico sia passata ai Turchi del sec. VI (epoca probabile delle più antiche iscrizioni del Jenissei e coincidente col sorgere della potenza dei Tu-Kiu), non è chiaro: è probabile che nel Turkestan l'alfabeto aramaico-arsacide si sia mantenuto anche dopo il sec. III e che, d'altra parte, i Turchi del Jenissei o altri abbiano adottato tale alfabeto molto prima del sec. VI. L'alfabeto (detto kök-türk), che tiene conto dell'armonia vocalica, si compone di una quarantina di lettere; molti suoni (b, d, g, ecc.) sono rappresentati da lettere differenti a seconda che figurano in vocaboli con vocali dolci o dure; le vocali, per le quali si hanno 4 segni, sono omesse di solito, anche in principio di parola; così (t) = at "cavallo", (y) = ay "mese", (r) = er "uomo", ecc., e, come nel turco scritto con l'alfabeto arabo, la loro qualità è spesso indicata dalla consonante che le accompagna. La scrittura si svolge in colonne verticali, da destra a sinistra.

Quanto alla lingua, le iscrizioni del Jenissei rappresentano probabilmente un dialetto turco diverso da quello dell'Orkhon. Quanto al contenuto, nelle iscrizioni maggiori dell'Orkhon, dopo un rapido cenno a tutta la storia dei Turchi dai tempi leggendarî o semileggendarî, vengono accuratamente enumerate le spedizioni militari di Bilğe-Khan e del suo valoroso fratello Kiul-Teğin, il quale nella sua stela è la figura principale, mentre in quella di Bilğe-Khan, che è in gran parte ripetizione della precedente, maggior importanza viene data alle gesta del sovrano. I Turchi appaiono, in questi monumenti, in possesso di un notevole grado di civiltà e floridezza; Tangri "il cielo", usato ancora in osmanli come equivalente a "Dio", figura come la deità principale; la guerra è l'occupazione nazionale; il sovrano combatte di persona e i destrieri, che egli monta successivamente e che vengono uccisi in battaglia, vengono riferiti coi loro nomi: grande spirito di patriottismo e desiderio di gloria pervadono tali composizioni.

Bibl.: P. M. Melioranskij, Pamjatnik v čest Kiul Tegina, s. dvumja tablicami nadpisej (Ricordo in onore di K. T., con due tavole d'iscrizioni), Pietroburgo 1899, in cui l'A. sottoponendo a critica i lavori di Thomsen, Radlov, Bang, Bartold, Marquart, ecc., dà una nuova edizione, con trascrizione, traduzione e note dell'iscrizione di Kiul-Teǧin.

Epigrafia libica. - Le iscrizioni in antico berbero che si è convenuto di chiamare libiche, preferendo tale nome a quello di "numidiche" proposto da altri, sono circa 500, delle quali alcune poche sono bilingui, cioè libico-puniche, o libico-neopuniche, o libico-latine. Una di esse che contiene la dedica di un tempio elevato dagli abitanti di Dugga al defunto re Massinissa è, nel testo punico, datata con la frase "nell'anno 10 del re (o del regno di) Micipsa" che corrisponde al 139 a. C. Alcune altre appariscono epigraficamente press'a poco contemporanee di quella; tenuto conto di ciò e delle bilingui libico-neopuniche e libico-latine e di caratteri di rassomiglianza tra queste ed altre dal solo testo libico, si può affermare che un notevole gruppo delle iscrizioni finora rinvenute appartiene al periodo del dominio romano nell'Africa settentrionale. Parecchie altre non databili possono essere anteriori o posteriori al detto periodo; ad un tipo di transizione fra il gruppo antico e l'odierna scrittura dei Tuāreg appartengono le iscrizioni dette libico-berbere che si trovano spesso accanto ai graffiti rupestri in varî punti della Barberia.

Le epigrafi libiche sono in grande maggioranza incise su lastre di pietra, in parte sono punteggiate o dipinte su pareti rocciose. Le bilingui libico-puniche di Dugga presentano un alfabeto di 23 consonanti, il cui valore è stato nella quasi totalità accertato; la scrittura in quelle e in poche altre pure di Dugga è in linee orizzontali da destra a sinistra, mentre in moltissime altre epigrafi è in linee verticali dal basso in alto. Nel numero e nella forma delle lettere vi sono pure varietà: è probabile che nella vasta zona berbera, come non vi è unità di parlata, così non vi sia stato usato un solo alfabeto, ma parecchi con diversità nel tempo e nello spazio. La questione dell'origine di tale scrittura è tuttora oggetto di discussioni e di nuove ipotesi, da quelle che la fanno derivare dall'alfabeto detto fenicio, o da una scrittura egea, o da un alfabeto greco arcaico, ecc., a quella che acutamente la spiega con l'adozione del sistema di scrittura fenicia (notazione delle sole consonanti, con omissione delle vocali) mentre la maggior parte dei segni sarebbero antiche marche libiche.

Bibl.: L. L. C. Faidherbe, Collection complète des inscriptions numidiques, Parig 1870; J. Halévy, Études Berbères, in Journal Asiatique, 1874, pp. 73-203 e 369-416; Reboud, Recueil d'inscriptions libyc-berbères, in Mémoires de la Soc. franç. de numism. et d'arch., Parigi 1870,, e in Recueil de la Soc. arch. de Costantine, 1875, 1878, 1882, 1886-1887; J.-B. Chabot, Inscr. punico-libyques, in Journal Asiatique, 1918, pp. 259-302, e Mélanges épigr., in Journal Asiatique, 1921, pp. 67-96; St. Gsell, Hist. anc.. de l'Afrique du Nord, VI, Parigi 1927, pp. 93-108; C. Meinhof, Die libysche Inschriften. Eine Untersucung, in Abhandl. f. die Kunde d. Morgenl., XIX, i, Lipsia 1921.

Antichità classica.

L'uso che nell'antichità classica si fece della scrittura epigrafica fu incomparabilmente maggiore di quello che se ne fa nell'età moderna, in cui l'invenzione della carta e della stampa hanno offerto il più adatto strumento di pubblicità. I Greci e i Romani promulgavano gli atti e i documenti della loro vita pubblica e privata, ai quali volevano assicurare diffusione e perpetuità, incidendoli nell'uno o nell'altro materiale, e collocandoli spesso in templi o in altri luoghi, che offrissero garanzie di conservazione. Di qui il grandissimo numero di epigrafi greche e latine che ci sono conservate, certo incomparabilmente inferiore a quello delle epigrafi andate perdute, poiché la distruzione e la dispersione di esse cominciò già nell'antichità. Risulta, p. es., da Tucidide (I, 93) che per la ricostruzione delle mura di Atene dopo la seconda guerra persiana furono adoperati materiali presi alla rinfusa, tra cui anche stele funerarie, il che è stato confermato dall'esplorazione del muro di Temistocle presso il Dipylon; e la cosiddetta colmata persiana dell'acropoli rivelò sotto la superficie, fra tanti materiali architettonici e plastici, resti di epigrafi. Di altri danni furono certamente causa le guerre successive, specialmente quelle tra Roma e la Macedonia: Filippo V non solo fece bruciare dei templi nell'Attica, sed lapides quoque ne integri cumularent ruinas frangi iussit (Liv., XXXI, 26). Né soltanto di devastazioni guerresche furono vittime i testi epigrafici, ma di disavventure occasionali, quali terremoti e incendî. Per es. l'incendio del Campidoglio ai tempi di Vespasiano distrusse aenearum tabularum tria milia (Suet., Vespas., VIII), cagionando, sotto questo aspetto, danni molto maggiori di quelli dell'incendio gallico, al quale Tito Livio (VI,1,2) attribuisce, esagerando, la perdita della maggior parte dei documenti storici precedenti: si quae (litterae) in commentariis pontificum aliisque publicis privatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiere. E alle offese dei nemici e della natura si accompagnarono quelle della stoltezza o dell'ignoranza, Per es. già Dione Crisostomo (Orat., XXXI, 86, p. 612) lamenta che si martellassero delle dediche per incidervi sopra delle altre. Vennero poi lo zelo esagerato dei primi cristiani, le invasioni dei barbari nelle due parti dell'Impero, le tenebre dei secoli successivi, nei quali non soltanto Greci e Turchi, ma gli stessi figli di Roma si diedero a ridurre in calce i marmi della grandezza antica per impiegarli nelle loro opere murarie; ma fortunatamente già nel Medioevo, accanto all'opera di distruzione, comincia quella che gioverà alla ricostruzione.

L'epigrafia classica dal Medioevo agl'inizî dei due Corpora berlinesi. La schiera dei pionieri dell'epigrafia classica si apre nel Medioevo con alcuni pellegrini nordici, specialmente anglosassoni e francesi che, scendendo in Italia, nei secoli VII e VIII, sostarono pensosi e devoti dinnanzi alle lapidi latine di Roma, di Pavia o di altri luoghi e le copiarono, ma essi, ed è naturale, furono attratti quasi esclusivamente da iscrizioni cristiane a commemorazione di martiri, a celebrazione di pontefici, ecc., tuttavia uno almeno ve ne fu tra loro che volse la sua attenzione anche a testi pagani, e ne trascrisse parecchie decine che ci sono state tramandate attraverso un manoscritto del chiostro di Einsiedeln risalente al sec. IX: il cosiddetto Anonymus Einsidlensis (v. Corp. Inscr. Lat., VI, 1, p. IX; G. B. De Rossi, Inscriptiones christianae urbìs Romae, II, 1, 9 segg.; Silvagni, Studi critici, ecc., p. 8 segg.). Ma sono eccezioni, giacché in quei secoli, e più ancora in quelli successivi, l'intelligenza dei testi superstiti si andò sempre più oscurando: basti dire che nel sec. XII un maestro di diritto dello Studio bolognese, Odofredus, vedeva nella cosiddetta lex de imperio Vespasiani un frammento delle XII tavole, e a metà del secolo successivo pare che lo stesso Petrarca considerasse come epigrafe funeraria di Tito Livio il titolo sepolcrale di un liberto, T. Livius Halys opinione questa che si radicò per lungo tempo tra i Padovani. Onde fa molto onore a Cola di Rienzo l'aver avuto una felice intuizione della natura e dell'importanza della ricordata lex Vespasiani, la cui tavola di bronzo egli collocò nella chiesa di S. Giovanni in Laterano; di essa si valse nella lotta per i diritti del comune. E sotto il nome del tribuno va un'antica raccolta d'iscrizioni, che egli avrebbe ricopiato (Corp. Inscr. Lat., VI, p. xv,1-82), ma tale paternità gli è stata recentemente contestata dal Silvagni, che l'ha attribuita a un amico del tribuno, Cavallini de' Cerroni. Nel sec. XV si moltiplicano le raccolte manoscritte d'iscrizioni: ora recanti il nome degli autori, ora anonime, ora dipendenti tra di loro, or no, e formanti un labirinto, del quale aver trovato il bandolo è gran merito del Mommsen e del De Rossi. In queste raccolte manoscritte si alternano copie discrete con pessime; in genere non si tien conto delle lacune, e ai testi autentici ne sono intercalati d'inventati o d' imitati più o meno abilmente dagli antichi. Tra i raccoglitori del sec. XV un posto particolare spetta all'anconitano Ciriaco de' Pizzicolli (morto nel 1452), singolare tipo di commerciante e turista geniale.

Ed ecco che nel dominio epigrafico fa la sua apparizione la stampa; ma le prime raccolte diffuse con questo mezzo (Mazochi 1521, Apianus e Amantius 1534) non soltanto dipendono generalmente da quelle precedenti manoscritte, ma pullulano di errori. Un notevole progresso segna la raccolta di M. Smeth, pubblicata, dopo la morte dell'autore, da J. Lipsius (1588), alla quale, quindici anni dopo (1603), tenne dietro quella di J. Gruter, olandese di nascita, ma bibliotecario in Heidelberg: Inscriptiones antiquae totius orbis Romani in corpus absolutissimum redactae, Heidelberg 1602-3,2ª ed. Amsterdam 1707 nel Thesaurits di J. G. Graevìus. Questa raccolta fu fatta per ispirazione dello Scaligero, che la corredò di indici pregevolissimi. Seguirono il Syntagma inscriptionum antiquarum di Th. Reinesius, pubblicato a Lipsia nel 1682, e le raccolte di G.B. Doni e di M. Gude, dello stesso secolo, ma pubblicate in quello successivo, rispettivamente da A.F. Gori e da Fr. Hessel (1731). Un aggiornamento del corpus del Gruter tentò L.A. Muratori (Novus Tbesaurus veterum inscr., voll. 4, Milano 1739-1742), ma non vi riuscì felicemente, perché non valutò criticamente l'autenticità e la correttezza dei testi

Si deve infatti notare che purtroppo il terreno dell'epigrafia classica (della latina molto più che della greca) da tempo era stato inquinato da falsificazioni. Uno dei più famosi falsificatori fu Pirro Ligorio (morto nel 1583), che creò di fantasia molti testi e li disseminò nelle sue opere, alle quali poi, sebbene rimaste manoscritte, attinsero in buona fede studiosi successivi. All'età stessa del Ligorio appartengono falsificatori di altre nazionalità. Un gran numero di testi falsificati s'introdusse per tal guisa nelle raccolte già citate sino a quella del Muratori inclusa, e tali falsificazioni valsero a togliere ogni credito all'epigrafia. Fu Scipione Maffei il primo a sentire la necessità di una revisione critica dei materiali epigrafici e ad esporne i canoni nella sua Ars critica lapidaria, che costituì la prima parte del supplemento di Sebastiano Donati al Novus Thesaitrus del Muratori, pubblicato in 2ª ediz. nel 1775 (Veterum inscriptionum graecarum et lalinarum novissimus thesaurus). A retti principî di critica epigrafica s'ispirò nella stessa età il dottissimo abate Gaetano Marini (si vedano specialmente le Iscrizioni delle ville e dei palazzi Albani raccolte e pubblicate con note, Roma 1785, e Gli atti e monumenti de' fratelli Arvali, Roma 1795), al quale successe, campione massimo dell'epigrafia latina, Bartolomeo Borghesi (v.) che non soltanto pubblicò e commentò molti testi epigrafici di grande importanza e ne trasse ispirazione a studî storico-antiquarî di singolare genialità e originalità, ma fu suscitatore e guida di indagini a gran numero di neofiti e apostolo convinto della necessità di una nuova collezione generale delle iscrizioni latine. Il Corpus inscriptionum latinarum, che egli vagheggiò e al quale spronò il Kellermann, troppo presto rapito agli studî dalla morte, fu tradotto in atto, dopo vani tentativi francesi, dall'Accademia di Berlino sotto la guida del Mommsen (che del Borghesi amò proclamarsi scolaro e ammiratore), e questa stessa accademia, allorché lo iniziò, aveva già condotto pressoché a termine la pubblicazione del corpo delle iscrizioni greche.

In verità l'epigrafia greca nei secoli precedenti era stata assai meno coltivata di quella latina. La prima raccolta importante era stata quella di J. Selden, Marmora Arundeliana o Oxoniensia, Londra 1628 (con successive edizioni, l'ultima del 1763), ma generalmente le iscrizioni greche erano state accolte come qualche cosa di secondario nelle collezioni sopra citate, dedicate principalmente alle iscrizioni latine. Si calcola che fino a mezzo il sec. XVIII i testi epigrafici greci conosciuti non superassero il migliaio. Fu appunto nella seconda metà del sec. XVIII che, per merito di viaggiatori inglesi e francesi, si cominciò ad accrescere il tesoro delle iscrizioni greche, e s'intende come, sul principio del secolo successivo, si sentisse il bisogno di una collezione generale delle iscrizioni greche, separatamente da quelle latine. Fu A. Böckh che concepì e attuò, sotto gli auspici dell'Accademia di Berlino, l'impresa colossale.

L'epigrafia greca dagl'inizi del Corpus a oggi. - I primi due volumi del Corp. Inscr. Graec. apparvero in fascicoli dal 1825 al 1843, a opera del Böckh, il III fu pubblicato dal 1845 al 1853 a opera di J. Franz, il primo fascicolo del IV dal Curtius nel 1856, il secondo da A. Kirchhoff su materiali del Franz nel 1859 (gl'indici seguirono soltanto nel 1877 a opera di H. Roehl). Nel periodo stesso nel quale si pubblicava il Corp. Inscr. Graec., A. Fr. Villemain, ministro dell'Istruzione pubblica in Francia incaricava Ph. Le Bas di una missione in Grecia e in Asia Minore, risultato della quale fu la raccolta di più di un migliaio d'iscrizioni (1843) che furono poi pubblicate dallo stesso autore con l'aiuto di altri eruditi in volumi contenenti, in una serie, il testo e, in un'altra, la trascrizione e il commentario (v. I, II, III, Inscriptions de l'Attique, du Péloponnèse, et de la Grèce du Nord; de l'Asie Mineure en caractères épigraphiques e v. I, II, III, dell'altra serie: Transcription et explication des inscriptions de l'Attique (Le Bas), du Péloponnèse et de la Grèce du Nord (Foucart); de l'Asie Mineure (Waddington). Sebbene quest'opera sia rimasta incompleta, rappresenta sempre una delle più notevoli imprese, nel campo dell'epigrafia greca, del secolo passato. Nell'ultimo quarto di esso e negli anni fin qui trascorsi del secolo nostro, a prescindere dall'interruzione dovuta alla guerra, si moltiplicarono le esplorazioni archeologiche sistematiche in molte regioni del mondo greco e con esse si scoprirono migliaia e migliaia di nuove iscrizioni, che furono pubblicate e commentate in periodici e collezioni speciali, e portarono a un rinnovamento e ad un arricchimento straordinario delle nostre cognizioni nel campo storico non meno che in quello antiquario e in quello linguistico. Il flusso continuo di materiali nuovi e le conquiste che ne derivavano alla scienza determinamno a loro volta la riedizione integrale del Corpus Inscr. Graec. e la pubblicazione di sillogi speciali governate da diversi criterî, storico o linguistico o giuridico, o prevalentemente scolastico.

Della riedizione integrale del Corp. Inscr. Graec. prese l'iniziativa la stessa Accademia di Berlino con la pubblicazione di singoli corpi regionali, quali il Corpus Inscriptionum Atticarum, il Corpus Inscr. Graeciae septentrionalis, ecc., ma questi singoli corpi quell'accademia volle poi fusi in un'unica collezione col titolo Inscriptiones Graecae, tale da costituire un vero parallelo al Corpus Inscriptionum Latinarum. Il piano e lo stato attuale di quest'unica collezione è il seguente (sono segnati con asterisco i volumi di cui non ancora è iniziata la stampa): I. Iscrizioni attiche anteriori all'arcontato di Euclide; II. Iscrizioni attiche dall'arcontato di Euclide al regno di Augusto; III. Iscrizioni attiche successive al regno di Augusto (in questi tre volumi sono idealmente rifusi i 4 dell'antico Corpus Inscriptionum Atticarum, pubblicati tra il 1873 e il 1897, inquantoché il quarto volume di questa collezione non conteneva che supplementi ai volumi precedenti); IV. (Argolide, 1902); V. (Arcadia, ed. Hiller v. Gaertringen 1913, Laconia e Messenia, ed. W. Kolbe 1913); *VI. (Elide e Acaia); VII. (Megaride e Beozia, ed. Dittenberger 1892); *VIII. (Delfi); IX. (Focide, Locride, Etolia, Acarnania e isole dello Ionio, ed. G. Dittenberger 1897; Tessaglia, ed. O. Kern 1908); XX. (Epiro, Macedonia, Tracia e Scizia); XI. (Delo, usciti i fasc. 2,3,4,1912-1927 ed. Dürrbach, Hiller v. Gaertringen e Roussel); XII. (isole dell'Egeo: fasc.1, Rodi, ed. Hiller v. Gaertringen 1895; fasc. 2. Lesbo, Neso, Tenedo, ed. Paton 1899; fasc. 3, Syme ecc., ed. Hiller v. Gaertringen 1898; *4, Coo e Calimno; 5, Cicladi, parte 1ª ed. Hiller v. Gaertringen 1903; p. 2ª id. 1909; *6, Chio e Samo; 7, Amorgo, ed. Delamarre 1908; 8, Mar Tracio ed Ellesponto, ed. C. Fredrich 1909;9. Eubea, ed. E. Ziebarth 1915); *XIII. (Creta); XIV. (Sicilia e Italia, ed. Kaibel 1890).

Da qualche anno l'Accademia di Berlino ha iniziato una editio minor di questo grande corpo, della quale sono usciti i volumi: I, 1924; II e III, parte 1ª (fasc. 10, 1913; fasc. 20, 1916); 2ª (fasc. 1°, 1927); 4ª (indici fasc. 1°, 1918; iscrizioni attiche); IV, (fasc. 1°, 1929; iscrizioni di Epidauro).

Nella grande collezione delle Inscr. Graec. sono state spesso fuse precedenti raccolte epigrafiche di singole regioni o città o santuarî, che nel momento della loro prima pubblicazione avevano rappresentato un supplemento del Corpus del Böckh, ma pur dopo l'incorporazione nelle Inscr. Graec. alcune di quelle singole raccolte rimangono utili e spesso indispensabili, perché pubblicate con maggiore ricchezza e con più larga impostatura. Indichiamo qui le principali, aggiungendo a esse quelle pubblicazioni che continuano a rappresentare un supplemento delle Inscr. Graec., la cui raccolta non è ancora completa, ed esclude, a ogni modo, l'Ansia e l'Egitto:

Ancient Greek inscriptions in the British Museum, I-IV, 1874-1893; Inscriptiones graecae antiquissimae, ed. Roehl 1882, con le relative Imagines (ultima edizione 1908); Inschriften von Olympia, ed. Dittenberger e K. Purgold 1890; Fouilles de Delphes, ITI, in corso di I7ubblicazione. (altre numerose singole pubblicazioni, specialmente quelle del Pomtow, riguardano l'epigrafia delfica); Inscriptiones Graecae orae septentrionalis Ponti Euxini, ed. v. Latyšev, I-III, 1885-1901; IV (Suppl.), 1901; E. Kalinka, Antike Denkmäler in Bulgarien; Preisigke, Sammelbuch griech. Urkunden aus Aegypten, I, 1913; E. Breccia, Iscrizioni greche e latine del Museo di Alessandria d'Eqitto, 1912; Petersen e F.V. Luschan, Reisen 'm südwestlichen Kleinasien, Vienna 1889; Lanckoroński, Die Städte Pamphiliens und Pisidien, Vienna 1890-92; W. R. Paton e E. L. Hicks, Inscriptions of Cos, Oxford 1891; Heberdey-Kalinka, Reise im sudwestlichen Kleinasien, 1896; Buresch, Aus Lydien, 1898; J.R.S. Sterrett, The Wolfe Expedition to Asia Minor, Boston 1888; J. Keil e A. v. Premerstein, Reise in Lydien, Vienna 1908; W.M. Ramsay, Cities and Bishoprics of Phrygia, Oxford 1895-1897; M. Fränkel, Die Inschriften von Pergamon, I e II, Berlino 1890 e 1895; O. Kern, Die Inschriften von Magnesia am Maeander, Berlino 1900; Hiller v, Gaertringen, Inschriften von Priene, Berlino 1906; Forschungen in Ephesos, I, II, III, Vienna 1906, 1912, 1913; Milet, Ergebnisse der Atisgrabungen, 1906 e anni successivi; W. M. Calder, Monumenta Asiae Minoris antiqua, Londra 1928. Dei Tituli Asiae Minoris, corpo completo delle iscrizioni di Asia Minore, che l'Accademia di Vienna ha ideato di pubblicare sotto i proprî auspici, sono sinora usciti soltanto due fascicoli con iscrizioni della Licia. Publications of the Princeton Univ. Arch. Expedition to Syria, 1904-5: Littmann, Magie, Stuart, Greek and Latin inscriptions in Syria, 1910, e Kelly Prentice. Greek and Latin inscriptions, 1908.

Tra le raccolte subordinate a speciali punti di vista si ricordino Hicks-Roberts, A manual of Greek historical inscriptions, 2ª ed., 1901; K. Robert, An introduction to Greek Epigraphy, I, 1887; II (con E. Gardner) scriptions of Attica, 1910; Ch Michel, Recueil d'inscriptions grecques, Bruxelles 1900, suppl.1, 1912: 2, 1926; W. Dittenberger, Sylloge inscriptionum graecarum, 3ª ed., Lipsia 1898-1900-1901; id., Orientis graeci inscriptiones selectae, Lipsia 1903-1905; P. Cauer, Delectus inscr. graec. propter dialectum memorabilium, 2ª ed., Lipsia 1883; F. Solmsen, Inscript. gr. ad inl. dialect. selectae, Lipsia 1910; H. Collitz, F. Bechtel, Griechische Dialektinschriften, 1884-1914 (voll. I-III e IV, fasc. 1-4); E. Schwyzer, Dialectorum graecarum exempla epigraphica potiora, Lipsia 1923; W. Janell, Ausgewahlte Inschriften griech. u. deutsch., Berlino 1906; Dareste,B. Haussoullier, Th. Reinach, Recueil des inscriptiones juridiques grecques, Parigi 1891-1905; V. Arangio-Ruiz e A. Olivieri, Inscriptiones graecae Siciliae et infimae Italiae ad, jus pertinentes, Milano 1925; R. Cagnat, Inscriptiones Graecae ad res romanas pertinentes, I, II, IV, Parigi 1903, segg.; E. Löwy, Die Inschriften griechischer Bildhauer, Lipsia 1885; J. Prott e L. Ziehen, Leges graecorum sacrae, I, II,1, Lipsia 1906-1907.

Di carattere scolastico: E. Nachmanson, Hist. Att. Inschriften, nella raccolta dei Kleine Texte del Lietzmann, 1913 (v. anche H. Droysen, Sylloge Inscr. atticarum in us. schol. acad., 1878).

L'epigrafia latina dagl'inizî del Corpus a oggi. - Il Corp. Inscriptionum Latinarum si cominciò a pubblicare, sotto gli auspici dell'Accademia di Berlino, dopo che il Mommsen con due raccolte parziali (Inscriptiones regni Neapolitani, 1852, e Inscriptiones Confoederationis Helveticae, 1854), magistralmente condotte, ebbe dimostrato la possibilità del compimento dell'impresa, e i criterî con cui questa avrebbe dovuto essere eseguita. La distribuzione delle iscrizioni nel Corpus è, a prescindere dal primo volume che contiene le iscrizioni antecedenti al 44 a. C., geografica. Le iscrizioni d'Italia occupano i volumi IV (Pompei, Ercolano e Stabia: Incriptiones parietariae, vasorum, tabulae ceratae); V. (Gallia cisalpina); VI. e XV. (Roma); XIV. (Lazio); IX. (Calabria, Apulia, Samnium, Sabina, Picenum), X. (Bruttium, Lucania, Campania, Sicilia, Sardinia); XI. (Aemilia, Etruria, Umbria), quelle della Spagna il II, quelle delle provincie orientali e dell'Illirico il III, quelle della Britannia il VII, dell'Africa l'VIII, della Gallia Narbonese il XII, delle altre Gallie e della Germania il XIII. Lo stato attuale della pubblicazione, che è pressoché ultimata, è il seguente: vol. I, 1ª ed., 1863; 2ª ed., 1ª parte (fasti capitolini, elogi e calendarî), 1893-5, 2ª parte (tutte le altre iscrizioni del vol. I, oltre quelle venute alla luce sino al 1905). 1918; vol. II, 1 e 2, 1869; supplementi 1892; vol. III, 1 e 2, 1873; suppl. 1-5, 1888-1902; vol. IV, 1871; suppl. I e 2, 1898-1909; vol. V, 1 e 2, 1872 e 1877; vol. VI, 1, 1876; 2, 1882; 3, 1886; 4, 1894 e 1902; 5, 1885; 6. fasc. 1°, 1926; vol. VII, 1873; vol. VIII, 1 e 2, 1881; suppl. 1-4, 1891-1916; vol. IX, 1883; vol. X, 1 e 2, 1883; vol. XI, 1, 1888; 2, fasc. 1°, 1901, fasc. 2°, 1922; vol XII, 1888; vol. XIII, parte 1°, fasc. 1° e 2°, 1899, 1904; parte 2ª, fasc. 1° e 2°, 1905-1907; parte 3ª, fasc. 1° e 2°, 1901-1906; parte 4ª (addenda), 1916; vol. XIV, 1887, col Supplementum Ostiense di L. Wickert, 1930; vol. XV, parte 1ª, 1891; parte 2ª, fasc. 1°, 1899.

Possono considerarsi come parti accessorie del Corpus, i Priscae latinitatis monumenta epigraphica, pubbl. da Fr. Ritschl nel 1862, gli Exempla scripturae epigraphicae latinae a Caesaris dictatoris morte usque ad Iustinianum, 1885, i nove volumi della Ephemeris epigraphica, 1872-1913, nella quale vennero raccolti addenda alle singole parti del Corpus, da incorporarsi via via con esso.

Raccolte regionali sistematiche d'iscrizioni latine, fiancheggianti il Corpus (a prescindere da quelle precedenti al Corpus stesso e da esso assorbite) sono i supplementa italica, fasc. 1°, di E. Pais per la Gallia Cisalpina, pubblicati negli atti dell'Accademia dei Lincei, serie 4ª, vol. V, Roma 1888; le Inscriptions latines d'Afrique di R. Cagnat, A. Merlin e L. Chatelain, le Inscriptions Latines de l'Algérie, I, Inscriptions de la Proconsulaire di St. Gsell, Parigi 1922; E. Espérandieu, Inscriptions latines de Gaule (Narbonnaise), fasc. 1° e 2°, Parigi 1929-30. L'Unione accademica nazionale italiana ha organizzato i lavori preparatorî per un Corpus Inscr. Italiae. Sono usciti i fascicoli delle iscrizioni di Eporedia e Augusta Praetoria (1931-1932).

Sillogi maneggevoli. - Quelle dell'Orelli-Henzen, Amplissima collectio, voll. 3, Zurigo 1828-1856, e quella di C.G. Willmanns, Exempla Inscriptionum latinarum in usum praecipue academicum, voll. 2, Berlino 1873, possono rendere ancora qualche utile servigio, ma esse sono sostituite quasi completammte dalle Inscriptiones latinae selectae di H. Dessau, contenenti circa 10.000 iscrizioni (I, Berlino 1892; II,1,1902, II, 2,1906; III, 1, 1914, III, 2,1916), con commento molto sobrio, ma con indici abbondantissimi. Della Sylloge epigraphica di E. De Ruggiero e D. Vaglieri, uscirono soltanto il vol. I contenente iscrizioni di Roma, e alcuni fascicoli del II (Roma 1891,1892). Per le iscrizioni arcaiche, R. Garrucci, Sylloge inscr. lat. usque ad C. Iulium Caesarem, Torino 1877; F.D. Allen, Remnants of Earlv Latin, Boston 1880; E. Schneider, Dialectorum italicorum aevi vetustioris exempla selecta, I,1, Dialecti latinae priscae et faliscae inscriptiones, Lipsia 1886; W.M. Lindsay, Handbook of Latin inscr. illustrating the history of the language, Boston 1897; A. Ernout, Recueil de Textes Latins archaïques, Parigi 1916; E. Diehl, Altlateinische Inschriften, nei Kleine Texte di Lietzmann, 2ª ed., Bonn 1911. Per le iscrizioni di carattere giuridico i Fontes iuris romani antiqui del Bruns, 7ª ed., curata dal Gradenwitz, 1a parte (Leges et negotia), Tubinga 1909; Girard, Textes de droit romain, 4ª ed., Parigi 1913; Riccobono, Fontes iuris romani antejustin., parte 1ª, Firenze 1909.

Per le iscrizioni mettriche Fr. Bücheler, Carmina epigraphica, Lipsia 1895-7, completati da Engström, Gotenburg 1912.

Raccolte di fac-simili. Oltre quelle già citate dei Priscae Latin. Mon. Ep. editi dal Ritschl e degli Exempla del Hübner, vanno ricordati: Simulacra che accompagnano i Fontes iuris romani antiqui del Bruns nella 7ª ed., sopra ricordata.

Hanno carattere spiccatamente scolastico; G. Mc N. Rushforth, Latin historical inscriptions illustrating the history of the early Empire, Oxford 1893; G. Tocilescu, Delectus inscr. lat. in usum scholarum, I, Bucarest 1892; H. Willemsen, Lat. Inschr. für den Gebrauch im Schulunterricht, Berlino 1913; e, nella raccolta dei Kleine Texte di Lietzmann, oltre le già citate Altlat. Inschr. di E. Diehl, le Vulgärlat. Inschr. e le Pompeianische Inschr. dello stesso, Bonn 1910, le Sacralinschr. del Richter, ivi 1911. Altrettanto si dica della raccolta di fac-simili del Diehl nella collezione delle Tabulae in usum scholarum di Lietzmann, Bonn 1912.

Periodici importanti per l'epigrafia classica. - Notizie degli Scavi; Bullettino della Commissione archeologica comunale; Notiziario Archeologico del ministero delle Colonie (voll. 4,1915-1927), continuato poi dalla rivista Africa Italiana; Annuario della R. Scuola Archeologica Italiana di Atene e delle missioni italiane in Levante; Rivista di Filologia Classica; Römische Mitteilungen (continuazione del Bullettino dell'I. R. Instituto Arch. Germanico); Athenische Mitteilungen; Bulletin de Correspondance Hellénique; 'Αρχαιολογικὴ 'Εϕημερίς; 'Αρχαιολογικὸν Δελτίν; Annual of the British School at Athens; Papers ofthe American School; Bulletin archéologique du Comité des travaux historiques; Recueil des notices et mémoires de la Société archéologique de Constantine; Comptes-rendus des séances de l'Académie des inscriptions et belles lettres; Revue Archéologique; Revue de Philologie; Revue des Ètudes anciennes; Musée Belge; Hermes; Klio; Jahrbücher des Vereins von Alterthumsfreunden im Rheinlande (Bonner Jahrbücher); Römisches Germanisches Korrespondenzblatt (in continuazione del Korrespondenzblatt der Westdeutschen Zeitschrift); Archäologisch-epigraphische Mitteilungen aus osterreich, continuate, a partire dal 1898, dagli Jahreshefte des österreichischen archäologischen Institutes; Journal of Hellenic Studies; Journal of Roman Studies; Archaeological Journal; Americau Journal of Archaeology. Particolarmente utile è la rassegna annuale di epigrafia latina (e greca relativa a cose romane) che sino dal 1888 il Cagnat, poi coadiuvato dal Besnier, pubblica nella Revue Archéologique, e che va sotto il nome di Année épigraphique. Di tipo più sommario è la rassegna ora iniziata in Historia, 1931, da Aldo Neppi Modona. Una rassegna, analoga a quelle del Cagnat per l'epigrafia greca fu pubblicata da Ad. J. Reinach nella Revue des Études grecques, 1909 e segg., e da G. Cardinali, in Ausonia, 1907-9. Si veda anche M.N. Tod, The Progress of greek Epigraphy, in Journ. of Hell. St., XLIX (1925), p. 172 segg.; dal 1922 si pubblica in fascicoli semestrali il Supplimentum epigraficum gracum di J. J. E. Hondiug (I-V, 1, Leida 1929).

Materiali usati. - I materiali più usati furono la pietra e il marmo: la pietra, in genere, per le iscrizioni meno pregiate, ed il marmo per quelle più pregiate, ma naturalmente nei paesi ricchi di marmo, come la Grecia, esso veniva adoprato anche per iscrizioni di secondaria importanza, laddove in quelli che ne scarseggiavano, come molte provincie romane, bisognava contentarsi della pietra anche per testi particolarmente importanti. Molto usato fu anche il bronzo, specialmente dai Romani, che ebbero a loro disposizione ricche miniere di rame, e preferirono questo metallo per la trascrizione delle loro leggi e dei loro atti pubblici, sebbene non manchino nemmeno in Grecia esempî analoghi. Pure il piombo fu adoperato non di rado, non soltanto per tubi d'acqua e per tessere con relative iscrizioni, ma anche appositamente per epigrafi votive o funerarie o magiche, ecc. Difficilmente invece si trovano iscrizioni in ferro, in stagno o in metalli preziosi: infatti, a prescindere da anelli, patere e vasi iscritti, non abbiamo che qualche lamina votiva d'oro o d'argento e qualche amuleto. Usato fu anche il legno così dai Greci come dai Romani; ma, naturalmente, iscrizioni su materiale così deperibile non si sono, in genere, conservate ed è da ascrivere a singolare fortuna se possediamo non poche tabulae ceratae, tavolette, dittiche o trittiche, ricoperte di cera e iscritte con lo stilo, contenenti atti della vita giornaliera, specialmente ricevute e simili (abbiamo circa 150 esemplari di Pompei e una trentina delle miniere d'oro di Albournus maior nella Dacia, Corp. Inscr.Lat., IV, suppl. e III, p. 921 segg.). In avorio e in osso si hanno tessere di forma circolare o quadrangolare; in vetro marche industriali; in pietre dure sigilli epigrafici. Finalmente in terracotta abbiamo non soltanto numerosissime marche di fabbrica su tegole, su vasi, lucerne e statuette, ma anche qualche epitafio e qualche iscrizione dedicatoria.

Tecnica della trascrizione. - Prima d'incidere il testo sulla pietra se ne levigava la superficie, e poi vi si tracciavano sopra a pennello le singole lettere, distribuendo il testo in linee (gli strumenti dei lapicidi sono, oltreché menzionati da autori classici, rappresentati in alcuni monumenti). Una volta preparata la pietra, s'incidevano le singole lettere con lo scalpello. Dopo l'incisione delle lettere, qualche volta, per renderne la lettura piu facile, le si coloravano in rosso o in turchino, così nel mondo greco come in quello romano. Assai di rado le lettere, anziché essere incise, erano lasciate, per artificio, a rilievo; più spesso venivano incrostate in bronzo o in metallo più prezioso. Non mancano esempî d'iscrizioni a lettere punteggiate.

Cenni sulla storia dell'alfabeto greco. - Nella voce alfabeto è stata spiegata già l'origine dell'alfabeto greco e la differenziazione dei diversi alfabeti epicorî, sulla base della classificazione del Kirchhoff, in alfabeti delle isole meridionali, alfabeti del gruppo orientale e alfabeti del gruppo occidentale, ed ivi parimenti è stato già accennato come, tra i diversi alfabeti, trionfò a poco a poco quello di Mileto. Questo trionfo, dovuto anche al fatto che quell'alfabeto rappresentava, nell'ortografia e nelle forme delle lettere, il più perfetto tipo della scrittura greca, fu ufficialmente dichiarato in Atene nell'anno dell'arcontato di Euclide (403-2 a. C.) mercé il decreto di Archino, che propose appunto l'introduzione dell'alfabeto ionico. In Beozia e a Sparta il trionfo avvenne un po' più tardi, ma presto fu completo. Sicché la storia degli alfabeti epicorî, che comincia con le iscrizioni piu antiche verso il 700-650 a. C., abbraccia, sino all'adozione generale della scrittura ionica, parecchi secoli. Le iscrizioni superstiti di questi secoli remoti non sono numerose, ma gli epigrafisti hanno cercato di stabilire per ogni località le fasi del progrediente sviluppo. Noi ci dobbiamo contentare di dichiarare che la linea generale dello sviluppo è tracciata da un processo di semplificazione e di abbellimento dei segni, nel quale operò quello che fu uno dei fattori più creativi e più attivi della storia greca: il senso estetico. Nella tabella diamo il prospetto di questo sviluppo, scegliendo ad esemplificazione un paio di alfabeti per ogni gruppo. Naturalmente tale sviluppo meglio che altrove si può studiare in Attica per il numero rilevante di monumenti epigrafici superstiti, ed ivi si riescono a desumere dalle trasformazioni dei segni grafici criterî notevoli di datazione.

Una volta avvenuta l'adozione generale dell'alfabeto ionico, non subentrò una stasi di sviluppo, ma si ebbero, nelle diverse località, trasformazioni maggiori o minori, che continuarono ad obbedire, da una parte, alla tendenza semplificatrice dei segni, dall'altra, all'aspirazione calligrafica verso l'ornamentazione con apici, appendici e fregi di vario genere, senza però che mai venissero messe da parte ed obliate le antiche forme più rigide e severe, onde bene a ragione è stato detto che nell'epigrafia greca degli ultimi quattro secoli a. C. e dei primi quattro d. C. è un confuso intrecciarsi di elementi antichi e di elementi nuovi.

Le cifre. - Nelle iscrizioni greche i numerali sono indicati con le cifre del sistema decimale, detto anche decadico, o con quelle del sistema alfabetico. Nel primo sistema l'unità si esprime col tratto semplice I; i numeri 5,10,1000,10.000 sono indicati rispettivamente con le lettere Π, Δ, X, M, iniziali di πέντε, δεκα, χίλοι, μύριοι; 100 è indicato con H, segno di aspirazione dell'ε, iniziale di ἑκατόν; i numeri: 50,500,5000,50.000, si esprimono con monogrammi,

nei quali il π, simbolo di 5, è combinato coi simboli di 10,100, 1000,10.000, fungenti come moltiplicatori. Tutti gli altri numeri vengono rappresentati in forma addizionale, come risulta dalla tabella qui sopra.

Nelle iscrizioni attiche vediamo usato questo sistema dal 454 al 95 a. C., e, con varianti maggiori o minori nella forma delle lettere, lo vediamo adoprato in iscrizioni della Beozia, di Trezene, di Nemea, di Argo, ecc. Alle cifre che esprimono somme di denaro spesso sono preposte le sigle monetali, quali ⊤ per il talento, ⊢ per la dracma, │ per l'obolo,) o (per il mezzo obolo, e qualche volta la sigla del talento è combinata con quella numerica:

cioè rispettivamente 5, 10, 50, 100, 1000, 500 talenti.

Del sistema alfabetico si hanno due tipi distinti, quello nel quale le 24 lettere dell'alfabeto greco comune corrispondono ai numeri da 1 a 24 (e, in qualche caso, combinate con un A preposto corrispondono ai numeri da 25 a 48); e quello più perfetto, nel quale 27 lettere (cioè le 24 comuni, più i segni del digamma, del coppa e, forse, del sampi o di altra sibilante) servono ad indicare le 9 unità, le 9 decine e le 9 centinaia.

Pare che questo tipo sia originario di Mileto e risalga al secolo VIII a. C. Esso si andò diffondendo lentamente, per trionfare poi esclusivamente. Le migliaia in questo sistema erano indicate con trattini obliqui posti a sinistra delle cifre. Nei numeri formati da più cifre precedono generalmente quelle di valore maggiore, ma si hanno esempî di ordine inverso, e anche di ordine misto. Per es. 111 è generalmente PIA, ma talora anche AIP o PAI. I segni numerali appaiono spesso distinti da quelli alfabetici per mezzo di punti, d'intervalli, di trattini apposti o sovrapposti, o per altra guisa.

Direzione della scrittura.- Nei tempi più antichi la direzione della scrittura presso i Greci fu quella che essi avevano appresa dai loro maestri fenici, cioè da destra a sinistra; ma poi, accanto a questa, fece la sua apparizione la scrittura bustrofedica (v. Bustrofediche iscrizioni); e finalmente trionfò la direzione da sinistra a destra. Non è possibile fissare limiti cronologici sicuri per la successione dell'un metodo all'altro, e la durata dei singoli tipi fu diversa nelle diverse regioni del mondo greco, ma in linea generale si può dire che nel sec. VII a.C. si hanno iscrizioni sinistrorse (pochissime contengono più di una linea) e bustrofediche, mentre nella prima metà del VI prevalgono le bustrofediche, per cedere poi il posto alle destrorse, delle quali però non mancano esempî antichissimi già nel sec. VII (v. specialmente le iscrizioni di Abū Simbel, Inscr. Gr. Ant., 482, specialmente 482 a e 482 e, e iscrizione di Amorgo, ibid. 390).

Diversi tipi di allineazione. - I grammatici ricordano le scritture κιονηδόν, πλινϑηδόν e σπυριδόν. Della prima (a forma di colonna), consistente in origine nella limitazione delle linee a poche lettere e adatta specialmente all'incisione su colonne, ma applicata poi anche a superfici piane, per lunghi testi, allo scopo di non stancare il lettore con l'eccessiva lunghezza delle linee, si hanno non pochi esempî, nei quali non fa meraviglia che col procedere del tempo, la lunghezza della linea varii. Della scrittura πλινϑηδόν (a forma di mattone, forse di parallelepipedo) e di quella σπυριδόν (a forma di cesto con linee rastremantisi in basso) si hanno pochi e malcerti esempî.

Indipendentemente dal metodo di allineazione, la scrittura più largamente applicata, specie nell'Attica, fu la scrittura στοιχηδον, nella quale ciascuna lettera di una linea si trova, di regola, nello spazio perfettamente corrispondente a quello della lettera correlativa della linea precedente.

Iscrizioni greche antichissime. - Le più antiche iscrizioni greche a noi conservate non vanno al di là del sec. VII circa a. C., per quanto sia fuori di dubbio che la scrittura, e qui si vuol parlare di quella d'origine fenicia, fosse dai Greci conosciuta ed usata non poco tempo prima. Né soltanto le iscrizioni greche cominciano tardi, ma quelle anteriori alle guerre persiane sono relativamente poco numerose, sebbene in esse si trovino già rappresentati tutti i generi epigrafici.

È di particolare interesse e significazione che una delle più antiche sia stata rinvenuta nella Nubia, scritta sulle gambe di una statua colossale egiziana, dinnanzi al gran tempio di Abū Simbel, a ricordare i nomi di mercenarî ionici che durante la spedizione di un re Psammetico (forse il secondo) risalirono il Nilo "fin dove lo trovarono navigabile" (Inscr. Gr. Ant., 482). All'isola di Tera, abbondante di calcare, appartengono parecchie iscrizioni arcaiche, contenenti talora singoli nomi, talaltra dediche (Inscr. Gr. Ant., 438 seg.). Tra le più interessanti iscrizioni arcaiche di Olimpia è quella della tavoletta di bronzo recante il testo di un trattato tra gli Elei e gli Erei (ibid., 110). Gli scavi di Delfi hanno ridato alla luce il gruppo di Cleobi e Bitonei dinnanzi al quale sostò Erodoto, con le relative iscrizioni delle basi (Dittenberger, Syll., 3a ed., 5). Di Atene conviene ricordare il decreto relativo ai nativi di Salamina (ibid., 13), e, passando all'Asia Minore, un cenno è dovuto alle iscrizioni delle statue fiancheggianti la Via Sacra, che conduceva dal porto di Mileto (Panormo) al tempio di Apollo (ibid., 3), contenenti dediche di nobili milesî del secolo VI a. C. Anche la Sicilia e la Magna Grecia ci hanno conservato iscrizioni arcaiche, delle quali la più notevole è forse quella su tavoletta di bronzo rinvenuta a Petelia nel Bruzio contenente un atto altrettanto semplice quanto interessante di trapasso di proprietà, pare del sec. VI a. C. (Inscr. Gr. Ant., 544).

Dalle guerre persiane alla fine della guerra del Peloponneso - Del tempo delle guerre persiane si hanno testi non numerosi, ma importantissimi. Oltre la lettera di Dario a un satrapo d'Asia Minore, in una copia del periodo imperiale, di dubbia autenticità. (Dittenberger, 3ª ed., 22), si vedano: le iscrizioni degli Ateniesi in Delfi per le vittorie di Maratona e di Salamina (ibid., 23 e 28); i cocci per l'ostracismo di Megacle, di Santippo, e, più tardi, di Temistocle (ibid., 26, 27, 39); l'iscrizione famosa della colonna serpentina, sormontata da tripode aureo, che, dopo la vittoria di Platea, i Greci alleati dedicarono ad Apollo in Delfi, e che da Costantino fu trasportata a Costantinopoli, ove ancora si ammira nella grande piazza dell'ippodromo (ibid., 31); le iscrizioni dei donarî delfici dei Crotoniati (ibid., 30) e degli Ermionesi (ibid., 32); tutto il gruppo delle iscrizioni relative alle dediche di Gelone di Siracusa in Olimpia e in Delfi, tra cui quella sull'elmo di bronzo, facente parte del trofeo dedicato dopo la grande vittoria navale di Cuma (ibid., 33-35). Nell'età successiva alle guerre persiane i materiali si moltiplicano, ma dobbiamo limitarci alla sommaria indicazione dei più importanti testi superstiti. Fuori dell'Attica vanno ricordate: le "leggi sui morti" della città di Iulis in Ceo (Dittenberger; 3ª ed., 1218), la legge relativa all'invio di una colonia di locresi epicnemidî a Naupatto (ibid., 47), il patto tra Ligdami ed il popolo di Alicarnasso (ibid., 45), che si riconnette con la fuga di Erodoto dalla sua città natale, l'iscrizione intorno alla vendita sacra di proprietà in Alicarnasso, che sembra aver rapporto con quello stesso patto (ibid., 46), la legge sugli obblighi rituali della corporazione dei molpi milesî (ibid., 57) e quella parimenti milesia contro i tiranni (ibid., 58), il famoso codice di Gortina con le sue dodici colonne di circa 54 linee ciascuna (Collitz, Griech. Dial.-Inschr., 4991), e infine il trattato tra le città di Oianthe e Chaleion (Inscr. Gr. Ant., 322).

Ma i più importanti sono i testi attici, nei quali si rispecchia la gloriosa ascensione di Atene tra le dure lotte e le grandiose opere della pace. Molti sono i decreti del popolo sui più svariati oggetti: condizione degli alleati, cura dei templi, riorganizzazione dei tributi della lega marittima (v. sotto), conferimento di onori e privilegi a comuni oppure a singole persone, disposizioni monetarie, accordi con altri stati. Insieme a questi si hanno anche notevoli decreti delle file, dei demi, delle fratrie, delle corporazioni religiose; iscrizioni funerarie (fra esse gli elenchi di caduti in guerra), e finalmente - più importanti fra tutti gli altri documenti pubblici ateniesi del secolo V - le liste dei tributi, i conti dei tesorieri e i conti di lavori pubblici.

Le liste dei tributi contengono l'elenco degli alleati e sudditi Greci, dai quali Atene prelevava il tributo, cominciando dal 454 a. C. (v. delio-attica, lega). I conti dei tesorieri di Atena e altri magistrati finanziarî sono anch'essi documenti quanto mai interessanti. Ne abbiamo di diverse categorie: inventarî di consegna degli oggetti sacri che formavano il tesoro di Atena (redatti anno per anno dai dieci tesorieri di Atena, venivano registrati ogni quattro anni, in occasione della festa delle grandi Panatenee, su stele di marmo, delle quali ci è conservata la serie completa dal 434-3 al 407-6 a. C.: v. Inscr. Gr., I, ed. min., 232-292 b); resoconti delle spese, come quelli dei due anni della guerra di Samo (441-40 e 440-39 a. C.; ibid., 293), della spedizione di Corcira (433-2; ibid., 295), di qualche anno della guerra del Peloponneso, tali da completare in qualche caso la narrazione di Tucidide (ibid., 296 segg.); inventarî dei tesori degli altri dei, depositati dal 429-8 nel Partenone (ibid., 310) inventarî degli epistati di Eleusi (ibid., 311-317) conti dei logisti per i debiti contratti dallo stato sul tesoro di Atena e degli altri dei coi relativi interessi, per il quadriennio panatenaico dal 426-5 al 423-2 (ibid., 324); registri delle vendite all'asta fatte dai poleti dei beni degli Ermocopidi (ibid., 325 segg.).

Di conti di lavori pubblici siano ricordati quelli per il Partenone, per i quindici anni dal 447-6 al 433-2, assai danneggiati (ibid., 339-353), per la statua criselefantina di Atena (ibid., 354-362), per i propilei dal 437-6 al 433-2 (ibid., 363-367), e finalmente per l'Eretteo dal 409 al 406 (ibid., 372-4).

Dalla battaglia di Egospotami a quella di Cheronea. - I materiali epigrafici divengono sempre più copiosi in Atene e fuori di Atene. Più di 300 sono in questo periodo i decreti ateniesi (v. Inscr. Gr., II,1, ed. min.,1-327), tra cui molti di grandissima importanza storica. Comincia col 377-6 a. C. la serie dei conti degli epimeleti degli arsenali: inventarî esatti e minuziosi delle navi e degli attrezzi diversi, coi nomi di ogni nave e del suo costruttore, con l'indicazione dello stato dell'alberatura, delle ancore, ecc., e con le note per la eliminazione delle navi invecchiate e delle relative condizioni di vendita; intanto continuano i conti dei tesorieri di Atena e degli altri dei, fino al 386-5 in unico collegio, poi fino al 342-i in collegi distinti, e poi di nuovo in unico collegio (v. Inscr. Gr., II, ed. min., 1370-1497), e le iscrizioni relative ai lavori pubblici.

Abbiamo inoltre i conti delle entrate e delle spese degli epistati di Eleusi e dei due tesorieri di Cerere e Proserpina (ibid., 1672 segg.). Aumenta il numero e l'importanza delle iscrizioni coragiche e agonistiche- che non mancano però nemmeno nel secolo precedente: oltre le liste dei coregi e dei vincitori dei concorsi delle grandi Dionisiache, delle Apollonie e delle Dionisiache minori, si hanno le cosiddette didascalie annuali dei concorsi comici o tragici (v. didascalia).

Tra i documenti contabili di altre regioni della Grecia sono da citare quelli per la costruzione del tempio di Delfi (dal 370 a. C., Dittenberger, Syll., 3ª ed., 236 segg.), particolarmente importanti per il tempo della guerra sacra (355-4,347-6), della tholos dell'Asclepieo di Epidauro, del tempio di Atena Alea di Tegea; tra le iscrizioni dedicatorie quelle quanto mai curiose e interessanti di Epidauro che registrano le più miracolose guarigioni compiute da Asclepio (v. epidauro).

Periodo ellenistico (338-7 a. C.-146 a. C.). - Si annuncia nel campo epigrafico con le ordinanze di Alessandro Magno per i cittadini di Priene e per gli altri abitanti in Nauloco (334-3) e per gli esiliati di Chio (333-2), che richiamano alla mente gli editti di Alessandro stesso e di Filippo Arrideo conservati in Diodoro (XVIII, 8,56). Seguono importanti lettere e rescritti dei primi Diadochi e poi dei Seleucidi, dei Tolomei, degli Attalidi e di dinasti minori. Nel corso di questo periodo l'interesse delle iscrizioni attiche decresce corrispondentemente al diminuire dell'importanza politica d'Atene, ma in compenso si accendono numerosi altri fari della cultura greca, ed esplorazioni sistematiche fatte negli ultimi decennî in alcuni dei centri della nuova vita ellenistica hanno rimesso in luce numerosissimi e importantissimi materiali epigrafici: basti ricordare, oltre quelli di Delo e di Delfi, quelli di Pergamo, Mileto, Efeso, Priene, Magnesia al Meandro, sì che nella scarsezza delle fonti letterarie l'epigrafia diventa per questo periodo la principale fonte, forse, della nostra informazione storica.

Tra i decreti onorarî prevalgono quelli di prossenia; in alcune località si usarono addirittura liste di prosseni, come in Delfi dopo la battaglia di Cinoscefale (197 a. C.), in Astipalea e altrove (come già in Epidauro prima di Alessandro), e queste liste possono essere preziose per lo studio delle relazioni reciproche delle diverse città. A riguardo delle quali particolarmente interessanti sono le decisioni arbitrali emanate nelle contestazioni tra due città da una terza, scelta di comune accordo come giudice, di cui non pochi sono gli esempî epigrafici a noi pervenuti per questa epoca.

Numerosissime sono in questo tempo anche le iscrizioni votive, di dinasti (a cominciare da quella di Alessandro all'Atena di Priene), di città e di privati: talora tali iscrizioni sono accompagnate da interi inni (p. es. gl'inni delfici a Dioniso, Apollo ed Estia, o quello a Sarapis di Delo) oppure da componimenti di carattere storico-letterario (tali si possono considerare la cronaca di Paro o quella di Lindo, o le liste eponime con note cronachistiche del tempio di Apollo Delfinio in Mileto).

Tra i documenti di carattere privato acquistano particolare importanza e raggiungono un numero molto elevato in quest'epoca - sebbene abbiano i loro inizî molto prima, cioè già nel sec. V a. C. gli atti di manomissione (specialmente in Delfi, e nelle regioni circostanti, Tessaglia, Locride e Beozia).

Nell'ultimo quarto del sec. III a. C. compare sull'orizzonte del mondo ellenico Roma, e s'inizia quel processo di guerre e di relazioni diplomatiche che, a mezzo del secolo successivo, ne stabilirono, in modo incrollabile, la dominazione. Il qual processo si rispecchia ampiamente nell'epigrafia: nelle lettere dei magistrati romani, consoli e pretori (a cominciare da quelle di T. Quinzio Flaminino ai Tessali Chirezî, del 196 a. C., e di M. Valerio Messalla ai Tei, del 193 a. C.), nei trattati, nei senatoconsulti, nelle dediche dei generali vittoriosi poste nei maggiori templi del mondo greco, e nelle iscrizioni in loro onore.

Periodo della dominazione romana. - L' avvento di questa porta con sé una trasformazione sensibilissima nell'argomento e nello stile delle epigrafi. L'attività degli organi municipali, la bulè e il senato, continua alacremente in molte città delle provincie greche, specialmente in quelle poste nella condizione di foederatae o di liberae et immunes, ma il raggio della loro autonomia si restringe sempre più, fatalmente, nell'angusta cerchia degl'interessi locali, onde prevalgono i decreti in onore di benefattori più o meno munifici e appaiono perfino decreti di condoglianze per la morte di congiunti di cittadini eminenti. Al primo piano del quadro offerto dall'epigrafia del tempo stanno Roma, il senato, i suoi magistrati; più tardi l'imperatore terrà il centro. È del 139 a. C. la lettera di Q. Fabio Massimo ai Dimei con la severa condanna a morte dei capi di un tentativo rivoluzionario (Dittenberger, Syll., 3ª ed. 684, ed ecco i senatoconsulti rimuneratori della fedeltà di questa o quella città in momento di gravi pericoli o sentenzianti in controversie tra città e città o tra città e pubblicani, ecco le lettere di Giulio Cesare ai Mitilenei, o di Antonio e di Ottaviano a Plarasa e ad Afrodisia (ibid., 764;45 a. C.; Or. gr. inscr., 453-5;39-35 a. C.); ecco, subito dopo la battaglia di Azio, la sapienza riordinatrice di Augusto nell'epistola ai Milasensi (Syll., 768;31 a. C.). E l'età augustea lascia la sua traccia notevolissima nelle epigrafi superstiti in lingua greca, dalla lettera ai Cnidî (ibid., 780) ai rescritti di Cirene, senza dire che del Monumentum Ancyranum si ha anche il testo greco. E non pochi sono i rescritti o documenti greci dei successori di Augusto, tra cui menzioneremo solo il discorso da Nerone tenuto in Corinto sulla libertà dei Greci (ibid., 810 e 814; 67 d. C.), e l'editto di Diocleziano sul massimo dei prezzi. L'imperatore era davvero dappertutto nume presente, praesens numen, oggetto di quel culto di cui si hanno tante testimonianze epigrafiche specialmente in Oriente. Le città amavano farsi conferire titoli onorifici relativi spesso a questo culto e l'uso di tali titoli era occasione di non rare controversie e di ricorsi agl'imperatori. La risposta data da Antonino Pio ad uno di questi ricorsi, quello degli Efesî contro gli Smirnei, ci è conservata sulla pietra, e sembra diffondere un'amara ironia sul tramonto del mondo greco: "Credo - dice il saggio imperatore - che gli Smirnei soltanto per caso abbiano omesso i titoli che vi spettano, e che del resto li riconosceranno volentieri, se anche voi nello scambio epistolare con loro vi mostrerete memori di quelli che loro sono dovuti". Così l'epigrafia segue e segna la parabola del popolo ellenico (ibid., 849).

Limiti cronologici dell'epigrafia latina classica. - Le più antiche iscrizioni latine sono: quella sinistrorsa della fibula aurea Prenestina (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 3), proveniente da una tomba della stessa epoca di quelle Bernardini e Regulini-Galassi (sec. VII-VI a. C.) e conservata oggi nel Museo Pigorini di Roma; quella bustrofedica verticale del cippo del foro romano, scoperta nel maggio del 1899 (ibid.,1), nel luogo della cosiddetta tomba di Romolo, tra la curia e l'arco di Settimio Severo (di datazione ancora oggi dibattuta, ma forse del sec. V a. C.) e quella del vaso cosiddetto di Dueno (ibid., 4), scoperto tra il Quirinale e il Viminale verso il 1880, e appartenente, pare, alla prima metà del sec. IV a. C. Seguono nel sec. III a. C. i cippi di Pesaro, scoperti in un bosco sacro presso quella città nel sec. XVIII (ibid., 368 segg.) con dediche a vetuste divinità latine ed italiche, le più antiche delle iscrizioni degli Scipioni (ibid., 6 segg.), cioè quelle di Scipione Barbato, console del 298 a. C., e quella del figlio console del 259 a. C., e pochi altri testi. Scarsi, relativamente, sono i testi epigrafici latini superstiti del sec. II a. C., sia in Roma, sia in Italia e nelle provincie (la più antica iscrizione della Spagna è il decreto di L. Emilio Paolo per gli abitanti della turris Lascutana, Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 614; 189 a. C.): la più antica della Grecia l'iscrizione del donario dello stesso Emilio Paolo in Delfi (ibid., 622;167 a. C.); la più antica dell'Oriente la piccola iscrizione bilingue di Rodi (ibid., 404); la più antica della Sardegna la trilingue (ibid., 2226); la più antica dell'Africa la trilingue, ibid., 707). Dall'epoca sillana aumenta molto il numero delle iscrizioni latine superstiti, per culminare poi nei primi tre secoli dell'Impero, che ce ne hanno tramandate decine di migliaia, e declinare via via in quelli successivi, fino al sec. VI.

Lo sviluppo dell'epigrafia latina classica abbraccia per tal guisa un periodo di più di mille anni, e in sì lungo corso di tempo essa naturalmente subisce una lenta, ma continua trasformazione nei segni grafici, onde da questi può desumersi un criterio importante di datazione; va tuttavia notato che esso è in genere alquanto elastico e approssimativo. Di questa evoluzione vanno qui fissate le fasi principali.

Cenni sulla storia dell'alfabeto latino. - L'alfabeto latino deriva, come è stato spiegato sotto la voce alfabeto, dall'alfabeto greco delle colonie calcidesi dell'Italia meridionale, che a sua volta appartiene al gruppo occidentale degli alfabeti greci, secondo la classificazione del Kirchhoff. Tale derivazione risulta evidente da un confronto tra i segni dell'alfabeto calcidese (v. la tabella a pag. 74, gruppo occidentale degli alfabeti greci) con quelli delle tre più antiche iscrizioni latine, che abbiamo indicato, (v. la tabella a fianco).

I Latini non accolsero nel loro alfabeto i segni calcidici del theta (ϑ), del fi (ϕ) e del chi (χ), che adottarono soltanto come sigle numerali, di guisa che il primo alfabeto latino contò 21 segni, compresi quelli dello zeta (I nel vaso di Dueno) e del digamma (F) prima nel valore semivocalico (nella fibula prenestina la f. consonantica è rappresentata col segno del digamma più quello dell'aspirazione: fhefhaked = fefaced), poi nel valore di f. (così nel vaso di Dueno, e forse già nel cippo, in cui la semivocale è già espressa col segno di V).

Nel sec. III a. C. si delineano importanti trasformazioni in quanto che lo zeta uscì presto dall'uso (lo si rinviene ancora nel Carmen Saliare, e in una moneta di Cosa del 273 a. C.) e, laddove nella fase del vaso di Dueno il segno C era stato adoprato per entrambi i suoni del c e del g gutturali, ora, ad evitare confusione, si introdusse per il suono del g la differenziazione in G, che appare per la prima volta in un asse librale di Lucera del 269 a. C., mentre nell'iscrizione cosiddetta dei coci falisci (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 364) si sorprende una continua confusione tra i due segni C e G. Questa differenziazione compensò la perdita dello zeta, sicché l'alfabeto continuò ad avere 21 lettere (il qual numero è ricordato in Cicerone, De nat. deor., II, 93; cfr. Quintil., I, 4, 9, nei quali passi la X è ancora chiamata ultima lettera dell'alfabeto), ma le singole lettere già nella prima metà del secolo offrono, accanto alle forme primigenie, delle varianti che si possono vedere nella tabella, col. 2. Si notino particolarmente quelle della E, della F, del C, del K, del P, della M. Queste varianti determinano una nuova fase dell'alfabeto latino, la quale giunge approssimativamente alla metà del sec. III a. C., quando ne succede un'altra (v. tabella, col. 3), che giunge a sua volta fin verso il 150 a. C., ed è caratterizzata dal declinare progressivo di alcune forme arcaiche (v. specialmente la E, la F, la O, la P, la Q, la R, la S), e dall'apparire della L ad angolo retto, che intorno al 200 a. C. sostituisce definitivamente quella ad angolo acuto. Verso il 150 a. C. subentra una nuova fase caratterizzata dalla scomparsa delle forme arcaiche della E, della F, della M e della N, e da una regolarizzazione progressiva dei segni (v. tabella, col. 4), il quale processo si prosegue sino ad Augusto, quando tocca il suo culmine nell'agilità ed eleganza dei caratteri, nell'accuratezza del disegno e nell'armonia delle proporzioni. Questa tradizione d'eleganza si continua nei primi due secoli dell'Impero con varianti cronologiche e regionali, che sono state studiate accuratamente dagli epigrafisti per desumerne criterî di datazione, ma non si può pretendere mai di giungere a determinazioni cronologiche precise col solo sussidio degli elementi paleografici: bisogna contentarsi di approssimazioni.

Nella tabella che è riportata nella voce alfabeto, sono riprodotti gli alfabeti dell'epoca di Augusto, quello dell'epoca degli Antonini e quello dell'epoca di Settimio Severo. L'alfabeto dell'epoca di Costantino è più pesante, e da allora in poi subentra la decadenza anche nell'arte delle epigrafi.

Dalla scrittura monumentale o lapidaria o quadrata (cfr. saxa quadrata, pietre squadrate, destinate ad essere incise; quadratores o artifices quadratarii, incisori) si distinguono l'actuaria, la corsiva e l'unciale.

L'acquaria è detta così perché usata frequentemente nella trascrizione di documenti ed atti pubblici, e, derivando dalla scrittura dipinta a pennello, in nero o in rosso, su tavole imbiancate o sulla superficie di muri o di pareti, è contrassegnata da una maggiore fluidità di caratteri con smorzamento degli angoli e arrotondamento dei segni: questa diversa delineazione dei segni dovuta appunto alla tecnica del pennello si conservò anche quando questo tipo di scrittura si usò in tavole di bronzo o, molto più di rado, in pietra (come esempî si vedano il Senatusconsultum de Bacchanalibus, Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 581 per il sec. II a. C., i fasti Capitolini per il periodo augusteo, e il discorso di Claudio dell'iscrizione di Lione, ibid., XIII, 1668). La scrittura corsiva e l'unciale vanno studiate specialmente nella paleografia, ma ebbero anche qualche uso epigrafico: il corsivo infatti fu usato, oltreché nelle tavolette cerate di Pompei e di Alburnus Maior, in graffiti su muri, pareti e vasi, specialmente di Pompei, ma anche di altre località; e l'unciale in non poche iscrizioni africane a partire dalla fine del sec. III d. C., e a cominciare dalla fine del IV anche in altri luoghi. Derivano entrambi dalla scrittura monumentale, ed anzi il corsivo sembra ricollegarsi con lo stadio arcaico della scrittura monumentale; assume però nelle singole lettere una quantità di varianti dipendenti dal ductus dello scrivente, e offrenti in alcuni casi notevolissime difficoltà, che lo rendono talvolta indecifrabile.

Nelle iscrizioni latine appaiono naturalmente le cifre del sistema numerico latino, nel quale i segni fondamentali I, V, X, sono, con la massima probabilità, indipendenti dalle lettere, e si mantennero inalterati attraverso i secoli, mentre i segni adoprati per il 50 e per il 1000 derivano dai segni delle aspirate greche calcidiche χ e ϕ, segni che passarono attraverso diverse trasformazioni, sboccando il primo in ???, con assimilazione al segno della L, il secondo in ???. ???. ???. ???. Per il 100 molto probabilmente fu adoprato in origine il segno calcidico del ϑ, ma di esso non restano testimonianze epigrafiche, e, comunque, esso fu presto sostituito dal C, iniziale di centum, che appare già nel Senatus consultum de Bacchanalibus del 186 a. C. Il 50 fu rappresentato con la metà destra del segno del mille, la quale finì con l'identificarsi con una 17. Per i multipli di 1000: 10.000 e 100.000 fu adoperato il segno stesso del mille inserito rispettivamente in uno o due circoli, ridotti anche in semplici tratti curveggianti, e per il 5000 e il 50.000 valsero, rispettivamente, le metà degli stessi segni. Per le centinaia di migliaia poteva ripetersi il segno del 100.000 ad libitum, sennonché per il 500.000 sul finire della repubblica, e per qualche tempo ancora in seguito, si adoprò un segno derivato dalla lettera Q. La M per 1000 si trova adoprata già in iscrizioni arcaiche, ma soltanto in unione con la sigla P ad indicare mille passus o millia passum; soltanto durante l'Impero la M fu adoprata sola per questo valore.

Per distinguere i segni numerali in origine si tagliavano, talora, con un tratto orizzontale nel mezzo (del che rimase traccia perenne nelle sigle ??? ???, rispettivamente del denaro e del sesterzio); poi, a cominciare dal sec. a. C., il trattino, quando lo si usò, fu sovrapposto; ma si noti che tale trattino sovrapposto conferisce spesso alle cifre il valore delle migliaia, p. es. ??? = quindecim millia, mentre la circoscrizione della cifra in tre trattini, uno orizzontale superiore e due verticali laterali, conferisce ad essa valore di centinaia di migliaia, p. es.: ??? = decies centena millia = 1 milione.

Per dare un'idea del patrimonio epigrafico latino e per renderlo accessibile, conviene studiarlo nelle seguenti categorie d'iscrizioni.

Iscrizioni dedicatorie. - Poste generalmente su altari o su edicole o su templi o su statue o su tavolette votive, contengono il nome della divinità in genitivo o in dativo, con o senza sacrum, il nome del dedicante, qualche volta con l'indicazione delle cariche da lui rivestite, il verbo d(at), d(edit), p(osuit), vovit, donum dedit lubens merito, o espressioni simili: p(oni) i(ussit), f(aciendum) c(uravit), v(otum) s(olvit) l(ibens) a(nimo) o m(erito). Qualche volta è specificato l'oggetto che si dedica, la somma che è costato, la fonte da cui è stata attinta la spesa, la causa della dedica: somno o viso o visu, monitus o iussus, o ex viso, e(x) m(onitu), ex r(esponso), d(e) s(enatus) s(ententia), d(ecreto) d(ecurionum). Questa categoria di iscrizioni è particolarmente importante per lo studio della religione romana e del paganesimo in genere, specialmente del persistere delle credenze indigene sotto la vernice greco-romana, da un lato, e del progressivo diffondersi di culti stranieri, specialmente orientali, dall'altro. È un duplice processo che, con le iscrizioni alla mano, possiamo proseguire, dal sec. III a. C. al quale appartengono i cippi di Pesaro (v. sopra) dedicati a divinità prettamente latine e italiche, o la tavoletta di Norba dedicata a Giunone Lucina durante il Diovis castus (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 360), all'età augustea ed imperiale, alla quale appartengono centinaia di iscrizioni sacrali, tra cui ricordiamo i numerosi ex-voto dei templi di Saturnus (Baal) dell'Africa (Corp., VIII, 1492 segg., 24111 segg.), o delle Matronae nel territorio renano (Corp., XIII, 11983 segg., 12016 segg.), o di Iupiter al passo del Gran S. Bernardo (Dessau, 4850 seg.); le iscrizioni tauroboliche e crioboliche relative al culto della Grau Madre Idea (Dessau, 4118 segg.), o di Mitra (Dessau, 4188 segg.), o di divinia egiziane (Dessau, 4351 segg.) o di divinità barbariche, specialmente celtiche (ibid., 4516 segg.). E finalmente nell'epigrafia classica, a prescindere da quella specificamente cristiana, si rispecchia l'avanzarsi del cristianesimo (v. per es. l'iscrizione dell'arco di Costantino, Corp., VI, 1139, che può essere interpretata così dal punto di vista cristiano, come da quello pagano, e l'editto di Hispellum, in Corp., XI, 5265).

Iscrizioni onorarie. - Si possono considerare come le più antiche iscrizioni onorarie i tituli imaginum, le iscrizioni cioè apposte alle immagini degli antenati, che si esponevano negli atrî delle case delle famiglie nobili, contenenti, in origine, i soli nomi con l'indicazione delle magistrature curuli da essi rivestite. Col procedere del tempo fu consentito che simili immagini con relative iscrizioni fossero esposte anche in templi o altri edifici pubblici, specialmente da coloro che li avessero edificati o restaurati. Si tratta di dediche onorarie, che traevano origine da iniziativa privata, e di questa facoltà si usò ed abusò, sì da invadere il foro stesso, tanto che nel 158 a. C. i censori P. Cornelio Scipione e M. Popilio ordinarono che venissero rimosse di là tutte le statue di magistrati che non fossero state decretate dal Senato e dal popolo (Plin., Nat. Hist. XXXIV, 30). Ciò nonostante foro e Campidoglio negli ultimi tempi della repubblica pullulavano di ritratti, statue e titoli relativi; e quando Augusto nel 2 a. C. dedicò a Marte Ultore il tempio, che gli aveva votato sui campi di Filippi, e dinnanzi al tempio aprì il suo magnifico foro, ne usò subito allo scopo di onorare la memoria dei maggiori personaggi della storia di Roma, facendone collocare nei portici (cioè, come è stato dimostrato dai recenti scavi, nei due emicicli e nelle due aule incontro ad essi) le statue di bronzo in costume di trionfatori (Suet., Aug., 31; cfr. Horat., od., IV, 8,13) con iscrizioni commemorative parte nel plinto, parte in apposita tabella del piedistallo. L'esempio dato da Augusto fu imitato in altri municipî dell'Italia, che adornarono i loro fori con copie degli originali romani, ed è così che, mentre delle iscrizioni del foro di Augusto non ci restano che pochi frammenti, non accresciuti nemmeno nei recenti scavi, da Arezzo provengono sette esemplari, alcuni dei quali in ottimo stato di conservazione, e qualche simile frammento fu rinvenuto anche altrove. A questo gruppo d'iscrizioni è stato dato il nome di elogia, nel senso che questa parola ha in Catone il vecchio, che l'usava per gli epigrammi greci in onore di Leonida (in A. Gell., Noci. Att., III, 7,19). Lo schema su cui essi sono redatti è lo stesso: nome della persona onorata, in nominativo, magistrature, sacerdozî, cenno delle maggiori imprese ordinate secondo i consolati, con qualche intercalazione relativa alle virtù e al talento del personaggio. La tradizione che essi rispecchiano diverge spesso da quelle delle fonti a noi conservate, e si discute se risalga all'annalistica più o meno recente, più o meno inquinata.

Con lo stesso termine di elogia si designano le iscrizioni sepolcrali degli Scipioni, che recano anche esse il nome de defunto in nominativo, l'indicazione delle cariche e un elogio, nelle più antiche in saturnî, nelle più recenti in distici.

Allo stesso schema degli elogia si può riportare la più antica iscrizione onoraria a noi pervenuta, sebbene non nell'originale ma in una copia o imitazione dei primi tempi dell'Impero, quella della columna rostrata di C. Duilio, console del 260 a. C., vincitore della battaglia di Mylae (Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., II, 25); ma nelle altre iscrizioni onorarie lo schema è diverso. Il nome dell'onorato è generalmente in dativo, ma appare anche in accusativo, secondo il costume greco, e, col procedere del tempo, anche in genitivo preceduto dalla formula:. honori, in honorem. Insieme col nome del personaggio onorato, che è accompagnato generalmente dalla menzione delle diverse cariche da lui rivestite (v. cursus honorum), si registra naturalmente il nome del personaggio o dell'ente che compiono l'atto onorario, ecc., seguito o no dal verbo indicante l'azione: fecit, p(osuit), f(aciendum) o p(onendum) c(uravit); dall'oggetto, in cui l'onore si esprime (statuam, imaginem, ecc.), dai motivi che l'hanno determinato (honoris causa, pro pietate, ecc.), dalle modalità della spesa e dell'esecuzione: p(ublice), p(ecunia) p(ublica), p(ecunia) s(ua), ecc.

È superfluo dire che le iscrizioni onorarie nel periodo imperiale si andarono moltiplicando anche più che quelle di altro genere, in Roma e nelle altre città dell'Italia e delle provincie, estendendosi sino ai tempi della decadenza. La maggior parte furono iscrizioni in onore degl'imperatori e di altri membri della famiglia imperiale, di governatori, di procuratori, di ufficiali e di funzionarî d'ogni ordine e grado, onde tali iscrizioni offrono un contributo addirittura prezioso allo studio degli ordinamenti amministrativi e militari nelle diverse epoche dell'Impero.

Iscrizioni sepolcrali. - Esse costituiscono la categoria più numerosa delle epigrafi a noi pervenute. Nelle più antiche veniva registrato soltanto (prima in nominativo, poi in genitivo o in dativo) il nome del defunto (si vedano le iscrizioni delle urne cinerarie di Tuscolo, Corp. Inscr. Lat., I, 2ª ed., 50-58, e quelle più recenti dei piccoli cippi di Preneste, ibid., 64-357 e di Caere, ibid., 1931-1986) ed eventualmente erano menzionate le cariche da lui rivestite, ma poi, già a partire dalla metà del sec. III a. C., si cominciò ad aggiungere l'elogio del defunto (così già nelle più antiche iscrizioni degli Scipioni; ma si noti che in quella di L. Cornelio Scipione Barbato l'iscrizione del coperchio, incisa prima del resto, recava soltanto il nome e, forse, nella linea poi scalpellata, le cariche). Nei tempi imperiali, non senza qualche precedente di epoca repubblicana, l'epigrafe comincia con la formula Dis Manibus con o senza Sacrum, abbreviata generalmente in D.M.S., con la quale formula si esprime la consacrazione della tomoa agli dei inferi e agli spiriti dei defunti. A tale formula segue il nome del morto in genitivo o in dativo, ma qualche volta anche in nominativo, come soggetto di un vixii o di un h(ic) situs est. In iscrizioni, specialmente della Gallia, si ha spesso la formula memoriae, o quieti aeternae o perpetuae, con o senza l'altra D.M. Col procedere del tempo la fraseologia funeraria si allarga sì da abbracciare l'età del defunto: qui vixit annis o annos... o semplicemente an(norum)..., talora con l'aggiunta dei mesi, dei giorni e persino delle ore: m(enses), d(ies), h(oras); le dimensioni della tomba e del terreno circostante: in fr(onte) o frontem, p(edes)... in ag(ro) o ag(rum) o simili; il nome di chi ha curato l'elevazione della tomba, prescrizioni dirette ad assicurare la proprietà di essa al defunto: h(oc) m(onumentum) h(eredem) n(on) s(equetur), con la qual formula s'intende che il sepolcro non dovrà passare agli eventuali eredi testamentarî in confronto dei discendenti agnatizî; l'indicazione delle persone cui la tomba è riservata insieme col destinatario principale: s(ibi) et s(uis); l(ibertis) l(ibertabus)q(ue), p(osterisque) e(orum); formule deprecatorie di eventuali violazioni, come h(uic) m(onumento) d(olus) m(alus) a(besto); augurî di pace al defunto, come o(ssa) t(ua) b (ene) q(uiescant); s(it) t(erra) t(ibi) l(evis), preceduti o no da o(pto) o v(olo); saluto del defunto al viandante: salve, vale, b(ene) v(aleat) i(s) q(ui) h(unc) t(itulum) l(egit) m(eum); sentenze sulla precarietà della vita, con carattere più o meno filosofico (Corp. Inscr. Lat., V, 1813: n(on) f(ni), f(ui), m(on) s(um), n(on) c(uro); Dessan, 8168: mortua heic ego sum cinis, is cinis terrast - sein est terra dea, mortua non sum; Corp. Inscr. Lat., VI, 26003: Nihil sumus et fuimus mortales. Respice, lector, in nihil a nihilo quam cito recidimus); lodi del defunto, talora molto dettagliate, con riferimento a particolari, atti e circostanze della vita di lui, come nell'elogio di Turia (Dessau, 8303; cfr. quello di Murdia, ibid., 8394), citazioni delle volontà del testatore con le eventuali prescrizioni per i funerali e per il culto della tomba (Corp. Inscr. Lat., XIII, 5708), con raccomandazioni o deprecazioni o con minaccia di penalità e multe per i violatori di queste volontà: particolare menzione meritano l'iscrizione che reca il famoso testamento di Dasumio, così importante per il diritto romano (ibid., VI 10229) e quelle con le donazioni di Flavio Sintrofo (VI, 10239), di Stazia Irene (VI, 10231) e di Giulia Monime (VI, 10247); interessanti sotto altro aspetto gli scongiuri contro le deturpazioni di scritte elettorali o con minaccia esplicita di malaugurio. Nonostante la tendenza all'ampliamento della fraseologia funeraria, persistono non di rado formulazioni molto semplici come quella della tomba di Cecilia Metella e quella di T. Livio, probabilmente lo storico. Un carattere a sé hanno le iscrizioni dei colombarî (v.). Quando uno stesso epitafio ricorda più persone, alcune defunte ma altre viventi, queste sono talora distinte- con la lettera V iniziale di vivus, e quelle con un simbolo Θ, che da alcuni è considerato come una variante di O (per obiit o obitus), da altri invece è considerato come un vero e proprio theta, iniziale di Θανών (mortuus), la quale opinione fu professata anche da qualche antico (Pers., IV, 13; cfr. Isid., Etym., 1, 24,1). Un cenno particolare sia qui fatto delle formule s(ub) a(scia) d(edicavit) e simili (a solo et ab ascia fecit; ad asciam dedicatum posuerunt, ecc.), che, accompagnate o no dal simbolo effettivo dell'ascia, si rinvengono in iscrizioni, particolarmente numerose nella Gallia Lugdunense, ma non mancanti in altre località; formule e simbolo da qualcuno sono considerati come deprecatorî di violazioni, da altri come dirette ad assicurare la perpetuità del possesso della tomba sì da corrispondere in qualche modo alla formula h(oc) m(onumentum) h(eredem) n(on) s(equetur).

Iscrizioni su edifici pubblici e cippi terminali. - Come oggi, anche nell'età romana spesso venivano incise sugli edifici sacri e profani (templi, basiliche, portici, bagni, acquedotti, ecc.) iscrizioni destinate a ricordarne la fondazione o i restauri e abbellimenti successivi. Gli elementi essenziali di queste iscrizioni sono i nomi di chi ha fatto elevare o restaurare il monumento in nominativo, e il verbo indicante l'atto del ricostruire o del restaurare in terza persona singolare o plurale (facere, aedificare, extruere, ecc., ampliare, reficere, restituere, ecc.), ma a questi elementi altri se ne aggiungono con maggiore o minore frequenza, quali il nome dell'edificio o della sua parte, che si costruisce o restaura, in accusativo attributi relativi allo stato del monumento, prima del restauro (p. es.: amphitheatrum vetustate corruptum, porticus longa aetate neglectas, ecc.); motivi della costruzione, qualità del luogo scelto (p. es.: loco privato, accepto loco a republica), addossamento delle spese: p(ecunia) s(ua), p(ecunia) p(ublica). In testa all'iscrizione, inoltre, talora appaiono formule relative allo scopo, quali pro sal(ute) imp(eratoris), in h(onorem) d(omus) d(ivinae), o all'autorizzazione avuta da magistrati o dall'imperatore (ex auctoritate o iussu imp. Caes..., ecc.), oltre la datazione.

Ognuno sa quanto fervida e gloriosa sia stata, specialmente in alcuni periodi, l'attività edilizia dei Romani; ed è appunto lo studio delle iscrizioni su monumenti Pubblici che ci pone a contatto immediato con le diverse fasi e coi diversi tipi di quest'attività in Roma in Italia e nelle provincie, e mentre porge sussidî indispensabili alla storia dell'architettura e delle arti figurative, ci guida ad una più esatta e complessa valutazione dell'importanza di quella attività nella storia del mondo antico. Basti qui accennare di sfuggita alle iscrizioni dei ponti - da quelli Fabricio e Cestio (Dessau, 5893) di Roma, a quelli di Augusto sulla Marecchia (ibid., 113), di Alcántara sul Tago del tempo di Traiano, delle rive dell'Hippus del tempo di Commodo (ibid., 393) -; degli archi - da quelli augustei di Rimini e di Susa (Dessau, 84 e 94; cfr. 81, proveniente dall'arco prossimo al tempio di Castore, poi andato distrutto completamente), a quelli di Tito (Dessau, 265; cfr. 264, proveniente dall'arco nel Circo Massimo), di Traiano a Benevento ed Ancona (ibid., 296 e 298), di Settimio Severo (ibid., 425), di Gallieno (ibid., 548) -; delle colonne centenarie Traiana e Antonina (oggi ancora sotterra); degli acquedotti (Aqua Marcia, ricostruzione di Augusto, restauro di Tito e di Caracalla: Dessau, 98; Aqua Claudia e Anio novus, completamento di Claudio, restauri di Vespasiano e di Tito: Dessau, 218); delle vie. Più di 4000 sono i cippi miliarî, venuti alla luce in Italia e nelle provincie dal sec. III a. C. al V d. C. (Dessau, 806), i quali rendono preziosa testimonianza delle grandissime benemerenze dei Romani circa la viabilità dell'Italia e di tutto l'Impero. Questi cippi sono, come è noto, colonnette, per lo più su basi cubiche, o pilastri quadrangolari o di altra forma, che si ponevano sulle strade romane con l'indicazione della distanza tra il cippo e il principio della strada e insieme, qualche volta, dalla fine della medesima. Molto spesso su questi cippi si registra il nome del magistrato romano o dell'imperatore, che ha fatto costruire o restaurare la strada, seguito o no dal verbo correlativo: fecit, stravit, munivit, ecc., e dall'oggetto: viam, iter, ecc. Talora questo nome è in dativo (specialmente se si tratta di strade municipali; nel qual caso, a cominciare dal sec. II d. C., comincia ad apparire anche il nome del municipio) o in ablativo (a scopo di datazione). In alcuni casi s'indica anche il nome di chi ha sorvegliato i lavori e si fa cenno dei fondi, donde sono state prelevate le spese. Il più antico dei cippi a noi pervenuti è quello posto dagli edili P. Clodio e C. Furio sulla via Appia, ad Medias nelle paludi Pontine nella prima metà della prima guerra punica (Dessau, 5801).

Analogia coi cippi miliarî hanno queste categorie d'iscrizioni:

1. i termini riparum Tiberis, che cominciano col 55 a. C. (Corp. Inscr. Lat., 2ª ed., 11, 766) e recano, sino alla fine della repubblica, i nomi dei censori o dei consoli, in nominativo con l'espressione ex senatus consulto terminaverunt, poi, al tempo augusteo, il nome di Augusto con la stessa formula (Dessau, 5924 a, b, c), e da quando furono istituiti (nel 15 d. C.) i curatores riparum et alvei Tiberis (et cloacarum urbis da Traiano in poi), i nomi loro, preceduti dalle parole ex auctoritate imp. Caes., e seguiti dalla solita formula: terminaverunt, ripam restituerunt, e dall'indicazione della distanza da un cippo all'altro: r(ecta) r(egione) prox(imo) cip(po) p(edes) (tot);

2. i termini pomerii, che stavano ad indicare il pomerio di Roma coi suoi successivi ampliamenti;

3. i cippi aquarum, che erano posti a coppie ai lati degli acquedotti a indicare la striscia di terreno che, a termine di legge, era di loro pertinenza: essi recano il nome dell'acquedotto, il nome dell'imperatore coi suoi titoli, un numero d'ordine progressivo, e una distanza in p(edes), che è generalmente CCXL;

4. i cippi terminales, relativi alla delimitazione o rivendicazione o distribuzione dell'ager publicus (cippo di Venosa, Corpus Inscr. Lat., I, 2ª ed., 11, 402-3) in cui si dichiara che un certo luogo deve essere aut sacrom aut poplicom, cippi graccani nella Campania posti dai tresviri agris iudicandis adsignandis, cippi del periodo imperiale coi nomi dell'imperatore, dei consoli e dei curatores locorum publicorum, con l'espressione ex privato in publicum restituerunt (o redemptum a privato publicavit);

5. i termini che segnano il confine tra i territori di due popoli o due città (come quelli del 141-136 a. C., che fissano il confine tra Ateste e Patavium, e tra Ateste e Vicetia; Dessau, 5944 segg).

Documenti. - Incisi spesso su materiale duraturo, prevalentemente in bronzo, ed esposti in luogo pubblico, ce ne sono conservati non pochi e si sogliono distinguere nelle seguenti categorie: leggi e plebisciti, senatoconsulti, atti imperiali, decreti di magistrati, atti municipali. atti di collegi, calendarî, liste di magistrati (v. anche epistolari, scritture; fasti), documenti privati (testamenti, donazioni, atti di vendita, contratti, ricevute; per le quali ultime si vedano specialmente le tavolette cerate di Pompei, Corp. Inscr. Lat., IV, suppl., p. 275, e quelle di Alburnus Maior, ibid., III, p. 291 segg.).

Iscrizioni dipinte e graffite. - Sono numerose specialmente in Pompei; quelle dipinte contengono in parte manifesti elettorali (Dessau, 6398-6438), in parte annunci di solennità (Dessau, 5143), avvisi di est locanda (ibid., 5723), partecipazioni mortuarie (Corpus Inscr. Lat., IV, 64), ecc.; quelle graffite sono, soprattutto, di carattere erotico, non di rado oscene, sia che contengano reminiscenze letterarie, sia che abbiano pretto stampo popolare. Molto meno numerosi sono i graffiti provenienti da altre località: basti ricordare quelli di Ostia, e quelli famosi del cosiddetto Paedagogium del Palatino e del corpo di guardia della 7a coorte dei vigili in Trastevere (Bull. della Comm. Arch. Com., 1893-1895 e Corp. Inscr. Lat., VI, 2998-3091,32751). Si hanno anche graffiti su frammenti di vasi, di piatti, ecc., e questi generalmente hanno carattere commerciale, recando il nome dell'operaio, della qualità del vaso e qualche cifra.

Iscrizioni su oggetti domestici. - Sono dette inscriptiones instrumenti domestici le iscrizioni eseguite con stampi su oggetti di metallo o di argilla, per lo più brevissime, spesso contenenti solo un nome, sì che possono essere defimte quali marche di fabbrica. Queste iscrizioni hanno offerto un contributo prezioso per distinguere lo stile e la tecnica dei manufatti di fabbriche diverse e determinarne l'età e la serie. Se ne hanno su merci di ogni genere: su vasellame da tavola (specialmente quello delle fabbriche di Arezzo e della zona di confine tra la Gallia e la Germania), su lucerne, anfore adibite al trasporto (in esse l'iscrizione si trova generalmente sul collo o sulle anse del vaso e reca il nome del commerciante, più tardi anche quello dell'operaio e del luogo d'origine, in qualcuna inoltre si leggono indicazioni relative alla spedizione delle merci, così, specialmente, nei numerosi frammenti del Monte Testaccio di Roma), su tegole (su cui si legge spesso il nome della fabbrica o del proprietario, e inoltre la data espressa col nome dei consoli, di guisa che esse hanno molta importanza per la storia edilizia di Roma).

Importanza dell'epigrafia latina. - L'epigrafia latina costituisce una miniera preziosa e inesauribile di documenti di svariatissima natura, che c'introducono con immediatezza nella vita del mondo romano e con essa ci familiarizzano, dandoci quasi l'illusione della contemporaneità. Sono documenti che investono tutti gli aspetti e tutti gli elementi della vita pubblica e privata dei Romani: gli ordinamenti politici, come quelli amministrativi, finanziarî, militari, giudiziarî; le condizioni sociali ed economiche, come la religione, la mitologia e il culto; la lingua e il diritto, ed ogni altra manifestazione insomma della vita spirituale e materiale. Ma i campi, che sin qui hanno tratto maggiore vantaggio dai materiali epigrafici, son quelli delle istituzioni amministrative, specialmente del periodo imperiale, e della storia della lingua, specialmente per quanto concerne lo studio del latino arcaico e del latino volgare. Né basta, ma l'epigrafia latina in sé e per sé, nonostante una certa monotonia d'insieme, rappresenta in parecchi suoi testi una delle manifestazioni più caratteristiche dell'indole nazionale dei Romani. Nella concisione e nella rapidità della frase, altrettanto quanto nella dignità dell'eloquio, troviamo spesso espresse scultoriamente le qualità fondamentali della razza: la pietà verso gli dei, la patria ed i genitori, il culto delle virtù domestiche, la severa disciplina della milizia, il rispetto sacro della proprietà, la subordinazione all'impero del magistrato e della legge, il senso augusto della romanità.

Bibl.: Per l'epigrafia greca: A. Böckh, Prefazione al Corp. Inscr. Gr., I, 1828, p. vii; J. Franz, Elementa epigraphices graecae, Berlino 1840; Ch. Th. Newton, On Greek Inscriptions, in Essays on Art and Archaeology, Londra 1880, pp. 94-209, tradotto in tedesco da J. Imelmann, Die griechischen Inscriften, Hannover 1881, e in francese da S. Reinach nella prima parte del suo pregevole Traité d'épigraphie grecque, Parigi 1885; G. Hinrichs, Griechische Epigraphik, nella 1ª edizione del vol. I del Handbuch der klassischen Altertumswissenschaft di I. Müller, Nördlingen 1880, p. 329 segg.; W. Larfeld, nella 2ª edizione dello stesso volume, Monaco 1892, p. 357 segg., e poi nella 3ª, ivi, 1914. Il manuale più completo è quello dello stesso autore, Handbuch der griechischen Epigraphik, I: Einleitung- und Hilfsdisziplinen. Die nichtattischen Inschrifte, Lipsia 1907; II: Die attischen Inschriften, Lipsia 1902. Un ottimo orientamento offre Hiller von Gaertringen nel 9° fas. del vol. I della Einleitung in die Altertumswiss. Di Gerche e Norden: Griech. Epigraphik, Lipsia e Berlino 1924. Di dizionarî che giovino alla restituzione delle epigrafi esiste solo quello di W. Pape, Etym. Wörterbuch der griech. Sprache zur Übersicht der Wortbildung nach den Endsilben geordnet, Berlino 1836. Può utilmente consultarsi O. Gradenwitz, Heidelberger Konträrindex der griech. Papyrusurkunden, Berlino 1931. Notevole opera di sistemazione biografica dei materiali epigrafici e greci è la Prosopographia Attica Di Kirchner, Berlino 1901 segg. Per un orientamento generale sugli studî intorno all'epigrafia greca, v. S. Chabert, Hist. sommaire des études d'épigr. grecque, Parigi 1906 e M. N. Tod, in Journ. of Hell. St., XLIX (1929), p. 172 segg.

Per l'epigrafia latina: Fr. Ant. Zaccaria, Istituzione antiquario-lapidaria, Roma 1770, 2ª ed., Venezia 1793; G. B. Spotorno, Trattato dell'arte epigrafica per interpretare le antiche iscrizioni, Savona 1813; C. Zell, Handbuch der römischen Epigraphik, Heidelberg 1852, 2ª ed., 1874; C. Bone, Anleitung zum Lesen, Ergänzen und Datirem rom. Inschriften, Trento 1881; E. Hübner, Römische Epigraphik, in Handbuch di I. Müller, I, 2ª ed., Monaco 1892; W. M. Lindsay, Handbook of Latin inscr. illustrating the History of the language, Boston e Chicago 1897; S. Ricci, Epigrafia Latina, Milano 1898; E. Hübner, Inscriptions, in Encyclopaedia Britannica, 9ª ed., XIII, 1890, pp. 124-133, riveduto e abbreviato da W. M. Lindsay nella 11ª ed., XIV, 1911, pp. 629-638; J. C. Egbert, Introduction to the Study of Latin Inscriptions, 2ª ed., New York 1908; R. Cagnat, Cours d'épigraphie latine, 4ª ed., Parigi 1914; H. Dessau, in Enleitung in die Altertumswissenschaft di Gercke e Norden, I, fasc. 10, Lipsia e Berlino 1925; J. E. Sandys, Latin Epigraphy, 2ª ed., Cambridge 1927.

Grandi opere di sistemazione dei materiali epigrafici latini sono, dal punto di vista biografico, la Prosopographia imperii Romani, voll. 3, a cura di Klebs, Dessau e Rohden, 1897-98, e, dal punto di vista storico-antiquario, il Dizionario epigrafico di antichità romane, di E. De Ruggiero, presentemente diretto da G. Cardinali, di cui sono usciti i primi tre volumi con le lettere A-H, in 137 fascicoli, e i primi 7 fascicoli del vol. IV sino alla voce Iuno. Di un dizionario epigrafico è vivo il bisogno: quello di G. N. Olcott, Thesaurus linguae Latinae epigraphicae, 1904-12, giunge alle iniziali ascr., ma se ne annuncia ora la prosecuzione.

Per la restituzione delle parole monche nelle epigrafi è utile O. Gradenwítz, Laterculi vocum latinarum, Lipsia 1904. Le antiche opere di S. A. Morcelli, De stilo inscriptionum latinarum libri III, Roma 1780 (riediti nei primi tre volumi dei suoi Oper Epigraphica, in 5 voll., Padova 1818-1825), e Lexicon epigraphicum, voll. 4, Bolonga 1835-1843, possono giovare ancora ai soli fini della composizione di epigrafi in latino. Per le raccolte generali e parziali di epigrafi latine v. sopra.

Per una trattazione complessiva dell'epigrafia greca e di quella latina, v. l'articolo Inscriptiones di R. Cagnat, nel Dict. des ant. gr. et rom., di Daremberg e Saglio, III, i, col. 528 segg.; per un orientamento sommarissimo L. Laurand, Manuel des études gr. et latines, parigi 1921, p. 821 segg.

Epigrafia non latina dell'Italia antica. - Nessun carattere etnico, storico, cronologico accomuna le testimonianze epigrafiche diverse da quelle latine. Solo gli alfabeti permetterebbero di distinguere un filone calcidese etrusco e un filone anteriore. Ma questo ultimo s'intravede appena. Sicché non è possibile altro che una classificazione geografica.

Nell'Italia centrale domina la grande massa delle quasi 9000 iscrizioni etrusche: sull'esame epigrafico di esse si fondano ancora in gran parte le conoscenze linguistiche intorno all'etrusco, ancora insufficientemente appoggiate dall'esame etimologico comparativo. Esse cominciano col sec. VI, diventano numerose col sec. III. Luoghi di trovamento più importanti sono Perugia, Chiusi, Orvieto, Tarquinia, Caere. Quelle con qualche decina di parole sono le seguenti nell'Etruria occidentale: piombo di Magliano, del sec. VI, di contenuto religioso; due lamine di piombo, una di Volterra, e l'altra di Monte Pitti, del sec. III, di carattere funerario. Nell'Etruria orientale il cippo di Perugia e l'iscrizione della tomba di S. Manno, del sec. I; nell'Etruria meridionale quella del sarcofago dei Pulena e quella del pilastro della grotta del Tifone a Tarquinia, del sec. II; inoltre il fegato bronzeo di Piacenza, che contiene molti nomi di divinità, tardo, e l'iscrizione etrusco-campana, del tegolo di Capua, del sec. V. Tratti caratteristici dell'alfabeto (v. etruschi: Lingua) sono la mancanza della vocale o e delle consonanti b, d, g.

Tanto nella Campania quanto nell'Etruria meridionale, nella zona di Falerii, i documenti epigrafici ci attestano una fortissima penetrazione di elementi linguistici indoeuropei, del tipo sannita nel primo caso, di tipo anche latino nel secondo. Le iscrizioni falische arrivano a 600.

Le iscrizioni italiche in senso stretto, scritte cioè in lingue del gruppo osco-umbro, non arrivano invece a quattrocento. Sono distribuite in una zona che va da Gubbio a Messina e in un periodo di tempo che va dal sec. V al I. Esse si dividono nei due tipi principali umbro al settentrione, osco al mezzogiorno separati da unità dialettali minori intermedie, dette sabelliche. Le differenze degli alfabeti mostrano le due successive influenze dominanti. Le iscrizioni umbre ed osche più antiche sono scritte in alfabeto etrusco, quelle più recenti in alfabeto latino, entrambi parzialmente adattati alle esigenze fonetiche locali. Le iscrizioni sabelliche, che si trovano in una regione maggiormente esposta all'influenza romaua, sono scritte solo in alfabeto latino. Le iscrizioni osche dell'Italia meridionale (Lucania, Bruzio, Sicilia) sono scritte in alfabeto greco. Le più importanti sono: le Tavole Iguvine, in bronzo, trovate a Gubbio nel 1444, oggi in numero di sette, quattro scritte in alfabeto etrusco, due in alfabeto latino, e una parte nell'uno e parte nell'altro. Trattano di sei diversi sacrifici ed espongono i diritti e i doveri della confraternita dei fratelli Atiedii e dei suoi componenti; il cippo abellano in lingua osca e alfabeto etrusco, trovato presso Nola, contenente un trattato fra i due stati di Nola e di Abella; la tavola di Agnone in lingua osca e alfabeto etrusco, contenente una lista di divinitâ; la tavola bantina, in lingua osca e alfabeto latino, contenente lo statuto di Bantia, di età già romana. Infine le numerose iscrizioni venute alla luce a Capua e a Pompei. I dialetti sabellici individuati epigraficamente sono quelli dei Marrucini (bronzo di Rapino), Peligni (Corfinio), Marsi (iscrizione di Marruvio), Vestini (Navelli). Come per l'etrusco, esistono iscrizioni latine con forti elementi dialettali italici; tali quelle di Pesaro (Umbri) e quella di Caso Cantovio (Marsi).

All'Italia centrale appartengono ancora le iscrizioni presabelliche e la stele di Novilara. Le iscrizioni presabelliche scritte in direzione bustrofedica, con un alfabeto assai oscillante che non si spiega interamente con l'etrusco, linguisticamente non interpretate, sono da attribuire almeno al sec. V. Sono state trovate nella regione adriatica, picena e abruzzese: a Superequo, Crecchio, Bellante, Castrignano, ecc. Non si sa nemmeno se formino un'unità linguistica e se si colleghino con l'altra riva adriatica. La stele di Novilara, trovata presso Pesaro, pone gli stessi problemi aggravati da forti dubbî intorno alla sua autenticità.

Nell'Italia meridionale si trovano documenti epigrafici dei Messapî e dei Siculi. Le iscrizioni messapiche, circa 200, non tutte rimaste fino a noi nell'originale, si trovano nelle Puglie, a sud della linea Taranto-Brindisi. La più ampia è quella della pietra di Brindisi, di quindici righe. Appartengono al sec. II-I. Le iscrizioni sicule sono soltanto tre di cui solo quella di Centuripe è abbastanza ampia, di 99 lettere, appartenente al sec. V. Essa attesta una lingua indoeuropea assai affine al latino. L'alfabeto è greco.

Le iscrizioni dell'Italia settentrionale prelatina si dividono in tre gruppi: veneto, nord-etrusco, leponzio. Il gruppo veneto ha il suo centro in Este, ma è rappresentato fino in Carinzia; linguisticamente si collega all'Illiria. Le iscrizioni sono in numero di circa 350 e appartengono al sec. V-IV. L'andamento alfabetico è in parte bustrofedico; vi sono affinità con l'alfabeto etrusco benché si distingua l'o dall'u. Il gruppo nord-etrusco si divide, a seconda dell'alfabeto, in tre sottogruppi: quello orientale detto di Magrè Vicentino, piuttosto affine al veneto, e quelli occidentali di Bolzano-Trento e di Sondrio, piuttosto affini al leponzio. Il primo è rappresentato da una ventina d'iscrizioni del vicentino, il secondo da circa quaranta fra il Trentino e Vicenza, il terzo da sei iscrizioni della zona valtellinese con un rappresentante nei Sette Comuni. Anche questi alfabeti hanno contatto con quelli dell'Etruria toscana, per esempio nella mancanza di segni per le consonanti medie, ma non ne vengono spiegati completamente. Le iscrizioni leponzie infine con la stessa imprecisione del nome rispecchiano la fase di transizione cui appartengono. Si tratta del periodo in cui gli avanzi dei Liguri preindoeuropei si dissolvono nella civiltà gallica. Esse sono una ventina nel Canton Ticino, diciotto nella zona del Lago Maggiore e del Lago di Como, una in valle Sabbia. La più importante è quella di Briona in provincia di Novara. Ad esse si può aggiungere l'iscrizione bilingue latino-gallica di Todi.

Bibl.: A. Fabretti, Corpus Inscriptionum Italicarum, Torino 1867 con tre supplementi dello stesso autore (1872-1878) e uno di G. F. Gamurrini (1880). Esso è in gran parte sostituito oggi dalle pubblicazioni seguenti: Corpus Inscriptionum Etruscarum, Lipsia 1902 e segg., che comprende finora l'Etruria settentrionale e orientale e la regione falisca, mentre sono di prossima pubblicazione le iscrizioni etrusco-campane. R. S. Conway, The Italic Dialects, Cambridge 1897, che contiene le iscrizioni osco-umbre. In corso di stampa è: Conway e Whatmough, The Preitalic Dialects. Scelta d'iscrizioni indoeuropee: H. Jacobsohn, Die altitalische Inschriften, Gbonn 1910. Pêr le iscrizioni messapiche: E. Ribezzo, Corpus Inscriptionum Messipicarum, in Riv. indo-greco-italica, VI segg. Per le iscrizioni dell'Italia settentrionale: C. Pauli, Altitalische Forschungen, Lipsia 1885 segg.; J. Rhys, The Celtic Inscriptions of Cisalpine Gaul, Londra 1913; F. Cordenons, Le iscrizioni venete euganee, Padova 1912. Inoltre: Notizie degli scavi, per i nuovi trovamenti; Riv. indo-greco-italica, it., anche per nuove interpretazioni; infine i seguenti articoli, in M. Ebert, Reallexikon der Vorgeschichte, (Berlino 1924 segg.): Etrusker, Italiker, Ligurer, Messapier, Räter, Sikuler, Veneter, Vorsabeller.

Epigrafia cristiana antica.

La storia dello studio dell'epigrafia cristiana comincia con le raccolte di talune principali iscrizioni, d'importanza storica o di pregio letterario che si fecero, fino dall'alto Medioevo, da anonimi raccoglitori, allo scopo di iormarne antologie o di avere modelli da riprodurre o da imitare. Tali raccolte sono la cosiddetta Membrana dello Scaligero, che ha il carattere di antologia cristiana (sec. V) e la silloge di Einsiedeln o di Reichenau (fine del sec. VIII), edita dal Mahillon negli Analecta vetera (1683), dal Haenel, e infine da G.B. de Rossi, che vi unì un'importante appendice sfuggita ai primi editori. Seguono la Silloge Centulense, pervenutaci da un codice del monastero di Corbie scoperto dal De Rossi nella biblioteca di Pietroburgo, contenente carmi cristiani, e il codice Palatino (sec. IX) della Biblioteca Vaticana (a. 833), unione di diverse sillogi anteriori al sec. IX, che il De Rossi riuscì a distinguere dando loro il titolo di Corpus Laureshamense veterum syllogarum.

Altre notevoli raccolte epigrafiche sono le sillogi di san Gallo, di Würzburg, di Verdun, di Klosterneuburg e di Gottwei, riprodotte e commentate con le precedenti dal De Rossi nelle sue Inscriptiones christianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores (I, 11, Roma 1857 segg.). Nel 1910 fu scoperta una silloge di iscrizioni cristiane di Roma in un codice di Cambridge. A queste sillogi di carattere generale vanno. aggiunte altre parziali, che si riferiscono a una sola città, o a un singolo monumento cristiano. Così per Nola, illustrata dal vescovo Paolino, si ha la raccolta delle sue epigrafi cristiane nel codice di Cluny. Una raccolta completa dei testi epigrafici della Basilica vaticana nel sec. XII ci è data da Pietro Mallio.

Nei tempi moderni il primo a comporre una vera silloge di iscrizioni cristiane fu, sul finire del sec. XV, Pietro Sabino, che la dedicò al re Carlo VIII. L'unico esemplare dell'intera silloge si conserva in un codice della Marciana di Venezia (Cod. Lat., X, 195); un altro codice della Vaticana (Cod. Ottobon. Vat. 2015) contiene soltanto la raccolta delle iscrizioni cristiane di Roma. Anche questa silloge, d'importanza fondamentale per gli studî di epigrafia cristiana, fu per la prima volta edita nella ricordata opera del De Rossi. Quasi contemporaneamente, in Germania, Raimondo Fugger raccoglieva, con le classiche, non poche iscrizioni cristiane. Altrettanto fecero l'olandese Smetius, Onofrio Panvinio e Aldo Manuzio. Sulla fine del sec. XVI e nei primordî del XVII, con il risveglio degli studî di archeologia cristiana a opera specialmente di Pompeo Ugonio e di Antonio Bosio, ebbe impulso anche lo studio delle lapidi cimiteriali che quei dotti andavano discoprendo e che copiavano insieme con i contemporanei, il domenicano spagnolo Ciacconio, e il fiammingo De Winghe. Al tempo stesso cominciarono a pubblicarsi in opere a stampa, insieme con le classiche, anche le iscrizioni cristiane, né mancarono opere trattanti esclusivamente di antichità sacre, nelle quali si trovano importanti gruppi di sole iscrizioni cristiane.

Un insigne raccoglitore di epigrafi cristiane, fu il dottissimo Gaetano Marini (1815): quattro volumi dei suoi manoscritti, conservati nella Biblioteca Vaticana, contengono esclusivamente iscrizioni cristiane. Di essi soltanto uno fu edito dal card. Angelo Mai nel V tomo della Scriptorum veterum nova collectio (1831). Altre opere contenenti iscrizioni cristiane sono quelle di G. Marchi, I monumenti primitivi dell'arte cristiana (1845), e del Le Blant, Inscriptions chrétiennes de la Gaule (1856); un Nouveau recueil des inscriptions chrétiennes fu edito nel 1892. Nel Corpus Inscr. Latinarum, dell'Accademia di Berlino, i varî volumi contengono anche le iscrizioni cristiane delle varie regioni dell'Impero. Quelle della Hispania e della Britannia sono state pubblicate nelle opere del Hübner: Inscriptiones Hispaniae christianae (1871, suppl. 1900); Inscriptiones Britanniae christianae (1876). Il IV volume del Corpus Inscr. graec. del Boeck, edito dal Kirchoff, contiene iscrizioni greche cristiane.

Si giunge così alla grande opera di G.B. De Rossi, Inscriptiones christianae Urbis Romae septimo saeculo antiquiores; nel vol. I, uscito nel 1857, dopo avere trattato la storia degli studî epigrafici, il De Rossi espose l'illustrazione di quelle iscrizioni cristiane di Roma che recano la datazione sicura, a mezzo dei nomi dei consoli o di altre indicazioni. Fece seguire un ampio trattato sulle note cronologiche, sui fasti consolari e sui diversi cicli solari e lunari. Le epigrafi sono disposte in ordine cronologico. Questo primo volume è fondamentale contenendo i canoni cronologici con i quali si possono giudicare le numerosissime iscrizioni prive di data. Il piano dell'opera del De Rossi comprendeva per i successivi volumi le iscrizioni dogmatiche, quelle dei martiri, dei vescovi di Roma, dei magistrati e personaggi celebri, quelle relative agli edifici sacri. A così vasto svolgimento interessante la storia della Chiesa, dell'Impero, le istituzioni e la topografia romana, essendo in gran parte il materiale andato perduto e noto a noi soltanto per le copie conservateci negli antichi codici, volle il De Rossi premettere una trattazione sulle antiche sillogi, ciò che forma la materia del vol. II dell'opera (parte 1ª). La continuazione dell'opera fu affidata a Giuseppe Gatti (1914), che non riuscì a pubblicare se non un primo fascicolo di supplementa al vol. I (1915). La grande impresa è stata di nuovo assunta da Angelo Silvagni, che ha già pubblicato un volume contenente le epigrafi cristiane d'incerta provenienza (1922). Sono in preparazione gli altri volumi, che riporteranno le iscrizioni cimiteriali disposte topograficamente secondo l'ordine dell'itinerario del sec. VII De locis sanctis martyrum. Seguono in ordine di tempo altre opere riguardanti l'epigrafia cristiana; l'americano Mac Caul pubblicò nel 1869 l'opera: Christian epitaphs; Le Bas e Waddington, nel loro Voyage (1877-88), pubblicarono molte iscrizioni cristiane della Grecia e dell'Asia Minore; di F. S. Kraus è l'opera: Die christlichen Inschriften der Rheinlande (1890-94). Si hanno quindi: M. Ihm, Damasi epigrammata (1895); F. Buecheler, Anthologia epigraphica (1893, v. continuazione dell'Engstrom, 1912, e del Lommatzsch, 1924), e le opere di V. Schultze, del Lowrie, del Kaufmann, ecc. Le principali iscrizioni latine cristiane sono raccolte da E. Diehl, Inscriptiones latinae christianae veteres (I-III, Berlino 1925-31). È tuttavia in preparazione la raccolta generale delle iscrizioni cristiane greche promossa dall'École française de Rome, che deve comprendere il materiale romano, bizantino e neogreco. A Franz Cumont sono affidate le iscrizioni dell'Asia Minore, a Joseph Laurent quelle di Europa e di Africa.

La raccolta più insigne di antiche iscrizioni cristiane è quella del Museo cristiano lateranense, ordinata prima dal De Rossi, e poi dal Marucchi; raccolte minori sono quelle del Chiostro di S. Paolo, di S. Lorenzo fuori le Mura, di S. Maria in Trastevere. Un gran numero d'iscrizioni sono conservate in situ nei cimiteri cristiani suburbani di Roma, in specie in quelli di Domitilla, di Callisto, di Pretestato, di Commodilla, dei Ss. Pietro e Marcellino. Altre sono nelle sale cristiane del Museo Nazionale Romano e del Museo Capitolino. Fuori di Roma vanno ricordate le raccolte di Ravenna, di Napoli, di Capua, di Aquileia, di Arles, di Nîmes, di Treviri, di Cartagine e di altre città dell'Africa proconsolare e della Numidia; di Sabratha, di Tripoli, di Sirte nella Tripolitania.

Iscrizioni funebri. - Le iscrizioni cristiane sono nella loro quasi totalità di carattere sepolcrale. Venivano applicate sulla chiusura dei loculi, incise sul marmo o dipinte sulle tegole, o anche graffite sulla calce con cui si fermavano le chiusure stesse; qualche volta sono anche scritte al carbone (sec. I-V). Sugli arcosolî, come sulle formae sopra terra, sono sempre incise su lastre di marmo di spessore maggiore di quelle usate per la chiusura dei loculi (dal sec. IV al VI). Carattere non funebre, ma storico, hanno i graffiti eseguiti alla punta sull'intonaco delle pareti cimiteriali dai visitatori e dai devoti dei martiri (secoli IV-VIII). Delle iscrizioni funebri dei loculi sotterranei, pochissime sono del sec. I, alcune del II, più numerose quelle del III, numerosissime quelle del IV.

Il più antico gruppo epigrafico dei cimiteri cristiani romani è quello del cimitero di Priscilla, sulla Via Salaria, che risale pressoché ai tempi apostolici. Le epigrafi più antiche sono dipinte col minio su tegole o scritte al carbone (sec. I), ed hanno qualche analogia di forma con le iscrizioni parietali pompeiane. Caratteri distintivi dell'epigrafia cristiana primitiva sono dunque una grande sobrietà di stile e la scarsità di simboli (ancora e palma), l'uso di brevissime acclamazioni, tra le quali predomina il saluto apostolico pax tecum o pax tibi. Con il sec. III diviene frequente l'aggiunta della voce depositus o depositio, seguita dalla data della deposizione del cadavere nella tomba. In questa voce è incluso il concetto della resurrezione, ed è in contrapposto alla voce situs dei pagani, che esprime l'idea del permanere perpetuo delle spoglie mortali in un dato luogo. La data della depositio era utile per l'uso di celebrare gli anniversarî dei defunti sulla tomba stessa, ed era riguardata come il dies natalis di un martire, utile per la redazione dei martirologi.

Già nelle iscrizioni funebri del sec. II, e più ancora in quelle del III, s'introdusse l'apposizione del monogramma decussato di Cristo, e di qualcuno dei numerosi simboli cristiani; nel sec. IV diviene comunissimo l'uso del noto monogramma costantiniano. Col sec. III, che fu il secolo classico dell'epigrafia cristiana, si introduce nelle iscrizioni funebri anche il linguaggio simbolico e dogmatico. L'esposizione dei dogmi nelle epigrafi di carattere funebre non è fine a sé stessa, ma ha un carattere del tutto privato, come espressione di affetto verso i defunti. Così in alcuni testi si allude all'unità di Dio, in contrapposto al politeismo pagano. Altre iscrizioni attestano la fede nella divinità di Cristo; più raramente si accenna alle tre persone della Trinità, e alla terza persona della Trinità stessa, lo Spirito Santo (vibas m Spiritu sancto). Con formule che potevano essere comprese soltanto dagli iniziati, per non tradire la legge dell'arcano, si allude talvolta al battesimo (accipere, recipere, percipere, sottintendendosi gratiam. baptismi). La confermazione, complemento del battesimo, si esprimeva con la voce signatus o consignatus (munere Christi). In pochissime iscrizioni è fatto cenno dell'Eucaristia, mentre molti sono i simboli eucaristici nelle pitture e nelle sculture cimiteriali. Anche in ciò la disciplina dell'arcano imponeva circospezione nel divulgare il dogma dell'Eucaristia, per non esporlo alle calunnie e alle false interpretazioni dei profani.

Sono celebri le due iscrizioni sepolcrali eucaristiche di Pettorio e di Abercio. Quella di Pettorio (Pectorius), trovata ad Autun (Augustodunum) nel 1839, è un prezioso documento del principio del sec. III, che contiene esplicite allusioni al piscis caelestis, al fons aquarum divinitus manantium, al sanctorum dulcis cibus. (Per l'iscrizione di Abercio, v. abercio). Altre iscrizioni si riferiscono al dogma della comunione dei santi, con accenni alle preghiere dei fedeli per i defunti e alle preghiere rivolte ai defunti perché intercedano per i viventi. La formula più usata per esprimere la preghiera a favore dei defunti è: in pace. Un augurio più solenne è quello del refrigerium cioè del sollievo dalle pene che soffre l'anima del defunto e il conforto nella sofferenza (deus refrigeret spiritum tuum, deus tibi refrigeret, in refrigerio et in pace, ecc.).

Un grande contributo alla conoscenza dell'organizzazione della società primitiva dei fedeli (ecclesia fratrum), recano alcune iscrizioni con allusioni allo stato della comunità cristiana dei primi secoli della Chiesa, ai suoi ministri, alle diverse classi dei fedeli e alle professioni di questi. Il primo posto nella gerarchia ecclesiastica fu sempre quello del vescovo di Roma. Possediamo alcune iscrizioni appartenenti al gruppo dei pontefici sepolti nel cimitero di Callisto, nel sec. III. Sono di grande semplicità e redatte nella lingua ufficiale della Chiesa primitiva, il greco. Ci sono pervenute quelle di Urbano, Ponziano, Antero, Fabiano, Cornelio, Lucio, Eutichiano e Caio (Οὐρβάνος, ἐπίσκοπος, 'Αντέρως ἐπίσκοπος, ecc.). La sola iscrizione di Cornelio è in latino, forse a causa dei vincoli che univano questo pontefice con la grande gens Cornelia. Le epigrafi di Ponziano, di Fabiano e di Cornelio recano, in nesso, l'epiteto di ηάρτυρ, martyr, aggiunto nei tempi della pace a distinguere i papi che versarono il sangue per la fede.

Poche iscrizioni ci danno il nome di alcuni vescovi (episcopus, sacerdos); altre, più numerose, menzionano i presbyteri, spesso con l'indicazione del titolo urbano cui erano addetti (presbyter tituli Priscae, tituli Clementis, ecc.), e a seconda del cimitero da cui provengono mostrano la dipendenza del cimitero stesso dal titolo menzionato. Si hanno poi iscrizioni relative ai sette diaconi della chiesa romana, cofflutuenti il terzo grado della gerarchia ecclesiastica, quali assistenti dei vescovi e dei presbiteri nella sacra liturgia. Celebre è l'iscrizione del diaconus Severus, proveniente dal cimitero di Callisto (principio del sec. IV). Altre iscrizioni appartengono a ministri della Chiesa di grado inferiore, quali i suddiaconi, gli esorcisti, gli accoliti, i lettori, gli ostiarî, anche esse talvolta con l'indicazione del titolo ove era esercitato il ministero. Altri uffici ecclesiastici sono notati in poche iscrizioni, quali i notarii e gli exceptores, ossia gli archivisti e i tachigrafi della Chiesa romana. Altre iscrizioni ricordano le vergini consacrate a Dio (virgines Dei, sanctimoniales), che avevano un posto particolare nelle adunanze liturgiche, i fideles, che avevano ricevuto il battesimo ed erano in tutto iniziati ai sacri misteri, i neofiti di recente battezzati, i catecumeni, iniziati alla fede, ma non ancora battezzati e che, distinti dai veri fedeli, assistevano solo ad alcune parti della liturgia. Per il principio cristiano della eguaglianza di tutti gli uomini innanzi a Dio, i cristiani non posero di solito nelle iscrizioni i titoli di servus e di libertus, che appaiono infatti ben raramente. Più spesso sono ricordati gli alumni (ϑρεπτοί), fanciulli abbandonati che la carità dei fedeli allevava e adottava come figli.

Partecipando alla vita pubblica i cristiani occupavano cariche ed esercitavano professioni, dalle più elevate alle più modeste. Fra le numerose epigrafi che menzionano gli uffici sostenuti dai cristiani, nella grande maggioranza posteriori alla pace costantiniana, vanno ricordate quelle di un senatore di nome Victor, di un tabularius, liberto imperiale, addetto ai libri e ai documenti privati dell'imperatore (cimitero di Ermete), di un altro liberto imperiale, praepositus tabernaculariorum (cimitero di Priscilla), di un capsararius de Antoninianas (sic), guardarobiere delle terme Antoniniane o di Caracalla (cimitero di Domitilla), e quella del cimitero di Domitilla di un'umile vecchietta di nome Pollecla, che vendeva orzo nella Via Nova (que ordeum bendet in bia Noba). Che tra i primi fedeli vi fossero anche personaggi appartenenti ad illustri famiglie ed alla stessa casa dell'imperatore ci è noto da varie fonti e ci viene confermato dalle iscrizioni. Alcune, del cimitero di Priscilla, recano i nomi di membri della famiglia degli Acilii Glabriones, altre del cimitero di Domitilla, dei Flavii; sono del cimitero di Callisto le iscrizioni con il nome di un Pomponius Graecinus, e quelle dei Caecilii, dei Pompeii, degli Octavii, dei Septimii, degli Annii, dei Licinii, degli Aelii, e dei Petronii. Nel sec. IV e nel V le iscrizioni di personaggi di nobili famiglie divengono, ed è naturale, più che mai numerose, e notevoli fra le altre sono quelle degli Anicii, sepolti nel Cimitero Vaticano.

Degne di menzione sono le iscrizioni che recano indicazioni relative al sepolcro e alla posizione di esso: tali indicazioni sono importanti per lo studio della topografia cimiteriale. Ad esempio, in un'iscrizione del Museo Lateranense è detto che un tale Sabinus fece da vivo un sepolcro per due cadaveri nel cimitero di Balbina, in una nuova galleria (bisomum se bibum fecit sibi in cymeterium Balbinae in crypta noba). Altre iscrizioni ci ragguagliano circa la forma del sepolcro e sul modo di comporre i cadaveri. In alcune del sec. IV e V si parla di sepolcri acquistati dai fossores, che erano i custodi dei cimiteri, indicando anche il prezzo sborsato per tali acquisti, registrati nei libri ufficiali presso ciascun cimitero. In alcune iscrizioni, soprattutto d'età tarda, si trovano formule minaccianti pene pecuniarie a chi avesse profanato la tomba. In talune si riscontrano vere e proprie imprecazioni contro i violatori; la più comune è quella che il profanatore abbia parte con Giuda e ne faccia la triste fine (cum Juda partem habeat; anathema habeat de Juda).

Iscrizioni di carattere storico. - Il papa Damaso (366-384) dettò molte iscrizioni in versi in onore dei martiri, trasmettendoci preziose notizie sulle persecuzioni, attinte dai documenti che si conservavano negli archivî della Chiesa romana. Incise su marmo, in bellissimi caratteri di forma particolare, detti filocaliani, furono poste sulle tombe dei martiri e nelle cripte storiche, quali documenti di ricognizione, a perpetuarne la memoria. Si conservano tuttora le iscrizioni originali del Battistero Vaticano (Grotte Vaticane), quella dei Ss. Proto e Giacinto (per metà, nella chiesa dei Ss. Quattro Coronati), quelle poste sul sepolcro di S. Agnese sulla via Nomentana, nella cripta dei papi nel cimitero di Callisto, del martire Eutichio nel cimitero ad catacumbas. Recentemente è stata recuperata l'iscrizione con l'accenno ai martiri Felicissimo ed Agapito, compagni di martirio di Sisto II, del cimitero di Pretestato. Importante è l'iscrizione dettata da Damaso per il suo sepolcro, con una solenne professione di fede; altre iscrizioni, del pari in versi, furono da lui composte e messe sulla tomba della madre Laurentia, sulla Via Ardeatina, e su quella della sorella Irene. Nell'iscrizione degli archivî della chiesa (S. Lorenzo in Damaso) il papa fa un fuggevole accenno a suo padre. Altre iscrizioni storiche di carattere sacro riguardano le origini e le vicende dei monumenti dedicati al culto, e gli avvenimenti che interessano la storia generale o particolare della chiesa. A ricordare l'erezione d'un nuovo edificio sacro, si usò talora il mezzo d'incidere sui pulvini dei capitelli, o sui fusti delle colonne, il nome del fondatore. Sono notissime le iscrizioni fatte porre da Costantino e dai suoi successori nelle basiliche erette in Roma, con la memoria delle ricostruzioni e degli ampliamenti di esse. Così anche le iscrizioni delle chiese di Ravenna, di Aquileia, di Milano, di Nola e di altre città d'Italia, dell'Europa centrale e dell'Africa. Particolare rilievo merita l'iscrizione dedicatoria posta da Sisto III (a. 432-440) in S. Maria Maggiore: Xystus episcopus plebi Dei, con la quale si dichiara che l'edificio fu eretto a vantaggio del popolo cristiano di Roma.

Negl'ingressi delle basiliche si leggevano iscrizioni parenetiche, poste allo scopo di eccitare i fedeli al raccoglimento, alla preghiera, alla fiducia in Dio. Il testo di alcune venne tolto dalla Sacra Scrittura, altre sono in forma poetica; nessuna è anteriore al sec. V. Alcune iscrizioni di carattere esegetico servivano a rendere intelligibile ai fedeli nelle varie parti delle basiliche le rappresentazioni istoriate di cicli biblici, agiografici, allegorici e liturgici. Ciascuna città vescovile aveva interesse a conservare la memoria della serie dei vescovi che l'avevano retta fin dalle origini (fasti episcopali): s'introdusse perciò l'uso di dipingerne sulle pareti delle cattedrali i ritratti entro clipei, accompagnati da iscrizioni recanti i nomi e talvolta anche gli elogi.

Pochissime sono le iscrizioni superstiti riproducenti, a perpetuarne la memoria, i testi di privilegi e di donazioni da parte degli imperatori. Un lacero frammento si ha nelle Grotte Vaticane di un rescritto imperiale di Graziano, Valentiniano III e Teodosio, diretto al console Fl. Eleuterio (a. 381), in favore della Basilica Vaticana e degli addetti al culto. Della donazione in denaro e fondi elargita alla chiesa di S. Andrea in Catabarbara, sull'Esquilino, dal goto Valila, al tempo del papa Siricio (a. 460-469), si aveva memoria in un'iscrizione musiva posta nell'abside di quella chiesa.

Iscrizioni in mosaico, in genere poste nei pavimenti delle chiese, ci parlano dell'offerta alla divinità di costruzioni, di restauri, di ornamenti eseguiti a spese di privati per dimostrazione della propria fede e per ringraziamento di favori ottenuti. Interessanti le brevi iscrizioni poste su oggetti minuti, quali anelli, sigilli, encolpî, gemme, monete, medaglie; utili per una migliore conoscenza della vita familiare le scritte su calici, coppe, tessere, bulle, teche, pettini, lucerne, vetri dorati, dittici d'avorio, ecc. Altre sono su mattoni, tegole, tubature, pietre da costruzione, ecc. Particolarmente curiose le iscrizioni su collari e piastre di servi, usate anche dai cristiani, e sulle tavolette di riconoscimento di proprietà.

Punti di contatto con le cristiane, hanno le iscrizioni giudaiche che, se prive dei caratteristici simboli, possono indurre in errore d' identificazione. Vi sono poi iscrizioni di carattere ereticale relative a membri delle sette degli gnostici, sabelliani, montanisti, ariani, donatisti: questi avevano per motto la frase: Deo laudes.

Non mancano anche per le iscrizioni cristiane i falsi commessi o per lucro, o per l'ambizione di un luogo particolare a figurare nella storia della Chiesa primitiva, o anche per prendersi giuoco degli archeologi. Note sono le false iscrizioni cristiane della città di Alba, e quelle di Roma edite dall'Ardinghi e dal Boldetti.

Cronologia e calendario. - I cristiani adoperarono le stesse note cronologiche che erano di uso corrente, datando le iscrizioni con i nomi dei consoli eponimi. In tal modo, avendo gl'imperatori rivestito la dignità consolare, nelle iscrizioni cristiane si leggono i nomi tanto dei capi dello stato tolleranti della nuova religione, quanto di quelli che più crudelmente l'avversarono. Né i cristiani alterarono la forma usuale, e adoperarono anch'essi la voce divus a denotare i principi defunti divinizzati; mai si trova però tale designazione nelle poche iscrizioni con data consolare anteriore alla pace costantiniana. Va poi notato che, dopo tale evento, la voce divus indicò solamente che l'imperatore era morto, senza il significato di una vera divinizzazione.

Le iscrizioni cristiane con data consolare rare nel sec. I e nel II, più numerose nel III, sono in gran numero nei secoli seguenti, fino alla metà del sec. VI. Nella Spagna, in Africa e in Oriente, data la grande varietà delle ere locali, la menzione dei consoli è piuttosto rara. Nell'anno 307 apparve per la prima volta la formula: post consulatum con i nomi dei consoli dell'anno precedente, specie per i primi mesi dell'anno, quando ancora non si conoscevano i nomi dei nuovi consoli la cui nomina veniva talora dilazionata per motivi politici. Con l'anno 379 comincia la divisione del consolato fra l'Oriente e l'Occidente, e la promulgazione del console orientale in Occidente, e di quello occidentale in Oriente fu spesso molto ritardata e trascurata; conseguentemente per i primi mesi dell'anno si ha il nome di un solo console. Fino alla metà del sec. IV i nomi dei consoli, all'ablativo, erano designati con la sigla COSS (consulibus); poi invalse l'uso della voce consulatu, seguita dai nomi dei consoli al genitivo. I nomi dei giorni della settimana, usati dai Romani, si trovano raramente nelle iscrizioni del sec. III; divengono frequenti nel IV, specialmente nella seconda metà (dies Solis, Lunae, Martis, Mercurii, Iovis, Veneris, Saturni). Assai tardi (secoli V e VI) appariscono i nomi cristiani (dies dominica per il dies Solis, Sabbatus per il dies Saturni, e le feriae per i giorni intermedî).

Paleografia. - Nelle iscrizioni criatiane non mancano esempî di scrittura capitale quadrata. A tale specie appartengono i caratteri detti dal De Rossi priscilliani, perché la maggior parte degli esempî ci è fornita da lapidi del cimitero di Priscilla. È il tipo più antico dello stile epigrafico cristiano (sec. I-II), e di poco differisce dalla quadrata classica. Simile alla latina è la priscilliana greca con ε e σ di forme lunata (??? ???), invece delle quadrate E e Σ. Del tutto particolare dell'epigrafia cristiana è la scrittura quadrata filocaliana, che fu adoperata quasi esclusivamente per incidere i carmi composti da papa Damaso. Prese il nome da Furius Dionysius Filocalus, che sappiamo esserne autore dalla firma che egli appose in alcune delle iscrizioni damasiane. La forma calligrafica è caratteristica, accurata ed elegante, piuttosto larga e bassa; gli apici ricurvi delle varie lettere hanno ai due lati un riccio formante una triplice ondulazione. La forma più comune di scrittura nelle iscrizioni cristiane, sia latine sia greche, incise o dipinte, è quella detta capitale actuaria, o rustica, usata negli atti pubblici, che risente della libertà del calamus col quale velocemente si scriveva sulle tavolette, sui papiri e nei codici pergamenacei, dai quali passò sul marmo. Alcune lettere, dell'alfabeto latino e del greco, dalla forma tondeggiante e di piccolo modulo, anch'essa originata dalla scorrevolezza del calamus, si dicono onciali, e appariscono nelle iscrizioni cristiane datate nella prima metà del sec. IV. Soltanto poche iscrizioni cristiane sono tracciate in scrittura corsiva. Gli stessi titoli graffiti alla punta sugl'intonachi delle pareti catacombali, così importanti per la storia della topografia cimiteriale, sono tracciati di preferenza in scrittura capitale; soltanto eccezionalmente sono in corsivo. Le forme di interpunzione sono varie; si hanno il punto rotondo, che è il più comune, il triangolare, la crocetta, la palmetta e la fogliolina di edera (hedera distinguens), di uso comunissimo dal sec. II in poi. Nelle epigrafi cristiane scarso e senza regola è l'uso degli apices o accenti acuti, che avrebbero dovuto distinguere le vocali lunghe dalle brevi. Comune è invece l'uso delle sbarre a linea retta sulle cifre numeriche, e come segno di abbreviazione; più tarda è la sbarra a linea ondulata. Generale è poi l'uso dei nessi e delle sigle, atto a rendere più brevi le parole e a guadagnare spazio. Caratteristici i monogrammi a lettere intrecciate e unite insieme per qualche elemento comune. Molto usato il monogramma col nome di Cristo, che ebbe due forme. Il monogramma ☧ consiste nell'unione delle due prime lettere del nome Χριστός; fu preso da Costantino come simbolo di vittoria, e dopo la disfatta di Massenzio divenne un segno distintivo dei cristiani. L'altra forma P̶ si dice croce monogrammata; si differenzia dalla prima per il fatto che la lettera × è girata in modo da prendere la figura di una croce. Un altro compendium scripturae è il monogramma ??? formato dalle iniziali dei due nomi 'Ιησούς Χριστός insieme intrecciati. Questo monogramma come la croce monogrammata, si trova nelle epigrafi cristiane anche prima di Costantino. Il monogramma costantiniano e la croce monogrammata stanno talora fra le due lettere apocalittiche Α e Ω e presentano non poche varianti.

Bibl.: O. Marucchi, Epigrafia cristiana. Trattato elementare, Milano 1910; R. Aigrain, Manuel d'épigraphie chrétienne, Parigi 1912-13; S. Scaglia, Notiones archaeologiae christianae, II, i: Epigraphia, Roma 1910; C. M. Kaufmann, Handbuch der altchristlichen Epigraphik, Friburgo in B. 1917; F. Grossi-Gondi, Trattato di epigrafia cristiana latina e greca, Roma 1920.

Epigrafia cristiana medievale. - La divisione dell'epigrafia cristiana latina in antica e medievale è del tutto convenzionale; le sue caratteristiche generali, infatti, si mantennero quasi inalterate dalle origini, che in pieno accordo con l'Oriente (v. abercio) risalgono criticamente solo agli ultimi decennî del sec. II, fino al Rinascimento. L'epoca di separazione è quindi incerta; alcuni la vollero al sec. V, altri (De Rossi e Mommsen) la posero al sec. VII; il Hübner è il Kraus la protrassero al sec. VIII; poiché le iscrizioni sepolcrali, che formano quasi la totalità del materiale, avevano raggiunto agl'inizî del sec. VI la forma definitiva per tutto il Medioevo, si può più giustamente porre in tal secolo il punto di divisione.

Iscrizioni in versi. - I primi carmi epigrafici furono unicamente sepolcrali e spesso di carattere dogmatico; ma dopo la pace oltre che sulle tombe di martiri e di fedeli i versi furono scolpiti o formati in mosaico su varie parti delle basiliche (e fu questo un uso esclusivamente cristiano) a scopo commemorativo, esegetico o parenetico. L'esempio di Damaso a Roma, di S. Ambrogio a Milano e di S. Paolino a Nola trovò larga imitazione in Occidente per tutto il sec. V, e a Roma ebbe singolare sviluppo per l'attività edilizia dei pontefici, specie di Leone I e di Simmaco; ed ai monumenti romani s'ispirarono in Spagna Prudenzio, nella Gallia Prospero d'Aquitania, che era stato segretario di Leone I, e Sidonio Apollinare, che nel 467 aveva ottenuto la prefettura urbana.

In Italia nel sec. VI dopo i primi decennî di tranquillità, in cui fiorì Ennodio di Pavia, l'ultimo poeta epitaphista, ai gravi sconvolgimenti politici tenne dietro una rapida crescente decadenza; i carmi epigrafici andarono facendosi estremamente rari, in Roma stessa, allora e anche di più nei secoli successivi, finirono col decorare le sole tombe di diversi papi e di qualche dignitario; il pontificato di Onorio I (625-638) fa in questo una vera eccezione.

Nella Gallia invece la poesia sepolcrale e monumentale ebbe largo incremento dal sec. VI in poi, prima per merito di Venanzio Fortunato che fu per lungo tempo l'autore maggiormente imitato anche fuori della regione, così da Eugenio Toletano in Spagna e da Aldelmo e Bonifacio in Britannia, e più tardi per opera di Alcuino e degli altri poeti della corte di Carlomagno. Ma a questo rinnovato fervore epigrafico dell'età carolina, che durò poco più d'un secolo, Roma diede ispirazione continua ed esemplari, sia con la visita alle sue basiliche da parte di alcuni poeti del tempo, come Bonifacio Angilberto Teodulfo, sia con l'uso nelle scuole d'oltralpe di antologie tratte dalle sillogi di iscrizioni romane del sec. VII e VIII (v. appresso: Raccolte epigrafiche).

L'influenza carolina apparisce in limitata misura nella paleografia epigrafica di alcuni centri della Lombardia, a Milano, a Pavia e a Bobbio; nel resto dell'Italia non lasciò tracce sensibili compresa Roma, dove la tradizione letteraria non fu mai interrotta, ed anzi dopo il sec. VIII si sollevò alquanto dalla grande rozzezza delle forme paleografiche e ben poco dall'estrema povertà di concetti. Un posto speciale per questo lato spetta ai principati longobardi dell'Italia meridionale, che ebbero in Paolo Diacono il loro epitaphista; si conserva un notevole gruppo di carmi sepolcrali dei principi di Capua e di Benevento, che attestano il fiorire di una scuola locale dalla fine del sec. VIII a buona parte del X.

Dopo il Mille l'uso della poesia epigrafica sepolcrale andò sempre più declinando, e quella monumentale, prima di spengersi, ebbe un nuovo slancio, per quasi due secoli, nella decorazione delle chiese romaniche; ma il verso classico appare spesso trasfigurato nelle nuove forme della metrica e della ritmica medievale.

Iscrizioni in prosa. - Esse, nate insieme con le iscrizioni in versi circa la fine del sec. II, formano la grande maggioranza anche dell'epigrafia medievale; scarse nei primi secoli di tale epoca salgono ad un numero sempre crescente dal sec. XI in poi e presentano una varietà superiore a quelle dell'antichità classica.

Iscrizioni sepolcrali. - Dopo il periodo di transizione, che costituisce la loro età antica, le iscrizioni sepolcrali si fissarono alla fine del sec. V in questo formulario comune a tutto l'Occidente: Hic o in hoc tumulo requiescit in pace... vixit annos plus minus... obiit sub die... (in luogo della terza frase, allusiva alla morte, in Roma e, dietro l'esempio di Roma, in Italia e in Dalmazia si continuò ad usare fino a tutto il sec. VIII la fommula delle deposizione, depositus est in pace sub die...); caduto in disuso ogni altro simbolo e segno, non mancò mai all'inizio del primo rigo una piccola croce. Questa forma schematica rimase inalterata per tutto il Medioevo (si ritrova infatti anche nelle pietre tombali ornate della figura del defunto, così numerose nel corso di tempo dal Duecento al Quattrocento); in epitafî anteriori al secolo X comparisce talora arricchita da preghiere, tolte dai salmi e dalla liturgia, e da professioni di fede cattolica, o chiusa da imprecazioni di carattere religioso contro i violatori del sepolcro.

Iscrizioni sacre. - Per tutto il sec. X prevalse in tale classe il gusto letterario dei primi secoli cristiani; ma con l'uso della forma prosastica, che divenne poi comune, queste iscrizioni - votive, commemorative di dedicazioni e fondazioni di chiese, altari, campanili e di monasteri e chiostri - ebbero un carattere puramente storico con la loro datazione e col ricordo di persone e fatti. D'interesse particolare tra esse i cataloghi di reliquie, che, rari nei primi secoli del Medioevo, ma di singolare pregio agiografico e liturgico, si moltiplicarono dopo le crociate, perdendo ogni valore critico.

Iscrizioni civili. - Scarsissime nell'alto Medioevo, sono molto numerose negli ultimi tre secoli; in esse si riflette la vita pubblica e privata con la menzione di avvenimenti storici, di fondazione di castelli e palazzi, di elezione di magistrati e di civiche onoranze, con l'accenno a leggende e tradizioni, con la nota di precetti morali e insegnamenti pratici, talora nelle varie lingue volgari.

Iscrizioni documentarie. - L'epigrafia medievale continuò, in misura molto più larga che nel periodo precedente e nell'età stessa imperiale, l'uso di tali iscrizioni. Bolle e donazioni ecclesiastiche editti e statuti comunali, disposizioni testamentarie e contratti privati furono incisi in lastre di marmo o anche sulle stesse pareti di edifizî; in alcune di queste carte lapidarie si ritrovano formule d'imprecazione contro i violatori dei diritti di proprietà. Rientrano in questo gruppo i calendarî incisi o dipinti, per lo più di carattere ecclesiastico.

Iscrizioni decorative. - Le epigrafi poste a decorazione di opere artistiche su marmo o legno, e di figurazioni dipinte o musive con scopo esegetico, o soltanto informativo riguardo all'autore, hanno grande importanza per la storia dell'arte; la genealogia dei Cosmati, per esempio, è stata ricostruita per mezzo di siffatte iscrizioni.

Iscrizioni su oggetti. - Di oggetti forniti d'iscrizioni, in generale nolto semplici e limitate talora a soli nomi, grande è la varietà sia rispetto alla destinazione (di uso sacro, pubblico e privato), sia rispetto alla materia (pietra, metallo, vetro, avorio, legno e tessitura). Un gruppo distinto formano le iscrizioni su campane, che dalla fine del sec. XI si fissarono in poche e brevi frasi, spesso di carattere liturgico, accompagnate dalla data e dal nome del fonditore.

Datazione. - Nelle epigrafi medievali continuò per tutto il sec. VI la datazione consolare e precisamente dal 542 in poi col post-consolato di Basilio, che fu l'ultimo console privato d'Oriente; però nella parte d'Italia dominata dai Goti dal 535 al 547 si adoperò il post-consolato di Paolino, ultimo console privato d'Occidente, e nella Gallia Lugdunense, fin dal 540, quello di Giustino. Dopo questo secolo divennero ordinarie le date con pontefici, imperatori, re, principi e duchi (non mancano poi con magistrati comunali); sono sporadiche quelle con vescovi e abati. L'era volgare o dionisiana introdotta dal monaco Dionysius exiguus nel 515 entrò molto più tardi nell'uso ordinario epigrafico; i primi esempî appariscono in Gallia agl'inizî del sec. VIII, nel nord dell'Italia alla fine del secolo stesso, in Roma nel sec. IX avanzato. La nota dell'indizione, comune nell'alto medioevo, non fu in nessun secolo abbandonata del tutto così pure la maniera di numerare in ordine progressivo i giorni dei mesi apparisce nelle iscrizioni romane al cominciare del sec. VII, ma non soppiantò mai completamente l'uso classico delle calende, none e idi.

Paleografia. - L'epigrafia medievale continuò ad usare la scrittura capitale. Lo sviluppo delle sue forme in Roma e nell'Italia ebbe uniformità maggiore che presso altre nazioni; già decadente al sec. V, essa toccò nell'VIII il più basso livello di rozzezza, da cui si risollevò alquanto nei due secoli seguenti; dopo il Mille andò prendendo una certa sottigliezza di aste e regolarità di curve con prevalenza crescente di elementi onciali, che spianarono il passaggio alla scrittura gotica. Maggiori e caratteristiche oscillazioni ebbe invece il corso della capitale stessa nella Gallia (e di recente le ha messe in chiara luce P. Deschamps, Étude sur la paleographie des inscriptions lapidaires de la fin de l'époque mérovingienne aux dernières années du XIIe siècle, Parigi 1929), dove durante la Rinascenza carolina con l'imitazione delle epigrafi antiche essa raggiunse una grande eleganza; ma è notevole come tale perfezionamento sia stato di breve durata e non si sia affatto allargato molto di là dai confini della nazione; il De Rossi dimostrò che l'elegante epitafio di papa Adriano I (morto nel 795), esistente nell'atrio di S. Pietro in Vaticano, fu opera di lapicidi carolingi e fu mandato a Roma quale offerta di Carlomagno.

La scrittura gotica che entrò in uso per tutto l'Occidente nei primi decennî del sec. XIII ebbe vita breve, la soffocò il Rinascimento ritornando alle forme classiche della capitale, verso la metà del sec. XV nei maggiori centri di cultura umanistica dell'Italia, alla fine del medesimo secolo in tutti gli altri luoghi dell'Italia e fuori d'Italia.

Nell'uso epigrafico le abbreviazioni furono semplici e di numero limitato (nella Gallia veramente vi fu talora una certa larghezza) fino al sec. XI, dopo andarono continuamente aumentando e complicandosi con forme e segni presi dalle carte, soprattutto nel periodo della scrittura gotica. Caratteristici dei secoli XI e XII, specialmente nella Gallia, sono i legamenti di lettere e anche gli ornamenti talora in esse portati dai lapicidi.

Raccolte epigrafiche. - Non è inutile qui premettere che raccolte d'iscrizioni medievali separate da quelle cristiane antiche non si sono mai né composte né pubblicate.

Le più antiche di siffatte sillogi risalgono all'Alto Medioevo e sono state edite e magistralmente studiate dal De Rossi, Inscriptiones urbis Romae, ecc. II. Per la Spagna consistono in pochi carmi epigrafici; per la Gallia nelle iscrizioni della chiesa e del monastero di S. Martino di Tours; per l'Italia in gruppi di epigrafi di S. Ambrogio a Milano di S. Michele a Pavia, di S. Felice a Nola, in isolate iscrizioni di Ivrea, di Vercelli, di Piacenza, di Ravenna e di Spoleto; Roma invece possiede sillogi numerose che ne abbracciano tutti i cimiteri e tutte le basiliche. Ma tali sillogi - Cantabrigiensis, Centulensis, Einsidlensis, Harleiana, Laureshamenses I, II e IV, Parisina, Turonensis, Vaticana, Virdunensis - dànno nel loro insieme solo una parte, non sappiamo in quale misura, del materiale epigrafico delle raccolte originarie; esse, composte di sole iscrizioni metriche, non sono null'altro che antologie diverse di poesia epigrafica tratte, per uso delle scuole caroline, da apografi delle primitive grandi sillogi, che criticamente si possono riportare a una prima generale di Roma cristiana della fine del sec. VII e ad una seconda particolare di S. Pietro in Vaticano della fine del sec. VIII (cfr. A. Silvagni, Inscriptiones urbis Romae, ecc., nuova serie, I).

Tralasciando qui di enumerare le sillogi epigrafiche raccolte nelle varie nazioni, che sono rarissime nel seguito del Medioevo (risultano importanti solo quelle di Pietro Mallio e di P. Sabino in Roma) e molto numerose nel corso dell'età moderna, basterà notare come tutte abbiano un carattere locale; una sola merita speciale menzione, perché contiene iscrizioni cristiane di ogni paese latino anteriori al Mille. La formò Gaetano Marini (morto il 1815) con trent'anni di assidue ricerche, e si trova nella Biblioteca Vaticana, ordinata in quattro volumi manoscritti, codd. Vat. 9071-9074, corredata di un largo apparato bibliografico e illustrativo contenuto nei codd. 9075-9102; per il suo tempo può assicurarsi veramente completa.

Per quanto riguarda la pubblicazione di tali sillogi basti osservare come in ogni nazione siano state edite dal Settecento in poi numerose raccolte locali o parziali, come studî importanti e magistrali siano usciti per opera di dotti, primo tra i quali il De Rossi, ma come sinora nessuna abbia il Corpus delle iscrizioni cristiane medievali, mentre a diverse non manca quello delle iscrizioni cristiane antiche. Il vuoto è però sulla via di ricolmarsi: l'Académie des Inscriptions et Belles-lettres dal 1927 ha dato l'incarico a P. Deschamps di pubblicare la raccolta delle iscrizioni lapidarie di Francia dal sec. VII al XII, e di recente l'Istituto storico italiano e il Pont. Istituto di Archeologia cristiana hanno affidato ad A. Silvagni la preparazione della raccolta delle iscrizioni cristiane d'Italia dalle origini al sec. XIII.

Epigrafia letteraria moderna.

Diversa dalla scienza che studia le iscrizioni è la dottrina che detta le norme per la redazione letteraria delle epigrafi e che si chiama parimenti epigrafia.

Sin quasi alla fine del Settecento si usò scrivere le epigrafi in latino, e quel secolo ebbe insigni epigrafisti: Guido Ferrari, Luigi Lanzi e, maggiore di tutti, il bresciano Stefano Morcelli (1737-1821), che all'opera De stilo inscriptionum latinarum libri III (Roma 1781) fece seguire due raccolte d'iscrizioni proprie (Roma 1783, Padova 1818), che furono la scuola degli epigrafisti posteriori: Filippo Schiassi, Carlo Boucheron, Michele Ferrucci, Tommaso Vallauri. Ma già nel proemio alla raccolta delle sue epigrafi (1809) Luigi Lanzi combatteva (curioso strascico dell'"errore umanistico") l'idea, che allora cominciava a farsi strada, che in lingua viva si dovessero scrivere le epigrafi. Avevano infatti cominciato, tra la fine del Settecento e il principio dell'Ottocento, Prospero Balbo e G. B. Giovio a dettare iscrizioni in italiano: tentativi fatti dimenticare da Luigi Muzzi da Prato (1776-1865) e da Pietro Giordani, ai quali si dà inquistamente il merito d'avere iniziato (mentre si dovrebbe dire: perfezionato) l'epigrafia italiana. L'esempio del Muzzi e del Giordani fu seguito specialmente dal pistoiese Pietro Contrucci e dal padovano Carlo Leoni, ai quali il Carducci preferiva il fusignanese Teodorico Landoni; e molte eccellenti iscrizioni ci lasciarono, fra gli altri, Giuseppe Manuzzi, G. B. Niccolini, F. D. Guerrazzi, Gino Capponi, Cesare Guasti, Giosue Carducci, Isidoro Del Lungo, Giovanni Bovio, Tullo Massarani, Giuseppe Manni e altri.

Bibl.: Una ricca raccolta d'iscrizioni onorarie e storiche, sepolcrali, bibliografiche e dedicatorie è quella di A. Padovan, Epigrafia italiana moderna, Milano 1913. Sugli epigrafisti del sec. XVIII, v. G. Natali, Il Settecento, Milano 1929, pp. 533 e 1168. Notevole lo scritto di G. Carducci, Epigrafi, epigrafisti, epigrafici, in Opere, XII, .p. 127 segg.

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