FIORAVANTI, Epifanio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 48 (1997)

FIORAVANTI, Epifanio

Gino Benzoni

Nacque a Cesena il 12 luglio 1601, secondo dei cinque figli maschi di Ruggero e Vittoria Gennari, e fu battezzato come Anselmo.

D'un qualche prestigio locale la famiglia paterna che, originaria della vicina Terra del Sole, trapiantata, a metà del Cinquecento, a Cesena, distinguendosi nelle professioni legali e notarile e suddividendosi in tre rami, d'uno dei quali il padre del F. era capostipite. Maggiore il rilievo della famiglia materna: trasferitasi, nel 1434, da Rimini al seguito di Malatesta Novello, situandosi tra i consiglieri di prima borsa, era al vertice della gerarchia municipale, vantando altresì membri appartenenti all'Ordine gerosolimitano.

Esclusivamente preoccupato di favorire il primogenito Vincenzo, il padre del F., al punto da dar l'impressione di voler sbarazzarsi al più presto del secondogenito e col minor costo possibile: fanciullo, lo colloca nel vicinissimo convento degli agostiniani, negli immediati pressi della propria abitazione nella parrocchia di S. Severo. Sicché il F. nel 1617 risulta ormai da anni rinchiuso in quello, avendo modo - è supponibile - se non d'avere per maestro quel padre Pietro Ferretti autore di quattro libri Institutionum grammaticarum (Cesenae 1590), per lo meno di risentire dell'atmosfera di studio d'un convento dove questi, appunto, s'era distinto come "inter grammaticos" eccellente (G. B. Braschi Mem. Cáesenates..., Romae 1738, p. 362). È in tale anno, comunque, che il ragazzo - come stabilisce un istrumento del 22 maggio del notaio A. Policani - rinuncia ad ogni pretesa sui beni della famiglia, accontentandosi dei 18 scudi annui che gli saranno corrisposti vita natural durante a decorrere dalla morte del padre. Né, alla scomparsa, del 30 giugno 1620, di Ruggero, la sua situazione migliora, essendosi il padre limitato - nel testamento consegnato l'8 gennaio al notaio Cristoforo Fioravanti, suo congiunto - ad aggiungere "altri quattro scudi all'anno", da versarsi solo sinché il F., nel frattempo divenuto "frate Epifanio", non cominci a dir messa. E la temporanea concessione d'una cifra tanto esigua è accompagnata dalla perentoria ingiunzione di "non molestare", in compenso, "né turbare la sua casa e la sua famiglia".

Lungi dall'avvilirsi, il F. s'impegna ad affermarsi all'interno del convento quivi divenendo, in tempi brevi, padre maestro. Ed è inoltre, assiduo in quella sorta d'accademia che, radunatasi attorno a Scipione Chiaramonti - concittadino del F. oltre che vicino di casa dei suoi - è un po' il fulcro della vita culturale cesenate. Ed è forse il Chiaramonti a raccomandare il F. al cardinale A. Barberini, protettore dei celestini; è forse all'autorevole segnalazione di questo che il F. deve la nomina, anteriore al 1630, a priore nel convento di Salerno. Certo è che ad un certo punto il F. gravita nell'orbita barberiniana ed è coinvolto in manovre a questa riconducibili. Ed è indubbiamente uomo dei Barberini quel suo fratello - arduo precisare quale; si può solo escludere sia Carlo, il quale muore a Cesena in età avanzata - che, per loro conto, è entrato nascostamente a Parma per spiarvi; colto sul fatto, è incarcerato e poi fatto morire di veleno. Il fatto che Urbano VIII si preoccupi di far pervenire del denaro ai figli di questo induce ad arguire che lo sventurato abbia perso la vita proprio per svolgere una missione clandestina commissionatagli dai Barberini. Quanto al F., attorno al 1633 è in Germania col non meglio precisabile compito di guardarsi attorno, sondare umori, ascoltare brontolii, verificare l'avvio di negoziati di pace, appurare l'effettivo orientamento dell'imperatore. E, quanto meno, ha modo d'osservare da vicino le iniziate trattative tra Albrecht von Wallenstein e i protestanti elettori di Sassonia e Brandeburgo, sì da poter andare a Roma con informazioni se non di prima mano, per lo meno per tali spacciabili. Rispedito in Germania, frequenta anche ambienti luterani e stringe amicizia col duca - ma, a parte il titolo ducale, esibito non si sa con quanto fondamento, è un uomo in cerca d'una qualche sistemazione - Rodolfo Massimiliano di Sassonia, forse parente dell'elettore Giovanni Giorgio I. E bazzica pure nella corte di Weimar, di cui è duca Guglielmo, il cui fratello Bernardo subentra a Gustavo Adolfo di Svezia nella guida delle forze anticattoliche. Costantemente a fianco del F., per vedere se si offre una qualche opportunità, è Rodolfo Massimiliano di Sassonia. Certo che il F. si muove con una disinvoltura sin sconcertante, quasi giocando in piccolo all'ombra del grande gioco orchestrato, non senza ambiguità, da Urbano VIII, che, formalmente dalla parte di Ferdinando II, in realtà gli è ostile e guarda alla Francia - qui è nunzio il cesenate Gianfrancesco di Guidi Bagno - e punta sulla casa di Baviera. Minuscolo intrigante in una situazione d'intrighi ben grandi il F., intento a carpire un qualche minuscolo tornaconto tra scontrarsi d'eserciti e astuzie simulatorie e dissimulatorie di ministri e principi. Dopo l'assassinio, del 25 febbr. 1634, di Wallenstein, il F. agevola la fuga del colonnello Iohann Philiph Craz o Kratz, conte di Scharffenstein e barone di Ricenberg, dal carcere di Vienna, che, peraltro, sarà poi ripreso e giustiziato il 26 giugno 1635, ché non gli si perdona d'aver tramato con Wallenstein, d'essere "rebelle dell'imperatore". E forse il F. e l'amico tedesco hanno motivo di temere anche a proprio riguardo, se preferiscono partire per l'Italia, quivi facendo sosta a Milano. Ma l'arrivo della strana coppia - quella, appunto, formata dal frate romagnolo "amigo del coronel Gratz, enemigo" della maestà cesarea, e dall'avventuriero, sia pure titolato, tedesco anch'egli connivente con Craz - non sfugge. E il governatore, l'infante cardinal Ferdinando, ad ogni buon conto fa rinchiudere nel castello l'amico del F., donde viene rilasciato solo dopo che, nel luglio del 1634, il cardinale parte per le Fiandre. Così i due si ricongiungono e cercano un ambiente più propizio a Venezia.

Qui il F. è raggiunto dall'invito del cardinale Maurizio di Savoia - cui è stato segnalato da Maiolino Bisaccioni come "uomo di macchine ed atto a poter fare sorprese" nel Regno di Napoli - di fargli visita a Spilamberto, nel Modenese, dove sta villeggiando. Sollecito, il F. vi si reca prontamente coll'ormai inseparabile Rodolfo Massimiliano di Sassonia. Tutt'altro che inutile lo spostamento: il cardinale è in grado d'offrire una conveniente sistemazione ad entrambi. E mentre l'avventuriero tedesco è inquadrato, con un alto grado, tra gli ufficiali del marchese di Créquy e duca di Lesdiguières Charles de Blanchefort, il F. diventa elemosiniere del cardinale colla retribuzione annua di 2.000 ducati. Accompagnato il porporato a Loreto, il F. prosegue da solo per Salerno, sostandovi per poco nel giugno del 1635 è di nuovo a Venezia. Qui, nella casa d'un mercante genovese detto Tagliacarne, s'incontra, in un'aura di segretezza, con Maiolino Bisaccioni, col genero di questo Giovanni Battista Montalbano - un po' soldato, un po' viaggiatore, un po' al soldo del cardinale di Savoia, un po' al servizio della Francia questo "cittadino bolognese", autore, altresì, d'un trattatello in latino De moribus Turcarum, e col duca di Candale Henri de Noraget d'Epernon, allora comandante di ventura al soldo della Serenissima. Pure il principe di Sanza, il napoletano Giovanni Orefice, vorrebbe partecipare ai conciliaboli, ma Montalbano, che ne diffida convincendo in tal senso anche il duca di Candale, riesce ad escluderlo. Presente, invece, ai colloqui un personaggio autenticamente sinistro quale Pietro Mancino: grassatore da strada con ragguardevol passato d'assalti banditeschi alle spalle, ma, anche, per un po' rispettabile ufficiale sabaudo, gode della protezione del cardinale A. Barberini che se n'è servito come guardaspalle e che è a lui ricorso per efficaci intimidazioni, specie per metter paura al cardinale Carlo de' Medici. E il governo veneto di certo non lo persegue, ché ha pure militato al soldo della Repubblica.

Fermentante d'umori antispagnoli era la Venezia del tempo, specie nella variopinta Accademia degli Incogniti, di cui sono membri lo sventurato Ferrante Pallavicino e lo stesso Bisaccioni. È rappresentativo di detti umori il quintetto confabulante nottetempo in casa del mercante genovese, oltre che ristretto campionario di quell'irrequieta umanità che nella città lagunare s'affanna per vivere sotto l'occhio vigile e, insieme, tollerante, d'un governo pago che essa sia in città innocua e repressivo solo con le trame che rischiano di coinvolgerlo. Non è affare della Repubblica badare a quanti si limitano a chiacchierare contro la Spagna, che vanno cianciando d'imprese mirabolanti a danno del re Cattolico. Né - purché sia inattaccabile la sua estraneità, purché non le possa esser mosso alcun addebito - alla Repubblica dispiace che da tanto tramare almeno sortisca qualche punzecchiatura per l'ingombrante colosso spagnolo ancora preponderante nella penisola e per Venezia confinante tutt'altro che amichevole sul versante occidentale ove dal Milanese preme sulla Lombardia veneta. Ancor vivo il ricordo della congiura di Bedinar presentata dal governo - a giustificazione dei suo drastico intervento preventivo - a mo' di minaccia mortale per la Repubblica. E non rimossa, in sede governativa, la diffidenza pel re Cattolico e persistenti i timori nei confronti del governatore di Milano e del viceré di Napoli. Severo, di conseguenza, il controllo su chi, per qualche verso, è sospettabile di sentimenti e intenti filospagnoli; non altrettanto su chi come il F., ne è esente.

Indisturbato, allora, il convenire - peraltro non ignoto a Napoli: proprio perché a Venezia abbondano le spie, c'è chi informa delle "platicas" antispagnole - suo e degli altri quattro nella casa del mercante per architettare un'"impresa" che, grosso modo, promossa dal duca sabaudo e finanziata dalla Francia, mira a conseguire per quello "il regno di Napoli" e a compensare questa colla "Savoia". Si vorrebbero insomma, da un lato l'eliminazione della presenza spagnola dal Meridione della penisola sostituendola con quella di casa Savoia, dall'altro un allargamento territoriale francese. Creda o meno realmente alla realizzabilità di tanta prospettiva il F., ci credano o meno gli altri quattro, essa è tale da esigere grosse somme e dal cardinale di Savoia e dai Barberini. Certo che., laddove il duca di Candale pensa ad arruolamenti "in Schiavonia", laddove Pietro Mancino avanza la proposta di "fare 200 moschetti in Brescia", implicitamente chiedono finanziamenti. Proprio perché ambizioso il piano dei cinque autorizza a richieste di denaro. E per giustificarle occorre, d'altro canto, dare l'impressione di voler agire; opportuno, se non altro, un minimo di simulazione. Pericolosissimo a parole, pel Vicereame, il "trattato fatto in Venetia" dai cinque: esso prevede l'ingresso con armati di Mancino in Puglia con l'occupazione di Monte Sant'Angelo, di Barletta, della "doana" di Foggia; la mobilitazione ai confini, nello Stato della Chiesa, di 6.000 fanti coll'intercettazione a Monteforte Irpino della "vittuaria" destinata a Napoli, quivi nel contempo procurando di "ammazzare il viceré et li ministri" e attirando "dalla parte del re di Francia alcuni signori del regno.

Si miri effettivamente a questo o ci si accontenti d'ostentare al cardinale di Savoia e ai Barberini che non ci si limita ad ipotizzare colpi di mano rimanendo tranquilli a Venezia, fatto sta che il F., lasciata Venezia, all'incirca nell'estate del 1635, penetra in Abruzzo donde passa in Puglia aggirandosi per un paio di mesi tra Lucera, Monte Sant'Angelo, San Severo, Barletta, il cui castello non riuscì a penetrare limitandosi a constatare che le mura erano spesse. Più fortunata la furtiva ispezione nella fortezza di Taranto, alla quale giunge dopo una tappa a Lecce; di quella fa pervenire un paio di disegni - uno approssimativo, l'altro dettagliato - al cardinale di Savoia con annotazioni e impressioni. Un curiosare, questo, del F. per valutare fortificazioni, per appurare consistenza di presidi che si svolge soprattutto di notte, scandito da soste in ospitali conventi. E tra questi fa soprattutto capo a quello celestino in Maiella, il cui abate è legato al cardinale di Savoia, che della "religione" dei celestini è protettore. Ospite dell'eremo - "el monasterio de San Pedro Majel", come lo chiama una "relacion" inoltrata a Madrid - un gentiluomo lodigiano, Giovanni Antonio Manara, il quale, probabilmente manifestando avversione per la Spagna, si guadagna la confidenza dei Fioravanti. E questi, loquace e vanitoso, gli manifesta lo scopo della sua presenza e dei suoi spostamenti. Così il Manara s'affretta, a sua volta, ad avvisare, in dicembre, Gaspar Rosales, segretario di guerra e presidente di Sommaria, aggiungendo che il F., d'accordo coll'abate, per rilevare piante, schizzare apprestamenti difensivi., visualizzare fortezze, ricorre ad un pittore. Ed ecco che quest'ultimo viene fermato ed interrogato: una volta appurato il lavoro da lui svolto, gli si ingiunge di proseguire a consegnare disegni e rilievi al F., naturalmente tenendolo all'oscuro del fermo e dei controllo. Così il F., ignaro, continua a ricorrere al pittore, continua a confidarsi con il Manara, il quale puntualmente riporta alle autorità le confidenze del frate. E queste preferiscono non intervenire subito, attendendo di coglierlo in flagrante sì da poter risalire ai mandanti nonché ricostruire la rete delle connivenze.

Il F., lungi dall'intuire che ogni suo movimento è sotto controllo, si reca dalla principessa di Forino Marzia Carafa - da poco vedova del secondo marito, Ottavio Caracciolo - e qui confabula con suo fratello, monsignor Ottaviano Carafa; quindi si sposta a Salerno, donde, dopo un po', riparte per tornare al convento in Maiella. Ed è proprio sulla via del rientro che, all'inizio di gennaio del 1636, a "Mortiliano", il F. viene "preso" con addosso la patente d'elemosiniere del cardinale di Savoia, una lettera, ove lo si raccomanda, di tal Pellegrino Carleni (con tutta probabilità "nome supposto"), al duca d'Atri Francesco d'Acquaviva, una lettera di monsignor Carafa, una lettera dall'"abate Bibò" (o, nelle carte in spagnolo, "abad Vivo") primo segretario del cardinale di Savoia, la minuta d'una lettera ad un sovrano non specificato identificabile, comunque, nel re di Francia. Tutto materiale sufficiente a compromettere il F., anche se le carte più importanti, quelle custodite dall'abate del convento di S. Pietro in Maiella, sono da questo - subito informato della cattura dei F. - inoltrate a Roma. Qui si viene a sapere rapidamente della "prison" del Fioravanti. E così il cardinale di Savoia incomincia ad escogitare qualche scusa che eluda le proprie dirette responsabilità e che abbandoni il F. alla sua sorte. La quale si fa subito per lui dura. Egli viene tradotto nel carcere di Castel Nuovoe quivi tenuto in stretto isolamento, sì che non "abbia commercio con altri" se non tramite "il tenente di castello", sì che, per suo conto, "non parli ad alcuno". Ciò non toglie che, invece, del suo repentino incarceramento si parli sin troppo. Certo questo non passa sotto silenzio: suscita scalpore e induce a congetture, sui motivi veri e presunti, alimentate ad arte dal dire e non dire delle autorità - per mettere in imbarazzo i mandanti del F. - proprio sulla ridondanza delle voci fatte trapelare. Tra quelle circolanti quella per cui gli sarebbe trovata "addosso ... la pianta della fortezza di Taranto". Altra "voce" quella che il F. "avesse intelligenza con principi stranieri". Ma col cardinale di Savoia il rappresentante spagnolo a Roma, il marchese di Castel Rodrigo Manuel de la Moura y de Tavara, quasi finge di scusare l'arresto dell'agostiniano munito di "patenti di suo elemosiniero". Sua colpa - precisa l'ambasciatore - quello d'aver "fatto fuggire il Grasso" (ossia quel Craz, che verrà però ripreso e decapitato), e d'aver "tentato diverse altre pratiche". Così da un lato fa capire al cardinale che si hanno elementi per far risalire a lui le "pratiche", dall'altro gli si fa intendere che non è proprio per lui opportuno dichiararsi offeso per l'arresto d'un suo uomo. Assecondante il cardinale s'affretta a minimizzare l'assunzione del F. al proprio servizio: le "patenti" gliele ha concesse solo perché pressato dal "duca di Sax", l'ha visto appena di sfuggita e - per quel che ricorda - gli ha fatto una pessima impressione. Così il F. viene direttamente scaricato dal proprio protettore ufficiale. Chi, di fatto, invece finisce col proteggerlo - nel senso che impedisce sia eliminato - è il nunzio apostolico a Napoli Nicolò Enriquez de Herrera. E non già perché impietosito dalla disgrazia del F., ma perché sollecito del prestigio della nunziatura. Questa detiene "supremma auttorità sopra i regolari in questo regno"; perciò il nunzio esige la "liberazione" del F. dal viceré, come scrive, il 27 maggio, il residente veneziano Girolamo Agostini. Una richiesta che, per quanto reiterata, non rimuove Monterrey dalla "negativa", come precisa Agostini in una successiva lettera del 3 giugno. Donde, visto che il viceré non accondiscende a "conceder al nonzio" l'agostiniano "imputato di procurar ribellioni nelle fortezze principali del regno", in settembre la soluzione compromissoria: il viceré, come spiega la lettera d'Agostini del 30, "ha fatto presentar" il F. al nunzio, perché questi "gli sia riconsegnato come secolare". In tal modo non si ledono formalmente i diritti della nunziatura, mentre il F. rimane nelle mani di Monterrey, cui non dà alcuna ombra "la commissione data dal nuntio per ordine" del papa "de procedere nella causa" del F. "al cappellano maggiore" Juan Salamanca. Su questi, che è di nomina regia, il viceré può contare assolutamente: è a lui fedelissimo, obbediente ad ogni indicazione.

Quanto al F., rinchiuso in quel Castel Nuovo dove, il 6 ott. 1634, è stato "strozzato", proprio per ordine di Monterrey, il domenicano Tommaso Pignatelli, rischia di fare la stessa fine. "Suddito di Sua Santità", ché nativo di Cesena "en el estado ecclesiastico", agostiniano almeno fin tanto che il nunzio rilutta all'espediente della secolarizzazione, a detta del "fiscale" non è più che tanto "forastiere" se si considera che "ha fatto il suo domicilio in regno, con esser stato priore nella città di Salerno". Col che, considera il "fiscale", il F. "s'è fatto suddito alla giurisdittione de sua Maestà". In ogni caso tremenda è l'accusa essendo egli "inquisito per il trattato" fatto con il cardinale di Savoia "de assaltare il regno et sorprendere piazze in esso, con ammazzare il ... viceré et ministri con tutti li spagnoli". Il F., a tutta prima, pur d'aver la "gracia de la vida y de liberdad", promette - così la relazione, dell'8 febbraio, del giudice Francesco Merlino, inoltrata a Madrid dal viceré - di servire il re Cattolico "en dos cosas de mucha importancia", al punto tale da meritare sinanco "alguna remuneracion pecuniaria". Da un lato, fingendosi informato su tutto il tramare antispagnolo, annuncia strepitose rivelazioni in merito a "tratados y manejos che se hacian en Italia contra la monarchia de su Magestad". Dall'altro si offre per una mirabolante impresa su Amsterdarn per bruciarvi tutti "Ios vajeles" del "puerto". Atterrito il frate, parla e straparla. E Monterrey - che, pur capisce d'aver messo le mani su di uno sprovveduto - non rinuncia a farlo apparire pericoloso a Madrid e, nel contempo, ad usarlo come arma d'implicito ricatto sugli ambienti romani. Non è che il F. abbia niente di particolare da rivelare. Solo che, interrogato per mesi e mesi, e sottoposto a "tormento", il F. può ben essere costretto ad ammissioni manipolabili nei confronti della S. Sede, in una fase in cui, come raccomanda, il 30 nov. 1637, Monterrey al suo successore, c'è da vigilare sugli "andamenti" d'un papa, Urbano VIII, "poco benevolo" col re Cattolico, "inclinatissimo ai francesi", mentre suo nipote, il cardinale Barberini è addirittura "tutto dato alla corona di Francia" e trasuda "odio ed abborrimento particolare agli spagnuoli". Il F. allora va spremuto il più possibile - approfittando del terrore che lo rende loquace, disposto alle più fantasiose esagerazioni pur di schivare la tortura - per poi eliminarlo. Con "prudenza", con accortezza, va perciò sollecitato a denunciare, fare nomi, per poi avviare "le diligenze per finirlo col boia". E, in effetti, si è talmente convinti che il F. non abbia, comunque, scampo, che il residente veneto lo dà già per eliminato "con secreta morte" in una lettera del 30 sett. 1636. E ne è a tal punto sicuro che, annunciando, il 2 dicembre, l'arresto a Taranto d'un altro agostiniano, il nobile d'Altamura Rodolfo de' Angelis, prevede per costui "la medesima penna" del F. "già fatto morir in castello".

In realtà il F. - per salvare il quale vanamente, nel frattempo, si stanno adoperando a Roma perché la S. Sede ne ottenga la liberazione tre suoi concittadini, ossia mons. M.A. Maraldi della segreteria dei brevi, il futuro cardinale F. Albrizzi e mons. A. Ferragallo, allora al servizio del cardinale Barberini - è ancor vivo. Solo che, non facendo più notizia, di lui ci si sta dimenticando. Ed evidentemente il successore di Monterrey, il duca di Medina de Us Torres Ramiro Felipe de Guzman, non ne accoglie l'invito ad eliminarlo, se v'è continua traccia dal 1637 al 1643 di piccole spese pel "sustento" del F. in Castel Nuovo.

Il fatto che il suo nome non compaia nelle registrazioni dei morti dei libri parrocchialì di questo autorizza a supporre che, ad un certo punto, gli sia stato concesso d'andarsene a finire i suoi giorni altrove. Nel frattempo, pur di contrastare la cognata Cristina di Francia, il cardinale Maurizio di Savoia - per conto del quale F. s'è improvvisato cospiratore antispagnolo - che, ancora nel 1636, con brusco voltafaccia s'è volto alla Spagna, non ritiene certo opportuno preoccuparsi di lui. E, forse, la carriera ecclesiastica agevolata di suo fratello Carlo - vicario generale in più diocesi, inclusa quella di Cosenza quando v'è vescovo Gennaro Sanfelice, diverrà protonotario apostolico - va intesa come risarcimento, sia pure per interposta persona, da parte dei Barberini per il carcere subito dal Fioravanti.

Fonti e Bibl.: Relazione al... duca di Medina de las Torres..., in Arch. stor. per le prov. napoletane, IV (1879), pp. 222, 230-233, 235 s., 482; Corrispondenze diplomatiche veneziane da Napoli, VII, a cura di M. Gottardi, Roma 1991, ad vocem; G. Carignani, Tentativi di Tommaso di Savoia per... Napoli, in Arch. stor. per le prov. napoletane, VI (1881), pp. 665 s.; L. Amabile, Fra T. Pignatelli... con... doc. sulle macchinazioni di... E. Fioravanti, Napoli 1887; N. Trovanelli, Un frate cospiratore... E. F., Cesena 1905; Arch. gen. de Simancas. Papeles de estado de la corr. ... de Napoles..., XVI, a cura di R. Magdaleno Redondo, Valladolid 1942, ad vocem; G. Coniglio, Il Viceregno di Napoli nel sec. XVIL, Roma 1955, p. 278; F. Nicolini, Saggio d'un repertorio bibl. di scrittori... di Napoli, Napoli 1956, p. 623; L. Pepe, Nardò e Terra d'Otranto nei moti del 1647-1648, Manduria-Bari-Perugia 1962, p. 22; A. Vasina, Cento anni di studi sulla Romagna…, II, Faenza 1963, p. 322; R. Villari, La rivolta antispagnola a Napoli..., Bari 1967, ad Indicem.

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