Epicurei

Enciclopedia Dantesca (1970)

Epicurei (Epicurii)

Giorgio Stabile

Nel senso proprio di " seguaci della filosofia di Epicuro ", in D. designano la grande scuola filosofica antica che prese nome dal suo capo Epicuro (v.). In If X 14 l'espressione seguaci di Epicuro non va intesa in quest'uso tecnico, ma più generalmente indica chi, condividendo un'opinione eretica di Epicuro, di lui si rende seguace.

In Cv IV VI 11-12 D., percorrendo la storia della filosofia morale che dagli stoici conduce al Filosofo per eccellenza, Aristotele, in cui si è realizzata al più alto grado la ragione speculativa, afferma: E costoro e la loro setta chiamati furono Stoici... Altri filosofi furono, che videro e credettero altro che costoro; e di questi fu primo e prencipe uno filosofo che fu chiamato Epicuro; ché, veggendo che ciascuno animale, tosto che nato è, quasi da natura dirizzato nel debito fine, che fugge dolore e domanda allegrezza, quelli disse questo nostro fine essere voluptade (non dico ‛ voluntade ', ma scrivola per P), cioè diletto sanza dolore. E però [che] tra 'l diletto e lo dolore non ponea mezzo alcuno, dicea che ‛ voluptade ' non era altro che ‛ non dolore ', sì come pare Tullio recitare nel primo di Fine di Beni. E di questi, che da Epicuro sono Epicurei nominati, fu Torquato, nobile romano.

La fonte dichiarata è dunque Cicerone che nel De Finibus affermava: " Hoc Epicurus in voluptate ponit, quod summum bonum esse vult, summumque malum dolorem, idque instituit docere sic: Omne animal, simul atque natum sit, voluptatem appetere eaque gaudere ut summo bono, dolorem aspernari ut summum malum et, quantum possit, a se repellere, idque facere nondum depravatum, ipsa natura incorrupte atque integre iudicante " (I IX 30); " Nunc autem explicabo, voluptas ipsa, quae qualisque sit, ut tollatur error omnis imperitorum intelligaturque, ea, quae voluptaria, delicata, mollis habeatur disciplina, quam gravis, quam continens, quam severa sit. Non enim hanc solam sequimur, quae suavitate aliqua naturam ipsam movet, et cum iucunditate quadam percipitur sensibus, sed maximam voluptatem illam habemus, quae percipitur omni dolore detracto... Itaque non placuit Epicuro medium esse quiddam inter dolorem et voluptatem; illud enim ipsum, quod quibusdam medium videretur, cum omni dolore careret, non modo voluptatem esse, verum etiam summam voluptatem " (XI 37-38); " eoque intelligi potest, quanta voluptas sit non dolere " (XVII 56).

In Cicerone D. trovava una nozione degli e. e della voluptas più colta, misurata e raffinata di quanto certa tradizione cristiana e l'opinione vulgata avevano lasciato in eredità al Medioevo. Nella difesa dell'epicureismo da parte di Torquato, netta era la distinzione tra voluptas e cupiditas: " At vero eos et accusamus et iusto odio dignissimos ducimus, qui blanditiis praesentium voluptatum deleniti atque corrupti, quos dolores et quas molestias excepturi sint, obcaecati cupiditate non provident, similique sunt in culpa, qui officia deserunt mollitia animi, id est laborum, et dolorum fuga " (Fin. I X 33), come pure, fondamentale, quella tra sapientia e cupiditas fomentatrice di odi sociali, di discordie e dissidi: " Sapientia enim est una, quae maestitiam pellat ex animis, quae nos exhorrescere metu non sinat; qua praeceptrice in tranquillitate vivi potest omnium cupiditatum ardore restincto. Cupiditates enim sunt insatiabiles, quae non modo singulos homines, sed universas familias evertunt, totam etiam labefactant saepe rem publicam. Ex cupiditatibus odia, discidia, discordiae, seditiones, bella nascuntur, nec eae se foris solum iactant nec tantum in alios caeco impetu incurrunt, sed intus etiam in animis inclusae inter se dissident atque discordant, ex quo vitam amarissimam necesse est effici, ut sapiens solum amputata circumcisaque inanitate omni et errore naturae finibus contentus sine aegritudine possit et sine metu vivere " (XIII 43-44). Sul piano della beatitudine della vita attiva legittimamente gli e. concorrono con stoici e peripatetici all'additamento di quella perfezione morale condotta a compimento massimamente da Aristotele (Cv IV VI 15-16). La voluptade epicurea non è cupidigia carnale ma diletto sanza dolore o, più semplicemente, ‛ non dolore ', un assecondamento della allegrezza cui ogni essere vivente da natura è dirizzato. Questa nozione non deteriore della voluptas costituisce il summum bonum degli e., un sommo bene limitato al piano del mondo presente, così come al mondo presente mirano le altre sette filosofiche della vita attiva: nell'allegoria di Cv IV XXII 15, esempio di contaminatio tra storia profana e scrittura sacra, nelle tre Marie che vanno al sepolcro di Cristo e non lo trovano, D. scorge le tre sette della vita attiva, le tre scuole filosofiche antiche che cercarono la beatitudine nelle corruttibili cose e non la trovarono: Per queste tre donne si possono intendere le tre sette de la vita attiva, cioè li Epicurei, li Stoici e li Peripatetici, che vanno al monimento, cioè al mondo presente che è recettaculo di corruttibili cose, e domandano lo Salvatore, cioè la beatitudine, e non la truovano; ma uno giovane truovano in bianchi vestimenti, lo quale, secondo la testimonianza di Matteo... era angelo di Dio. E però Matteo disse: " L'angelo di Dio discese di cielo, e vegnendo volse la pietra e sedea sopra essa... ". Questo angelo è questa nostra nobilitade che da Dio viene... che ne la nostra ragione parla, e dice a ciascuna di queste sette, cioè a qualunque va cercando beatitudine ne la vita attiva, che non è qui.

La beatitudine, la felicità ricercata dagli e. è quella quasi imperfetta della vita attiva, quella consistente nelle operazioni de le morali virtudi (IV XXII 18), chiusa al mondo presente sede del corruttibile e privo di quella più alta beatitudine, cioè la somma, la celeste, che qui non si puote avere (§ 18). Ma nella ragione, la nobiltà proveniente da Dio parla e quasi illumina la via alle tre sette, suggerendo loro che la vera beatitudine non è qui, ma in quella patria celeste in cui il Salvatore ci ha preceduti. Questa sorta di praeparatio evangelica si fa più evidente in Cv III XIV 15, dove la filosofia non è solo considerata come quella tramite cui si vede per ragione, ma altresì tramite cui si crede [ch']ogni miraculo in più alto intelletto... può essere; da essa la nostra buona fede ha sua origine; da la quale viene la speranza... e per quella nasce l'operazione de la caritade. Per le quali tre virtudi si sale a filosofare a quelle Atene celestiali, dove gli Stoici e Peripatetici e Epicurii, per la l[uc]e de la veritade etterna, in uno volere concordevolemente concorrono. Filosofia pagana e rivelazione si trovano qui congiunte nella formula contaminata dell'Atene celestiale; salendo verso l'Atene pagana, simbolo dello studium sapientiae, le tre sette filosofiche greche tendono alla verità che è unica ed eterna, e in virtù di ciò concorrono concordi alla patria ‛ celestiale '.

Sconcertante è in genere considerata tanta positiva valutazione di D. rispetto agli e. (nel Convivio), se poi paragonata alla condanna che di loro è pronunciata nella Commedia, dove sono bollati come quelli che l'anima col corpo morta fanno (If X 15). Qualcuno ha voluto vedere in questa frattura due tempi nella conoscenza degli e. da parte di D. (Padoan, Mazzeo): in un primo tempo, nel Convivio, D. deriverebbe la sua conoscenza unicamente dal primo libro del De Finibus di Cicerone; solo in un secondo tempo sarebbe venuto a conoscenza del dogma perverso degli e., e di qui la condanna. Tanto più che nell'invettiva contro la stoltissima, vilissima e dannosissima bestialità del non credere in un'altra vita dopo la terrena (Cv II VIII 7-8) non è fatta parola di Epicuro o degli e., ma anzi, è invocato a riprova il consenso universale di tutti i filosofi e dei savi sul fatto che in noi sia parte alcuna perpetuale (il Pézard, al contrario, pensa a una diretta chiamata in causa di Epicuro, di cui D. preferì non fare il nome). Se la tesi dei due tempi, filologicamente, è ben trovata, ha contro di sé, da un lato, una compatta tradizione medievale di accuse contro la miscredenza di Epicuro e dall'altro esempi in cui come in D. sono compresenti atteggiamento laudativo e condanna. Le accuse di empietà contro Epicuro sono comunissime nel Medioevo e prendono spunto sia dalla polemica paolina contro la lussuria epicurea, sia dai primi padri cristiani, Lattanzio soprattutto, che vedevano in lui il negatore della Provvidenza, l'assertore della mortalità dell'anima, il distruttore della religione, il predicatore della voluttà e della lussuria, l'amatore della vanità e non della sapienza. Testi e accuse talmente correnti e comuni che è impensabile l'accedere di D. a una nozione più elevata dell'epicureismo, prima della conoscenza della opinio vulgata su di esso. Quanto all'oscillazione nel giudizio sugli e. valga l'esempio di un illustre predecessore di D. come Giovanni di Salisbury, il quale se nell'Entheticus (vv. 571-572) parla degli e. come della setta che " docet, animam cum carne perire / et frustra leges justitiamque coli ", nel Policraticus ripete l'identico disegno dantesco delle tre sette che per vie diverse giungono alla realizzazione della beatitudine. " Quod virtus unica via est philosophandi et eundi ad beatitudinem; et de tribus gradibus accedentium et de tribus sectis philosophorum. Spiritus ubi vult spirat, et frequens est ut eorum, quae a doctoribus proferuntur, multitudinis sit multiplex intellectus, ex verbis Socratis et Platonis sectae multae profluxerunt, omnes tamen ad unum sed quasi per varias semitas properantes... quanto quis philosophiae diligentius insistit, eo fidelius et rectius ad beatitudinem pergit. Nam virtutes, quibus itur in singulis officiis, illa dispensat. Sed quia veteres, licet ex parte animas crederent immortales, vitae aeternae, quae post istam futura est, nondum structionem acceperant, summum bonum in virtute costituerunt... Usus enim virtutis optimus est, et utendi Deus ipse est fructus. Cum ergo virtus sola beatum faciat, ad thronum eius, sumpta occasione ex traditionibus doctiorum, per varios calles ascendere conati sunt. Stoicus enim, ut rerum contemptum doceat, in mortis meditatione versatur; Peripatheticus in inquisitione veri; volutatur in voluptatibus Epicurus; et licet ad unum tendant, varias sententias quasi vias beatitudinis auditoribus suis aperiunt. De quibus dubitare et quaerere liberum est, donec ex collatione propositorum quasi ex quadam rationum collisione veritas illucescat " (VII 8; v. anche 11). Una duplicità nella valutazione di Epicuro e dell'epicureismo, questa, che non è rara in scrittori lontani e vicini a D. (cfr. Vincenzo di Beauvais Spec. hist. IV 39-41, Spec. doctr. IV 89, 95, 104, 133, 146, V 34, 38, Spec. mor. III VII 2 e 4; Giovanni Waleys Florilegium de vita et dictis illustrium philosoph. VI 1-5; Gualtiero Burley De Vita et moribus philosophorum LXIV).

D., dunque, nel Convivio ha già assunto un'opinione dell'epicureismo non ‛ vulgata ', e maturata attraverso la lettura del De Finibus ciceroniano. Sul piano della beatitudine della vita attiva la voluptas epicurea acquista un suo positivo valore, storicamente accertato nello svolgersi delle dottrine morali che dagli stoici conduce alla quasi cattolica oppinione dei peripatetici (Cv IV VI 16). Ma ciò accade sul piano della ragione naturale pienamente realizzata dalla filosofia di Aristotele, nella cui persona D. individua quella filosofica autoritade che dovrà congiungersi alla imperiale per un perfetto reggimento degli uomini e che indichi il vero fine della vita umana.

Nel più complesso e compiuto disegno della Commedia troviamo il definitivo giudizio di D. su Epicuro e gli e.; giunti nel sesto cerchio degli eretici Virgilio indica a D. una parte delle arche infuocate affermando: Suo cimitero da questa parte hanno / con Epicuro tutti suoi seguaci, / che l'anima col corpo morta fanno (If X 13-15). Già prima il poeta latino aveva detto (IX 127-130): Qui son li eresïarche / con lor seguaci, d'ogne setta, e molto / più che non credi son le tombe carche. / Simile qui con simile è sepolto, per indicare la compresenza nel sesto cerchio delle varie sette eretiche, ciascuna ubicata distintamente dalle altre, e raggruppata assieme; e non è elemento accessorio. D., cioè, uso a tradurre in struttura uno schema dottrinale (dato, questo, fondamentale nella costruzione di tutta la Commedia), in questo caso ha visualizzato nella suddivisione delle arche infuocate la tipica partizione di un trattato de haeresibus elencante via via le diverse eresie con i loro capi e i dogmi contrari alla fede. Sorge quindi dallo stesso criterio costruttivo di questo cerchio l'indicazione secondo cui D. ha voluto trascegliere, tra tutte le sette eretiche, solo e soltanto quella che fa capo a Epicuro. Del resto, alla prima enunciazione generale del criterio costruttivo (Qui son li eresïarche / con lor seguaci, d'ogne setta) corrisponde l'altrettanto rigorosa e conseguente indicazione restrittiva, ricalcata quasi ad verbum: Suo cimitero da questa parte [cioè distintamente dagli altri] hanno / con Epicuro [cioè l '‛ eresiarca '] tutti suoi seguaci, / che l'anima col corpo morta fanno, cioè il ‛ dogma ' della setta, contrario alla fede cristiana. Eresiarca, setta e dogma sono qui esplicitamente affermati e, nel contesto di tutti i dannati di eresia, testimoniano una precisa e circostanziata scelta di Dante.

Da questi dati non può prescindere chiunque voglia qualificare la presenza dell'eresia nella Commedia. Ogni aggancio con le più clamorose eresie precedenti e contemporanee a D., ogni discussione sul nesso patarinismo-ghibellinismo è destinata a scontrarsi contro il chiarissimo enunciato dantesco; del resto i presupposti dottrinali che tali proposte recano con sé, non trovano espressione nell'azione drammatica del canto, e tanto meno nella figurazione dei personaggi Farinata e Cavalcanti. " Dante nella tomba di Epicuro ", afferma giustamente Frugoni, " colloca non già patarini o ghibellini, ma, ‛ più di mille ', gli ‛ epicurei ', quelli ‛ che l'anima col corpo morta fanno ' ". Nella secta, nella haeresis D. avverte la nozione del far parte per sé, del recedere, del separarsi dalla verità cristiana e dal regno di Dio, secondo un'accezione di ben antica tradizione (cfr. s. Girolamo Comm. in Epist. ad Titum III vv. 10, 11 " observandum, quod quomodo caetera vitia, quae inter carnis opera numerata sunt, excludunt nos a regno Dei: ita etiam nobis haereses auferant regnum Dei; et non interest quomodo quis, dum tantum excludatur a regno... Nunc ipsum nomen videtur plenissime ventilandum. Haeresis Graece ab electione dicitur, quod scilicet unusquisque id sibi eligat quod ei melius esse videatur. Philosophi quoque Stoici, Peripatetici, Academici, Epicurei, illius vel illius haereseos appellantur. Superfluum est ire per singula, et Marcionem, Valentinum, Apellem, Ebionem, Montanum, et Manichaeum cum suis enumerare dogmatibus... Haeretici autem in semetipsos sententiam ferunt, suo arbitrio de Ecclesia recedentes: quae recessio propriae conscientiae videtur esse damnatio. Inter haeresim et schisma hoc esse arbitrantur, quod haeresis perversum dogma habeat: schisma propter episcopalem dissensionem ab Ecclesia separetur "; dice Uguccione: " Haeresis, -sis, is est, divisio ab unitate fidei, quae nimis adhaeret illis vel facit illos dubitare in fide quos invadit, unde haeresis interpretatur divisio... ab haeresi haereticus, -a, -um, divisus ab unitate fidei... haeresiarcha, -ae, id est princeps haeresis ").

È senz'altro su questa linea l'accezione dantesca di eresia, con caratteristiche squisitamente dottrinali (il dogma perverso che tien fuori della fede) e che non rimanda necessariamente alla più complessa nozione dell'eresia come setta o movimento ereticale, con precisi connotati sociali, una propria organizzazione e un proprio corpo dottrinale. Farinata, Cavalcante, Federico e il Cardinale in tanto sono eretici, in quanto sostenitori di un dogma contrario alla fede cristiana, la mortalità dell'anima; null'altro traspare dall'esposizione dantesca. Questo solo basta ad accomunarli alla schiera dei seguaci di Epicuro che di quella opinione fu il princeps e l'auctor. E tutto in questa nota dottrinale, in questo dogma perverso risiede l'epicureismo dei dannati. La negazione della mortalità dell'anima è il filo conduttore, il presupposto del canto esplicitamente affermato. Un filo conduttore e un presupposto che se da soli non bastano a rendere ragione dell'estrema complessità del canto, sono comunque alla base della condanna e della pena.

Ritornante nella critica è il rilievo del brusco mutamento di giudizio sugli e. dal Convivio alla Commedia; positivo l'uno, negativo l'altro. In realtà tra gli Epicurei del Convivio e i seguaci di Epicuro della Commedia c'è di mezzo il disegno del ‛ viaggio ' dantesco: se lì era la scuola filosofica ‛ antica ' che concorreva con stoici e peripatetici al raggiungimento delle Atene celestiali, qui balzano in primo piano i ‛ moderni ' epigoni del primo negatore dell'immortalità dell'anima, cioè del fondamento stesso della Commedia e del ‛ viaggio ' dantesco. Nella Commedia gli e. del Convivio sono un'esperienza culturale ormai consumata. L'Atene celeste s'è corretta nel nobile castello del Limbo ove risiedono peripatetici, stoici, accademici, in un disio eterno e sanza speme di vedere quel Dio che non adorarono debitamente, ma da cui gli e., macchiati di una specifica colpa contro la fede che salva, sono scacciati per essere confusi nello sfondo del cimitero degli eretici. La loro presenza è ormai muta, come muta è quella del loro maestro Epicuro, non già personaggio, ma soltanto alluso (e con intento di dottrina) da Virgilio. Esperienza consumata, dunque, ma non per questo rinnegata. Accanto alla condanna in nome della fede cristiana, D. mantiene quella nozione colta dell'epicureismo a cui si era elevato nel Convivio. Chi infatti volesse ritrovare nella raffigurazione di Farinata e Cavalcanti i segni del ritorno all'opinione vulgata dall'e. ingordo e lussurioso, secondo un'accezione fortemente deteriore della voluptas, cercherebbe invano. Ciò che è variato totalmente è il contesto: qui la virtù umana, la voluptas terrena sono misurate alla luce della giustizia divina, la beatitudine della vita attiva trova compimento solo nella celeste contemplazione. Il positivo sul piano del contingente diviene negativo sul piano dell'eterno.

Nella consapevolezza del destino superiore del suo viaggio D. accede, con la guida di Virgilio, nel cerchio degli eretici. Anima in itinere, ancor legata al corpo, D. ripercorre in modo tipico il cammino dell'umanità salvata, dalla caduta alla risalita a Dio, dal mondo terreno alla vita celeste. L'incontro è con i negatori dell'immortalità dell'anima, con chi tutto conclude nell' ‛ arco ' della vita, in una dimensione tutta terrena. Onde, con ciò sia cosa che la nostra vita... sia causata dal cielo, e lo cielo a tutti questi cotali effetti, non per cerchio compiuto, ma per parte di quello a loro si scuopra; e così conviene che 'l suo movimento sia sopra essi come uno arco quasi, [e] tutte le [terrene] vite (e dico [terrene], sì de li [uomini] come de li altri viventi), [mon]tando e volgendo, convengono essere quasi ad imagine d'arco assimiglianti, dice D. (Cv IV XXIII 6). Nel cielo è disegnato in modo esemplare l'incessante processo del divenire, segnato da un augmentum e una declinatio, da una generatio e una corruptio. Il moto di accesso e di recesso dei pianeti segna il sorgere, il culminare e il declinare di ogni tempo e ogni vita: " Et omne tempus et vita mensurantur circuitu " (Arist. Gen. et corrupt. II 10). Questa è la vicenda terrena per il medievale, e in questa vicenda e in questo tempo del contingente è chiuso il destino dell'e. di D.: sorge, culmina e ricade sotto il gravare degli affetti terreni. Tutto il canto decimo è concepito secondo il movimento di ascesa, acme e ricaduta, rigorosamente ripartito non in tre ‛ episodi ' o ‛ atti ' in successione paratattica (consueta nella Commedia), ma in tre vicende disposte ‛ a volta ' l'una sull'altra, come la critica più recente (Bozzetti, Sansone, Petrocchi, ecc.) ha messo in rilievo. La progressione si apre e conclude secondo un ritmo simmetrico: Virgilio-Farinata-Cavalcanti-Farinata-Virgilio, e a tre gradi diversi. A proposito della rappresentazione di Cavalcanti si è soliti parlare di ‛ intermezzo ' nel dialogo tra D. e Farinata, mentre in realtà nel padre di Guido si ripete, a un grado più basso, la stessa vicenda del condottiero fiorentino che contemporaneamente va svolgendosi a un grado più elevato. Nelle due azioni drammatiche una stessa storia figurativa si realizza con contenuti umani e affettivi opposti. Farinata s'è dritto: / da la cintola in sù (vv. 32-33) e Cavalcante surse a la vista scoperchiata/.. infino al mento (vv. 52-53), l'uno s'ergea col petto e con la fronte (v. 35), l'altro s'era in ginocchie ‛ levato ' (v. 54), l'uno guardommi un poco, e poi, quasi sdegnoso, / mi domandò (vv. 41-42), l'altro dintorno mi guardò... / e poi che 'l sospecciar fu tutto spento, / piangendo disse (vv. 55, 57-58). Dopo l'acme drammatico, fulmineo il concludersi della parabola di Cavalcante: Di sùbito drizzato gridò...; supin ricadde e più non parve fora (vv. 67, 72), mentre Farinata: Poi ch'ebbe sospirando 'l capo mosso / ... disse (vv. 88-89), e dopo il lento declinare del suo ‛ arco ', indi s'ascose (v. 121). Una stessa, ferrea, omologa linea evolutiva per due ‛ tipi ' opposti, il magnanimo Farinata e il ‛ pusillanime ' Cavalcante: ambedue miscredenti, ambedue e. e perciò incapaci di intendere il senso del viaggio dantesco. Qui sta l'essenza del loro epicureismo (così bene intuito dal Gramsci, e poi illustrato dal Bozzetti): il loro orizzonte è chiuso dal concludersi dell'arco della vita, vissero nell'hic et nunc e perciò del presente sono ciechi, credettero nella sola ragione naturale e perciò quando le cose s'appressan o son, tutto è vano / nostro intelletto (vv.103-104). Il tempo di Farinata e Cavalcante è il tempo della contingenza, finito il quale tutta morta / fia nostra conoscenza (vv. 106-107), il tempo di D. è dell'eterno in cui è il senso più riposto del suo andare (v. 132). Non va dimenticato che il punto di ‛ ricaduta ' dei personaggi è determinato da D., dalle sue parole allusive e perentorie (" Le parole tue sien conte " l'aveva ammonito Virgilio: v. 39); Farinata cade con la caduta dei suoi disegni terreni (ma i vostri non appreser ben quell'arte, v. 51), Cavalcante crolla con la creduta scomparsa del figlio, culmine del suo affetto umano. Proprio nella risposta di D. a Cavalcante è l'acme del dramma; una frase, a ben guardare, in cui è tutto il paradigma del suo viaggio e per il rigetto del quale da parte di Guido è prefigurata la sua condanna e il motivo che ne è alla base. Non per l'altezza d'ingegno è il fatale andare di D., non per la sola ragione naturale che si preclude le vie della divina scientia e con essa la verità eterna. Ciò equivarrebbe a un andare ‛ da sé stesso ', in una pertinace presunzione delle sole forze della propria ragione. Ma l'ingegno, l'intelletto, la ragione di D. è colui ch'attende là, è Virgilio che nell'itinerario infernale sta conducendo D. a Beatrice, alla divina scientia, cioè verso colei che forse Guido vostro ebbe a disdegno (vv. 59-63). Frase pregnante e allusiva, volutamente ‛ chiusa ' sia per l'elevatezza del messaggio che contiene, sia per la consapevolezza che il suo senso è al di là della miscredenza. Ma di queste parole davvero conte, con cui culmina l'azione e in cui è riassunto il nucleo della vicenda dantesca (ragione e fede, caduta e risalita, Virgilio e Beatrice e di contro, il suo alter ego, Guido, che quella risalita disdegnò), Cavalcante coglie solo la dimensione contingente, il tempo e l'affetto terreno (ebbe). Se l'angosciato grido è perfettamente commisurato a questa dimensione (non fiere li occhi suoi lo dolce lume?, v. 69), in esso è adombrato il tema della vanitas vanitatum. " Dulce lumen " suona l'Ecclesiaste (11, 7 ss.) " et delectabile est oculis videre solem. Si annis multis vixerit homo, et in his omnibus laetatus fuerit, meminisse debet tenebrosi temporis, et dierum multorum, qui, cum venerint, vanitatis arguentur praeterita. Laetare ergo, iuvenis, in adolescentia tua; et in bono sit cor tuum in diebus iuventutis tuae; ambula in viis cordis tui et in intuitu oculorum tuorum, et scito quod pro omnibus his adducet te Deus in iudicium... adulescentia enim et voluptas vana sunt. Memento creatoris tui in diebus iuventutis tuae, antequam veniat tempus adflictionis, et appropinquent anni de quibus dicas: Non mihi placent; antequam tenebrescat sol, et lumen, et luna, et stellae... Vanitas vanitatum, dixit Ecclesiastes, et omnia vanitas ". Il lume che non colpisce più gli occhi di Guido è la luce destinata a chiudersi nella tenebra, quando di fronte al giudizio divino, " vanitatis arguentur praeterita ", " adulescentia... et voluptas vana sunt ". " Dixerat lucem mundi huius esse dulcissimam ", commenta Girolamo (Comm. in Eccl. 12), " et laetari debere hominem in diebus vitae suae, omnique studio carpere voluptatem... Rursum ne putaretur haec dicens, hominem ad luxuriam provocare, et in Epicuri dogma corruere, suspicionem hanc abstulit, inferens: Et scito, quoniam super omnibus his adducet te Deus in iudicium ". Un testo e un commento che paiono una glossa singolarmente aderente al passato di D. e di Guido: " Relinque antiqua vitia ", continua Girolamo, " quibus in adolescentia tua vanitati stultitiaeque servisti: quia iuventus insipientiae copulata est ".

E un richiamo proprio all'Ecclesiaste era in Cv IV VI 19 con l'invettiva ai re d'Italia: Guai a te, terra, lo cui re è fanciullo, e li cui principi la domane mangiano e ancora Beata la terra lo cui re è nobile e li cui principi [cibo] usano i[n] suo tempo, a bisogno e non a lussuria, a cui seguiva il monito a Federico, nemico di Dio e ora condannato con Farinata. Ma Farinata, più che non il re di Sicilia, assurge legittimamente al ‛ tipo ' del miscredente che fu fermo, come l'eretico rispetto alla fede, a sé e a sua parte, in una visione della politica tutta terrena, e il cui destino, il cui calare della ruota della fortuna è legato all'infrangersi dei disegni che escludono l'eterno.

Bibl. - Per una più ampia bibl. sull'argomento, cfr. Cavalcanti, Guido; Eresia; Farinata; in particolare dovranno esser tenuti presenti i seguenti studi: I. Del Lungo, Il canto X dell'Inferno, Letture di Orsammichele, Sansoni 1900; M. Scherillo, Il canto X dell'Inferno, in " Emporium " LIV (1921) 168-183; E. Rapisarda, La polemica di Lattanzio contro l'epicureismo, in " Miscellanea di Studi di Letteratura cristiana antica " I (1947) 5-20; A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Torino 1950, 34-45 (v. anche Lettere dal carcere, ibid 1947, 141-144); Ph. Delhaye, Le bien suprême d'après le " Policraticus ", in " Recherches de Théologie ancienne et médiévale " XX (1953) 203-221; E. Auerbach, Farinata e Cavalcante, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, trad. ital. Torino 1956, 181-211; C. Bozzetti, Storia interna del canto X dell'Inferno, in " Studia Ghisleriana " II (1957) 79-127; A. Pézard, Un D. epicurien ?, in Mélanges offerts à E. Gilson, Toronto-Parigi 1959, 499-536; G. Padoan, Il canto degli Epicurei, in " Convivium " XXVII (1959) 12-39; J.A. Mazzeo, D. and Epicurus: The Making of a Type, in Medieval Cultural Tradition in D's ‛ Comedy ', Ithaca 1960, 174-204; R. Montano-G. Padoan, Per l'interpretazione del canto degli Epicurei, in " Convivium " XXVIII (1960) 707-728; M. Sansone, Il canto X dell'Inferno, in Lect. Scaligera 307-361; A. Frugoni, Il canto X dell'Inferno, in Nuove Letture dantesche, Firenze 1966, 261-283; G. Petrocchi, Itinerari danteschi, Bari 1969, 276-294.

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