MATTEI, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 72 (2008)

MATTEI, Enrico

Marcello Colitti

MATTEI, Enrico. – Nacque ad Acqualagna, nelle Marche, il 29 apr. 1906, da Antonio, sottufficiale dei carabinieri, e da Angela Galvani, primo di cinque figli: gli altri erano Umberto, Maria, Italo ed Esterina (Rina). La famiglia si trasferì presto a Matelica, ma il M. passò parte della sua infanzia nel paese natale presso la nonna materna, Ester Marconi, maestra d’asilo. Finite le elementari, entrò in collegio a Vasto. Il carattere vivace e insofferente e le modeste condizioni economiche della famiglia lo spinsero però a cercare un’occupazione retribuita, entrando come verniciatore in una fabbrica di letti. Si trattava di un lavoro duro e poco remunerato, così, quando la più importante fabbrica di Matelica, la conceria Fiore, cercò un garzone, il M. si presentò e venne assunto.

Stabilì rapporti personali molto cordiali con alcuni operai, dai quali apprese le operazioni chimiche relativamente sofisticate della conceria, e salì rapidamente alla posizione di primo operaio, poi di aiutante chimico e di aiutante del direttore tecnico.

Nel 1926 il M. ottenne la qualifica di direttore tecnico, posizione di particolare rilievo per un ventenne; il salario più alto gli permise di aiutare i suoi parenti e consentì alla madre di aprire un negozio di stoffe. L’anno seguente dovette interrompere il lavoro per compiere il servizio militare nei granatieri di Sardegna ma, in quanto sostegno economico della famiglia, poté ridurre la ferma a meno di sei mesi. Al suo ritorno, visto che la conceria Fiore si trovava in difficoltà, il M. decise di lasciare Matelica e, ottenute dal datore di lavoro una liquidazione e lettere di presentazione, nel 1929 si trasferì a Milano.

Il M. vi arrivò disponendo di una preparazione specifica per l’epoca molto rilevante: come direttore tecnico della conceria aveva, infatti, acquisito familiarità con i processi chimici tradizionali della concia e con gli innovativi sviluppi che avevano caratterizzato quell’industria, in particolare quelli relativi allo sviluppo di composti chimici sulfonati, usati in medicina e in processi di chimica fine.

L’esperienza del trasferimento in una grande città incise profondamente sulla formazione del giovane M. e rimase fondamentale nel corso della sua esistenza; stimolato da un forte spirito di competizione ottenne presto un successo che gli conferì grande sicurezza in se stesso.

Il M. esordì come venditore per la ditta di colori a smalto e solventi per conceria Max Mayer; ottenne, quindi, la rappresentanza italiana della Löwenthal, un’impresa tedesca di prodotti e servizi innovativi per l’industria conciaria. Lungi dall’interrompere i rapporti con la sua famiglia, il trasferimento li aveva piuttosto consolidati: nel 1930, terminati gli studi all’istituto tecnico di Matelica, il fratello Umberto lo raggiunse a Milano e lo affiancò nel lavoro, aiutandolo nel comparto dell’amministrazione e nell’attività commerciale che si sviluppò in modo così soddisfacente da indurre il M. ad avviare un’impresa propria. Nell’estate del 1931 inaugurò una sua prima fabbrica con due operai, macchinario usato e l’apparecchiatura di un piccolo laboratorio per emulsioni; la risposta del mercato fu subito positiva, tanto che, nel 1932, il M. abbandonò il lavoro di rappresentante commerciale e, nel 1935, riuscì a far partire la sua Industria chimica lombarda grassi e saponi, con uno stabilimento in via Tartini, nella periferia industriale di Milano.

La ditta, di cui il fratello Umberto aveva assunto la direzione commerciale, occupava una ventina di operai e produceva e vendeva vernici e ausiliari per l’industria conciaria e composti sulfonati che ebbero immediato successo.

Poiché il rapido sviluppo dell’Industria chimica lombarda aveva posto in evidenza il problema dell’approvvigionamento delle materie prime necessarie – olio grezzo animale e vegetale –, il M. pensò di produrre in proprio i grassi animali attraverso la lavorazione diretta di pesce nel Mar Rosso in Eritrea.

A tale scopo presentò al ministero delle Corporazioni una richiesta di concessione per la pesca industriale in quella colonia, dove si recò nel maggio 1936. La conservazione del pesce e la sua lavorazione sul luogo presentarono però difficoltà impreviste e il progetto, che aveva provocato reazioni negative da parte dei concorrenti, venne abbandonato.

Il M., raggiunto nel frattempo a Milano anche dalle sorelle Rina e Maria, nel 1936 si era sposato con la viennese Greta Paulas e aveva acquistato un palazzetto nobiliare dove trasferì la famiglia; negli anni che seguirono tentò anche di impiantare una fattoria modello. Contestualmente al successo raggiunto come imprenditore, il primo periodo milanese, tra la fine degli anni Trenta e i primi Quaranta, fu per lui momento di approfondita maturazione intellettuale.

A Milano, il M. aveva riallacciato i rapporti con Marcello Boldrini, professore universitario di statistica metodologica e accademico pontificio, vicino di casa dei Mattei a Matelica negli anni fra il 1917 e il 1928, il quale, già all’epoca, si era occupato della formazione del M. sia seguendolo negli studi tecnici, sia indirizzandone gli interessi nel campo della cultura generale, dell’arte, della politica. Nel capoluogo lombardo il M. riprese la stretta consuetudine con Boldrini, che lo introdusse nell’ambiente del cattolicesimo progressista lombardo. Proprio alla Cattolica, nel 1942, il M. avrebbe partecipato, insieme con G. Dossetti, A. Fanfani, P. Saraceno, E. Falk e O. Giacchi, alle riunioni di studio organizzate da padre A. Gemelli per discutere dei problemi legati alla ricostruzione del Paese nel dopoguerra.

Le esperienze intellettuali, le vecchie e nuove frequentazioni di questi anni, contribuirono a formare le idee fondanti e le principali motivazioni della futura attività del M.: una forte coscienza sociale, rafforzata dalle esperienze di povertà familiare e di «emigrazione»; un pronunciato nazionalismo, dovuto in parte alla cultura dell’epoca e in parte alla positiva valutazione delle effettive possibilità di sviluppo dell’Italia; la ferma convinzione della necessità di un ruolo forte dello Stato a sostegno dell’economia, retaggio non solo della cultura economica fascista ma anche espressione di pulsioni anticapitaliste di matrice cattolica e socialista e dell’esigenza di trovare soluzione a quello che sembrava allora il problema irrisolto del capitalismo internazionale, drammaticamente messo in luce dalla crisi del 1929. A cementare questa variegata impostazione ideologica fu un deciso antifascismo; infatti era proprio nel sistema configurato dal regime fascista che il M. identificava quelli che considerava i peggiori «difetti» degli Italiani: l’approssimazione, la prevalenza dell’interesse personale sullo spirito civico, l’arroganza del potere, la chiusura verso l’esterno.

Espressione concreta delle posizioni elaborate dal M. fu il suo impegno nell’attività clandestina antifascista dopo l’8 sett. 1943.

Nel corso del 1943, per non collaborare allo sforzo bellico tedesco, l’Industria chimica lombarda del M. si era fermata quasi del tutto, pur simulando la prosecuzione del lavoro per evitare la deportazione degli operai. Inoltre, già dal maggio di quell’anno, forse grazie a una presentazione di Boldrini, egli era entrato in contatto con G. Spataro, esponente della Democrazia cristiana (DC), il quale lo aveva introdotto nelle strutture milanesi del nuovo partito. Dopo l’8 settembre, in un primo tentativo di passare all’azione diretta, il M. cercò di organizzare, a Matelica, gruppi di sbandati e, a tale scopo, raccolse armi che vennero nascoste a casa sua, sfuggendo con difficoltà alle perquisizioni; in questa occasione assunse il nome di battaglia di Marconi.

Rientrato a Milano, divenne membro del Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia (CNLAI) e, a fine marzo 1944, su proposta di Giacchi, entrò a far parte del comando militare centrale del CLN come esponente della DC, svolgendovi soprattutto attività organizzativa e finanziaria.

Quale membro del comando militare centrale, il M. assunse il nome di battaglia di Este per le funzioni strettamente politiche, e di Monti per quelle militari. Secondo un documento del comando generale partigiano del 1944, gli incarichi del M. riguardavano soprattutto la raccolta, e l’inoltro alle formazioni militari, di quanto necessario in armi, viveri, denaro, documenti. Il 26 ott. 1944, a Milano, la polizia irruppe nell’ufficio dove si riunivano i rappresentanti democristiani e il M. venne arrestato con molti altri. Detenuto a Como per circa 40 giorni, riuscì poi a fuggire, dopo aver causato un’interruzione d’energia elettrica nel carcere, e riparò in Svizzera. Di nuovo a Milano, il 3 nov. 1944, nel quadro della riorganizzazione del comando generale, il M. divenne vicecapo di stato maggiore addetto all’intendenza: di fatto egli rivestì una posizione di alto profilo non tanto sul piano militare quanto su quello organizzativo, dove poteva far uso delle capacità e dei rapporti maturati come imprenditore. Il contesto era quello delle formazioni di partigiani cristiani, in cui venivano raccolti anche raggruppamenti non politicamente definiti, come la brigata Giovanni Di Dio, di cui era responsabile E. Cefis. Il 5 maggio 1945 sfilò a Milano accanto agli altri capi partigiani: F. Parri, L. Longo, R. Cadorna, G.B. Stucchi, M. Argenton.

L’esperienza partigiana fu per il M. di enorme importanza: non solo ebbe il primo effetto di cementare quei rapporti con l’ambiente cattolico lombardo e, più in generale, italiano che costituirono la base della sua futura posizione politica e lo mise in contatto con molte delle persone che lo avrebbero affiancato nelle sue imprese industriali; ma fornì anche una legittimazione morale alla sua attività di imprenditore pubblico, pronto a mettersi in gioco, senza timore dei rischi personali, per seguire la strada che riteneva più utile al Paese.

Il M. entrò a far parte del consiglio nazionale della DC già dalla prima riunione del 31 luglio 1945 come rappresentante dei partigiani democristiani e, nell’autunno di quell’anno, divenne membro della consulta nazionale in rappresentanza dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia (ANPI); al I congresso nazionale della DC (Roma, 24-28 apr. 1946), che egli aveva aperto con una relazione sull’Apporto delle forze partigiane democristiane alla guerra di Liberazione (in Dai congressi DC dell’Italia liberata (1943-1944) alla prima assise nazionale (1946), a cura di C. Dané, Roma 1986, pp. 122-133), il M., consapevole dei suoi limiti come politico, non cercò la rielezione a consigliere; ma, intanto, già il 28 apr. 1945, su suggerimento di M. Ferrari Aggradi, era stato nominato da C. Merzagora, presidente della commissione centrale economica del CLNAI, commissario straordinario dell’Azienda generale italiana petroli (AGIP).

L’AGIP era stata costituita nel 1926, ultimo di una serie di tentativi dello Stato italiano di sviluppare una propria attività petrolifera; la dirigenza inizialmente era stata reclutata nell’impresa privata, ma l’azienda divenne subito parte integrante del sistema di governo dell’epoca, con una fisionomia marcatamente fascista. Aveva, comunque, sviluppato un’intensa attività, affinando i propri mezzi di esplorazione e accordandosi, alla fine degli anni Trenta, con un’impresa statunitense, la Western Geophysical, per realizzare campagne di ricerca sismica – una tecnologia allora del tutto nuova – nella Valle Padana che evidenziarono formazioni geologiche interpretate come strutture potenzialmente petrolifere, da perforare. All’epoca, in Italia esisteva una modesta produzione di metano proveniente da alcuni piccoli giacimenti nella pianura Padana e dalla produzione di acqua mista a gas nel delta del Po; il gas era commercializzato in bombole di acciaio di proprietà dell’Ente nazionale metano. Negli ultimi anni di guerra l’AGIP si era divisa in due, lasciando a Roma un ufficio stralcio e trasferendo la sede della società a Milano. Si attivò, così, nei dintorni di Lodi un gruppo di geologi, mentre le perforazioni realizzate sulle ubicazioni indicate dalla compagnia americana confermarono l’effettiva presenza di idrocarburi; la scoperta rimase segreta, anche se è possibile che fosse in qualche misura circolata negli ambienti militari alleati.

Non è dato sapere se coloro che nominarono il M. avessero contezza delle reali potenzialità dell’AGIP, mentre è probabile che il M. ben poco ne sapesse; comunque la sua nomina a commissario presenta alcuni aspetti di singolarità in quanto la sua posizione politica avrebbe giustificato l’assegnazione di un ruolo ben più rilevante e inoltre, benché imprenditore di successo, egli non aveva alcuna esperienza in campo petrolifero.

Non è facile ricostruire il reale svolgimento dell’incontro che avvenne tra il M. e C. Zanmatti, direttore centrale delle operazioni minerarie dell’AGIP e commissario straordinario dell’azienda dal 6 dic. 1943; quasi certamente Zanmatti gli comunicò i risultati, complessi e sostanzialmente incerti, della perforazione del pozzo n. 1 di Caviaga, riferendoglieli nella versione più ottimista, così come li aveva ricevuti dai geologi del servizio studi AGIP di Lodi, secondo i quali si poteva supporre la presenza di un giacimento piuttosto rilevante, tale da giustificare stime molto elevate delle possibilità produttive. Tale parere venne confermato personalmente al M. da un documento del luglio 1945, del servizio studi di Lodi, che sosteneva anche che Caviaga non era un caso isolato, per cui era urgente riprendere l’esplorazione e la richiesta dei permessi di ricerca mineraria.

Sulla base delle informazioni ricevute il M., per evitare che la ventilata liquidazione dell’AGIP (il 15 maggio 1945, il ministro del Tesoro M. Soleri aveva scritto a G. Gronchi, ministro dell’Industria, chiedendo la sospensione di ogni iniziativa da parte dell’azienda) impedisse di sviluppare i giacimenti e per far sì che quelle potenzialità produttive rimanessero in mani italiane, ritenne di dover entrare subito in azione. Andando al di là dell’effettiva portata dei suoi poteri (dal momento che era già stato nominato un nuovo consiglio di amministrazione dell’AGIP), dette ordine di riprendere le perforazioni, in particolare sui due pozzi Caviaga 2 e 3. Si aprì a questo punto un lungo periodo di difficoltà, di incertezze e di scontri tra il vertice ufficiale dell’AGIP da una parte e, dall’altra, il M. e il gruppo dei geologi di Lodi che tentavano di proseguire autonomamente l’attività. Questa situazione di incertezza andò avanti finché, nell’ottobre 1945, il M., cooptato nel consiglio d’amministrazione, si dimise da commissario e venne nominato vicepresidente con lo specifico incarico dell’esplorazione mineraria.

La situazione dell’AGIP restava, comunque, assai difficile in quanto, alla fine della guerra, gli Alleati avevano creato una struttura parallela, il Comitato italiano petroli, al quale era stata affidata di fatto la gestione del mercato petrolifero italiano. Inoltre, inizialmente i vertici della società dettero scarsa attenzione all’attività mineraria e solo gradualmente si convinsero dell’opportunità di rilanciare la ricerca; per eliminare il M. cercarono anche di coinvolgere nella ripresa delle attività imprese private italiane e straniere.

Il 9 maggio 1946 il M. si dimise da vicepresidente rimanendo semplice consigliere, ma non cessò di premere sui politici, su F. Parri in particolare e su tutti gli uomini della DC, perché l’AGIP non venisse né sciolta né privatizzata, ma piuttosto rifinanziata per riprendere il suo ruolo di impresa petrolifera italiana.

Contemporaneamente il progressivo deteriorarsi dei rapporti fra cattolici e comunisti si rifletteva all’interno dell’ANPI, di cui il M. era vicepresidente, con la creazione, il 2 marzo 1947, dell’Associazione dei partigiani cristiani, e poi, in modo conclusivo, nello scontro aperto, nel febbraio 1948, al I congresso della Resistenza al quale il M. fu presente senza prendere la parola e senza partecipare, insieme con il suo gruppo, alla sfilata finale. All’interno della ANPC dette poi vita alla Federazione Italiana Volontari della Libertà, di cui successivamente divenne presidente. Eletto deputato per la DC nel collegio di Milano e Pavia il 18 apr. 1948, il 20 giugno successivo il M., con una improvvisa risoluzione della crisi dell’AGIP, fu nominato dall’assemblea straordinaria vicepresidente, con M. Boldrini come presidente.

L’evoluzione della politica internazionale, con il definirsi della guerra fredda, e, conseguentemente, di quella nazionale, con la rottura fra democristiani e comunisti e l’allontanamento del Partito comunista italiano (PCI) dal governo, avevano di fatto favorito l’elezione ai vertici dell’AGIP del M., esponente di quella DC che aveva attivamente partecipato alla Resistenza e che intendeva ora consolidare a tutti i livelli, anche nella gestione della finanza e della industria nazionali, il proprio potere politico. Il M., inoltre, sostenuto soprattutto dal ministro delle Finanze E. Vanoni, era fautore di un modello di impresa pubblica dotata di una propria autonoma funzionalità e di valore propulsivo nell’ambito dei settori strategici più significativi, e non impiegata a esclusivo sostegno dell’iniziativa privata.

La nomina del nuovo vertice AGIP non mise fine né alla battaglia sull’utilizzo degli idrocarburi padani che, portata a livello politico, si fece ancora più aperta e visibile; né cancellò l’ipotesi della privatizzazione, o comunque di una larga partecipazione dei privati, i quali, appoggiati da alcune delle vecchie aziende autarchiche, come l’Ente nazionale metano, e dall’amministrazione pubblica, condussero un’azione molto decisa, temendo che un’AGIP ricostituita e rafforzata potesse impedire loro di operare con profitto nel settore. Il nuovo vertice si trovò dunque a dover fronteggiare problemi sia operativi sia politici, ambedue con carattere di estrema urgenza.

Per soddisfare il disperato bisogno di combustibili dell’economia italiana, l’AGIP intendeva sviluppare la produzione di un gas naturale, il metano, largamente utilizzato all’epoca negli Stati Uniti ma sostanzialmente assente in Europa, dove il gas per la distribuzione cittadina era prodotto da carbone o in qualche caso da olio combustibile. Inoltre, dato che il metano non poteva essere messo in bombola in grandi quantità, si dovevano costruire condotte per portarlo sul mercato, alle città e alle industrie. L’AGIP si trovò così a dover realizzare, a ritmi frenetici, la perforazione di nuovi pozzi e la costruzione di metanodotti, obiettivi che incontrarono grandi ostacoli sia dal punto di vista tecnico sia da quello giuridico, per superare i quali l’azienda si dimostrò capace di sforzi straordinari e di soluzioni tecniche innovative.

Il M. si impegnò personalmente in tutti i settori dell’attività aziendale, ottenendo grande consenso tra i suoi manager operativi, mentre Boldrini cercò di affrontare l’aspetto politico, a sua volta estremamente complesso.

Fino a quel momento, l’AGIP aveva svolto la ricerca mineraria per conto dello Stato – proprietario di tutto quanto fosse implicato nella ricerca stessa: sonde, permessi, giacimenti – dietro pagamento dei costi sostenuti. Una volta chiuso il Comitato italiano petroli voluto dagli Alleati, l’AGIP era rimasta, quindi, quale azienda di raffinazione e distribuzione petrolifera che nel contempo sviluppava anche un’attività mineraria per conto dello Stato.

Per risolvere i complessi problemi di «coabitazione» gestionale collegati alla duplice proprietà e alle differenti funzioni evitando di dividere l’azienda in due tronconi, il M. pensò di avocare all’AGIP anche le attività di ricerca oltre a quelle di produzione e distribuzione del gas, utilizzandone la struttura manageriale e tecnica. Il M. e Boldrini prepararono quindi una serie di valutazioni per ottenere l’avallo politico a questa linea.

In buona sostanza queste argomentavano: che l’AGIP aveva diritto di utilizzare a proprio vantaggio i risultati di una ricerca che l’azienda stessa aveva attuato, essendo la sola a possedere la cultura industriale necessaria per mettere in luce in breve tempo il gas della Valpadana e portarlo al mercato; che un’amministrazione pubblica, disponibile a collusioni di vario tipo e nota per la sua inefficienza, non era in grado di guidare adeguatamente un’impresa dinamica che rappresentava un’opportunità capitale per l’economia del Paese e doveva essere gestita nell’interesse di tutti. Una versione più articolata e completa sul piano tecnico-economico di queste tesi, elaborata da Boldrini e da Vanoni, venne poi utilizzata da quest’ultimo, nel 1953, per sostenere in Parlamento la creazione dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI), e fu pubblicata in quell’anno da Boldrini nel suo Problemi economici del metano in Italia (Milano).

Di fatto le argomentazioni presentate dal M., che godeva di un fortissimo credito politico, e da Vanoni, convinsero A. De Gasperi e portarono alle visite del ministro, nel giugno 1949, e dello stesso presidente del Consiglio, nell’aprile 1950, al giacimento appena scoperto dall’AGIP a Cortemaggiore.

Nel corso della sua visita De Gasperi annunciò la presentazione di una legge in Parlamento che avrebbe garantito nel modo più ampio il progetto del M. concernente un’industria di Stato che gestisse autonomamente le risorse petrolifere e di gas naturale necessarie al Paese. Dopo lunghe trattative si arrivò al disegno di legge, presentato il 13 luglio 1951 durante il sesto governo De Gasperi, dal ministro dell’Agricoltura A. Segni invece che dal ministro per l’Industria P. Togni.

L’iter parlamentare durò anni e si concluse soltanto nel 1953 nella direzione e secondo le modalità auspicate dal M.: non solo le ricerche minerarie in Valpadana e la gestione del metano rimasero all’AGIP, ma contestualmente venne creato l’ENI, ente pubblico economico, ma autonomo rispetto all’amministrazione pubblica, cui era demandato il compito di gestire tutte le attività petrolifere e petrolchimiche dello Stato e cui veniva garantito l’autofinanziamento attraverso la rendita metanifera.

La discussione parlamentare che portò alla legge non si articolò nel tradizionale scontro fra Destra e Sinistra ma piuttosto trasversalmente, anche all’interno della DC. L’appoggio che venne al progetto dalla Sinistra fu dato, con tutta probabilità, contro il desiderio di P. Togliatti, leader del PCI. Di fatto il M. non ebbe mai l’appoggio totale di alcun partito, ma fu sempre in grado di muovere gruppi importanti all’interno di ognuno di essi a sostegno dei suoi progetti.

La creazione dell’ENI dette al M. la possibilità di esercitare appieno le sue capacità professionali; la sua natura imprenditoriale era quella del capo di un’impresa pubblica ed egli considerò sempre il suo lavoro come una missione, fino a rifiutare per parecchi anni lo stipendio, che devolveva a un collegio femminile del suo paese natale. Fu una vittoria in certo senso definitiva, poiché gli fornì tutti gli strumenti per realizzare il progetto che aveva in mente, investendolo di un ruolo di altissimo livello e di estrema visibilità, che egli utilizzò per rivolgersi direttamente all’opinione pubblica.

Esporre i problemi e le linee portanti della gestione aziendale direttamente all’opinione pubblica fu il modus operandi scelto specificatamente dal M., in contrasto con il tradizionale riserbo proprio al mondo dell’industria e della finanza italiane. Egli teneva abituali e frequenti incontri con la stampa nazionale e internazionale attraverso i quali faceva passare dati e notizie relativi alla politica energetica italiana e alle necessità di sviluppo dell’ENI, e che lo resero noto al grande pubblico.

Le campagne di stampa del nuovo quotidiano Il Giorno, fondato nell’aprile 1956, diretto da G. Baldacci e di fatto controllato dal M. – che riuscì a ottenergli i necessari finanziamenti – furono uno dei mezzi da lui scelti per facilitare l’ingresso dell’Italia sul mercato petrolifero mondiale, passaggio obbligato per arrivare a disporre del petrolio di cui abbisognava l’economia italiana. Per raggiungere questo scopo il M. stabilì collegamenti e rapporti direttamente con i paesi produttori che uscivano dall’esperienza coloniale; si impegnò, quindi, a favorire una linea di politica estera terzomondista, condivisa da una parte della DC, denunciando in particolare le posizioni di privilegio delle grandi compagnie petrolifere. Sul piano più specificamente aziendale questa impostazione politica si concretò in rapporti di collaborazione soprattutto con i paesi dell’Africa settentrionale, attraverso l’offerta di impianti a misura dei loro mercati: raffinerie e reti di distribuzione della benzina.

Sul piano della politica interna, il M., interessato alle strutture di controllo dello Stato sulle imprese, anche per indirizzarle allo sviluppo delle zone arretrate del Paese, fu uno dei principali ispiratori della creazione, nel 1957, del ministero delle Partecipazioni statali.

Nella gestione dell’ENI, il M. adottò fin dall’inizio il modello di crescita delle grandi compagnie internazionali: integrazione produttiva dal greggio fino alla distribuzione petrolifera e alla petrolchimica, globalizzazione dell’azienda, disponibilità a grandi investimenti ad alto rischio.

L’ENI disponeva «a monte» di quantità non elevate di petrolio greggio, e perciò l’integrazione assunse per il M. un valore quasi assoluto che giustificava ai suoi occhi i molti investimenti diversificati alcuni dei quali dettero risultati soddisfacenti (come nel caso del Pignone, l’azienda metalmeccanica fiorentina salvata dal fallimento negli anni Cinquanta, la quale cominciò a produrre impianti di perforazione e poi compressori) altri invece assai meno (come gli interventi, attuati nel campo dell’industria tessile). Solo nell’ultimo periodo della sua attività il M. cominciò a dubitare dell’opportunità di spingere i processi di integrazione oltre certi limiti.

Per quanto concerne il processo di internazionalizzazione dell’ENI, il M. venne fatalmente a trovarsi in rotta di collisione con le grandi compagnie petrolifere internazionali – che aveva denominato «le sette sorelle» – sia perché le majors, pronte a riconoscere e ad accettare l’attività dell’ENI in Italia, erano ovviamente infastidite dalla sua presenza oltre i confini nazionali come concorrente; sia perché esse non condividevano le posizioni anticolonialiste e terzomondiste del Mattei. Lo scoppio del vero e proprio scontro con le «sette sorelle» venne attribuito da alcuni alla delusione del M. per non essere stato chiamato a far parte del consorzio internazionale che si costituì dopo la fallita nazionalizzazione iraniana tentata nel 1953 dal primo ministro Mohammad Mossadeq a scapito della Anglo-Iranian oil Company; ma ciò era di fatto inevitabile per ragioni oggettive (la volontà dell’ENI di espandersi sul mercato internazionale) e soggettive (la personale intolleranza del M. per il loro comportamento arrogante).

Il M. sapeva che l’Italia aveva accumulato, sotto il fascismo e con la guerra, un tale ritardo da rendere inevitabile e necessario un grande sforzo di innovazione tecnologica, commerciale, produttiva e politica; a questo sforzo egli indirizzò le sue grandi doti di imprenditore strategico, capace cioè di coordinare a questo fine, tutte le potenzialità di un’azienda che volle flessibile, rapida nell’agire e fortemente innovativa.

Primo fra tutti in Italia, il M. organizzò la sua impresa con l’aiuto di esperti americani, che impostarono una struttura di «linea e staff», funzionale a un ente pubblico che doveva essere in grado di controllare imprese di diritto privato, cioè delle società per azioni: il concetto di linea, rappresentato dalle società operative, e quello di staff, cioè l’ente pubblico che le controlla e dà loro servizi, coincidevano del resto con la formula italiana delle holding finanziarie e anche con l’esperienza dell’altro grande gruppo pubblico, l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI). Nello specifico l’ENI accorpò nella persona del suo presidente la presidenza di tutte le principali società operative, creando un centro motore strategico con il massimo dei poteri, oltre che un sistema decisionale molto flessibile. Alla cultura americana il M. fece ricorso anche per strutturare il sistema di formazione manageriale dell’ENI che avrebbe portato, dopo la sua morte, all’adozione della job evaluation, uno specifico sistema di gestione del personale che sostituì quello tradizionale italiano.

Una delle mosse fondamentali nella strategia operativa di potenziamento e modernizzazione dell’AGIP fu la creazione di una grande rete di metanodotti (controllati dalla SNAM) che collegava tutta la Valpadana. La rete, inizialmente costruita in gran fretta, spesso facendo a meno dei necessari permessi e concessioni, si incentrava sul punto nodale di San Donato Milanese (che divenne la base manageriale dell’azienda) e, al momento della morte del M., era già pronta per espandersi a livello nazionale collegandosi con tutti i centri di produzione petrolifera europei, asiatici e nordafricani. Essa dette vita a un indotto di industrie, al potenziamento di industrie tradizionali (come quella alimentare o quella dei materiali da costruzione), che sfruttavano le molteplici potenzialità di impiego e utilizzazione del metano, e fu elemento trainante per lo sviluppo del Paese.

Il M. seppe anche utilizzare a vantaggio della sua azienda un altro elemento fondante della modernizzazione in Italia: la diffusione a livello nazionale dell’automobile privata e la creazione di una rete stradale e di servizi per la mobilità; le nuove strade richiedevano impianti di distribuzione di carburanti moderni, ben disegnati e accoglienti, che offrissero all’automobilista una serie di nuovi servizi. L’AGIP li realizzò in tempi brevi, supportandoli con campagne pubblicitarie di successo, e tornando così, in pochi anni, a coprire una quota di mercato del 30%, circa la stessa che aveva prima della guerra ma nell’ambito di un mercato ben più ristretto.

Sensibile alla problematica della scarsità di materie prime, considerata dalla cultura industriale dell’epoca una delle ragioni principali dell’arretratezza economica italiana, il M. si lanciò nella petrolchimica al fine di ridurre o addirittura cancellare questo handicap. Il primo impianto petrolchimico costruito dall’ENI, entrato in funzione a metà degli anni Cinquanta, fu un impianto per la produzione di gomma sintetica e fertilizzanti per l'agricoltura. Sul piano più direttamente pertinente, il petrolio stava conquistando grandi quote di mercato anche in Europa. Il greggio era monopolizzato da poche grandissime imprese (e sostanzialmente ancorato alla produzione interna americana, a quella delle colonie anglo-olandesi e d’un crescente Medio Oriente) e le grandi compagnie non vendevano greggio, ma soltanto prodotti già raffinati e quindi non permettevano che altri sviluppassero una propria industria petrolifera. Il M. mise in opera una strategia varia e complessa per forzare in qualche modo il monopolio e inserire l’Italia nel gioco.

In primo luogo evidenziò come l’Italia, unico Paese europeo che non produceva carbone, stesse diventando un forte consumatore di petrolio; l’AGIP occupava, dunque, una quota di mercato crescente, interessante per qualsiasi impresa del ramo dotata di un surplus di greggio. Se non poteva diventare a breve un grande produttore, poteva tuttavia rivestire un ruolo significativo come «grande compratore».

La raffineria di Venezia, posseduta per metà con la British Petroleum (BP), fu per molti anni – oltre che un mezzo della BP per collocare sul mercato continentale il suo greggio sovrabbondante – una fonte di approvvigionamento per l’AGIP e suo strumento di sviluppo. D’altro canto l’espansione della rete di distribuzione dell’azienda in Europa e il progetto di rifornire la Svizzera e la Baviera con un oleodotto che partiva da Genova, provocarono la decisa opposizione delle grandi multinazionali, già irritate dalla strategia di penetrazione dell’AGIP in Africa.

La politica del «grande compratore» segnò un autentico successo quando il M. giocò la carta, politicamente difficilissima, di portare sul mercato mondiale il greggio russo, fino a quel momento escluso per ragioni politiche: l’ingresso del petrolio russo creò ex novo il mercato del greggio e diede ai paesi consumatori la possibilità di definire i loro costi di approvvigionamento e di negoziarli con il venditore.

L’ENI stipulò con il governo dell’Unione Sovietica un contratto pluriennale di fornitura di greggio per quantità rilevanti e con grossi sconti; l’accordo fu, quindi, molto vantaggioso per l’Italia, anche, e soprattutto, perché le offriva la possibilità di sviluppare un sistema petrolifero indipendente. Immediatamente gli ambienti petroliferi degli Stati Uniti denunciarono il contratto come causa di indebolimento politico dell’Occidente nell’ambito della guerra fredda, ma tale accusa venne in parte vanificata dalla proposta italiana di limitare l’impegno con i sovietici se avesse ottenuto da altra fonte lo stesso tipo di sconto. Il governo americano si convinse della necessità di soddisfare le richieste italiane di greggio, per evitare che l’Italia finisse per dipendere totalmente dai Russi. Dopo un complesso negoziato con il governo statunitense e con la ESSO si arrivò alla definizione di un contratto di acquisto di greggio americano, siglato dall’ENI soltanto dopo la morte del Mattei.

La politica del «grande compratore» non bastava tuttavia a garantire uno sviluppo sufficiente all’AGIP, che il M. cercò di raggiungere attraverso il potenziamento della ricerca petrolifera e il contatto diretto con i paesi produttori cui vennero offerte condizioni migliori di quelle che venivano dalle grandi imprese internazionali; concluse, quindi, accordi importanti con l’Egitto e l’Iran (1958-59), e avviò una seria di attività minerarie che posero le basi per la crescita dell’ENI come impresa produttrice di greggio. Nel 1960 la creazione dell’Organization of petrol exporting countries (OPEC) da parte dei grandi paesi produttori ed esportatori per ottenere un miglioramento dei loro profitti, dette al M. un più ampio spazio di trattativa diretta.

La proposta portata avanti al momento dal M. presentava uno schema (mantenere ai paesi produttori le loro abituali royalties sui profitti del 50% ma contemporaneamente sviluppare un’attività paritetica di ricerca e di produzione mineraria così che di fatto, oltre a una maggiorazione dei profitti a vantaggio dei produttori, si consentiva la creazione di compagnie miste cui compartecipavano l’impresa internazionale e la compagnia petrolifera di Stato del paese produttore) che sarebbe divenuto poi dominante ma che al momento si rivelò in largo anticipo sui tempi.

Prima fra le imprese petrolifere, l’ENI entrò già negli anni Cinquanta nel campo dell’energia nucleare, vista come la fonte destinata a dominare il mercato, quando le risorse petrolifere cominciassero a scarseggiare. La centrale di Latina, a tecnologia «sicura» inglese, venne costruita in un momento caratterizzato da una forte instabilità, in cui si realizzava l’intesa politica – per cui il M. lavorava da tempo – tra la DC e il Partito socialista italiano (PSI). Il M. carezzò per un certo periodo l’idea che l’ENI potesse essere preposto alla graduale riorganizzazione dell’industria elettrica, progetto che nei fatti non si realizzò anche perché la posizione di potere raggiunta dal M. cominciava a preoccupare l’ambiente politico italiano.

Il M. morì il 27 ott. 1962 in un incidente aereo. Il jet, proveniente da Catania, su cui viaggiava insieme con il suo pilota e il giornalista W. Mc Hale si schiantò in fase d’atterraggio a Linate, presso Bascapè. La magistratura chiuse il caso dichiarando che si era trattato di un incidente, probabilmente dovuto alle cattive condizioni meteorologiche. L’inchiesta riaperta nel 1995 e chiusa nel 2003 ribaltò la precedente sentenza, sostenendo la validità dell’ipotesi di un sabotaggio. Non fu tuttavia possibile risalire ai mandanti.

Al momento della sua morte il M. pensava di essere riconfermato presidente dell’ENI nel 1963 e di avere il tempo di preparare la propria successione, avendo ripetutamente affermato che nel 1966 si sarebbe ritirato; riteneva forse di dover preparare il passaggio senza scosse da una gestione d’impresa fortemente personalizzata a un’impresa gestita dai manager, meno avventurosa e più attenta alla continuità. D’altro canto nell’ultimo periodo della sua vita si erano verificate varie polemiche a livello politico, ed erano state fatte critiche di rilievo anche all’interno dell’ENI sulla sua gestione: alcuni fra i più stretti collaboratori si dimostravano preoccupati dell’eccessivo indebitamento dell’ENI con le banche, e dell’elevato livello di rischio che ciò comportava, e ritenevano (Cefis in particolare che perciò si era allontanato dall’ENI) che si dovesse rallentare il processo di sviluppo. Tutte queste divergenze avevano ovviamente un risvolto politico: il M. aveva difficoltà di colloquio con la DC, una volta scomparsi i suoi primi referenti, De Gasperi e Vanoni, né l’impostazione generale data dal governo di Centrosinistra, di cui era stato uno degli artefici, rispondeva del tutto alle sue attese. D’altro canto egli era convinto che la situazione finanziaria si sarebbe normalizzata non appena fossero entrati in produzione gli investimenti in corso e, sul piano politico, sentiva di avere ancora un ruolo di grande importanza da giocare.

Scritti: Il problema politico degli idrocarburi italiani, Roma 1950; Il metano in Italia, in Utilizzazioni del metano. Atti del Convegno… 1951, Verona 1951; E. M., scritti e discorsi 1953-1962, a cura di A. Trecciola, Matelica 1992.

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