DE NICOLA, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 38 (1990)

DE NICOLA, Enrico

Piero Craveri

Nacque a Napoli il 9 nov. 1877 da Angelo e da Concetta Capranica. Compì giovanissimo i suoi studi al liceo "A. Genovesi" e si laureò alla facoltà di giurisprudenza dell'università di Napoli, dove fu allievo di E. Pessina. Prese a frequentare le aule di Castel Capuano ancora diciottenne, prima come cronista della rubrica giudiziaria del Don Marzio, poi come procuratore legale.

Del vecchio quotidiano crispino, diretto da G. Turco, già nel 1897 diveniva redattore capo. Numerosi gli articoli firmati su fatti di costume, problemi giudiziari e legislativi, dove il D. esprimeva un istintivo conservatorismo, che lo vide difendere nel caso dell'adulterio, le attenuanti dell'uxoricida (2 genn. 1897); condannare il duello, in occasione dell'uccisione di Cavallotti, ma dichiararsi contrario alla sua definizione come omicidio volontario (17-18 marzo 1898; 26-27 marzo 1898; 26-27 ott. 1898); indulgere sui profili psicologici dei crimini (22 luglio 1897); distinguere prudentemente, in una polemica indiretta sul caso Dreyfus, tra "movimento zoliano" e "movimento dreyfusiano" (18-19 genn. 1898). Ma nel contempo egli dava testimonianza di un saldo garantismo legale, come nell'esame del caso giudiziario dell'anarchico Frezzi, in materia di comportamenti della polizia giudiziaria (16-17 maggio 1897), o in materia di perizia giudiziaria (15-16 e 25 giugno 1897) o di pubblicità dell'istruttoria (2-3 luglio 1897). Tale garantismo legale ispirava anche i suoi commenti di argomento più politico, come nel caso delle pressioni governative sul magistrato nell'istruttoria del caso Crispi-Favilla (3-4 febbr. 1898) e di altre polemiche sulla magistratura (6-7 sett. 1897): il più interessante tra questi suoi articoli è quello contro i provvedimenti limitativi della libertà di stampa approvati dal governo Pelloux (15-16 febbr. 1899), in contrasto con la linea del Don Marzio, articolo con cui si chiude questa sua esperienza giornalistica.

Ma fu soprattutto nell'attività forense che il D. costruì precocemente quella sua immagine, così "eccezionalmente organica e coerente di una parte importante della società e della cultura napoletana" (Galasso, 1986, p. 191). Una dedica al D. di Giovanni Bovio asserisce che "il suo impegno non tollera l'attesa del noviziato". Presto fu infatti riconosciuto fra i maggiori penalisti del foro napoletano. Le cronache segnalano sopra agli altri una "triade" di cui faceva parte assieme agli avvocati G. Marciano e G. Porzio. E ciò in un momento, quello a cavallo del secolo, in cui andava mutando la nomenclatura logica dell'allegazione forense (Leone, p. 118), effetto di una più consolidata dottrina e giurisprudenza, a qualche decennio di distanza dai nuovi codici unitari, e della diffusione parallela delle nuove tesi della scuola positiva, che mutavano i tradizionali approcci retorico-umanistici intorno alla psicologia del reo e la natura dei moventi. Il che influiva anche sulle forme di eloquenza, di cui quella del D. viene portata ad esempio per il carattere scarno, essenziale, privo di metafore, che nulla concedeva se non all'analisi logica dell'oggetto del giudizio.

È materia questa, non ancora studiata, di cui abbiamo soltanto una memorialistica celebrativa, quasi del tutto priva di profili critici, e una grande messe di allegazioni a stampa, com'era costume del tempo, che richiederebbero un'indagine sistematica. Tra queste, sono pochissime quelle del D., solo nei primi anni (si veda, ad esempio, Pel signor Antonio Ricci, imputato di lesione, con un pugno, seguita da morte, Napoli 1901 e Per i signori avv. F. Adinolfi e S. Tajani, imputati dei reati previsti dagli art. 275 e 176 del Codice Penale, ibid. 1901), mentre molte se ne conservano manoscritte nel suo archivio, insieme con un altro ampio ed interessante materiale di appunti sulla dottrina e giurisprudenza e di repertori di citazioni.

Il D. "dové molto alle aule dei tribunali e al suo studio di avvocato" (Galasso, 1986, p. 191). Il prestigio dell'attività forense nella società meridionale di quest'epoca è un segno caratteristico del suo malessere nei riguardi dello Stato unitario. Attraverso di essa si rendeva possibile infatti la sublimazione di un rapporto, che altri aspetti della vita civile non consentivano, per la prevalente staticità delle attività socioeconomiche e per la mancanza di garanzie che offriva l'azione amministrativa, segnata da un esercizio prevalentemente arbitrario dei poteri e delle deleghe, tra corruttele e clientela. La sfera giudiziaria poteva così apparire come quella in cui i principi di statualità si uniformavano a quelli dell'imparzialità, se non della giustizia, grazie anche a un codice professionale della classe forense, volto ad esaltare questa sua funzione. Il "principe del foro" svolgeva dunque una funzione sociale di tipo arbitrale, non sempre priva di qualche ambiguità, tra la materia contraddittoria dei fatti e dei rapporti, umani e sociali, che dovevano divenire oggetto di definizione penale e civile, e la forma della legge, a cui doveva conferire la sostanza di una interpretazione (su questi aspetti è indicativo un tardo articolo del D., sul Corriere d'informazione, 2 marzo 1959). Il D. è un interprete emblematico di questa vocazione, cosicché il "temperamento di arbitro" (De Marsico, 1960, p. 189) divenne quasi un tratto profondo della sua psicologia e della stessa sua figura pubblica, che in più contingenze politiche è sembrato invece il riflesso di un'interiore fragilità ed eccessiva personalizzazione delle circostanze.

In una società in cui, dunque, il passo dall'avvocatura alla politica era assai frequente, il D. fu presto spinto a partecipare alla vita pubblica. Nel marzo del 1907 era primo degli eletti della lista clericomoderata, guidata dal sindaco uscente F. Del Carretto, che conseguiva la maggioranza nel rinnovo dell'amministrazione comunale di Napoli, di contro al fascio liberale di P. Del Pezzo.

Rieletto sindaco il Del Carretto, furono proprio "uomini nuovi", come il D. e G. Porzio, che portarono nella rinnovata maggioranza aspirazioni più autenticamente riformatrici, essendo "meno legati alle impostazioni tradizionali degli schieramenti cittadini" (Mascilli Migliorini, p. 189).

Restavano aperti i problemi posti dalla legge speciale per Napoli del 1904, con il completamento del progetto del "Risanamento", l'impulso da dare al programma di case popolari e la definizione delle opere pubbliche necessarie. Termine di confronto rimaneva ancora il disegno nittiano, con l'allargamento del territorio comunale e la creazione di un ente pubblico per lo sfruttamento delle acque del Volturno. Sempre più pressante diveniva poi il problema dei servizi pubblici, nettezza urbana, trasporti, acquedotto, gas, nell'alternativa fra concessione ai privati, con relative modalità, e municipalizzazioni. I contrasti tra i diversi interessi locali inducevano una condizione di semiparalisi dell'amministrazione, rispetto a cui puntuali erano le posizioni garantiste e progressiste assunte dal D., sull'acquedotto (Il Mattino, 22-23 maggio e 15 giugno 1907); sulla nettezza urbana (ibid., 23-24 agosto e 29 nov. 1907) sulla transazione per le acque del Volturno, in cui propugnava la tesi dell'esproprio per pubblica utilità (ibid., 30 nov. 1907); sulla convenzione tranviaria (ibid., 26-27 genn. 1908 e 6-7 apr. 1910) e più in generale sul tema delle municipalizzazioni (ibid., 24-25 marzo 1908)1 sulle questioni dell'autonomia del porto (distinte da quelle delle concessioni di linee di navigazione in cui, come il D. faceva intendere, il problema era quello dell'atteggiamento da assumere di fronte alla posizione di privilegio concessa dal governo agli interessi degli armatori genovesi, ibid., 22 e 24-25 nov. 1909); a favore della priorità di programmi per le case popolari (ibid., 20-21 e 22-23 genn. 1910).

Interessante è anche l'attenzione che egli portava alle norme regolamentari dei lavori del Consiglio e alla pubblicità degli atti dell'amministrazione municipale (ibid., 28-29 giugno 1907); così come la sua posizione nella controversia intorno all'applicazione della legge speciale per Napoli, in cui invitava a far convergere i programmi della Municipalità con i propositi della commissione ministeriale, istituita dal governo Luzzatti, proprio per ovviare al ritardo dell'amministrazione Del Carretto, che si mascherava dietro un sospetto spirito autonomistico (ibid., 11-12 ott. 1910). Le sue prese di posizione, per la nettezza dei punti di vista che esprimevano, tendevano quasi sempre a differire da quelle dell'amministrazione, anche se egli si manteneva fedele ad essa, specie dopo che il parziale rinnovo del Consiglio, nel 1909, aveva rafforzato il peso delle opposizioni.

Il 24 marzo 1909veniva eletto deputato per la XXIII legislatura, succedendo al giolittiano A. Simeoni, nel collegio di Afragola, che gli avrebbe poi rinnovato il mandato, il 27 nov. 1913, anche per la legislatura seguente. Fece parte della maggioranza giolittiana, in modo silenzioso, se si guarda ai grandi dibattiti parlamentari (nel 1914 non prese per es. mai posizione tra neutralità ed intervento), ma facendosi apprezzare nel lavoro parlamentare, come presidente di commissione, relatore e commissario su vari temi.

Tra questi spiccano quelli attinenti la materia giudiziaria (studi perfezionamento uditori giudiziari, modifica legge professione forense; abolizione domicilio coatto; modifica legge sulle cancellerie e segreterie giudiziarie), quelli concernenti le istituzioni finanziarie (vigilanza sulla circolazione e sugli istituti di emissione; gestione casse provinciali credito agrario; monopolio per le assicurazioni sulla vita) e quelli relativi alla sua breve permanenza come sottosegretario di Stato al ministero delle Colonie nel governo Giolitti dal 27 nov. 1913 al 19 marzo 1914 (tra cui l'ordinamento della Colonia Eritrea, nomina ufficiali corpo Libia, aumento unità armi combattenti, ecc.); sarà anche per pochi mesi sottosegretario di Stato per il Tesoro nel governo Orlando dal 19 gennaio al 23 giugno 1919. Naturalmente i problemi di Napoli avevano un rilievo non secondario nella sua attività parlamentare e in alcuni casi si intrecciavano con le posizioni assunte nel Consiglio comunale, come nel caso delle linee marittime (Barbagallo, p. 55) e dell'applicazione della legge speciale su Napoli (ibid., pp. 461 ss. e Ghirelli, p. 145) e numerose altre questioni, ma rivelandosi sempre uomo d'assemblea, di natura superiore alla caratteristica routine della più parte dei deputati meridionali, legati al gioco delle rispettive clientele.

Nel dicembre 1919, a capo della lista democratico-costituzionale, tornava alla Camera dei deputati per il collegio di Napoli, che lo rieleggerà anche nel 1921 e nel 1924.

Nominato da Orlando membro della giunta elezioni, ne divenne presidente, dirigendo con perizia un organo della Camera, dalle funzioni di per sé delicate, ma ancor più difficile da condurre, dopo la prima prova elettorale col sistema proporzionale, rispetto a cui non erano adeguati i regolamenti e mancavano riferimenti decisivi alla prassi. Mise in evidenza le sue doti di imparziale mediatore riuscendo "a ottenere l'unanimità per la elezione di circa 480 deputati", così da conseguire, come ricorderà "un buon viatico per la mia presidenza dell'Assemblea" (Archivio De Nicola, Appunto biografico).

Dimessosi il governo Nitti nel giugno 1920, Orlando volle seguire una vecchia prassi, lasciando anch'egli la presidenza della Camera. Al suo posto veniva eletto il D. nella seduta del 26giugno.

La sua candidatura era stata proposta da Giolitti, nella sua qualità di presidente incaricato, come raccontò lo stesso D. (ibid.), dopo un colloquio personale, in cui egli ebbe anche a suggerire allo statista piemontese, l'istituzione del sottosegretario alla presidenza del Consiglio, con le peculiari funzioni di segretario del Consiglio dei ministri. Esso veniva così per la prima volta introdotto nella prassi costituzionale con quell'ultimo governo Giolitti, assumendone l'incarico G. Porzio. La presidenza del D. durante la XXV legislatura ha grande rilevanza per la profonda riforma dei regolamenti parlamentari che avvenne sotto la sua guida, come presidente d'ufficio della giunta del regolamento. La riforma fu volta a consentire un dibattito più ordinato in assemblea e ad adattare la struttura della Camera alla nuova realtà rappresentata dal sistema proporzionale e dai partiti organizzati (Cosentino, 1959, p. 16).

Quanto al primo aspetto, sono rilevanti le modifiche e l'introduzione di nuove norme, in particolare riguardanti: limitazioni al diritto di parlare sul processo verbale, sanzioni disciplinari per fatti accaduti fuori dell'aula, commissioni di indagine su accuse mosse ai deputati, limiti di tempo per illustrazioni di ordini del giorno, disposizioni sugli emendamenti con carattere finanziario, computo dei votanti e degli astenuti, elezioni dei questori.

Di ancora maggiore rilevanza sono le riforme sulla struttura degli organi interni della Camera, in particolare i gruppi parlamentari e le commissioni legislative permanenti. Riguardo a queste ultime, fino ad allora era prevalso il vecchio modello, mutuato dal parlamentarismo francese, che, ad eccezione di tre commissioni permanenti (Finanze, Industria, Agricoltura e Lavoro; Petizioni), affidava l'esame dei progetti di legge, in sede referente, ad uffici costituiti ad hoc, in parte su designazione del governo e dell'opposizione, in párte per sorteggio. Con la nuova normativa veniva introdotto il sistema delle commissioni permanenti, in numero di nove, con relativa definizione del procedimento legislativo ad esse attribuito, modalità di costituzione e funzionamento. Sia il riconoscimento formale dei gruppi parlamentari, sia l'istituzione delle commissioni permanenti rimangono l'aggiornamento più importante apportato in epoca liberale al diritto parlamentare, anche se, per queste ultime, scarsa fu la possibilità di verificarne il funzionamento, per le prassi di delega legislativa che regolarono, fin dal dopoguerra, ma specie dopo l'ottobre del '22, i rapporti tra il governo e la Camera, riducendo a poca cosa il lavoro delle commissioni (Ungari, p. 107).

La piena restituzione al Parlamento del suo ruolo statutario costituiva un punto non secondario del programma giolittiano. Lo statista piemontese avvertiva come il suo decadimento istituzionale potesse divenire fatale per la democrazia liberale. Il sistema proporzionale, introdotto da Nitti nel 1919, portava alla ribalta i partiti come soggetti politici primari, la fragilità delle maggioranze, connessa alle pressanti contingenze del dopoguerra, avevano determinato quasi un'espropriazione del potere legislativo, attraverso la prassi di delega e decretazione del governo; questioni decisive, come quelle della politica estera, non trovavano nella Camera una procedura di costante verifica, così da fare dei suoi dibattiti un tramite significativo con la pubblica opinione; l'enorme dilatazione delle funzioni e dei poteri degli apparati burocratici, dovuta alle necessità dell'organizzazione bellica, avrebbe richiesto un rinnovato impegno del Parlamento ad esercitare le sue funzioni di controllo, attraverso i poteri di indagine e di inchiesta; anche la stessa materia finanziaria sfuggiva sempre più ad un efficace controllo parlamentare. Non solo quindi la riforma parlamentare, ma la gestione politica dei lavori parlamentari acquisiva un valore determinante nel programma di "restaurazione" giolittiana. L'avvio della presidenza del D. era stato promettente, ma, come lo stesso Giolitti avverte nelle sue Memorie (pp. 596 ss.), nel settembre del 1920l'occupazione delle fabbriche introduceva un nuovo elemento dilacerante nel fragile tessuto politico-istituzionale.

Il ruolo del D. si pose così subito in bilico tra il momento istituzionale e quello più propriamente politico. Grazie al primo aveva potuto far maturare un'immagine di sé che raccoglieva vasti consensi in tutti i settori politici, non tanto per la restaurazione dei fondamentali principi costituzionali, che erano connessi alla funzione parlamentare, come doveva notare polemicamente Gramsci (pp. 192 s.), ma per quella sua funzione di garante, che gli era congeniale, e che il D. sapeva mirabilmente imprimere nella direzione dei lavori parlamentari.

Il D. rimase istintivamente aggrappato a questo aspetto del suo ruolo, che sentiva consono alla sua indole, sebbene da più parti, per il precipitare degli eventi politici, lo si chiamasse a più dirette responsabilità. Poiché le figure di maggiore spicco della democrazia liberale, da Giolitti, a Nitti, ad Orlando, a Salandra, anche in virtù della spiccata caratterizzazione delle loro personalità, dopo l'ultimo governo Giolitti, nella Camera rinnovata dalle elezioni del maggio 1921, non potevano più esercitare quel ruolo di equilibrio, nel loro continuo avvicendarsi, che era stato fino ad allora caratteristico del sistema politico liberale, l'attenzione si spostava sul proscenio, in cerca di uomini nuovi, che interpretassero quel difficile momento di transizione. Fu lo stesso Giolitti (II, p. 615) a fare per primo al re il nome del D., insieme con quello del Bonomi, come suo successore nel giugno 1921. Lo accompagnavano i voti di molti., ma il D. passò la mano a Bonomi, con una "ritrosia" che venne dai più interpretata positivamente, come una prudente sensibilità tattica ("ma dato che si tratti di velo di pudicizia, si può dire che siamo al penultimo velo", Visconti Venosta ad Albertini, Epistolario, III, p. 1268).

In realtà, il D. seguiva con realismo gli avvenimenti, come risulta dalla più compiuta e interessante riflessione al riguardo, contenuta nel suo ultimo Discorso elettorale (Il Mattino, 3-4 apr. 1924), e faceva risalire la sconfitta elettorale di Giolitti a una serie di cause, ma principalmente all'avversione di una larga parte del ceto imprenditoriale, dovuta in particolare alla "proposta nominatività dei titoli", che aveva minato dalle fondamenta la possibilità di costituire un blocco costituzionale appoggiato a destra, rispetto a cui le diffidenze dei popolari verso l'uomo di Dronero venivano a costituire una difficoltà succedanea e ulteriore per una gestione parlamentare della crisi politica. Così il D. giustificava i suoi dinieghi ad assumere responsabilità di governo, convinto che "la unanimità dei consensi per la designazione" non significasse "unanimità di consensi per l'accettazione".

Nel luglio del '21 il D. si impegnò nelle trattative del "patto di pacificazione" (De Cesare, pp. 61 ss.), firmato poi nel suo ufficio di presidente della Camera il 4 agosto (l'originale in Archivio De Nicola). "Pacificazione tra i partiti socialista e fascista", a cui lo stesso Bonomi non poteva attribuire altro valore politico di "una civile manifestazione di forza e volontà" (lettera al D. del 5 agosto, ibid.), ma che costituiva invece una prova speculare di debolezza dell'assetto politico- istituzionale, perché, legittimando il fittizio valore di un'intesa tra le estreme, dichiarava implicitamente l'impossibilità, per la struttura statuale, di garantire i presupposti legali della convivenza civile e politica, e quindi l'effettiva inesistenza di un equilibrio politico, che pure formalmente il governo rappresentava attraverso l'instabile maggioranza parlamentare.

D'altra parte, come è stato sottolineato (De Felice, p. 104), sia i liberali, sia i socialisti, sembrarono in quel momento non intendere qual era la peculiare caratteristica di blocco d'ordine eversivo, propria del fascismo, e le conseguenze politiche che ne derivavano, mentre Mussolini intese al contrario l'occasione tattica che il patto di pacificazione gli offriva per accreditare la natura costituzionale della sua politica, che la polemica con le ali più estreme dello squadrismo, nei mesi seguenti alla firma di quell'accordo, e la sua personale vittoria al congresso del partito fascista nel novembre 1921, sembrarono convalidare. presupposto che egli sentiva indispensabile, per creare le condizioni, ed accelerare i tempi, di una conquista violenta, ed insieme legale, del potere.

Quando nel febbraio 1922 Bonomi fu costretto alle dimissioni, il veto di Sturzo a Giolitti fece cadere la scelta nuovamente sul D., che ricevette dal re un incarico "ufficioso". Turati aveva avvertito che egli era "il solo che muterebbe l'atteggiamento del nostro gruppo" (Turati-Kuliscioff, p. 501), che poi, dinnanzi alla necessità del D. di costituire l'eventuale suo ministero con "una puntarella a destra" come si esprimeva la Kuliscioff (p. 540), veniva precisandosi nel senso di una possibile astensione socialista.

Il D. passò la mano ad Orlando il 7 febbraio con una dichiarazione in cui addossava alle eccessive pretese del gruppo popolare la sua rinuncia, su di una linea che era ancora di stretta osservanza giolittiana. Ma dopo che anche Orlando ebbe rimesso l'incarico, questo tornò di nuovo a Giolitti, che formulò il progetto di scavalcare il veto dei popolari, acquisendo dal re l'impegno di convocare nuovamente i comizi elettorali, possibilmente avendo modificato la legge elettorale, con un ritorno al sistema uninominale, e avendo come copertura la vicepresidenza di Orlando e quella del De Nicola. Questa volta il D. sembrò non condividere l'affondo di Giolitti contro i popolari (De Cesare, p. 68), dichiarando la sua indisponibilità e favorendo la soluzione del governo Facta.

Queste titubanze non erano solamente frutto del "suo temperamento critico e nervoso" (Salvatorelli-Mira, p. 180), ma il risultato di una vera e propria indeterminatezza di visione e decisione, che tornò a riproporsi nella crisi di luglio del governo Facta (la cui mancata soluzione doveva sembrare la definitiva dimostrazione dell'impossibilità di fondare l'equilibrio politico-parlamentare sui gruppi di democrazia liberale), quando il suo nome venne ancora alla ribalta, il che si risolveva in un ulteriore segno della sua sostanziale inconsistenza politica (Alatri, p. 222), dandosi egli, dopo aver appoggiato il reincarico allo stesso Facta, a cementare l'unità dei gruppi liberaldemocratici, e a raccordare il tentativo portato avanti in quelle circostanze da F. Cocco-Ortu, quando ormai una parte rilevante di deputati rivolgeva la sua attenzione verso il fascismo.

Così la sua credibilità politica si consumava e, dopo l'avvento di Mussolini, anche quella di garante dei lavori parlamentari era messa a dura prova. Mussolini esordiva alla Camera, per il voto di fiducia, con il discorso del "bivacco" (sull'atteggiamento del D. in questa occasione, a cui in una polemica dei secondo dopoguerra Il Tempo di Roma, 23 marzo 1947, attribuì di aver impedito le proteste di alcuni parlamentari, sulla base di una falsificazione dei verbali della seduta: cfr. Macrelli, pp. 31 ss.), cui reagirono solo le opposizioni, e nel dibattito che ne seguì altri incidenti si verificarono, culminati nelle intemperanze fascistiche del De Vecchi, che diede al D. lo spunto per dimettersi e a Mussolini l'opportunità di un omaggio formale alla dignità del Parlamento, che indusse il D. a riprendere la presidenza.

Rimase di fatto prigioniero della logica, comune ad altri esponenti della democrazia liberale, di fiancheggiatore neutrale del fascismo, perdendo molte delle simpatie iniziali, mentre i commenti su di lui si facevano anche feroci, come quello di Turati, che ora lo vedeva come "un monumento di viltà" (VI, p. 80), e di Gobetti, che già lo aveva descritto come "il rappresentante della convenzionalità, della retorica vuota, della debolezza, dell'opportunismo" (p. 332).

Giudizi questi che lasciavano il segno anche in alcune polemiche del secondo dopoguerra, di cui è espressione l'articolo di Guido Dorso, su un giornale del Partito d'azione, intitolato "Il ritorno di Celestino V" (ora in L'occasione storica, a cura di C. Muscetta, Bari 1986, pp. 48 ss.).

Dopo l'approvazione della nuova legge elettorale diveniva difficile rinviare, anche in termini personali, scelte decisive. Il D. era tra quelli che avevano dimostrato la loro preferenza per un ritorno al collegio uninominale, ma metteva la legge Acerbo "in rapporto non dello svolgimento normale della nostra vita istituzionale, ma delle condizioni in cui il Paese si trova" . La normalizzazione passava attraverso un salto nel buio. Il D. lo giustificava osservando che "non rinnega, ma difende la libertà, chi ne autorizza la sospensione, ma ad un patto: che essa duri quanto il pericolo". E non nascondeva neppure che l'arbitro esclusivo di questo patto fosse ormai Mussolini. Tergiversò a lungo (Lyttelton, pp. 246 s.) prima di aderire alla Lista nazionale, di cui infine fu capolista per il collegio di Napoli. Il clima di illegalità in cui la campagna elettorale si svolgeva non lo lasciò indifferente. Egli divenne oggetto di attacchi roventi da parte di tutte le opposizioni (Bernabei, p. 850). Bordiga seppe interpretare il significato politico di questa convergenza di polemiche sulla persona del D. e lo sfidò a contraddittorio alla chiusura della campagna elettorale. Il D. avvertì che l'accettazione, o anche il rifiuto, di quel confronto, conferiva alla sua presenza nella campagna elettorale un ruolo emblematico che non era nelle sue intenzioni sostenere. Alla vigilia delle elezioni, con una lettera a Il Mattino (3-4 apr. 1924, che pubblicava anche il citato discorso elettorale), annunciava il suo ritiro dalla competizione, senza togliere la solidarietà alla Lista, ma con una "irrevocabile" uscita di scena.

Eletto comunque deputato, non prestò giuramento. Si tenne lontano dagli eventi politici che portarono alla definitiva stabilizzazione del regime fascista. Il 2 marzo 1929 veniva nominato senatore. Nella sua "navicella" parlamentare della prima legislatura repubblicana è annotato che "non prese mai parte ai lavori dell'Assemblea". Una volta soltanto, tuttavia, fece eccezione a questo voluto distacco, per dare il suo voto favorevole ai Patti lateranensi (Atti parlamentari, Senato, Discussioni, legisl. XXVIII, 25 maggio 1929, pp. 209 e 301).

Prima della nomina a senatore il D. aveva fatto parte della commissione ministeriale, istituita nell'agosto 1926 dal ministro Alfredo Rocco e presieduta dal magistrato Giovanni Appiani, incaricata di vagliare le osservazioni delle facoltà giuridiche dei corpi giudiziari e forensi, e di dare un parere sul progetto preliminare del nuovo codice penale. La sua partecipazione si limitò alle prime sedute della commissione (dal 30 nov. '27 al 28 febbr. '28, in Ministero di Grazia e Giustizia, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, IV, 2, Atti, Roma 1929) e di essa sono rilevanti gli interventi in materia di efficacia dei decreti non convertiti in legge (p.23), di procedura di estradizione (p. 50), di delitti Politici (p. 40), esprimenti opinioni dissenzienti dalla maggioranza, volti a ribadire profili formali e sostanziali di garanzia dell'imputato.

Il D. aveva già fatto parte della commissione per la riforma del codice penale istituita nel settembre 1919 dal ministro Ludovico Mortara e presieduta da Enrico Ferri, che nel 1921 aveva concluso i suoi lavori con il "progetto Ferri", in larga parte poi trasfuso nel codice Rocco. Del resto, come giurista e uomo politico, portò una costante attenzione lungo tutto l'arco della sua vita ai problemi della riforma penale. Va così anche ricordato il suo intervento alla Camera, nel 1912, sul progetto di legge, "codice di procedura penale", presentato da C. Finocchiaro Aprile, in cui si era tra l'altro soffermato sull'esercizio dell'azione penale, sull'ammissione delle associazioni di interesse pubblico professionale, per i reati che direttamente concernono le loro istituzioni, sulla pubblicità dei dibattimenti, sulla costituzione del collegio in corte d'assise e su vari aspetti della fase istruttoria, sottolineando in particolare le modalità con cui esercitare i controlli giurisdizionali sulla polizia giudiziaria, quando proceda ad interrogatori, ricognizioni e confronti (Atti parlamentari, Camera, Discussioni legisl. XXIII, 31 maggio 1912, pp. 2011-2124). Ancora nel 1953 presiedette il convegno di Bellagio sulle riforme della procedura penale (Atti del Convegno nazionale ... le più importanti riforme della procedura penale, a cura del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale, Milano 1954).

Probabilmente, dopo aver constatato la scarsa incidenza che la sua partecipazione aveva sui lavori della commissione, il D. non volle tuttavia rinunciare a dare il suo contributo al dibattito sulla nuova codificazione penale, scrivendo un lungo saggio, intitolato Le due scuole penali (dissensi teorici e consensi pratici), in Scritti in onore di E. Ferri per il 50º anno di suo insegnamento universitario (Torino 1929, pp. 133-166), in cui venne ricostruendo circa un cinquantennio di dispute dottrinali e di progetti di riforma legislativa alla luce del contrasto di principi tra la scuola "neoclassica" o "tecnico-giuridica" di E. Pessina e F. Carrara e quella "positiva" del Ferri.

Molti degli strumenti analitici e delle innovazioni concettuali di quest'ultima, lungo più di un ventennio di discussione scientifica, erano già largamente entrati nel patrimonio dottrinale comune, e il Ferri aveva potuto dare la sua impronta al progetto di codice del 1921, che largo riscontro di attenzione e di critica aveva raccolto anche all'estero e nelle sedi internazionali. Ma alcuni principi della dottrina venivano enfatizzati e ideologizzati dallo stesso Rocco, così da pregiudicare delicati problemi interpretativi del nuovo codice. Il tentativo del D. fu quello di fissare, sugli aspetti dottrinali più importanti, il punto di convergenza possibile tra i due diversi approcci interpretativi, che partivano l'uno dallo "studio dei delitto come ente giuridico" e l'altro dallo "studio del delitto come fenomeno naturale e sociale" (p. 137), sgombrando il terreno da teorizzazioni generali più ampie, quali la presunta ispirazione neoidealistica, in chiave attualistica, che ad esempio veniva attribuita al "soggettivismo", per la considerazione della "personalità del reo", propria della scuola "positiva" (p. 136). L'innesto di principî diversi quale quello della "difesa sociale", di contro a quello della "tutela giuridica" basata sulla "responsabilità morale", nella sua determinazione giuridica oggettiva, poneva problemi di definizione del concetto stesso di pena (il D. considera acquisito il concetto di "individualizzazione della pena, purché la legge non si abbandoni all'arbitrio di coloro che debbono applicarla", p. 143) e di distinzione tra questa e le misure di sicurezza, distinzione che rendeva fondamentale determinare, se dovesse "essere tracciata dentro e non fuori il dominio penale" (p. 140) e di conseguenza ancora, se le misure di sicurezza dovessero farsi "in aggiunta e non in sostituzione, alle pene per i delinquenti più pericolosi", e quindi, se esse dovessero considerarsi come provvedimenti amministrativi o giurisdizionali.

Il voluto distacco dottrinale di questo saggio non è dunque privo di pregnanza critica. Fingendosi "lontano dalla lotta e dai contendenti quanto il geografo lo è dall'esploratore", il D. entrava nel merito di problemi il cui rilievo politico-ideologico era evidente, senza tuttavia esprimere un giudizio generale sul "progetto" del codice Rocco, al di là della constatazione che esso era "al tempo stesso conservatore e rivoluzionario" per la compenetrazione dei principi delle due scuole. Su tre questioni, tuttavia, la confisca dei beni al condannato, il trattamento del delinquente per tendenza congenita, e specialmente l'introduzione della pena di morte, a lungo egli insisteva con molte argomentazioni, per segnare la sua netta ripulsa.

Era tornato ad esercitare intensamente l'attività forense; il suo studio di Penalista era uno dei maggiori a Napoli e tra gli altri, negli anni '30, vi lavorarono come sostituti G. Leone, E. Molé, V. La Rocca e F. De Martino. Scrisse anche alcuni saggi in materia penale, tra cui vanno ricordati Il dolo nel delitto di falsità nei bilanci delle società commerciali, in Annali di diritto e procedura penale, V (1936), 1, pp. 3-13, e I progressi penitenziari, in Rivista di diritto penitenziario, VI (1935), 1, pp. 1-34.

Completamente ritirato nella vita privata e professionale, senza intrattenere pressoché alcun contatto con qualsivoglia ambiente antifascista, tornò a far sentire la sua voce dopo il 25 luglio, con un articolo su Il Mattino (25 ag. 1943), intitolato Parlamento e governo, interessante per due profili istituzionali che vi sono espressi, con la sua ribadita preferenza per il sistema elettorale uninominale, al fine di favorire maggioranze stabili. e con l'espressa indicazione di disciplinare il voto di sfiducia, per garantire la solidità dei ministeri.

Problemi che poi altre Costituenti, come quella federale tedesca, prenderanno in considerazione, a differenza della nostra, ma che alla data in cui il D. li espresse, con una critica esplicita al sistema dei partiti dell'epoca prefascista, potevano essere il segno di una sua preoccupazione, rispetto alle modalità in cui riprendeva forma la vita democratica, attraverso la coalizione delle forze politiche del Comitato di liberazione nazionale (CLN).

Il problema istituzionale lo vide del resto subito impegnato in un ruolo che si rivelò decisivo. Il suo nome compare nel Diario del Croce alla data del 30 dic. '43, quando questi si incontrò con lui per esporgli il progetto, che condivideva con lo Sforza, di ottenere l'abdicazione di Vittorio Emanuele III a favore del nipote infante, rinviando a data da destinarsi il problema istituzionale. Ciò andava incontro all'esigenza di spianare la strada alla costituzione di un governo di unità antifascista, intorno a cui a Roma i partiti raccolti nel CLN avevano già sollevato pregiudiziali.

L'abdicazione poteva essere un possibile punto di convergenza tra le forze politiche, che, sia nel rapporto col paese, sia in quello con gli alleati, sollevava dall'ipoteca col passato, in cui indelebilmente era coinvolta la figura del capo dello Stato. Per taluni poi, come il Croce, pareva anche l'unica strada plausibile per salvare l'istituzione monarchica.

Il D. espresse subito un punto di vista originale, sul quale aveva evidentemente già riflettuto, quello di ricorrere all'istituto della luogotenenza, prevista dalla prassi statutaria, con una sua interpretazione "anomala", essendo la motivazione normale di questa l'impedimento "fisico" e non quello "morale" del sovrano (De Cesare, 1969, p. 161). Il Croce faceva notare che la proposta gli pareva "più della nostra dannosa all'istituto monarchico", mentre il D. insisteva osservando che Vittorio Emanuele "all'abdicazione si opporrà, ma vedrete che accetterà la luogotenenza" (Croce, p. 233).

Malgrado le iniziali perplessità del Croce, e soprattutto dello Sforza (Croce, p. 241), l'intesa avvenne sulla proposta del D., che si assumeva l'incarico di comunicarla personalmente a Vittorio Emanuele. L'incontro avvenne a Ravello il 19 febbr. 1944 e ne abbiamo un resoconto scritto dallo stesso D. (Archivio De Nicola), in parte pubblicato da G. Ansaldo (D. racconta, in Successo, I [1959], 1, pp. 52 ss.). Vittorio Emanuele, in un colloquio drammatico, in cui intervenne anche il duca P. Aquarone, ministro della Real Casa, accettò la proposta, che doveva poi prendere forma nel decreto del 5 giugno 1 44, col quale conferiva la luogotenenza al principe di Piemonte.

In realtà tra l'incontro di Ravello e il decreto del giugno, intercorse un periodo di incertezze. In un primo momento Vittorio Emanuele parve tirarsi indietro, forte del sostegno inglese. Solo verso la metà di aprile il governo britannico dava la sua approvazione al progetto, preoccupato degli eventuali imprevedibili sviluppi che l'accettazione da parte dei comunisti del governo Badoglio, dopo l'arrivo di Togliatti (discorso di Salerno, 1º aprile), avrebbe potuto avere sulla politica interna italiana (Macmillan, p. 571). La stessa preoccupazione muoveva Croce, Sforza e il D.; il 6 aprile Croce leggeva una nota, tra di loro concordata, alla giunta esecutiva dei partiti antifascisti, nominata dal congresso di Bari, in cui rendeva pubblico il passo compiuto dal D. presso Vittorio Emanuele e il contenuto della proposta, che anche Togliatti accoglieva subito come dato acquisito nei rapporti con la Corona, cui seguiva l'annunzio di Vittorio Emanuele e la presa d'atto dei partiti del CLN a Roma.

Il riconoscimento pubblico, per il ruolo decisivo avuto dal D. nello sciogliere questo delicatissimo nodo politico, fu unanime. Sollecitato dal Croce e da altri a riprendere il suo posto nelle file del Partito liberale, rimase in disparte, ricevendo la nomina di membro della Consulta nazionale (12 sett. '44), a cui diede un fattivo contributo.

Assegnato alla commissione Affari politici e amministrativi, fu poi subito presidente della commissione Giustizia (29 settembre), licenziando vari Provvedimenti, tra cui alcuni in tema di epurazioni e sanzioni a ex fascisti; divenne anche componente della commissione speciale per l'esame della legge elettorale politica (Consulta nazionale, III, Resoconti delle commissioni riunite; IV, Resoconti sommari dei lavori delle singole commissioni, ad Indices).

Invitato a candidarsi nelle file liberali per le elezioni dell'Assemblea costituente, rifiutò recisamente, sembrando a taluno che volesse così evitare di prendere posizione sul referendum istituzionale e mantenere una certa neutralità tra i partiti (Bartoli, pp. 95 ss.).

La prima adunanza dell'Assemblea costituente era convocata per il 25 giugno 1946. Il suo adempimento pregiudiziale era l'elezione del capo provvisorio dello Stato. Solo una minoranza di repubblicani e azionisti pensava ad una candidatura di pura fede repubblicana. 1 socialisti proposero la candidatura di Croce, malgrado le riserve personali di questo e il veto della Democrazia cristiana (DC), che voleva evitare una eccessiva accentuazione laica della carica. De Gasperi pensava comunque ad una personalità della democrazia prefascista, preferibilmente monarchica e meridionale, valutando la sua origine trentina, e quella piemontese di Saragat neoeletto presidente dell'Assemblea, che gli faceva di conseguenza accantonare le candidature di Bonomi e di Einaudi. Il candidato della DC fu così Vittorio Emanuele Orlando a cui opposero il loro veto i comunisti. Togliatti accennò alla possibilità di eleggere una personalità che non fosse necessariamente membro della Costituente. Si pensò, in un primo tempo, che egli si riferisse ad Arturo Toscanini. Fu fatto naturalmente anche il nome del D., sul quale (per quanto egli si schermisse, respingendo la candidatura, ma senza rifiutare l'eventuale elezione) si accertò subito il consenso comunista e avvenne la convergenza di tutte le maggiori forze politiche. Il 29 giugno il D. era eletto dalla Costituente capo provvisorio dello Stato, con 396 voti su 504 (S. De Feo, in L'Europeo, 21 luglio 1946).

Il suo messaggio all'Assemblea, tra le righe, dava una lettura della situazione politica, sottolineando che "dobbiamo avere la coscienza dell'unica forza di cui disponiamo: della nostra infrangibile unione". C'era anche l'auspicio d'una conciliazione più ampia, per adempiere l'opera di ricostruzione, dalla quale avrebbero potuto essere "non esclusi coloro i quali si siano purificati da fatali errori, e antiche colpe" (che del resto era in sintonia con i provvedimenti sulle epurazioni da poco deliberati dal governo), e la preoccupazione per le difficili condizioni di indipendenza e unità in cui l'Italia si trovava nel concerto internazionale, chiara allusione ai problemi che veniva ponendo la definizione del trattato di pace (Baldassarre Mezzanotte, pp. 31 ss.) e alle malcelate disposizioni negative ad accettare l'insieme delle sue clausole diffuse in più settori dell'Assemblea.

Portava, nell'esercizio della sua funzione, una semplicità austera, un senso integerrimo della vita pubblica, un personale antico disinteresse, che molto giovarono all'immagine di quella carica, che simbolizzava la nascente Repubblica. Si poneva nel suo caratteristico ruolo di garante, al di fuori e al di sopra delle parti, di tutte le parti. Lo stile era quello di un ipersensibile formalismo, che per certi versi tornava necessario (e il D. fu da questo punto di vista l'uomo giusto al posto giusto), dovendosi tra l'altro fissare le regole procedurali e protocollari nuove della prima magistratura repubblicana. Un aspetto che il D. faceva pesare nei rapporti politici, trovandosi nella condizione di costituire, su più questioni, il "precedente".

Seguiva anche con attenzione scrupolosa i lavori di redazione della nuova costituzione, come testimoniano le cartelle di atti e resoconti sommari dell'Assemblea e della commissione dei settantacinque, piene di sottolineature e di rapidi appunti, contenute nel suo archivio, da cui tuttavia non è possibile rendersi conto di quale influenza egli ebbe effettivamente sulla definizione almeno di alcuni articoli della carta, tenendo rapporti costanti, ma informali, con Ruini ed altri costituenti.

L'eccesso di formalismo ebbe anche dei risvolti politici, che lasciarono il segno, soprattutto nei suoi rapporti con De Gasperi. Nella cruciale svolta del maggio-giugno 1947, non assecondava l'intenzione di questo ad aprire una crisi extraparlamentare. Il D. costringeva De Gasperi ad affrontare il dibattito in aula sulla politica economica, richiesto da un'interpellanza di Nitti, e a fronteggiare una più complessa crisi parlamentare. Prima di riconferire a lui l'incarico il D. lo affidava a Nitti e ad Orlando, di cui il primo era bene accetto alle Sinistre, pur senza, proprio per ciò, avere alcuna probabilità di riuscire (Giovagnoli, pp. 385 ss.). Nelle intenzioni del D. quei passaggi, politicamente inutili, tendevano probabilmente a sottolineare formalmente la sua distanza notarile dalla DC e da De Gasperi in particolare, il che non era fatto per piacere a quest'ultimo.

Dopo la svolta del quarto governo De Gasperi, insistette per dimettersi, traendo spunto dal mandato della Costituente, che il decreto luogotenenziale fissava in otto mesi, e si dovette procedere a una sua rielezione, sottolineando così che la maggioranza presidenziale non era quella stessa del governo. E questo era un risvolto politico a cui il D. evidentemente teneva, e tornò a ribadirlo rifiutandosi, a pochi mesi dalle elezioni del '48, di rivolgere agli USA un messaggio di ringraziamento per il Piano Marshall, trincerandosi dietro un'imparzialità, che taluni accusavano di "captatio benevolentiae" verso le sinistre, in vista delle elezioni presidenziali a cui il nuovo Parlamento doveva attendere.

Ma il contrasto formalmente più rilevante con De Gasperi e con Sforza avvenne sulla ratifica del trattato di pace. Qui la riluttanza del D. fu in sintonia con sentimenti e riserve di altre personalità dell'età liberale, a cui il trattato pareva lesivo della dignità nazionale.

Il D., come capo provvisorio dello Stato, avrebbe dovuto procedere secondo la competenza esclusiva che lo statuto albertino attribuiva al sovrano in materia di trattati. Procedette invece con "sorprendente" inventiva procedurale. Nel febbraio '47 conferiva all'ambasciatore Soranzo i pieni poteri di ratifica "con riserva" del voto "da parte dell'Assemblea costituente". Che quest'ultima dovesse pronunciarsi, era per altro scelta politica obbligata, implicitamente richiesta dalle stesse potenze cofirmatarie. Ne derivava che la sua formulazione, come condizione diplomatica, era comunque singolare (Toscano, 1967, p. 5). Il D. dichiarava così, almeno implicitamente, un orientamento che poteva avere una sua influenza sull'Assemblea. Una volta che questa si pronunziò, insistette per una formula in cui la sua firma non avesse il significato di "ratifica", ma di una "trasmissione" della ratifica del governo, la cui, per altro irrilevante, interpretazione sotto il profilo formale, è ancora incerta (Toscano, 1969, p. 835).

Quando nel maggio 1948 il nuovo Parlamento si apprestò ad eleggere il nuovo capo dello Stato il D., "che desiderava il reincarico e sapeva dell'ostilità degasperiana" (Baget Bozzo, p. 228), ricorse alla sua abituale linea, comunicando ufficialmente di non voler accettare la conferma, per sollecitare subito una disposizione positiva della pubblica opinione e una presa di posizione in tal senso dei democristiani, facendo conto anche sul fatto che la costituzione, attraverso la procedura dei primi tre scrutini con il quorum dei due terzi, sembrava indicare la preferenza per una maggioranza presidenziale distinta da quella di governo. Il che era proprio quanto De Gasperi, in quei frangenti politici, non voleva si verificasse. Così, mentre comunisti e socialisti si pronunziavano a suo favore, la direzione DC prendeva subito atto della sua rinuncia e candidava Sforza. Ne conseguì che fino all'ultimo scrutinio, quando venne eletto Einaudi, egli raccolse solo il voto delle sinistre.

Tornò al Senato, come ex capo dello Stato e il 28 apr. 1951 ne veniva eletto presidente. Tenne la carica per un anno, dando una prima volta le dimissioni nel gennaio '52, poi nel giugno seguente, quando insistette, dinanzi al reiterato voto contrario del Senato, che infine le accolse il 24 giugno. Questo suo ricorso alle dimissioni, che aveva, come si è visto, precedenti, divenne quasi proverbiale.

Tuttavia anche qui, quello che era caratteristico del suo stile, non era l'atto in sé, ma il modo di velare attraverso di esso le sue più interne motivazioni. Nel caso specifico delle dimissioni da presidente del Senato, aveva lucidamente presentito l'esito di quella legislatura, con scioglimento anticipato della seconda Camera e l'approvazione, in limine, della legge maggioritaria, a cui nemmeno il suo successore, Giuseppe Paratore, volle prestarsi e fu ufficio svolto da Meuccio Ruini.

Negli ultimi anni della sua attività parlamentare, con la partecipazione a numerose commissioni (di cui si ricorda quella speciale da lui presieduta, nella II legislatura, per l'esame dei disegno di legge costituzionale concernente la durata e la composizione del Senato della Repubblica), con l'intervento in numerosi dibattiti (da quello favorevole al Patto atlantico del 1949 a quelli sulla legge speciale per Napoli del 1951, e soprattutto ad uno degli ultimi in tema di leggi costituzionali e di revisione della costituzione, cfr. Atti parlamentari Senato, Discussioni, III legisl., 25 febbr. 1958, pp. 26659 ss.), con l'esercizio del potere di interrogazione, interpellanza e iniziativa legislativa (tra gli altri il progetto di legge sull'ordine professionale di avvocati e procuratori, 14 maggio 1954), dava testimonianza di un rigoroso garantismo costituzionale e di una difesa strenua dei principi dello Stato di diritto, raccogliendo consensi in alcuni ambienti laici e di sinistra (Benedetti). Negli anni della crisi del centrismo, la sua attenzione tornava di nuovo a rivolgersi verso i problemi dell'equilibrio politico-istituzionale, di cui è significativo un suo articolo su La instabilità ministeriale, pubblicato su Il Mattino (18dic. 1957).

Giovanni Gronchi lo nominò giudice della nuova Corte costituzionale ' di cui diveniva primo presidente, pronunziando il discorso inaugurale, il 23 apr. 1956, nel quale sottolineava il "compito assai arduo ... della totale organizzazione interna e della speciale disciplina processuale, con una serie di questioni da risolvere, ostacoli da rimuovere, soprattutto di precedenti da creare per la mancanza di quel complesso di utili suggerimenti che il lontano passato - attraverso la tradizione - tramanda al futuro" (Raccolta ufficiale sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, I, Roma 1956, p. 14).

Era un ruolo che non gli era sconosciuto e vi si applicò con tenacia, presiedendo assiduamente le udienze, in cui, nel corso del primo anno di attività, si venne a deliberare anche su questioni importanti, che diedero il segno di una svolta (Azzariti, 1959, p. 25). In particolare due sentenze, una sulla libertà dei culti acattolici e un'altra che aboliva la censura preventiva sui manifesti cinematografici, furono oggetto di reazione da parte cattolica, e la seconda di un esplicito richiamo da parte di Pio XII (Verucci).

Sopravvenne, nel gennaio 1957, un conflitto con l'Alta Corte della Regione siciliana, che, sulla base dello statuto regionale del maggio '46, si arrogava la competenza in materia di conflitto tra la Regione e lo Stato, che l'articolo 134 della costituzione aveva poi attribuito alla Corte costituzionale. Le tergiversazioni politiche del governo Segni, preoccupato del dissenso politico della deputazione siciliana, inducevano il D. a dimettersi nel marzo 1957 (V. Zincone, L'Europeo, 31marzo 1957), attraverso uno scambio di lettere con Gronchi, in cui le motivazioni, sebbene nella sostanza chiare, non risultavano esplicite, il che dava adito a Gaetano Salvemini di ricordare invece le diverse prassi di pubblicità della Suprema Corte americana (La Corte costituzionale, in La Stampa, 20 apr. 1957).

Il D. tornava all'attività parlamentare ma vivendo sempre più ritirato nella sua casa di Torre del Greco, dove moriva il 3 ott. 1959.

Per onorare i modesti legati del suo testamento, avendo lasciato pochissime sostanze, la sua casa di Torre del Greco fu venduta alla Provincia di Napoli, che la destinò a museo in sua memoria (Corriere della sera, 23 apr. 1961).

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