DANDOLO, Enrico

Enciclopedia Italiana (1931)

DANDOLO, Enrico

Camillo Manfroni

Doge, ammiraglio, fondatore della potenza coloniale dei Veneziani nell'Impero d'Oriente. Se è vero che fu assunto al dogato (1192) in età di 85 anni, egli sarebbe nato prima del 1107. Coprì parecchie cariche pubbliche, fra cui quella di ambasciatore, o legato, di Venezia presso Guglielmo II di Sicilia e presso l'imperatore Manuele Comneno, col quale, secondo la tradizione raccolta dal Sanudo, sarebbe venuto a grave conflitto tanto che l'imperatore l'avrebbe fatto abbacinare. Chiamato a succedere ad Orio Mastropiero, egli s'impegnò con la promissione ducale (21 giugno 1192; la prima in ordine di tempo che ci sia stata conservata) a rispettare certe consuetudini e a limitare la sua autorità. Nei primi anni del suo dogato egli scacciò da Pola un'armata pisana che vi si era rifugiata, e la vinse poi in battaglia nell'Alto Adriatico. Più tardi egli mandò un suo luogotenente, Tommaso Falier, con una potente squadra nel Canale d'Otranto per rompere il blocco, che i Pisani, con l'aiuto dell'imperatore Enrico VI, re di Sicilia, avevano iniziato a danno del commercio di Venezia.

L'opera politica del D. culminò con la conclusione del noleggio di navi alla IV crociata (v. crociate). A quell'accordo commerciale il doge seppe unire un vero trattato di alleanza navale coi crociati, per cui Venezia avrebbe partecipato direttamente all'impresa con una potente flotta a condizione che gli acquisti fatti fossero divisi a metà (1202). Ma la crociata non ebbe luogo, perché il doge, per incompleto pagamento del nolo da parte dei cavalieri franchi, rifiutò d'imbarcarli e li indusse poi a volgere le loro forze all'espugnazione di Zara, ribellatasi ai Veneziani. Quando, compiuta la sanguinosa espugnazione, i crociati svernarono a Zara, comparve al campo Alessio Angelo, figlio dell'imperatore Isacco II, spossessato dal fratello Alessio III, nemicissimo di Venezia. Egli invocò l'aiuto di Venezia e dei crociati per ristabilire sul trono suo padre, promettendo di aiutare poi con le forze bizantine l'impresa crociata e di unire la Chiesa greca alla latina. Pare che il doge sostenesse le proposte del principe bizantino: e alcuni cronisti di Terra Santa, a cui qualche moderno critico ha tentato di dare il suffragio di documenti di dubbio valore, accusarono il D. d'essersi messo d'accordo col sultano d'Egitto, sovrano di Gerusalemme, e d'avere deviato i crociati dalla Terra Santa per procacciare a Venezia notevoli vantaggi. Certo, il D. fu zelante difensore degl'interessi della sua città; ma non è da credersi che macchinasse a danno della cristianità. Accettati i patti del principe bizantino, D. mosse coi crociati verso Costantinopoli, e dopo breve assedio, s'impadronì di una parte delle mura, provocando una rivoluzione in città, la fuga di Alessio III, e il ristabilimento dell'espulso Isacco e del figlio di lui. Ma quando i crociati chiesero il mantenimento dei patti stabiliti e soprattutto l'unione della Chiesa greca alla latina, una nuova rivoluzione ebbe luogo, che incarcerò il vecchio imperatore e uccise il figlio di lui. Per eccitamento del vecchio doge, i crociati presero allora l'audace deliberazione di riconquistare per conto loro la città, di distruggere l'Impero greco, di stabilire a Costantinopoli un Impero latino: patteggiando fra loro che l'imperatore fosse eletto da una commissione di dodici elettori, sei Veneziani e sei crociati: che il patriarca appartenesse a quella delle due parti che non avesse conseguito l'Impero, che tutte le conquiste fatte e da farsi fossero divise in tre parti, come il bottino: una all'imperatore, una ai Veneziani, una al resto dei crociati. E così nell'aprile del 1204, per merito principalmente dell'armata veneziana e del D., che diresse personalmente tutte le operazioni, Costantinopoli cadde in potere dei Latini. Poco mancò che il D. fosse eletto imperatore; ma egli molto assennatamente, si accontentò degl'immensi vantaggi conseguiti dalla sua città. Fece infatti assegnare a Venezia come parte dell'Impero, tutta la regione costiera dell'odierna Albania, fino al Mar di Marmara, comprese le isole Ionie, le Cicladi, Negroponte, oltre a un terzo di Costantinopoli e della regione finitima. Con opportuno baratto, ebbe anche per Venezia l'isola di Candia, e quantunque, per la scarsezza dei mezzi, non tutte le terre assegnate nel trattato potessero essere conquistate e conservate, Venezia divenne la più grande potenza coloniale dell'intera cristianità. Enrico D. assumeva, in quanto doge di Venezia, accanto agli altri titoli, quello di "signore di una quarta parte e mezza dell'Impero romano" titolo che per circa 150 anni portarono tutti i suoi successori. Di ciò che egli fece dall'aprile del 1204, epoca della conquista, fino al giugno del 1205, epoca della sua morte, siamo scarsamente informati. Oltre all'avere costituita un'amministrazione per le nuove conquiste e all'aver provveduto a difendere, per terra e per mare, i possessi assegnatigli, egli intraprese, insieme al suo condomino, l'imperatore, una campagna contro i Bulgari, che s'erano avanzati nel 1205, attraverso la Tracia, occupando Adrianopoli, sotto le cui mura lo stesso imperatore Baldovino di Fiandra fu fatto prigioniero. Al doge si deve se la ritirata dell'esercito sconfitto si compì senza soverchio disordine: la sua energia, la sua prudenza, la sua abilità furono la salvezza dei Latini: ma le fatiche di quella ritirata furono fatali al vecchio più che nonagenario, che non aveva risparmiato fatiche. Egli morì, al limite estremo della vecchiaia, il 14 giugno del 1205, dopo 13 anni di dogato. Fu sepolto nel portico di Santa Sofia; ma della sua tomba non rimane che una breve lapide corrosa, su cui è inciso il nome di lui.

Bibl.: E. Bravetta, E.D., Milano 1929. Per le imprese navali v. la completa bibliografia, in Manfroni, Storia della marina italiana dalle invasioni barbariche al Trattato di Ninfeo, Livorno 1899, pp. 308-339.

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