DANDOLO, Enrico

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 32 (1986)

DANDOLO, Enrico

Giorgio Cracco

Appartenente alla grande famiglia veneziana del confinio di S. Luca, nacque a Venezia intorno al 1107. Ci restano sconosciuti, per il silenzio delle fonti note, sia il nome del padre sia il nome e il casato della madre. Nulla sappiamo di lui sino al 1170, a parte il fatto che la sua vita si dovette svolgere in Oriente, lontano da Venezia. Rientrato in patria dopo il 1171, quando, in seguito alla repressione di Manuele Comneno, Bisanzio divenne terra bruciata per tutti i Veneziani, il D. fu valorizzato come ambasciatore, senza che per questo rinunziasse ai suoi affari e ai suoi viaggi.

Fu il primo della sua famiglia ad accedere al dogado: un accesso indubbiamente non casuale - in un contesto politico che consentiva honores solo ai capi di poche grandi famiglie - e che pertanto rinvia a una precedente "carriera": di lui e dei suoi consanguinei. Una "carriera", peraltro - quella del D. -, che trova riscontro in poche e talora insicure testimonianze.

Il D. compare per la prima volta nei documenti a noi noti nel 1172 quando dal doge Vitale Michiel, incapace di una vera ritorsione militare contro il Comneno, fu inviato insieme con Filippo Greco in ambasceria a Costantinopoli per trattare con l'imperatore d'Oriente una tregua impossibile; subito dopo avrebbe anche fatto parte di una missione diplomatica, interrotta del resto in itinere, a Guglielmo II di Sicilia. Il che dimostra, da un lato, che era un uomo di fiducia del doge (in effetti, il 1º dic. 1172, quando lo stesso doge era già stato assassinato, lo si trova a Verona quale testimone in un atto riguardante Leonardo Michiel, figlio del defunto), e dall'altro che era ben noto a Bisanzio e nel Mediterraneo come uomo di stato e d'affari. Tale, infatti, era il D.: diversamente non comparirebbe nel settembre del 1174 ad Alessandria d'Egitto, nella veste di procuratore del fratello Andrea, per la riscossione di un prestito marittimo concesso quattro anni prima a Romano Mairano; né (aprile 1178) a Venezia, tra i quaranta elettori del doge Orio Mastropietro; né nel 1184 a Costantinopoli per guidarvi, insieme con Domenico Sanuto, una nuova ambasceria. Tuttavia, tra il 1178 e il 1183, qualcosa lo deve aver persuaso o costretto a rinunciare del tutto alle sue attività di mercante e di viaggiatore: difatti, nel settembre di quest'ultimo anno, diede mandato generale al fratello Andrea, alla moglie Contessa (non si sa di quale ceppo) e a Filippo Falier del confinio di S. Tomà, di occuparsi di tutti i suoi affari, "sicut egomet facere deberem". Quel "qualcosa" dovette essere un difetto alla vista, che gli impediva di leggere carte, di vedere persone e merci, di trattare.

Che il D. sia diventato cieco è un dato sicuro. Lo attesta Niceta, un cronista bizantino coevo che lo giudicò con asprezza ("ἀνὴρ πηρὸς μεν τὰς ὄψεις καὶ τῷ χρόνῳ πέμπελος"); lo precisa Goffredo di Villehardouin, che lo incontrò a Venezia e lo seguì nella crociata ("sono vecchio e debole e avrei bisogno di riposo, e sono infermo", avrebbe dichiarato pubblicamente, nel 1202, lo stesso D.; e il cronista commenta: "era vecchio, gli occhi del suo viso erano belli, e tuttavia non ci vedeva per una ferita che aveva ricevuto alla testa"). Resta solo da stabilire quando iniziò la sua cecità. Il cronista Andrea Dandolo informa che il D. venne "aliqualiter obtenebratus" nel corso dell'ambasceria a Costantinopoli del 1172, per aver osato contraddire "pro salute patriae" l'irato basileus. L'immagine del doge martire prima del dogado piacque e alimentò aneddoti, come quello, ripreso dal Sanuto, del D. che voleva occultare in tutti i modi la sua menomazione. Narra il cronista che il futuro doge, quand'era nel 1191 ambasciatore a Ferrara, un giorno, durante un banchetto ufficiale, si fece mettere da un servo un capello nel piatto e poi, come se l'avesse scorto con i suoi occhi, gridò di toglierlo: per dimostrare a tutti che ci vedeva bene. In realtà la notizia registrata da Andrea Dandolo è falsa, come risulta da precisi documenti: nel settembre 1174, ossia oltre due anni dopo l'ambasciata a Costantinopoli del 1172, nel corso della quale sarebbe stato accecato, il D. non solo si trovava ad Alessandria d'Egitto, intento come sempre a viaggiare e a trafficare per conto proprio e di parenti (lo avrebbe potuto fare un cieco?), ma anche "firma" di sua mano (è forse il primo "autografo" che possediamo di lui), con la formula abituale, una carta: "ego Henricus Dandolo manu mea subscripsi". Nell'aprile del 1178, a Venezia, è tra i quaranta elettori del doge Orio Mastropiero: una funzione che non avrebbe potuto svolgere senza l'uso della vista. Dunque, a questa data, non era ancora cieco. Nel settembre del 1183, invece, risiede a Venezia e non "firma" l'atto di procura generale sopra citato se non con la sottoscrizione tipica di chi non sa o non può scrivere: "Signum suprascripti Henrici Dandolo qui hoc rogavit fieri". E sottoscrizioni analoghe compariranno in seguito, anche in calce agli atti dogali: "Signum suprascripti Domini Henrici Danduli, Dei gratia ducis, qui hoc fieri rogavit" (16 ag. 1192); "Signum manus suprascripti domini ducis, qui hoc fieri rogavit" (settembre 1198). Dunque, perse la vista, non si sa se per malattia o per altre cause, tra il 1178 e il 1183.

Questa precisazione biografica, apparentemente secondaria, serve non poco a inquadrare il personaggio e la sua carriera politica. Chi si è occupato del D. in genere ha espresso stupore per il fatto che egli sia arrivato al dogado nel 1192, alla tardissima età di 85 anni, senza essersi in precedenza quasi mai segnalato per imprese memorabili e per onori; e con ragione: se si escludono le missioni diplomatiche sopra ricordate (al basileus,al re di Sicilia, ai consoli di Ferrara), il D. non compare mai, nel corso del sec. XII, con il titolo di giudice (eppure era ben difficile diventare dogi senza aver prima ricoperto il "giudicato"), e neppure con quello di consiliarius o di sapiens. Ma c'è di più: non compare quasi mai (c'è però sempre il rischio di smentite clamorose) neppure in documenti privati, quasi non esistesse affatto.

Altri erano i Dandolo di S. Luca che tenevano la ribalta a Venezia: Domenico, che appare giudice nel 1131; Enrico, patriarca di Grado, artefice di tante battaglie per l'affermazione della sua Chiesa; Vitale, giudice nel 1144, 1156, 1161-1162, 1164-1166 (da non confondere con un altro Vitale, del confinio di S. Polo, avocator communis nel 1188 e conte a Zara nel 1205); Andrea, giudice nel 1173, 1175, 1181, 1187 (dato per defunto nel 1198); Gratone, giudice nel 1170; per non parlare di altri, spesso presenti come consiliarii ad atti ducali: Giovanni (il più citato), Marco, Leonardo, ecc. Come si vede, il vero "patriarca laico" dei Dandolo di S. Luca (a parte l'Enrico "patriarca ecclesiastico") fu per lungo tempo Vitale, che però scomparve entro il 1175 (in Costantinopoli dove si trovava per una ambasceria al basileus), lasciando via libera ai suoi per la leadership sul clan. Sembra gli sia subentrato Andrea, che fu giudice più volte a partire dal 1173. Un figlio di Vitale, Giovanni, che ci teneva a presentarsi come tale (più di una carta, nel 1184, parla di lui come "filius quondam Vitalis", non riuscì mai, sembra, a raggiungere il "giudicato").

Quale sia il posto esatto del D. nell'"albero" di questo gruppo parentale, non è facile ricostruire stante l'insidia delle omonimie e la scarsità di documenti.

I dati certi di cui disponiamo sono soltanto i seguenti: i patriarchi Enrico, Vitale, Pietro (e quasi sicuramente anche un Bono) erano fratelli, forse figli di Domenico; Marco e Giovanni erano nipoti del patriarca Enrico; Andrea ed il D. erano fratelli. Fratelli senza altri fratelli? E figli di chi? È da escludere che siano figli probabili di Domenico, e quindi fratelli del patriarca Enrico e degli altri (non potevano esistere due fratelli con lo stesso nome, Enrico); resta che siano nipoti perché figli o di Pietro o di Bono o di Vitale (o di qualche altro fratello che è difficile indicare). Ma mai, nelle carte finora note, è dichiarata tale consanguineità. È anche possibile che il D. ed Andrea, due fratelli che compaiono sempre a parte e insieme, e che risultano legatissimi tra di loro (Enrico chiamò Andrea con l'appellativo di dilectus, e gli affidò tutti i suoi interessi e lo volle accanto a sé anche nei primi anni del dogado), debbano questo loro isolamento al fatto di non essere figli del leader della famiglia, Vitale. Ma si tratta di un'ipotesi fragilissima. È sicuro, invece, che a differenza di alcuni altri membri del clan, il D. ed Andrea gravitano alquanto stabilmente su Costantinopoli (dove peraltro si incontrano anche altri Dandolo: Gratone, ad esempio, e soprattutto Marco che vi possedeva una casa). Lo testimonia anche Goffredo di Villehardouin quando scrive che Enrico, giunto nel 1203 con la spedizione crociata in vista della capitale bizantina, avrebbe detto in una assemblea di capi: "Signori, io conosco più di voi lo stato di cose di questo paese, perché ci sono stato altre volte". Per questo, per essere vissuto spesso in Oriente, il D., fino al 1170, non compare mai a Venezia.

Stabilitosi definitivamente in patria, il D. comincia a radicarsi segnalandosi come uno dei membri più autorevoli della famiglia: nel 1185 ricopre in S. Cipriano la funzione, che era stata già di Vitale, di avvocato del monastero; nel 1187 è l'unico dei Dandolo a rispondere alla richiesta di finanziamenti avanzata dal Comune, sborsando la discreta somma di 150 libre venete. La cecità tuttavia gli impedisce un effettivo cursus honorum: non si trova mai nei consilia; il suo massimo incarico è quello di inviato del governo a Ferrara nel 1191.

In altri termini, finché fu giovane e forte, visse in gran parte (se non sempre) lontano da Venezia; quando rientrò definitivamente in patria, la cecità, più che l'età, finì per emarginarlo. Non c'è da stupire, allora, che i documenti parlino così poco di lui, che sia stato così poco "protagonista". Uno che per decenni era vissuto lontano, quasi da emigrato, e poi era tornato in patria ormai vecchio e cieco, non poteva segnalarsi in Venezia per "protagonismo". Eppure, quando il 14 giugno 1192 morì il doge Orio Mastropietro, proprio il D., quest'uomo quasi finito che aveva allora 85 anni, fu scelto a succedere al defunto nella suprema magistratura del Comune.

Per comprendere i motivi della elezione del D. al dogado, basta porre mente ai rapporti di forza che esistevano in quel tempo all'interno del Comune lagunare. Diversità di interessi, rivalità tra famiglie (acuite dalle sempre difficili relazioni con Bisanzio) avevano alimentato in Venezia "partiti" politici per i quali il "possesso" della carica dogale poteva sembrare determinante. Di qui la tendenza, da parte di chi già controllava il Comune, a ridurre il peso del ruolo dogale, a neutralizzarne ogni velleità regalistica: innanzitutto scegliendo candidati scoloriti, privi di carisma; e poi, circondando gli eletti con una serie di vincoli, come quelli ormai formalizzati in una Promissio, che il nuovo doge doveva giurare all'atto di assumere la carica. Nel caso concreto, all'uscita di scena di Orio Mastropietro, una sola era la persona che per ricchezze e clientele poteva aspirare al dogado: Pietro Ziani, figlio di Sebastiano (che era stato doge dal 1172 al 1178). Ma egli era uno stans, un "capitalista", uno che, prestando denaro a Venezia, realizzava enormi profitti con le fatiche dei procertantes, ossia dei "pendolari" dei traffici tra Occidente e Oriente; un uomo, quindi, fin troppo temibile e temuto (anche dalle schiatte rivali) e non saprei dire quanto "popolare". D'altra parte, non andavano del tutto disattese neppure le aspettative dei mercanti, la base attiva del Comune, i più colpiti dall'ostilità dei sovrani bizantini, e i più interessati a un governo forte. In tale contesto, la scelta del D. suona tutt'altro che strana: era certo un grande tra i grandi, un "capitalista"; ma un capitalista che era stato anche mercante e che era sempre legato all'Oriente, con interessi e beni in territorio bizantino: poteva essere benissimo il candidato dei mercanti. E nel contempo poteva essere anche il candidato dei grandi: sia perché era uno di loro sia perché a parare sue eventuali tentazioni regalistiche (magari alimentate dal favore popolare) esistevano rimedi, e rimedi oggettivi: la vecchiaia e, più ancora, la cecità. Inoltre, a maggior tutela, fu approntata una Promissio - se non la più antica, certamente la prima rimasta - con la quale il doge eletto s'obbligava a governare entro ferrei limiti: in ossequio alle leggi esistenti, senza arbitrarie interpretazioni; con il consenso del Minor Consiglio e della maggioranza dei membri del Maggior Consiglio; per l'onore e nell'interesse della patria; senza mai intromettersi nella scelta del patriarca di Grado e dei vescovi lagunari; non avendo rapporti diretti con potenze straniere; apprestando a proprie spese dieci navi armate, ecc. con i vincoli imposti da questa Promissio-capestro e con le debolezze tipiche dell'età e della cecità, il D. poteva essere il doge tanto dei grandi quanto dei mercanti. Vien quasi da pensare che, se fosse stato nel pieno delle forze e vedente, egli mai avrebbe raggiunto il dogado.A questo punto, la biografia del D. - a meno di non volerla confondere con la storia di Venezia tout-court - entra in una fase in cui è ben difficile distinguerla dal contesto che le fu proprio. Certo, sembra alquanto irreale l'immagine del "condottiero" impavido e quasi eroico che il Manfroni gli attribuisce: "nei primi anni del suo dogado egli scacciò da Pola un'armata pisana che vi si era rifugiata e la vinse poi in battaglia sull'Alto Adriatico" (era quasi novantenne); nel 1204 "mosse coi crociati verso Costantinopoli, e dopo breve assedio s'impadronì di una parte delle mura, provocando la rivoluzione in città, la fuga di Alessio III e il ristabilimento dell'espulso Isacco e del figlio di lui" (aveva 97 anni!); nel 1205 intraprese una campagna contro i Bulgari che si risolse in un disastro, ma si deve a lui "se la ritirata dell'esercito sconfitto si compì senza soverchio disordine: la sua energia, la sua prudenza la sua abilità furono la salvezza dei Latini" (aveva 98 anni!). E non meno irreale sembra l'idea tanto cara agli studiosi, di un doge onnipresente e quasi taumaturgo nel senso che fa tutto lui e in ogni campo: in economia (conia - ed è la prima volta nella storia di Venezia - una moneta d'argento, conscio della necessità che i mercanti lagunari potessero disporre di un mezzo di scambio proprio); nel diritto (revisiona la Promissio de maleficiis di Orio Mastropietro; elabora un corpo di norme, il cosiddetto Parvum Statutum); nei rapporti politico-diplomatici con i potentati stranieri (stringe trattati con Verona e Treviso nel 1192, con Pisa nel 1196, con il patriarca di Aquileia nel 1200, con il re d'Armenia e con l'imperatore tedesco nel 1201); nel lungo, logorante duello con Bisanzio, che sfociò nella "deviazione" della crociata, nel saccheggio di Costantinopoli, fino all'apoteosi finale della conquista della quarta parte e mezza dell'Impero di Romania (il D., anzi, "poco mancò" che fosse fatto imperatore; ma non volle, "accontentandosi" di quello che aveva fatto per la patria!).

Si potrebbe liquidare questo D. "immaginario" mostrando com'egli sia stato tratto di peso da un lato da moduli cronachistici a lui coevi (quelli, tipici della Historia Ducum Veneticorum, che si esprimevano solo per duces e che al doge riferivano tutti gli eventi, quasi ne fosse il demiurgo), e dall'altro dalla prosa "favolosa" di testimoni quali Goffredo di Villehardouin e Roberto di Gari, che erano maestri nel "costruire" personaggi. Ma il problema che conta non è ridurre, per contrasto a una tradizione storiografica, l'importanza del D., fino al punto di farne una specie di "doge-fannullone" (e tutto questo in omaggio alla "piccola causa" della sua età e della sua cecità); ma capire quanto, nel contesto in cui operò, e sempre dentro i suoi oggettivi limiti fisici, egli poté essere produttivo di storia. Da questo punto di vista, un riscontro su fonti ben note può fornire indicazioni utili e riservare perfino qualche sopresa.

L'autore della Historia Ducum, che forse conobbe il D. di persona, che sapeva a memoria le vicende del suo dogado, e che comunque parteggiava per le grandi famiglie (il suo idolo è Pietro Ziani, il successore del D.), gli dedica un profilo alquanto sbiadito: "senex discretissimus, generosus, largus et benivolus", scrive di lui (dove peraltro l'unico termine con riscontro reale è senex, mentre tutti gli aggettivi che seguono sono da repertorio tipologico). Solo al momento della morte ne sottolinea anche la "maxima probitas". Sul significato, forse "politico", di questo apprezzamento basti per ora osservare che per il cronista, che pure ben sapeva cos'era un doge protagonista (si veda il suo profilo dello Ziani), il D. non fu affatto un protagonista della storia di Venezia.

In effetti, quale fu lo spazio di potere di cui il D. poté disporre prima in Venezia e poi in Oriente? Parlando del D., non si può trascurare che, anche a prescindere dal dettato della Promissio, il regime lagunare funzionava esclusivamente in termini di collegialità: nessuna iniziativa, nessuna decisione poteva essere presa senza la spinta e il consenso dell'unanimità dei membri del Minor Consiglio, della maggioranza dei membri del Maggiore, e talora anche della maggioranza di altre rappresentanze larghe, come quella dei capita contratarum. Non che un doge forte non potesse, volendolo e soprattutto avendone i mezzi, sovrapporsi ai Consilia (succederà con lo Ziani). Ma ci sono prove che il D. non fu tale, non ne ebbe la forza: i messi dei crociati che giungono a Venezia e sono accolti dal D. neppure gli espongono la ragione della loro visita; chiedono solo che convochi il Minor Consiglio per il giorno dopo. Ma egli non può accontentarli: dovete attendere tre giorni, risponde. Quando finalmente possono esporre in Consiglio la richiesta di navi e di uomini per una nuova crociata, i messi si sentono rispondere che per una decisione del genere occorrevano otto giorni di riflessione. Scaduto il termine, il D. dettò le condizioni elaborate in Minor Consiglio e chiese se le accettavano; perché solo quando il patto fosse stato ben definito era possibile sottoporlo all'approvazione del Maggior Consiglio e della concio. I messi discussero per una notte e comunicarono il loro assenso il giorno dopo. E il giorno ancora successivo, convocato il Maggior Consiglio (che allora era di quaranta membri), il D. presentò l'accordo "con buon senso e sottile abilità", sicché ottenne l'approvazione. Poi radunò nella chiesa di S. Marco, "la più bella che esista", l'assemblea del popolo (erano in 10.000!), da cui venne l'approvazione definitiva. Un meccanismo decisionale così complesso, come questo descritto (seppure con qualche coloritura) dal Villehardouin, la dice lunga sul ruolo effettivo del D.: l'atto più qualificante del suo dogado, cioè la scelta di partecipare alla crociata, ebbe per protagonisti primi i Consilia; il D. fu solo un portavoce, e un comprimario.

È vero che poi lo stesso cronista-testimone presenta un altro episodio in cui il D. si staglia al di sopra di tutto e di tutti come una specie di eroe: nell'estate del 1202, quando l'esercito crociato correva il rischio di sciogliersi per l'impossibilità di versare subito il compenso pattuito, solo l'intervento del D. avrebbe indotto i Veneziani ad accogliere la dilazione del pagamento in cambio di un aiuto per la riconquista di Zara ribelle; e nell'occasione gli si attribuisce anzi un discorso accorato e fiero nel contempo: sono vecchio e infermo, ma sono ugualmente pronto a prendere la croce e a partire, lasciando mio figlio alla guida del dogado, perché "vedo che nessuno saprebbe governarvi e dirigervi meglio di me, che sono il vostro signore". Sennonché l'immagine di un D. trascinatore a dispetto dell'età e della cecità, oltre che poco attendibile in sé (solo i Consilia potevano decidere un nuovo patto con i crociati, conferire al doge il comando della spedizione e al figlio la supplenza del potere), risulta chiaramente di comodo, e quindi infondata: l'autore aveva bisogno di un modello "positivo" da contrapporre al disfattismo che serpeggiava tra i capi crociati. E del resto è lo stesso Villehardouin, che pure stimava il D., a lasciar cadere, nel prosieguo della narrazione, l'idea del doge condottiero e protagonista, o a farla scivolare, forse inavvertitamente, nel patetico: egli si segnala soprattutto per la saggezza (consiglia, ad esempio, di non sbarcare in terraferma per i rifornimenti, ma in alcune isolette: per evitare che i crociati poco numerosi, si disperdessero, finendo in mano dei nemici), per la disponibilità al sacrificio di sé ("disse che voleva vivere o morire con i pellegrini"); ma quando viene il momento della battaglia egli, che "era vecchio e non ci vedeva", non può che presentarsi inutilmente "armato in testa alla sua galea" e gridare ai suoi di farlo sbarcare, "altrimenti farà giustizia di loro". Il cronista, abituato a narrare soltanto le gesta dei capi, continua a riferirsi soltanto al D., trascurando l'apporto dei Veneziani che gli stavano accanto, quasi che la colonna della spedizione fosse proprio lui. Così anche la sua morte (maggio-giugno 1205) lascia un vuoto incolmabile: fu una "gran disgrazia".

Della morte del D. non si accorge, invece, l'altro cronista-testimone della crociata, Roberto di Clari; e ciò in armonia con la sua diversa presentazione del personaggio. Anche per lui il D. è governante positivo, "molt preudons", capace di gesti magnanimi (in Venezia, fa portare cibo e acqua ai crociati quando il governo aveva deciso di affamarli finché non avessero pagato); ma non per questo gli attribuisce poteri distinti rispetto ai Consilia. Anzi, a essere esatti, più che il doge e i Consilia, per lui sono i Veneziani i veri protagonisti degli eventi-chiave: la decisione di puntare su Costantinopoli è frutto di un accordo fra "tout li pelerin e li Venicien"; il piano di assalto alla città è concertato tra "li pelerin e li Venicien". È vero che è sempre il D. a intervenire alle varie assemblee dei capi e a tenervi grandi discorsi; ma questo non basta a dimostrare una sua effettiva leadership. E neppure basta a dimostrarla l'incontro-scontro con l'imperatore fedifrago a Costantinopoli: quando il D. lo vide ("si vit l'empereur", proprio così ) ritto a cavallo sulla riva del porto, dapprima lo ammonì con toni pacifici e poi, di fronte ai suoi dinieghi, con ira crescente, fino all'esplosione: "Noi ti abbiamo cavato dalla merda, e nella merda ti ricacceremo". Ma il D. urlava la sua rabbia dalla tolda di una galea, fra soldati e consiglieri; e ai lati altre tre galce erano state schierate a proteggerlo. Ossia, l'idea dell'abboccamento, ammesso anche che sia partita dal D., fu mediata dai capi veneziani, che ne predisposero (anche sul piano tattico) l'attuazione. Dunque, la testimonianza di Roberto di Clari offre spunti ancor più precisi per mettere in dubbio, se non per negare del tutto, il protagonismo del Dandolo.

E c'è inoltre da considerare un ultimo dato significativo: la mancata elezione, nel 1204, del D. a imperatore. Storiografi tardivi hanno avuto buon gioco a inventare l'immagine di un doge "quasi" imperatore, di un doge che rifiutò la suprema carica pur avendo la possibilità di assumerla. Si è favoleggiato persino di un progetto, presente tra i Veneziani d'Oriente e forse riguardante lo stesso D., di trasportare la sede del governo da Rialto a Costantinopoli. In realtà, che cosa risulta dalle fonti disponibili? Secondo il Villehardouin, quando, nel maggio del 1204, si pose il problema dell'elezione di un imperatore, molti si fecero avanti con la speranza di ottenere una carica così alta, ma due in particolare: il conte Baldovino di Fiandra e di Hainaut e il marchese Bonifacio di Monferrato. In altri termini, il D. non è neppure citato tra i candidati. Lo si nomina solo perché i dodici elettori (il cronista ne parla senza precisare chi fossero) si radunano in una sala del palazzo, "uno dei più belli del mondo", che lo ospitava. Diverso il resoconto di Roberto di Clari: al momento di avviare la procedura per la scelta dell'imperatore, il D. non esclude di poter essere eletto ("se on m'eslit a empereur"), e chiede garanzie di ordine pubblico; poi invita i baroni a scegliere i loro dieci elettori, mentre egli provvederà a far scegliere i dieci suoi (dunque, per Roberto di Clari, gli elettori sono in tutto venti, non dodici). Il che il D. fece (né poteva fare altrimenti) con "stile" tutto veneziano: chiamò quattro "des plus preusdomes que il cuidoit en se tere", li impegnò con giuramento a scegliere dieci "des plus preudommes de se tere" che erano nell'esercito; e così essi fecero, convocando un elettore alla volta e isolandolo in modo che non potesse consigliarsi con alcuno. A questo punto, del D. non si fa più parola: i dieci elettori veneziani riuniti con i dieci elettori crociati si pronunciarono unanimi per il conte Baldovino di Fiandra. Dunque, secondo Roberto di Clari, il D. neppure fu preso in considerazione tra i candidati alla dignità imperiale; e questo è vero, come risulta da altre fonti: a non votarlo, a non volerlo imperatore furono gli stessi elettori veneziani, che pur disponevano in partenza di almeno la metà dei suffragi. Il parere di Niceta, che il furbissimo D., sentendosi escluso dalla rosa dei candidati a causa della cecità, avrebbe fatto confluire i voti sul "debole" Baldovino, non è molto attendibile.

Ma a questo punto diventa inutile discutere ancora sul "carisma" del D., anche se non bastassero le testimonianze dei cronisti citati, si può ricostruire da altri testi come operavano le spedizioni veneziane in terra straniera: nella più completa autonomia (non c'era tempo per aspettare istruzioni dalla madrepatria), ma nel pieno rispetto degli usi lagunari. Ad esempio, nel marzo del 1196, ad Abido, una decisione grave (quella di disobbedire al governo che aveva chiesto un immediato ritorno) era stata presa dai due capitani della flotta "cum suis iudicibus et sapientibus et conlaudatione populi predicti stoli", ossia con l'esercizio della più larga collegialità. Non diversamente avvenne nel corso della quarta crociata, stante l'enormità dei pericoli e degli interessi in gioco: a prendere ogni decisione fu non già il solo doge, bensì il doge con tutti i suoi maggiorenti e con l'appoggio dell'intero corpo di spedizione.

Sarebbe tuttavia interessante capire quale peso specifico (a parte quello formale) ebbe il D. nel contesto di tale collegialità. Fece indubbiamente, e in grande (data la sua posizione eminente), i propri interessi: non si sa se i ruderi moreschi e una colonna di marmo verde antico, rinvenuti nel secolo scorso in uno scavo eseguito in campo S. Luca (laddove sorgeva il palazzo dei Dandolo), provengano da Costantinopoli; ma è certo che il D. fu tra i favoriti nella rituale divisione delle prede che si ebbe dopo il saccheggio della città. Il fatto che aveva con sé anche parenti (almeno due nipoti: Leonardo Navigaioso e Marco Sanuto) può far pensare che abbia fatto anche gli interessi del clan. È sicuro comunque che fino all'ultimo ebbe a cuore gli interessi dell'intero corpo di spedizione, che anzi arrivò a giustificare e a difendere, in una lettera a Innocenzo III, in termini di puro servizio religioso: "quicquid fecimus, ad honorem Dei et sanctae Romanae Ecclesiae et vestrum laboravimus". Ma dove portavano questi interessi?.

Almeno un fatto emerge con chiarezza già nel corso della spedizione crociata e fino alla morte del D.: il venir meno di ogni contatto con la madrepatria. È come se negli anni 1202-05 esistessero, al posto dell'unica, due Venezie assolutamente isolate tra di loro: quella, sempre più "lontana" e quasi insignificante, di Rialto; e quella, sempre più concreta e gloriosa, che aveva il suo cuore in Costantinopoli. È il miraggio di questa nuova Venezia a spingere l'esercito crociato, a compaginarlo attorno al suo doge, a caricare su un doge vecchio e cieco il fascino del conquistatore di un impero. Ma lo stesso miraggio indusse anche a dimenticare la vecchia Venezia, a operare come se non esistesse. Morto il D., i Veneziani di Bisanzio designarono subito uno di loro, Marino Zeno, a potestas, despotis e dominator della Romania, senza aver chiesto il preventivo gradimento della madrepatria; e nel contempo i maggiorenti della spedizione, tra i quali (in prima fila) familiari e parenti del D. (Marco Sanuto, Marino Dandolo, i Navigaioso), fecero a gara nel farsi conquistatori di territori da governare in proprio. In altri termini, gli interessi preminenti del corpo di spedizione veneziano a Costantinopoli portavano verso la secessione, il separatismo.

E uno sbocco siffatto non è da considerarsi un episodio a parte, un'ulteriore deviazione della crociata conseguente alla morte del D.: tutta l'impresa, a ben leggere i documenti, si era svolta all'insegna di ambizioni signorili, di aspettative che negavano alla radice la fisionomia del Comune veneziano. Che cosa cercava, infatti, il Comune? Traffici e soltanto traffici; la nostra città - dichiarò una delegazione veneziana a Innocenzo III nel 1198 - "non agricolturis inservit, sed navigiis potius et mercimoniis est intenta". E che cosa volevano, invece, i Veneziani d'Oriente? Sfoghi territoriali. E li ottennero: l'assegnazione della quarta parte e mezza dell'Impero fu fatta al doge a ai suoi uomini, non al Comune di Venezia; e lo stesso Comune rimase sistematicamente escluso da ogni progetto di annessione, e mai è nominato nei patti (anche se interpolazioni tardive nel testo della Partitio Romanie parlano di una "pars domini Ducis et Communis Venetie"): perché questi sistemavano domini di competenza del duca e dei suoi uomini, non propria. E difatti i Veneziani ottennero "feuda et honorificentias" in possesso libero e assoluto, "de heredem in heredem", salvo l'obbligo di omaggio all'imperatore, come se il Comune neppure esistesse. Ossia, la spinta alla secessione, al separatismo non cominciò all'indomani della morte del D., ma agì fin dall'esordio dell'impresa crociata e crebbe in rapporto al suo esito trionfale. Alla fine, il dominato sulla quarta parte e mezza dell'Impero di Romania si configurò oggettivamente come il contraltare del Comune.

Se così stanno le cose, si può indovinare qualcosa di più sul ruolo che ebbe il D. in Oriente. Poiché egli fu un protagonista (se non il protagonista) dell'impresa; poiché sua fu la titolarità del dominato, sembra arduo negare un suo oggettivo coinvolgimento nel processo di separatismo e secessione. In fin dei conti, è significativo che egli, venuto a morte nel corso di una ritirata militare tra il maggio e il giugno del 1205, sia stato sepolto in S. Sofia, ossia nella chiesa dei Veneziani di Bisanzio; ed è pur significativo che la sua urna là sia rimasta, finché non fu distrutta, forse al tempo della caduta di Costantinopoli. Dall'Oriente si trasportava tutto a Venezia (marmi preziosi, animali esotici, statue gigantesche, reliquie di santi), ma nessuno trasportò mai le spoglie del Dandolo.

L'eredità del D. (riprendo di proposito un titolo del Cessi) fu dunque piuttosto pesante: una lacerazione difficile da sanare. Qualche mese dopo la morte del doge, il governo, presieduto dal figlio Ranieri, dovette inviare messi a Bisanzio per convincere i Veneziani colà residenti a "reffutare" al Comune il dominio sulla quarta parte e mezza dell'Impero. La scelta di Pietro Ziani quale successore del D. nel dogado, d'altro canto, risente chiaramente dello stato di crisi in cui venne a trovarsi il Comune a causa del separatismo orientale. Lo stesso Ranieri Dandolo fu inviato a conquistare, per conto del Comune, isole che gli homines già di suo padre occupavano in proprio; e morì, nel corso di una spedizione, nel 1209, in Creta. Alla luce di queste considerazioni meglio si comprende il "quasi silenzio" riservato dall'autore della Historia Ducum al doge D.: non poteva certo condannarlo (tutti i dogi, per lui sono "buoni"), ma si limita a lodarne la probitas: era cioè in buona fede, mentre alla guida dei suoi homines (o da essi guidato) andava alla conquista di un impero di cui poi non fu neanche imperatore.

Ma una siffatta interpretazione necessita di ulteriori verifiche. Difatti la figura del D. rimane complessa e non sempre decifrabile: l'esatto rovescio, cioè, di quella nitida e squillante, da pater patriae, che è stata lodata e cantata da poeti, drammaturghi e romanzieri attraverso i secoli, fin quasi ai nostri giorni. Ancora nel 1927 il podestà di Venezia, "col pieno consenso di S. E. Mussolini", ebbe l'idea di collocare in S. Sofia una targa commemorativa così concepita: "Venetiarum inclito Duci Henrico Dandolo in hoc mirifico templo sepulto MCCV eius patriae haud immemores cives".

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