MORLOTTI, Ennio

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 77 (2012)

MORLOTTI, Ennio

Mattia Patti

– Nacque a Lecco il 21 settembre 1910, figlio di Giovanni e di Giulia Sibella.

Dopo aver iniziato giovanissimo a lavorare come operaio e contabile, nel 1936, ormai ventiseienne, abbandonò tutto per dedicarsi alla pittura: ottenne dapprima la maturità all’Istituto d’arte di Brera a Milano e si iscrisse poi all’Accademia di belle arti di Firenze, ove soggiornò per circa due anni.

I più antichi dipinti che si siano conservati sono alcuni paesaggi di Lecco, vedute del lago, dei monti o del paese di Malgrate. Nell’estate del 1937 esordì alla Mostra del paesaggio lecchese e il denaro ricavato dalla vendita dei dipinti esposti gli servì per raggiungere Parigi, dove rimase folgorato da Cézanne, artista che avrebbe giocato un ruolo decisivo nel suo futuro percorso.

A colpirlo – come ricordò più tardi – fu soprattutto il «grande quadro con le Bagnanti [...] che ora sta a Filadelfia. Fu come un pugno nello stomaco. Quell’azzurro, quegli arancioni, e la bruschezza di quella pittura. Sapevo già dai libri chi fosse Cézanne; ma adesso, dinanzi a quella grande tela, mi si spalancavano gli occhi e l’anima» (Interroghiamo i contemporanei…, 1964, p. 25). Diverso fu l’incontro con Guernica di Picasso, che Morlotti – tra i pochissimi italiani – riuscì a vedere sulle pareti del padiglione spagnolo all’Esposizione universale di Parigi: «A dir vero non la capii molto, dovevo fare altri passi per intenderla. Portai a Milano molte riproduzioni del quadro e degli studi preparatori. Fu in tal modo che la conobbero anche gli altri colleghi milanesi» (ibid.). Durante il soggiorno parigino studiò ossessivamente l’arte antica e moderna: «avevo preso una specie di ciucca, di notte stavo sveglio, andavo al cinema, leggevo Lotte [Lohte], leggevo Le Corbusier, Metzinger e Gleizes e Ozenfant, leggevo i libri loro sull’arte contemporanea. [...] Tutto il museo mi interessava, al Louvre andavo spesso, leggevo Vasari e vedevo l’arte italiana; mi interessavano i tedeschi e soprattutto i francesi del Quattrocento, i pittori della Scuola di Avignone, i tedeschi Altdorfer, Grünewald, ma [quest’ultimo] lo trovavo troppo espressionista» (Buzzoni, 1994, p. 198).

Al rientro da Parigi tornò a vivere per un breve periodo a Lecco, ma nel 1939 si trasferì definitivamente a Milano, dove – usufruendo di una borsa di studio garantitagli da Aldo Carpi – poté iscriversi alla Accademia di belle arti di Brera. Qui lavorò molto con Achille Funi, collaborando tra l’altro alla realizzazione delle pitture murali dell’Università di Padova. Echi diretti del lavoro svolto al fianco di Funi emergono in molte opere dei primi anni Quaranta, prima fra tutte Le statue, con cui nel 1942 si presentò al IV Premio Bergamo (alla precedente edizione del premio, tenuta nel 1941, aveva esposto una Natura morta). Le nature morte dipinte in questo periodo denunciano un forte interesse per la pittura di Giorgio Morandi: Roberto Longhi, visitando nel 1940 una collettiva allestita nelle sale della galleria milanese del Milione, di fronte a un quadro di Morlotti chiese infatti chi fosse quel «morandiano così interessante» (ibid., p. 199). Parallelamente il giovane pittore lecchese si avvicinò al gruppo di artisti e critici che era nato attorno alla rivista Corrente, stringendo amicizia, segnatamente, con Renato Guttuso ed Ernesto Treccani. Nell’ambito di Corrente si precisò il suo interesse per la tradizione moderna dell’arte e in particolare per Picasso, che proprio con Guernica aveva lanciato un grido di protesta contro la politica di guerra dei regimi totalitari. Nel luglio 1943 con i giovanissimi Treccani ed Emilio Vedova tenne una mostra alla galleria della Spiga. Durante l’inaugurazione l’OVRA – la polizia politica fascista – fece irruzione nella galleria sequestrando documenti compromettenti e mettendo fine bruscamente all’attività espositiva del gruppo di Corrente (la rivista, pubblicata a partire dal 1938, era già stata chiusa per intervento diretto di Mussolini nel giugno 1940). Negli anni di guerra Morlotti prestò servizio militare a Como e a Napoli, dove si ammalò di malaria, per rientrare infine a Milano. Si tenne comunque in contatto con gli amici di Corrente, e in particolare con Treccani, con cui firmò il primo (1943) e il secondo (1944) Manifesto di pittori e scultori, nei quali l’azione artistica si sposava con lo slancio verso un radicale rinnovamento della società (i due manifesti sarebbero stati pubblicati tre anni più tardi, nella rivista Numero Pittura, III, 8-9, luglio-agosto 1947, p. 12).

Dopo la fine della guerra partecipò attivamente alla vita artistica milanese, firmando con Giovanni Testori, Vedova e altri il Manifesto del Realismo di pittori e scultori – Oltre Guernica, in cui si professava l’assunzione del capolavoro picassiano quale punto di partenza per la nuova pittura (il manifesto uscì sulle pagine di Argine Numero [II, marzo 1946, p. 1], importante luogo di discussione per i giovani usciti da Corrente). Collaborò inoltre con l’amico Mario De Micheli alla redazione della rivista di critica militante Il ’45, interessandosi ancora di Picasso e di cubismo (qui pubblicò una Lettera a Picasso [I, febbraio 1946, pp. 33 s.]). Nell’ottobre 1946 tenne la sua prima mostra personale alla galleria del Camino di Milano, esponendo nature morte con gessi e quadri di figura di stampo picassiano, oltre a un piccolo nucleo di paesaggi (intitolati Dossi), animati – questi ultimi – da un primo, profondo confronto con il tema del mondo naturale. Il coesistere di un inquieto linguaggio neocubista (nei quadri di figura e nelle nature morte) con una sempre più intensa passione per la natura caratterizzò la pittura morlottiana negli anni a cavallo tra il quinto e il sesto decennio del secolo.

Nel 1946 con Renato Birolli, Guttuso e altri, fu tra i promotori della Nuova Secessione artistica italiana, divenuta poi Fronte nuovo delle arti, il raggruppamento di interesse nazionale – capitanato dal critico Giuseppe Marchiori – che mirava a coordinare le principali forze del rinnovamento artistico italiano del secondo dopoguerra. Con il Fronte nuovo espose una prima volta nel 1947, alla galleria della Spiga; in quello stesso anno insieme a Birolli andò a Parigi, dove poté visitare lo studio di Picasso e conoscerne i più recenti risultati. A colpire Morlotti furono soprattutto le opere ‘mediterranee’ del maestro spagnolo, come La pesca notturna ad Antibes, nella quale il linguaggio di Guernica è acceso da una nuova luce e da vivaci note di colore. Tornato in Italia, nell’estate del 1948 partecipò nelle file del Fronte nuovo alla XXIV Biennale di Venezia, esponendo due nature morte e tre composizioni. Tra il 1948 e i 1949 espose in diverse circostanze con i compagni del Fronte nuovo, sebbene il gruppo – dopo le dure critiche mosse da Palmiro Togliatti contro l’arte moderna – avesse perso ormai l’originaria forza e unità.

Nel gennaio 1950 fu tra i Five Italian painters che esposero a New York, alla Catherine Viviano Gallery, il principale trampolino, in quel momento, per gli artisti italiani che intendessero affacciarsi sulla scena americana.

All’esposizione delle sue opere fuori d’Italia Morlotti affiancò un nuovo importante viaggio in Francia: in primavera infatti soggiornò nel Sud del paese, interessandosi non tanto a Picasso, che allora lavorava in Costa Azzurra, quanto piuttosto all’antico amore Cézanne, di cui esplorò i luoghi di vita e di lavoro: «ho fatto una visita ad Aix ed è stato un pellegrinaggio devoto perché tanto nello studio come nel paesaggio che si riconosceva pezzo per pezzo c’era qualcosa di sospeso e di sacro, di umilmente eroico e genuino che da molto tempo non sentivo più» (Otto pittori italiani 1952-1954…, 1986, p. 104).

Nell’estate del 1950, alla XXV Biennale di Venezia, si tenne l’ultima importante mostra del Fronte nuovo delle arti e Morlotti partecipò con tre dipinti ancora una volta fortemente picassiani (Feticcio del 1949, Gabbia e La pace del 1950). In tal modo poco dopo si presentò anche alla Catherine Viviano Gallery, dove allestì una mostra personale, ricca di 14 dipinti, nel maggio 1951. Nel corso di quell’anno, tuttavia, abbracciò con decisione una nuova idea di natura, lasciando che si sgretolasse poco a poco l’ossatura neocubista che aveva per lunghi anni contraddistinto il suo linguaggio pittorico. Il risultato più significativo di questa mutazione fu La siesta, il grande quadro che espose alla XXVI Biennale di Venezia del 1952.

Testori, con cui frattanto Morlotti aveva stretto un intenso rapporto di collaborazione e confronto, dedicò a quest’opera un passo memorabile nel catalogo : «la Siesta della raccolta Cumani tocca il culmine e realizza, per una supremazia di forza e di significati, un sunto [...]. Proprio qui, nel silenzio gremito di fiati di questa tela, crolla il sigillo in cui s’era chiusa la forma cubista: la persuasione ne è tale che si può pensare che quel sigillo sia crollato per sempre: ne emerge un legante, tra parte e parte: una possibilità di comunicazione: una dimensione nuova nel creato, ineffabile e fonda. [...] le due totemiche donne mirano qui le spoglie di quel sigillo, di quel dogma figurale, riassumersi ai loro piedi, nei prati, ridiventare linfa, segreto senso dell’essere: il grano qui, per riprendere Gide, è morto: l’una sdraiata, eretta l’altra sui ginocchi, come una sfinge lombarda, a partecipare dei doni che la luce va spandendo nell’universo: luce di quell’ora che sappiamo [...] poco prima della sera, quando la natura più invade l’uomo e l’uomo più nella natura s’introduce: da dove quell’abbraccio: quel fluido: quel legante [...]» (Testori, 1952, pp. 116 s.).

A quella data si era ormai costituito il gruppo degli Otto pittori italiani, una compagine derivata dal più ampio nucleo del Fronte nuovo delle arti, guidata da Lionello Venturi e volta a un superamento delle ricerche e delle posizioni dell’immediato dopoguerra: «essi non sono e non vogliono essere degli astrattisti; essi non sono e non vogliono essere dei realisti», aveva infatti scritto Venturi (1952, p. 7)  per giustificarne le frequenti oscillazioni tra linguaggio astratto e memoria di natura: insieme a Morlotti figuravano nel gruppo Afro Basaldella, Birolli, Antonio Corpora, Mattia Moreni, Giuseppe Santomaso, Giulio Turcato, Vedova. Nel 1953 con gli Otto pittori Morlotti espose in una mostra itinerante in Germania che toccò le città di Hannover, Colonia e Berlino. Il gruppo si sciolse l’anno successivo, proprio quando, in occasione della XXVII Biennale veneziana del 1954, Morlotti portò a definitivo compimento la propria metamorfosi.

Dopo aver esposto i suoi più recenti paesaggi – imbevuti di una nuova poetica naturalista – a Milano, Firenze e Bologna (presentato in catalogo rispettivamente da Testori, Carlo Volpe e Francesco Arcangeli), tra le mura del Padiglione Italia Morlotti radunò cinque grandi quadri di figura, nei quali la sintassi neocubista era ormai del tutto venuta meno, soppiantata da una materia pittorica ricca e turbolenta (di queste opere, che sono purtroppo andate distrutte, oggi resta la sola documentazione fotografica). A partire da quel momento la pittura di Morlotti si caratterizzò anzi tutto per la materia cromatica: iniziò infatti ad applicare sulla tela per mezzo del pennello e, insieme, della spatola, alti impasti di colore, a suggerire una totale, avvolgente immersione nella natura: un «sentimento dell’organico», come ebbe a spiegare lo stesso artista: «ho capito un segreto ronzio tra cosa e cosa per cui il senso degli oggetti pieni di linfa sarà compresso e tenuto da un tessuto ronzante sotto anziché espandersi espressionisticamente» (così in una lettera ad Arcangeli datata 26 luglio 1956; Buzzoni, 1994, p. 57). Agli anni centrali del sesto decennio risalgono importanti cicli di opere, dedicati al tema dei fiori, delle bagnanti, e, soprattutto, del fiume Adda a Imbersago.

Talora l’immagine conserva traccia dell’osservazione iniziale, e l’alta linea di orizzonte che sovrasta la vegetazione o la riva del fiume funzionano da prezioso punto di riferimento per l’osservatore. Nella maggior parte dei casi, invece, il motivo, il referente naturale da cui l’artista era partito si perde nel magma della pittura, e a mantenere un rapporto con la realtà percepita restano soltanto la tavolozza – che allude ai colori della terra e della vegetazione – e l’indicazione presente nel titolo. Riferendosi alle opere di questi anni lo stesso Morlotti ha precisato: «anziché, mettiamo, guardare dei panorami o la luce che sfugge sulle cose, ho cominciato a guardare i particolari, ho cominciato a guardare delle foglie, dei fili d’erba, e ho cominciato a pensare alla vita che si svolgeva dentro a queste cose, al lato organico delle cose e questo ha cominciato ad emozionarmi e ho cominciato a vivere di questa emozione» (Per una pittura compromessa nella vita, intervista a cura di F. Arcangeli - R. Tassi, L’approdo, RAI TV, 8 febbraio 1966, riportata in Buzzoni, 1994, pp. 182 s.).

La profonda svolta maturata da Morlotti indusse Arcangeli, con cui il pittore strinse in questi anni un forte sodalizio, a scrivere il saggio Gli ultimi naturalisti, pubblicato sulla rivista Paragone (1954), in cui il critico bolognese cercò di precisare la nuova linea di ricerca che alcuni artisti italiani stavano svolgendo sul tema di natura.

Nell’estate del 1956 a Morlotti venne assegnata una sala personale nell’ambito della XXVIII Biennale di Venezia; in catalogo fu presentato ancora una volta da Testori, che pochi mesi dopo – nel gennaio 1957 – ne curò un’altra importante mostra al Centro culturale Olivetti di Ivrea.

Attorno al 1960 tornarono ad affacciarsi nella pittura di Morlotti elementi figurali chiaramente riconoscibili. La nuova trasformazione coincise con un viaggio compiuto a Londra e in Scozia proprio nel 1960, ma il gruppo di opere più importanti in tal senso fa capo al lavoro condotto a Bordighera, dove l’artista aveva preso a soggiornare dal 1959.

Come ha osservato Pier Giovanni Castagnoli (E. M. Catalogo ragionato ..., 2000, I, p. 25), in questi dipinti, spesso incentrati sul tema degli ulivi o delle piante di cactus: «Morlotti comincia infatti a sostituire all’immersione della visione entro la materia, che caratterizza le opere dipinte nei sei anni precedenti, nuovamente un punto di distanza dell’osservazione che ritorna a situarla al di qua della soglia di rappresentazione. In tal modo il paesaggio viene a riassumere gradualmente nettezza di contorni e il profilo della parete vegetale riprende a stagliarsi, poco alla volta ma sempre più chiaramente, contro la superficie del cielo».

Le nuove opere furono esposte tra l’altro alla XXXI Biennale Internazionale di Venezia del 1962, dove Morlotti – che ebbe anche in questa circostanza una sala personale – ottenne ex aequo con Giuseppe Capogrossi il premio messo in palio dal Comune di Venezia e riservato a un artista italiano. Al 1964 risale un’altra importante mostra, tenuta a New York nelle sale della galleria Odyssia e presentata in catalogo da Arcangeli e Douglas Cooper. Durante gli anni Sessanta Morlotti continuò a dipingere in gran numero paesaggi di Bordighera, coltivando al contempo il tema dei fiori e dei nudi, ridotti ora a bozzoli di spessa materia pittorica, come aggrumata al centro del quadro. Le numerose opere realizzate in questi anni furono ripetutamente esposte in mostre personali, allestite in Italia e all’estero (in particolare in Germania, a Londra e di nuovo a New York).

Nel 1962 era uscita, per i tipi del Milione, la monografia di Arcangeli, saggio denso che incluse Morlotti tra i maggiori protagonisti della stagione dell’informale europeo. La lettura di Arcangeli si caratterizzò anche per il drastico ridimensionamento della giovanile esperienza picassiana, posizione che sarebbe poi stata condivisa dallo stesso artista.

A metà degli anni Settanta Morlotti iniziò a dipingere la serie dei Teschi, dedicandone alcuni all’amico Arcangeli, da poco morto. I Teschi furono esposti per la prima volta a Parma nel 1975, in una mostra curata da Roberto Tassi, e poco dopo a Busto Arsizio e a Milano, per la cura di Testori, nel 1978. Come fu notato tempestivamente dalla critica, queste opere rimandano in modo esplicito alla pittura ultima di Cézanne. Alla produzione del maestro di Aix-en-Provence, e segnatamente ai suoi lavori estremi, sono riconducibili anche le Rocce, ciclo che impegnò Morlotti per oltre un decennio, a partire dalla metà degli anni Settanta (nel suo catalogo generale – curato nel 2000 da Gianfranco Bruno, Castagnoli e Donatella Biasin e costituito da 2148 opere – si contano quasi 400 dipinti di Rocce).

Il ciclo delle Rocce, come ha ricordato Morlotti, costituì una naturale evoluzione delle precedenti immagini di paesaggio: «improvvisamente mi sono sentito vicino alla morte e allora ho cominciato a sentire altre necessità, ho sentito tutto questo come in un’allucinazione e da quel momento ho cercato di dare immagine a quest’allucinazione a quest’accecamento» (Conversazione con E. M., a cura di P.G. Castagnoli, in E. M., 1983, p. 83). Le Rocce – caratterizzate da una netta contrapposizione tra la fascia superiore del limpido cielo azzurro e i bruni e i verdi della terra e delle rocce che viceversa si agitano nella parte bassa – si esaurirono a loro volta attorno al 1986.

Alla metà degli anni Ottanta si aprì un nuovo grande ciclo della pittura di Morlotti, dedicato alle Bagnanti, estremo e rinnovato omaggio alla figura di Cézanne, esposte con clamore alla Biennale di Venezia del 1988, ultimo significativo episodio del ricco e lungo percorso dell’artista.

Costruite per via di larghi e densi colpi di pennello al di qua di un muro di vegetazione, queste Bagnanti sono state oggetto di una bella pagina di Testori, amico di sempre, che scrisse, fra l’altro: «Proditori, dunque, ed assalenti, al limite, appunto, della viltà e della vigliaccheria, gli scomparti di questo nuovo “polittico” dell’Ennio nostro e nazionale; polittico, nel quale il nudo o la nuda, o le nude, si dichiarano, sul far della sera, per quel che furono e sono: la seconda, implacata ossessione morlottiana. La prima essendo stata, ed essendo tuttavia, la terra» (Testori, 1992, pp. n.n.).

Morì a Milano il 15 dicembre 1992.

Il Museo del Novecento di Milano, nel dicembre 2010, gli ha dedicato la mostra inaugurale  Focus. E. M. dal 1945 al 1947, curata da Francesco Guzzetti.

Fonti e Bibl.: G. Testori, E. M., in  XXVI Biennale di Venezia (catal.), Venezia 1952, pp. 116-118; Id., Appunti su M., in Paragone, III (1952), 33, pp. 21-30; L. Venturi, Otto pittori italiani, Roma 1952; F. Arcangeli, Gli ultimi naturalisti, in  Paragone, V (1954), 59, pp. 29-43; Id., E. M., Milano 1962; Interroghiamo i contemporanei: E. M. «Vorrei dipingere un nudo come Giorgione», intervista di M. Valsecchi, in Tempo, 22 febbraio 1964, pp. 25, 72 s.; A.C. Quintavalle, M.: struttura e storia, Milano 1982; E. M. (catal.), a cura di P.G. Castagnoli, Ravenna 1983; Otto pittori italiani (1952-1954): Afro, Birolli, Corpora, Moreni, M., Santomaso, Turcato, Vedova (catal., Milano), a cura di L. Somaini, Roma-Milano 1986; G. Testori, M. Variazioni sopra un canto. Bagnanti 1991-1992 (catal.), Milano 1992; E. M. (catal.), a cura di A. Buzzoni, Ferrara 1994; G. Bruno - P.G. Castagnoli - D. Biasin, E. M. Catalogo ragionato dei dipinti, 2 voll., Milano 2000; E. M.: Il sentimento dell’organico, a cura di D. Biasin - G. Bruno - P.G. Castagnoli, Cinisello Balsamo 2002.

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