EMILIA

Enciclopedia Italiana (1932)

EMILIA (A. T., 24-25-26)

Mario LONGHENA
Raffaele CORSO
Giulio BERTONI
Francesco Balilla PRATELLA
Pericle DUCATI
Luigi SIMEONI
Adolfo Venturi

Il compartimento dell'Italia Settentrionale che deve il suo nome alla lunga via che l'attività romana lanciò dal mare al Po, fra il colle e la bassa pianura (v. emilia, via). Con il nome di Emilia furono dal 27 dicembre 1859 comprese le 4 provincie degli ex-ducati di Parma e di Modena, le legazioni di Bologna e di Ferrara e la Romagna, Forlì e Ravenna. Aggiunte furono fatte di recente: verso occidente e verso sud s'è ampliata l'Emilia, nel 1923, poiché ha acquistato parte dell'ex-circondario di Bobbio (provincia di Pavia) e tutto l'ex-circondario di Rocca San Casciano (provincia di Firenze). Il Veneto, la Lombardia, il Piemonte, la Liguria, la Toscana e le Marche la cingono da tutte le parti fuori che a est, dove la bagna l'Adriatico. Per ampiezza occupa il 7° posto fra i compartimenti italiani, con 22.116,66 kmq. (circoscrizione amministrativa al 21 aprile 1931), e per popolazione assoluta il 6° - ha 3.213.914 ab. (risultato provvisorio del censimento 21 aprile 1931; secondo il censimento del 1921, ma nella circoscrizione amministrativa attuale, la popolazione presente era di 3.027.009 ab.); pure il 6° posto ha per densità: 145 ab. per kmq. Le coordinate entro le quali è racchiusa sono: 0° 18′-3° 8′ di long. O. da Monte Mario e 43° 50′ e 45° 8′ di latitudine N.

Le caratteristiche fisiche. - Orografia. - La linea spartiacque non è sempre seguita dal confine con la Toscana, il quale talora abbraccia più di quel che dovrebbe e talaltra comprende meno: quindi l'orografia dell'Emilia non ha sempre per limite meridionale la linea di displuvio. L'Appennino Emiliano fa parte dell'Appennino Settentrionale, che il Passo della Cisa (1040 m.) divide in due sezioni, dette Appennino Ligure e Appennino Toscano; la prima sezione spetta all'Emilia nella parte orientale. Linea contorta è il crinale dell'Appennino Ligure con frequenti passi (Madonna della Neve, 876 m., e Crocetta di Varese, 840 m.) e con due contrafforti, lunghi un centinaio di km. e convessi verso occidente, dei quali l'uno, fra Scrivia e Trebbia. ha le cime Antola (1598 m.) e Lesima (1724 m.), il gigante di tutto il contrafforte, l'altro, fra la Trebbia e il Taro, muove al passo dell'Incisa, si eleva al Monte Maggiorasca (1803 m.), il maggior monte del Piacentino, e qui si divide in rami che separano i varî affluenti dei due fiumi ricordati. In questa sezione si osserva - e questo accadrà anche nell'altra - che le cime più alte sono fuori della linea di cresta.

L'altra sezione va fino al Passo della Scheggia per 304 km. ma ormai c'è la consuetudine di suddividerla in due: il Passo delle Piastre fra l'Ombrone pistoiese e il Reno (761 m.) è la linea di divisione: la prima sottosezione è detta dell'Appennino Tosco continentale o Toscopadano (lunga chilometri 110), l'altra dell'Appennino peninsulare (194 km.). La direzione della prima è da nord-ovest a sudest e ha forma assai spezzata. I contrafforti moventi verso il Po vanno in senso normale agli assi delle pieghe montuose; anche qui le più alte cime non sono sulla linea di cresta, ma fuori di essa, verso il versante adriatico. Così è per l'Alpe di Succiso (2017 m.), così è per il Cusna (2121 m.), così è per il gigante dell'Appennino Settentrionale, il Cimone (2163 metri). Nella prima sottosezione s'elevano cime che sono fra le più alte, pur mantenendosi quasi sempre al disotto dei 2000 metri, e si aprono passi, parecchi superiori ai 1000 m. Fra le cime si notano il M. Orsaro, nel Parmense (1830 m.), il M. Sillara (1861 m.), il M. Alto (1904 m.), la Muda (1893 m.), il M. Sillano (1875 m.), il M. Prado (2004 m.), il M. Giovo (1991 m.), il M. Rondinaio (1964 m.) l'Alpe delle Tre Potenze (1940 m.), il Libro Aperto (1937 m.), al quale si collega il Cimone, il Corno alle Scale (1945 m.); e fra i passi meritano ricordo quello di Lagastrello, donde nasce l'Enza quello del Cerreto (1261 m.) fra il Secchia e la Magra, la Foce delle Radici (1528 m.) che mette in comunicazione Pavullo con Castelnuovo di Garfagnana, l'Abetone (1388 m.), il Col dell'Oppio (821 m.) e le Piastre (701 m.) sulla via Pracchia-Pistoia. Ciò che c'è di notevole in questa sottosezione è che essa verso il declivio padano presenta una serie numerosa di laghetti, ordinariamente posti in alto - fra 1000 e 1800 m. - quali il L. Santo, il più vasto (quasi 7 ettari), il L. Gemio, il L. Scuro, il L. Sillara, il L. Ballano e il L. Verde nel Parmense, lo Squincio nel Reggiano, un altro Lago Santo e lo Scaffaiolo nel Modenese.

Da questa linea spartiacque calano contrafforti che, movendo verso nord e diminuendo sempre di altitudine, separano le varie vallate fra di loro. Così con il nome di Appennino Tosco-parmense si intende la giogaia fra il passo di Cento Croci e quello di Lagastrello, dalla quale partono tre ordini di alture diramanti, alcune fra il Taro e la Baganza, altre fra la Baganza e il Parma e altre ancora tra il Parma e l'Enza. Altri due contrafforti - fra Enza e Secia e fra Secchia e Dragone - invia l'Appennino Tosco-reggiano, che va dal passo di Lagastrello a quello delle Radici. L'Appennino Toscomodenese o del Frignano, complessa serie di catene fra le Radici e il Col dell'Oppio, ha due contrafforti che separano la vallata dello Scoltenna-Panaro da quella del Dragone-Secchia a occidente e dall'altra del Reno a oriente; per di più un breve ma alto contrafforte sorge fra lo Scoltenna e il suo affluente, il Leo.

L'Appennino Toscano peninsulare va dal Passo delle Piastre a quello della Scheggia; l'ultima parte non spetta però all'Emilia. È una catena di altitudini assai modeste. tanto che poche volte supera i 1500 m., che manda i suoi contrafforti verso NE. paralleli l'uno all'altro e normali all'asse spartiacque. Parecchi sono i passi e tutti famosi: quello della Collina o di Spedaletto (932 m.) fra Porretta e Pistoia, la Futa (903 m.), per cui passa la strada delle Filigare, il Passo di Marradi (908 metri), quello di S. Godenzo o dell'Alpe di S. Benedetto (907 m.), presso il quale s'erge la cresta del Falterona, e l'altro dei Mandrioli, assai vicino al nodo del Fumaiolo. Quindici contrafforti maggiori, e non pochi minori, muovono fra il Reno e la Conca, separando i varî fiumi e i loro affluenti: lunghe e uniformi catene, trasversali agli assi di sollevamento e alla direzione generale della catena spartiacque.

Idragrafia. - L'idrografia dell'Emilia è una delle più semplici. Poiché i monti s'elevano a sud, con una marcata disposizione a divergere verso SE., e poiché la linea d'impluvio è a N. e corre quasi rettilinea da ovest a est, i fiumi avranno direzione da sud a nord, con un po' d'inclinazione verso NE., che va facendosi più sensibile man mano si procede verso l'Adriatico. L'Appennino, dopo la provincia di Bologna, allontanandosi sempre più dal Po, non stringe più fra i suoi contrafforti i corsi d'acqua, sì che liberi corrono per la pianura e, anziché nel fiume maggiore, finiscono o in rami antichi del Po, abbandonati dalle sue acque, o direttamente nell'Adriatico. Quindi i corsi d'acqua si possono dividere in due grandi gruppi: a) il primo comprende tutti quelli che vanno direttamente al Po e ne sono in alcune stagioni i più abbondanti alimentatori: Trebbia, Nure, Arda, Taro, Parma, Enza, Secchia, Scoltenna-Panaro; b) il secondo abbraccia tutti gli altri, a cominciare dal Reno fino all'ultimo corso d'acqua prima della punta che sporge in mare fra Cattolica e Pesaro: Reno, con i suoi affluenti di destra - Sillaro, Santerno e Senio - Lamone, Ronco e Montone, Savio, Marecchia e Conca. Né gli uni né gli altri si prestano a essere navigati, benché ci siano delle prove che un tempo potevano essere risaliti da barche, del pari gli uni e gli altri hanno gli stessi caratteri: nascono tutti da monti privi di ghiacciai e ricchi solo della neve che l'inverno accumula: sono ingrossati dalle piogge che cadono in alto e che raccolgono dagli aílhenti lungo la loro via; tutti scorrono precipitosi, rovinosi talora; e nella loro fuga dal monte verso il piano convogliano immenso materiale che, trasportato lontano, varrà a creare nuove terre là dove prima era il mare.

Tutti quanti, nel corso medio, restano per più mesi senza un filo d'acqua, ampî, con letti ghiaiosi, mentre l'alto corso ha sempre acqua, che talora l'uomo utilizza, raccogliendola in quei bacini montani che hanno tanta importanza e per l'industria e per l'agricoltura; e del pari il corso inferiore non manca d'acqua, che bene spesso è respinta dal fiume che dovrebbe accoglierla, perché scorrente in un letto più basso di quello in cui viene ímmessa, e si creano così quelle casse-colmate che sono una sottrazione di terre all'agricoltura e che, fatte a evitare perpetue minacce ai lavor) dei campi, costituiscono una spesa continua e forte, perché gli argini vogliono essere spesso rifatti e le opere di difesa attentamente seguite. Talora si verifica il fenomeno che, proprio presso il corso medio di qualche torrente dell'Emilia, là dove le acque sue, in tempo di magra, son quasi assenti, si abbiano numerose e abbondanti falde acquee: pare che le acque del corso alto abbiano preferito sparire, prima del corso medio, dalla superficie e scorrere sotterranee. Tali depositi di acqua hanno permesso all'uomo la creazione di ottimi acquedotti, che soprattutto hanno valso a dissetare borgate, povere di acqua buona, della bassa pianura.

Clima. - L'Emilia, ha come la Lombardia e il Veneto, clima continentale, con forti escursioni annue; e, sebbene si affaccino all'Adriatico, non del tutto marittimo è il clima delle terre vicine al mare, meno miti delle terre tirreniche poste alla stessa latitudine. L'Emilia occidentale s'avvicina per clima alla Lombardia, poiché in entrambe prevalgono i venti dell'ovest, notevole è l'umidità d'inverno e le piogge non sono scarse invece l'Emilia orientale ha somiglianza con il Veneto, perché vi hanno il predominio i venti del primo quadrante, perché l'aria vi è asciutta e pari è il numero dei giorni piovosi: l'escursione termometrica è però maggiore nell'Emilia. Fra la zona interna e la zona prossima al mare c'è differenza di temperatura: quest' ultima ha la media invernale (1°,4) e la media delle temperature minime (− 9°,6) superiori a quelle della zona interna (0°,9 e − 14°,3).

L'Emilia non può essere considerata come terra di abbondanti precipitazioni, anzi è in complesso scarsa di piogge, e per di più queste sono inegualmente distribuite, così che l'uomo non può trarne molto profitto nei riguardi dell'agricoltura.

Anche per le piogge tuttavia bisogna distinguere la zona interna dalla zona marittima: questa ha una cifra più bassa (777,5 mm.) che la zona interna (851, 2 mm.), ma in compenso le piogge sono poi distribuite in un maggior numero di giorni. Le piogge cadono con maggiore abbondanza in autunno; vien dopo la primavera, ma la primavera ha un numero di giorni piovosi maggiore dell'autunno. I giorni sereni sono 107, 67 i coperti e 191 quelli coperti parzialmente, il che ha molta influenza sull'agricoltura e sulle specie di piante coltivate.

Flora e fauna. - Più oltre accenniamo alla varietà di vegetali che l'uomo utilizza largamente: quindi qui omettiamo di parlarne; solo osserveremo che la flora dell'Emilia è in gran parte d'importazione e l'uomo con la sua abilità e l'opera sua tenace è riuscito ad adattarla al clima e al suolo della regione. Castagni, faggi e un po' di conifere salgono dalla collina fino al crinale; verso il mare, a SE. di Bologna prospera l'ulivo e lungo l'Adriatico si distende una striscia, più o meno larga, di pini da pinocchi.

Mentre la flora si è arricchita di specie straniere, la fauna ha perduto quelle che gli avanzi dimostrano essere esistite. Fra i grossi mammiferi, il tasso è il solo che ancora s'incontri. Rettili, anfibi e salamandre sono abbondanti e abbondantissime sono le varietà malacologiche. Uccelli, un tempo numerosi, ora, per la caccia intensa, sono rarissimi; notevole è il numero degli uccelli da passo. Pescoso molto è l'Adriatico: le valli di Comacchio vanno famose per le anguille.

La popolazione. - Movimento della popolazione, densità. - Secondo il censimento del 1921 e la circoscrizione amministrativa allora vigente l'Emilia contava 2.953.150 ab. su una superficie di 20.701 kmq. Nel 1923, per le aggiunte già ricordate, la superficie dell'Emilia salì a 23.193,56 kmq. e la sua popolazione si accrebbe di 80.000 ab., dopo altre lievi modificazioni, al 21 aprile 1931 la superficie era di 22.116,68 kmq.: confrontando la popolazione data dal censimento del 1921 - ma secondo questa ultima circoscrizione amministrativa - con quella del 1931 si ha un aumento assoluto di 186.905 ab., cioè del 61‰. Se la densità per tutta l'Emilia nel 1921 (circoscrizione amministrativa attuale) era di 136,9 ab. per kmq., essa risultava di cifre distanti, poiché la provincia di Bologna aveva 171,5 ab. e quella di Parma 104,5. L'aumento negli anni 1871-1921 è stato disuguale: la prov. di Ferrara è cresciuta del 60,43‰ mentre quella di Ravenna ha avuto un tenue aumento (16,44‰)

Anche dentro i confini dell'Emilia sono avvenuti dopo il 1921 taluni cambiamenti nei limiti amministrativi: abolizioni di circondarî, allargamenti di comuni principali, soppressioni di piccoli comuni; ora 338 sono i comuni. I quali hanno superficie assai diverse (Ravenna ha comuni ampî in media 217 kmq. e Rimini - ex-circondario - 28 kmq.): i comuni vasti sono nelle provincie di Ferrara e di Ravenna e nei circondarî montuosi, i piccoli nelle zone di pianura, da tempo fertili e coltivatissime.

La media area dei comuni emiliani è di 63,88 kmq., la popolazione di 8809 ab. La popolazione diminuisce con il crescere dell'altitudine e i comuni sono più numerosi nel piano: e se si tien conto dell'altitudine, si vede che più della metà dei capoluoghi di comune è al di sotto dei 100 m. e che oltre la metà degli abitanti nel 1901 viveva al di sotto di tale quota. Appena 5 capoluoghi di comune sono posti fra 900 e 1100 m. e sono tutti nelle provincie più occidentali.

Le nascite superano per numero le morti, ma la differenza non è uguale dappertutto: alcune provincie hanno cifre alte - Ferrara, Modena, Reggio, Parma e Forlì -; altre hanno cifre modeste e quasi basse, Piacenza, Bologna e Ravenna. E questo è necessario tener presente quando si confronta il numero di abitanti di una provincia fra due successivi censimenti: non sempre la differenza è data dall'eccedenza delle nascite sulle morti, ma bene spesso dall'immigrazione: così Ferrara nel decennio 1911-21 ha avuto 38.000 abitanti di aumento e Bologna 65.000, ma questa ha debole eccedenza di nascite sulle morti, mentre quella l'ha assai notevole, onde l'accrescimento di Bologna è dovuto in massima parte all'immigrazione. Anche la mortalità ha percentuali diverse, poiché si passa da Modena con il 51,6‰ a Ravenna con il 60,9‰ la media della mortalità nell'Emilia è del 54‰. Caratteristica della regione, per cui questa occupa il 2° posto fra i compartimenti italiani, è quella del grande numero di nati illegittimi: 5500 furono nel 1916, cioè il 7,87%.

Emigrazione. - L'emigrazione non fu mai notevole nell'Emilia; per altro dai 3407 emigranti del 1876 si sale a 12.444 nel 1895 e a 39.134 nel 1913. Maggiore, anche negli anni a più larga emigrazione, fu quella europea o temporanea della permanente o transoceanica: 28.346 emigranti la prima, 10.788 la seconda, nel 1913. Tanto all'emigrazione europea quanto a quella oltre oceano, l'Emilia contribuisce, divisa in zone, ciascuna delle quali invia i suoi emigranti in determinati paesi; e questo è continuato per decennî fino alla guerra mondiale. Ora, poiché l'emigrazione è ostacolata da leggi severe, le quali hanno quasi annullato l'esodo verso le Americhe, gli emigranti in buon numero si dirigono in Francia, Gran Bretagna, Svizzera, Belgio. Nel 1930 gli emigranti furono 1372 per i paesi transoceanici e 27.187 per paesi non transoceanici.

Condizioni economiche. - Agricoltura. - L'Emilia è larga fornitrice di grani e di prodotti necessarî alla vita. Delle otto provincie, sette sono in identiche condizioni, perché hanno pianura, collina e montagna; una, quella di Ferrara, ha solo pianura e quindi dà parte dei prodotti alle altre. Per altro, poiché il piano è schiavo del monte, anche su questa provincia gravano gli stessi problemi. E il problema delle acque è il maggiore: acque che scendono dall'alto e giunte al piano non defluiscono spontaneamente al mare e stagnano, acque abbondanti quando non ce n'è bisogno o scarse in momenti di necessita. L'uomo ha rivolto sempre la sua attenzione a questo problema e su di esso ha discusso a lungo: progetti numerosi e attività di decennî.

L'Emilia non trae da' suoi monti poco elevati acque abbondanti durante l'estate né ha serbatoi naturali: i pochi serbatoi artificiali sono stati costruiti a scopo industriale. Quindi a poche decine di migliaia di ha. - circa 62 mila, 1/40 dell'area totale dell'Emilia - si estende il beneficio dell'irrigazione per mezzo di canali derivati da corsi d'acqua; e se si estendesse a tutti i terreni bisognosi, si accrescerebbe enormemente la produzione e si permetterebbero dappertutto nella pianura tutte le coltivazioni. E non sono mancati progetti per rimediare al male: uno di questi mirava a trarre dal Po, quasi di fronte alla confluenza del Ticino, le acque e a canalizzarle per circa 300 km. fino al Marecchia. Non si è dimenticato neppure che l'Appennino nelle sue valli più ristrette nasconde il segreto per conservare le acque; ma i bacini montani progettati, non sono stati ancora costruiti. Invece un altro problema, che riguarda pure le acque, quello delle bonifiche, non solo è stato affrontato nella sua imponenza, ma anche opportunamente risolto del tutto o quasi.

Le provincie di Ferrara, Modena, Bologna e Ravenna sono quelle che hanno avuto più terre fertili: a 1400 kmq. si fa ascendere il terreno bonificato nelle quattro provincie dopo il 1880, ma questa cifra verrà più che raddoppiata quando tutto il piano di trasformazione sarà compiuto.

La bonifica o è stata aiutata dallo stato, o ha dato origine a potenti organismi, a società, che impiegando ingenti capitali hanno trasformato immense distese di terreni in campi che già sono fertili o saranno sicuri produttori domani. In queste terre tutti i progressi agricoli sono stati attuati e sono stati accolti tutti i procedimenti più moderni di coltivazione.

Nell'Emilia la terra è assai frazionata cosicché vi prevalgono la piccola e la media proprietà: la grande proprietà è limitata alle terre recentemente messe in coltivazione. I rapporti fra proprietario e coltivatore del suolo non sono né semplici né uniformi: c'è la mezzadria, c'è la colonia parziaria, c'è la boaria, il contratto d'affitto e la tenuta in economia, c'è il bracciantato, e nella bassa pianura, dove le provincie di Modena, di Ferrara e di Bologna confinano, vive ancora, forma quasi comunista, la partecipanza.

L'agricoltura emiliana, negli ultimi 50 anni, ha avuto notevoli miglioramenti: sono sorti consorzî idraulici, consorzî agrarî, consorzî agrarî cooperativi, cattedre ambulanti, scuole agrarie, casse rurali: s'è intensificato l'uso del maggiore fertilizzatore della terra, il perfosfato, si è introdotto l'impiego delle macchine, s'è accresciuta l'istruzione agricola con tutti i mezzi. Piacenza ha un istituto poderoso, la Federazione italiana dei consorzî agrarî; e le altre provincie hanno consorzî e unioni, favorite dalle casse di risparmio.

La pianura è seminata specialmente a frumento, a granturco, a piante foraggere e, per la rotazione, a leguminose e più particolarmente, nel Bolognese e nel Ferrarese, a canapa. La collina alterna i campi a cereali e a legumi con i pascoli, con le vigne prosperanti soprattutto nelle sabbie plioceniche fino a 800 m., con l'ulivo nella Romagna, non lungi dal mare, con i frutteti, con le macchie e i cespugli. Nella montagna si trovano anche certe colture proprie di zone meno alte - fra i cereali il granturco e la segala, e tra gli alberi fruttiferi i peri, i meli, i susini -; ma è il castagno, raccolto in boschi estesissimi, che dà il maggiore prodotto, sono i boschi di faggi e di abeti che costituiscono una ricchezza, mentre i prati permettono un buon allevamento di ovini. Più in alto, presso la cresta appenninica, i campi coltivati cessano, i boschi non appaiono più e vaste invece sono le distese erbose. Più numerosi sono i pascoli montani nel Parmense, nel Reggiano e nel Modenese che non nella provincia di Bologna e nelle Romagne.

I terreni improduttivi spesseggiano soprattutto oltre i 1000 m., benché se ne trovino assai prima. Una statistica di terre che nulla producono, superiori ai 1400 m., ci dà la cifra complessiva di 20.700 ettari, dei quali oltre un terzo, 7700 ettari, nella provincia di Modena, e oltre un altro terzo, 7400 ettari, in quella di Reggio.

Il frumento è il cereale più coltivato, e l'area sua va da ha. 476.314, nel 1894, a 486.300 nel 1918, a 480.400 nel 1922, a 512.600 nel 1926, a 485.951 nel 1930. L'Emilia tiene il secondo posto dopo la Sicilia per l'area coltivata a frumento; e fra le provincie del compartimento, il primato che un tempo era della provincia di Parma, oggi è passato a quella di Bologna, che ha in pochi anni allargato di molto la zona produttiva.

Se l'aumento totale dell'area non fu notevole notevole invece fu l'accrescimento del prodotto: per gli stessi anni si hanno le cifre:

Così nella produzione l'Emilia occupa il primo posto e questo ci è confermato dalla media del quinquennio antecedente e di quello susseguente alla guerra mondiale. La produzione media si aggirò fra q. 10,7 nel 1917 - anno scarso - e q. 15,7 nel 1916: nel 1930 la produzione fu di 16,4 quintali per ha. E si noti che concorrono a formare la detta cifra le cifre fra loro assai diverse dei prodotti della montagna, della collina e della pianura. La prima, con ha. 85.986, ha dato q. 1.092.000, cioè q. 12,7 per ha.; la seconda, con ha. 126.949, ha dato q. 1.962.000, cioè q. 15,5 per ha.; l'ultima, con ha. 273.016, ha dato q. 4.910.000, cioè q. 18,0 per ha. Le provincie emiliane variano da un minimo (Modena) di q. 720.000, nel 1930, a un massimo di q. 1.278.000 (Bologna): in mezzo stanno in posizione di decrescenza Forlì, Piacenza, Ravenna, Ferrara, Parma, Reggio. Per gli altri cereali valgano le cifre di due anni assai distanti fra loro, il 1894 e il 1930.

L'Emilia occupa il quarto posto, fra i compartimenti italiani, dopo la Lombardia, il Veneto e il Piemonte, per il granturco; il terzo per il riso dopo il Piemonte e la Lombardia; e in questo la provincia di Bologna è la prima, in quello la provincia di Modena. Diminuita è l'area, e anche la produzione, fra gli anni anzidetti, delle leguminose, mentre ha avuto incremento la coltura della patata. Per le fibre tessili, canapa e lino, le cifre sono assai distanti: ferace è l'Emilia di canapa, scarsissimo invece è il prodotto del lino: q. 488.800 di canapa nel 1930, q. 390 di lino (tiglio) nello stesso anno. Estesa, invece, è la coltura della barbabietola, 50 anni fa poco conosciuta e sovente avversata; 43.662 ha. erano dedicati a essa nel 1930 e diedero q. 12.461.500 di tuberi. In più di una provincia è già cominciata la coltivazione del tabacco, ma si estende con lentezza, ché troppi obblighi e limitazioni sono imposti dallo stato. In passato l'Emilia tenne il primato della produzione dei vini, benché questi siano di modesta fama; ma negli ultimi anni è stata superata dal Piemonte. 834.162 ha., più in pianura che in collina e in montagna, sono a coltura promiscua, e 20.563, più in collina che in pianura, sono a coltura speciale: 7.341.000 quintali di uva produssero le viti nel 1930; la produzione di vino nello stesso anno fu di hl. 4.332.000. Stanno al primo posto le provincie di Reggio e di Modena, per ultima viene Ferrara. L'ulivo si ha quasi soltanto nel Forlivese e nel 1930 la produzione fu di hl. 3000 di olio. L'area data ai prati naturali e a quelli artificiali è non sempre calcolata dalle statistiche e la produzione è varia secondo le vicende climatiche: nel 1926, ha. 186.400 furono consacrati ai prati naturali e ha. 401.800 agli artificiali, e questi diedero q. 26.302.400 di prodotto, erba medica, trifoglio, lupinella, quelli 4.361.000 quintali. Il raccolto delle castagne è in continuo aumento e le cifre che a esso si riferiscono vanno dal quinquennio 1879-83 (quintali 240.900) al 1930 (q. 575.400 su ha. 57.889).

I boschi, formati di essenze diverse a seconda dell'altezza - da 100 a 600 m. querce, olmi, aceri, pini, cipressi, lauri; da 600 a 800 m. carpini, ontani, cerri, ginepri, cornioli e betulle; oltre gli 800, aceri, ontani, faggi - costituivano al principio del secolo un'area di 2520 kmq. e questa s'è mantenuta intatta, sì che l'Emilia fra i vecchi compartimenti occupa il terzo posto dopo la Sardegna e la Liguria. Piccola è l'area demaniale (39 kmq.), ma larga è la zona soggetta a vincolo forestale. Molte altre piante dà l'Emilia: gelsi in tutta la pianura - 844.700 q. di foglie nel 1930 - alberi fruttiferi un po' dappertutto.

Oggi però alla coltivazione sparsa degli alberi da frutta si va sostituendo il frutteto razionale soprattutto in provincia di Ravenna specie nel comune di Massalombarda. Inoltre va riducendosi la coltura a orti che prima era intorno alle mura della città o anche dentro le città stesse.

Allevamento. - L'estensione dei prati e dei pascoli ha permesso l'intensificarsi dell'allevamento degli animali. I bovini predominano e in 40 anni si sono quasi raddoppiati: 659.000 nel 1881, 1.082.089 nel 1918. Più che raddoppiati sono i suini -, da 142 mila a 335 mila negli stessi anni -. e questo per soddisfare ai bisogni dell'industria delle carni insaccate che va facendosi più fiorente. Invece decrescimento notevole presentano gli ovini e i caprini, ridotti quasi alla metà e in conseguenza s'è ridotta la lana. Quanto agli equini, al piccolo aumento dei cavalli risponde la diminuzione degli asini; i muli e i bardotti sono rimasti stazionarî. Il censimento del bestiame del 19 marzo 1930 diede per l'Emilia i seguenti risultati (dati provvisorî): cavalli 82.025, asini 28.706, muli 5973, bovini 1.159.951, ovini 233.896, caprini 10.019, suini 599.704. Nella produzione del bachi da seta l'Emilia occupa il 4° posto: da q. 28.000, media del quinquennio 1910-14, è salita a q. 34.100 nel 1925, ma è scesa a 28.291 nel 1930. Un regio osservatorio bacologico è a Bologna, e molti stabilimenti per la preparazione del seme-bachi sono nel Reggiano.

L'allevamento del pollame, la produzione delle uova, l'apicoltura, la cacciagione, l'ucellagione, la pesca d'acqua dolce sono attività assai largamente diffuse, ma sfuggenti a ogni indagine anche attenta.

Miniere. - L'Emilia non ha ricchezza di minerali, ma non ne è neppur priva. I minerali che tengono il primo posto sono lo zolfo e il petrolio: questo si estrae dai pozzi del Piacentino (Velleia e Montechino) e del Parmense (Fontevivo); quello dalle miniere dei comuni di Cesena e di Mercato Saraceno, nel Forlivese. Lo zolfo si estrae dal principio dell'Ottocento, e tutte le miniere romagnole (38 nel 1928) appartengono alla Società Montecatini; invece più recenti sono le trivellazioni dei pozzi di petrolio, poiché le prime risalgono al 1888. L'Emilia, con le tre miniere di Velleia, Montechino e Montechiari costituisce la più importante zona petrolifera italiana. Il petrolio è raffinato negli stabilimenti di Fiorenzuola d'Arda e di Fornovo.

Le acque minerali da bere e per bagni sono numerose in tutta l'Emilia: nel Piacentino, presso Bacedasco, ci sono numerose sorgenti di acque specificatamante indicate per le malattie della pelle e per le artriti; nel Parmigiano, oltre alle acque di Salsomaggiore, utilizzate fin dal Quattrocento come ricche di sale e fin dalla metà del secolo scorso (1839) come ottime per la cura di certe malattie, si hanno le acque solforose e calciche di Tabiano e le acque solforate e salifere di Sant'Andrea di Medesano; nel Bolognese il principale centro è Porretta con 11 fonti termali salinosolfidrate e clorurate-solforose, vengono poi le terme di Castel San Pietro (acque alcalino-salsobromoiodiche-ferruginose) e le acque solforose di Castiglione. Forlì ha fra le altre le acque salso-iodiche, sulfuree, ferruginose di Riolo. L'Emilia conta inoltre 2 saline, quella di Comacchio (Ferrara), riattivata al principio dell'Ottocento, che dà circa 100 mila q. di sale, e quella di Cervia (Ravenna), di vita secolare, che dà una produzione leggermente superiore.

Altra ricchezza mineraria è quella della torba, che è estratta nel comune di Codigoro (Ferrara). Il Piacentino (Ferriere e Farini d'Olmo) e il Parmigiano (Berceto) hanno miniere di rame. Tracce di lignite s'incontrano nel comune di Bardi (Parma) e cave di marmo, di pietra arenaria, di granito, di macigno, di pietre molari, di pietre da calce e da cemento, di gesso, da Piacenza a Forlì, nei terreni montuosi.

Industrie. - L'Emilia, intensamente agricola, non ha nessuna grande industria, pur non mancando di stabilimenti industriali. E questo ci è anche confermato dalle cifre relative all'energia elettrica (93.794 kw. nel 1927) per cui in Italia vi sono 10 compartimenti che ne producono di più e solo 7 che ne producono di meno. Ecco la tabella dei due censimenti industriali, quello del 1910 e l'altro del 15 ottobre 1927:

Le industrie alimentari sono le principali e fra di esse sta in prima linea il caseificio: le provincie occidentali, da Piacenza a Modena, e sopratutto Parma e Reggio, sono quelle che più abbondano di latte e fabbricano più formaggi, che costituiscono materia di proficua esportazione. L'industria molitoria, sparsa un po' dappertutto, ha il suo centro nel Ferrarese, e le pile e i brillatoi di riso sorgono numerosi in molti comuni del Bolognese. Distillerie di alcool hanno la provincia di Ferrara e quella di Reggio (Correggio); fabbriche di liquori, di confetture e di cioccolata quelle di Bologna e di Parma. Mentre dappertutto si fabbricano paste alimentari, e la lavorazione delle carni suine ha specialmente fama nelle provincie di Bologna, Modena e Parma, quest'ultima città è il centro più reputato per la fabbricazione delle conserve di pomodoro e Comacchio per la preparazione e la marinatura del pesce e delle anguille. Ma domina su ogni altra attività quella degli zuccheri: in essa l'Emilia occupa il 2° posto dopo il Veneto: le fabbriche attive sono 21 con una produzione giornaliera di q. 222.100 di bietole. Fra le industrie minerarie hanno onorevole posto nell'Emilia le cave di pietra e di argilla, onde le frequenti fornaci da calce, da gesso, da cemento e da laterizî, che sono centinaia, e le fabbriche di maioliche e di ceramiche (Faenza e Imola). Inoltre aumentano continuameute di numero le officine per l'illuminazione elettrica, mentre s'ingrandiscono e si fanno più moderne quelle per la fabbricazione del gas; seguono poi le fonderie di ghisa, di ottone e di bronzo (Bologna, Modena e Ravenna), le officine meccaniche (Bologna e Modena), le officine ferroviarie (Bologna e Rimini), le officine ortopediche (Bologna), le fabbriche di letti di ferro (S. Giovanni in Persiceto, Bologna). Fra le industrie chimiche meritano di esser ricordate le fabbriche di candele e di saponi (Bologna, Pontelagoscuro, Ferrara), di polvere piriche (Bologna e Modena), di fiammiferi (Bologna), di profumerie (Bologna e Parma), di prodotti farmaceutici (Bologna) e le fabbriche di ghiaccio un po' dappertutto. In 7 provincie - fa eccezione Forlì - sorgono stabilimenti che producono concimi chimici.

Solo le industrie tessili hanno subito nell'Emilia un notevole regresso: così l'industria serica ha 4 stabilimenti di seme-bachi nel Bolognese, ha 13 filande a fuoco e 13 a vapore (Bologna, Modena e Cento); quella della lana ha 11 stabilimenti; iutifici sorgono a Ravenna e presso a Bologna, canapifici nel Bolognese; a Bologna e a Cesena - industria tutta casalinga - si fabbricano pizzi e merletti: vanno soprattutto famosi quelli dell'Aemilia ars, fiorente a Bologna. L'industria tessile casalinga, assai antica e un tempo diffusissima, è decaduta: ne mancano statistiche recenti. Industria prettamente emiliana è quella delle trecce e dei cappelli di truciolo si lavora anche il tagal -, che ha il suo centro a Carpi e dà lavoro a domicilio a circa 25 mila operaie.

Aggiungiamo infine le cartiere (Bologna), l'industria tipografica (Bologna e Parma), le concerie di pelli (Ferrara e Parma), i calzaturifici (Bologna e Parma), le falegnamerie e le ebanisterie (Bologna e Faenza), le manifatture tabacchi (Bologna e Modena).

Comunicazioni. - Viabilità. - L'Emilia ha uno sviluppo di strade che, per lunghezza, occupa il 4° posto in Italia, mentre è 3ª, se si confronta la lunghezza delle strade con l'area da esse solcata. La Via Emilia può esser considerata come la spina dorsale della regione e ad essa giungono da nord e da sud numerose strade, come altrettante lische, che vanno al Po e ai valichi appenninici.

Fra queste sono da notarsi:1. la strada Rimini-S. Marino; 2. la Forlì-Rocca S. Casciano per la valle del Montone, che si biforca in 2 rami, di cui uno per il Passo di S. Benedetto discende a Pontassieve e a Firenze e l'altro per la valle dell'Archiano perviene ad Arezzo; 3. la Faenza-Firenze per la vallata del Lamone; 4. la Bologna-Firenze per la Futa; 5. la Bologna-Firenze per la valle del Reno; 6. la grande via Giardini che conduce da Modena a Pievepelago e di qui per l'Abetone a Pistoia e per il Passo delle Radici a Lucca; 7. la strada che da Reggio per la vallata del Secchia e il Passo del Cerreto discende in Lunigiana; 8. la Parma-Berceto che valica l'Appennino al Passo della Cisa e a quello di Cento Croci; 9. la strada Piacenza-Bobbio- Genova per il Passo di Torriglia.

Le strade di pianura così si seguono da est a ovest: 1. strada ForlìRavenna; 2. strada Bologna-Ferrara; 3. strada Modena-Mirandola-Ostiglia; 4. strada Modena-Mantova; 5. strada Reggio-Guastalla; 6. strada Parma-Piadena; 7. strada Piacenza-Crema; 8. strada Piacenza-Lodi; e se aggiungiamo la via Flaminia che da Rimini prosegue lungo il mare a sud e la Romea che unisce Rimini con Ravenna e con Ferrara, abbiamo il quadro delle principali arterie che infinite altre, minori, uniscono, raccordano, variano.

Ferrovie. - Le ferrovie obbediscono alla topografia dell'Emilia; perciò corrono parallele alle vecchie vie. La spina dorsale della rete ferroviaria emiliana è costituita dalla linea che a valle della Via Emilia la segue da Rimmi a Piacenza, e da essa muovono linee trasversali o salenti verso i valichi appenninici o correnti per la pianura. Tre linee partono verso il sud da Faenza, da Bologna e da Parma, congiungendo queste città con Firenze e con La Spezia e sono prolungate verso N. dalla Faenza-Ravenna, dalla Bologna-Ferrara, dalla Bologna-Verona e dalla Parma-Brescia. Completano il quadro della rete che corre per l'Emilia la litoranea CattolicaRimini-Ferrara, le parecchie linee secondarie, le tranvie a vapore o elettriche, a scartamento ordinario o ridotto. Ma un'altra linea s'aggiungerà ben presto alle precedenti, e cioé la direttissima Bologna-Firenze quasi compiuta che accorcia di 35 km. la distanza fra le due città e attraversa l'Appennino entro una galleria di 18 km. Già si pensa di unire Genova con Piacenza per le valli della Scrivia e della Trebbia, e s'è lanciata la proposta, confortata da ragioni militari, di una linea Borgotaro-Genova. Inoltre s'è dato inizio ai lavori della Ferrovia Rimini-San Marino e non s'è abbandonato il progetto di unire S. Arcangelo con Urbino. Nel 1921, la rete delle ferrovie emiliane misurava 1384 km., ma a questa cifra bisognerà fra breve far parecchie aggiunte. Le tranvie a vapore o elettriche intercomunali o comunali avevano nel 1928 uno sviluppo di 813 km. I servizî automobilistici oltrepassano i 230.

Porti. - L'Emilia presenta 122 km. di costa bassa e sabbiosa divisa fra le provincie di Forlì, Ravenna e Ferrara, preceduta nel Ferrarese, da valli. Su questa costa s'aprono porti o su canali-navigli o alle foci di fiumi rettificati: Cattolica, Rimini e Cesenatico, nel Forlivese; Cervia e Ravenna, i porti di Goro, di Volano e di Magnavacca o Porto Garibaldi nel Ferrarese. Ma per la sua conformazione o perché questi porti tranne Ravenna non sono toccati da importanti linee di navigazione, l'Emilia spetta al hinterland di altri porti dell'Adriatico e dei porti liguri e toscani. Così Piacenza e Parma hanno più vantaggio a servirsi dei porti di Genova, della Spezia e di Livorno; Reggio può attingere merci indifferentemente dai porti dei due mari; Modena e Bologna sentono la convenienza dei porti adriatici non esclusa Venezia; le provincie orientali sono attratte verso l'Adriatico, e Ferrara si vale anche del Po, dove ha il porto di Pontelagoscuro, distante solo 6 km.

Centri abitati. - Degli otto capoluoghi di provincia sei sono posti sulla grande bisettrice, la Via Emilia, e due, Ravenna e Ferrara, sulla continuazione della Via Flaminia, la Romea. Ma sulla Via Emilia altri centri minori sorgono, fra un capoluogo e l'altro, Fidenza (6561 ab. nel 1921) a 35 km. da Piacenza e 22 da Parma, Imola (15.497 ab.) a quasi 34 km. a SE. di Bologna, sul Santerno il Forum Cornelii antico, con ricchezza di commerci, con fabbriche e abbondanza di prodotti del suolo, Faenza (abitanti 22.469) che spetta alla provincia di Ravenna, da cui dista 32 km., a 50 km. da Bologna, sulla sin. del Lamone bella città che ha due industrie fiorenti, quella delle ceramiche e l'altra dei mobili, Cesena (abitanti 15.945) ai piedi dei colli, sulla destra del Savio, a 19 km. da Forlì, ricchissima di prodotti della terra, ridente e linda, e Rimini a 112 km. da Bologna, sul mare, con 21.306 ab., che sa conciliare il rispetto alle antichità e agli stupendi monumenti medievali con le esigenze della vita moderna. A sud e a nord di questa linea di centri abitati abbiamo due altre serie di piccole città e di borghi, famosi storicamente e oggi di notevole aiuto allo sviluppo economico della regione. I centri meridionali non sono posti sulla stessa linea, ma nelle vallate penetranti verso il crinale appenninico, tappe ultime verso la Liguria e la Toscana. Così Bobbio, sulla Trebbia (2260 ab.), ricca di storia ecclesiastica, è sulla strada che per i passi di Torriglia e della Scoffera conduce a Genova; Bettola (1186 ab.) sul Nure, nel Piacentino, è centro di attivi mercati e da essa parte la mulattiera che porta al passo della Crociglia; Borgo Val di Taro, sulla ferrovia Parma-La Spezia, con 1948 ab., è in bella posizione e ha attorno cime alte; Castelnuovo de' Monti è sulla strada del Cerreto che scende a Fivizzano ed è paese ridente, in una conca erbosa: conta 843 ab. e dista quasi 51 km. da Reggio. Pavullo (1940 ab.) e Vergato (1431 ab.) sono rispettivamente i centri montani del Modenese e del Bolognese, luoghi d'incontro dei prodotti di tutta la montagna, mercati frequentatissimi; Rocca San Casciano (2140 ab.) che dista 28 km. a S.-SO. di Forlì, sulla sponda del Montone, fu aggiunta all'Emilia nel 1923, perché vi si parla un dialetto e si osservano abitudini del tutto romagnole. Questi centri montani, la cui importanza cresce con il migliorarsi delle vie hanno una popolazione scarsa e sono fra le località a minor densità: ex-circondarî di Borgotaro (51), di Rocca S. Casciano (59), di Pavullo (73), e di Vergato (91).

Nella pianura più numerosi sono i centri e più ricchi di popolazione: la fertilità delle terre è giustificazione del fitto raccogliersi di abitanti, tranne nei luoghi presso le valli di Comacchio, dove la densità giunge solo a 81 ab. per kmq. (ex-circondario di Comacchio). Lugo e Bagnacavallo, con 10.467 e 3676 ab., Conselice, Cotignola e Fusignano sono nell'ex-circondario di Lugo e appartengono a Ravenna: centri agricoli e non privi di qualche industria, sorgono nell'uguale e grassa pianura. Codigoro. (4805 ab.), Comacchio (8967 ab.), centro dell'attività peschereccia delle valli e dell'industria della conservazione del pesce, Argenta (3079 ab.), Bondeno (3379 ab.), Copparo (5317 ab.) e Portomaggiore (4193 ab.) sono nel Ferrarese più vicino alle valli, ricco di canapa e di frumento, mentre in quella parte che sta più a occidente sorge Cento (4942 ab.), uno dei luoghi più intensamente popolati (21.190 ab.), bella cittadina che vanta opere d'arte e nomi illustri.

La provincia di Bologna ha pochi luoghi nella bassa pianura, ché la popolazione vi è sparsa: si notano S. Giovanni in Persiceto e Crevalcore sulla ferrovia Bologna-Verona, luoghi di bonifiche produttivissime; Modena invece ha due cospicui centri, già sedi di fiorenti ducati, Carpi (11.272 ab.) e Mirandola (4424 ab.); Reggio ha Correggio (3621 ab.), capitale di una contea indipendente e poi principato, quello dei Correggeschi, e Guastalla (3605 ab.), anche essa sede di una signoria che ebbe, però, breve durata.

Parma ha Colorno (3977 ab.) e Busseto (1821 ab.), che diede i natali a G. Verdi; e Piacenza ha Castell'Arquato (2103 ab.), Fiorenzuola d'Arda (4180 ab.), sulla Via Emilia, con le sue raffinerie di petrolio, Castel S. Giovanni (8017 ab.), ricca borgata in vicinanza del Po. Dobbiamo ricordare ancora i due comuni di Salsomaggiore (4155 ab.) nel Parmense, e di Riolo dei Bagni (1131 ab.) nel territorio di Ravenna, molto favorevolmente noti per la salubrità delle loro acque: Salsomaggiore, che in questi ultimi anni ha avuto uno straordinario sviluppo, è dotata di grandiosi stabilimenti idroterapici e di alberghi lussuosi.

Bibl.: A. Zuccagni Orlandini, Corografia dell'Italia, Firenze 1835; Dizionario corografico univ. dell'Italia, Milano e Verona 1854-58, II, II e III, I; L'Appennino bolognese. Descrizione ed itinerari, Bologna 1881; D. Giannitrapani, Cenni sulla oroidrografia del Bolognese, Bologna 1881; id., L'Appennino bolognese, Roma 1884; E. Rosetti, Ciò che si deve intendere per Romagna ed Emilia, in Boll. d. Soc. Geogr. Ital., 1887; P. Busin, Le temperature nell'Emilia, nella Lombardia e nel Veneto, Bologna 1888; E. Rosetti, La via Emilia-Romagnola, Milano 1888; Relazione sull'Emilia, unita alla Carta Idrografica d'Italia, Roma 1888; Le opere idrauliche nell'Emilia. Mali e rimedi, in Rassegna naz., 1890, pp. 725-51; Monografie provinciali (notizie sulle condizioni industriali), Roma 1887-1895; L'Appennino modenese, Rocca San Casciano 1895; E. Rosetti, Emilia e Romagna, in Boll. d. Soc. Geogr. Ital., 1899; F. Viezzoli, L'Emilia, in Marinelli, La Terra, IV, pp. 731-797; G. Strafforello, La patria, Torino 1900, vedi i volumi contenenti le 8 prov.; A. Brian, L'Appennino parmense, Parma 1903; U. Ferrari, Monografia statistico-economica della prov. di Ferrara, Ferrara 1908; A. Maurel, Petites villes de l'Émilie, Parigi 1908, II; S. Govi, L'appennino modenese, Modena 1910; Carta idrografica d'ltalia. La pianura emiliana dal Panaro al Marecchia, Roma 1910; Monografia industriale di Forlì, Forlì 1926; Censimento della popol. del Regno d'Italia al 1° dic. 1921, VIII: Emilia, Roma 1927; La circoscrizione politico-amministrativa delle prov. del Regno d'Italia, in Atti del X Congresso Geografico Ital. (1927), pp. 129-153, relazione di S. Fabbri; Ministero dei lavori pubblici, Le bonifiche in Italia, Roma 1927, pp. 26-31 e 45-49; Bellezze d'Italia. L'Emilia, Milano [1928]; M. Longhena, Emilia, nella collezione La Patria, 1ª ed., 1926, 2ª ed., 1930.

Folklore.

Il folklore emiliano conserva caratteristiche e, talvolta, singolari costumanze. Al tramontare dell'anno i villaggi della zona montuosa echeggiano dei canti dei fanciulli, che chiedono la strenna. Le famiglie raccolte attorno al focolare traggono gli auspici dal sibilo e dal movimento della fiamma, ovvero dal saltellare, dal crepitio o dal bruciarsi dei chicchi di meliga o di frumento, sparsi sulla cenere calda.

Bologna è rinomata per i corsi mascherati, le cuccagne, i balli pubblici e le maschere (il celebre "Dottor Balanzone"; v. dottore) ma fra i divertimenti carnevaleschi merita di essere ricordata anche la gnoccolata di Guastalla, alla quale prende parte il "Re de' gnocchi" con la sua corte sul carro trionfale.

L'uso dei maggi esiste ancora in varî luoghi, sulle montagne piacentine, modenesi e parmensi. In quest'ultima località ha la forma di rappresentazione, sulla traccia di quelle teatrali fiorite tra il '400 e il '500; nelle altre due ha la forma di un rito augurale di carattere amoroso. Dei riti nuziali emiliani sono meritevoli di considerazione la fuga dei promessi sposi qualche giorno prima della celebrazione, e il ritorno della sposa, in compagnia del marito, alla casa paterna, otto giorni dopo le nozze. Il primo, col nome di "scappata della sposa", si trova nel territorio dell'antico patrimonio matildico [Carpineti, Canossa, Bibbiano); il secondo, che col nome di "ritornello" è diffuso anche nella Romagna, si incontra nel contado di Gonzaga.

I montanari dell'alta Val di Nure, sull'alba del 2 novembre preparano per le anime dei defunti il "refrigerio" (zuppa di pere e castagne bollite), che collocano fra due candele accese: interessante sopravvivenza dell'antico refrigerium cristiano; e quelli della valle della Trebbia pongono nelle mani del morto, prima di sotterrarlo, una moneta di rame. Leggende di demonî e di santi, di maghi e di eroi corrono attorno ai vecchi castelli, ai conventi, ai boschi, interpretando talora fantasticamente le bizzarrie della natura o gli aspetti dei paesaggi. V. anche caveja, IX, p. 561.

Bibl.: A. Testoni, Il vecchio carnevale di Bologna, in Cordelia, 1931, pp. 75-77; La grande gnoccolata guastallese, in Il Resto del Carlino, 7 febbraio 1930; F. M., Folklore gonzaghese, in Il Carlino della sera, 21 gennaio 1930; E. Tammi, I cantimaggio di Valnure, Piacenza 1928; C. Pigorini-Beri, Di un singolare uso nuziale nel patrimonio matildico, Città di Castello 1911; G. Pitrè, Bibliografia delle trad. pop. d'Italia, Torino 1894.

Dialetti.

Il sistema dialettale emiliano-romagnolo si propaggina all'ovest sino a Voghera e a Pavia; s'inoltra poi, tra il veneto e il lombardo, a Mantova.

Vocalismo. - Uno dei caratteri più salienti è il palatalizzarsi di á libero, per cui si ottiene una scala di suoni che va dall'ā all'é, cominciando da Piacenza sino all'Adriatico lungo la via Emilia; a settentrione e a mezzogiorno della quale, abbiamo larghe distese in cui á è conservato. Il grado più nitido di palatalizzazione si ha da Parma a Modena, dove il suono è ä, cioè e aperta lunga, tinta di a (tale da non confondersi né con a, né con è, né con é). A occidente di questa zona centrale, dove si ha, ad esempio, grÛda "graticcio" (da crate-), rÛva "rapa" ecc., predomina l'a (p. es. a Firenzuola: sāl "sale", amār "amaro"); a oriente predomina l'e, tanto che già a Bologna oggi riuscirebbe difficile o impossibile distinguere fra ä ed ê, fra la tonica di un päl "palo" e quella di un kapêl "cappello", in quanto entrambe suonano ê. In Romagna, quest'ê si continua e volge ad è in varie località (p. es. a Faenza). In alcuni dialetti, come a Parma, Reggio, Modena, la palatalizzazione di á è stata impedita dal contatto di una nasale; in altri, come a Bologna, la nasale non ha prodotto alcun effetto (bol. rêna, kampêna, galêna "tartaruga", ecc.).

In gran parte del sistema, gli esiti di ê ed e??? e di o??? e o??? in sillaba libera si sono fusi rispettivamente in e??? e o??? (p. es. mod.-regg. de???ś "dieci" e se???da "seta"; nîv "nuovo" e gîla, vo???ś "voce", ecc.); ma si noti: 1. che nella sezione occidentale l'o??? si è svolto, alla guisa lombarda, in ö (növ "nuovo"): questo suono da Piacenza e da Parma si prolunga giù per l'Appennino emiliano sin verso Modena, mentre, oltre Parma, la via Emilia è fiancheggiata da o???; 2. che l'o??? a Bologna si fa åu (p. es. mod.-regg., fiîr, bol. fjåur "fiore") e in romagnolo giunge a u; 3. che l'e???, quando provenga da ē o ĭ latini, per larghe zone si sviluppa, alla gallica, in ei e åi (a Bologna), mentre, quando risale al lat. ĕ, in romagnolo si fa i. Si aggiunga che in due zone si ha la pronunzia ü per ö (dür, madür "maturo") e cioè nell'Appennino modenese (a Sestola e dintorni) e a Piacenza. Però, queste due zone si congiungono attraverso una striscia di varietà dialettali appenniniche (nelle quali si ode anche ö per o??? in sillaba libera), mentre lungo la via Emilia, a cominciare con Parma, domina incontrastato l'u.

Per le vocali in posizione (salvo dinanzi a r, l + cons. e dinnanzi a ś + nas. o j), sono da rilevarsi i seguenti fenomeni: 1. l'á non si palatalizza; 2. l'ê e l'o??? rimangono intatti; 3. l'e??? e l'o???, l'í e l'ú subiscono nuovi, ulteriori sviluppi in gran parte del dominio (rispettivamente æ, å; e???, o???, p. es. regg.-mod.-bol. sæćća "secchia", båtta "botte", me???ll "mille", bo???st "busto" ecc.).

Le vocali finali cadono (salvo -a, che permane) dopo il digradamento delle consonanti intervocaliche, onde abbiamo: fo???ø "fuoco", nvo???d "nipote", ecc. Se, in seguito a questa caduta (per la quale, meglio ancora che per altri fenomeni, i dialetti emiliani si stringono al sistema gallo-ladino) si produce l'incontro di consonanti non pronunciabili, si sviluppa entro il gruppo una vocale oscura, che in genere è ə (e), ma che in diversi dialetti appare come a, a seconda che il vocalizzarsi di r e l sia er, el o ar, al (p. es. salvádeg "selvatico", dove abbiamo mägêr "magro"; salvádaø dove abbiamo mägar).

In tutto il sistema, con maggiore o minore intensità, si sentono ancora gli effetti della metafonesi di -ī. Bologna, ad es., ha oggidì la metafonesi di î e e??? anche nei sostantivi (amåur, amur; mæiś, miś), mentre Modena ormai non la mantiene che nelle finali in -ētis (questo fenomeno è vivissimo nella restante parte del dominio), nella voce tres (trí), nel vocabolo caví "capello" (un plurale passato al singolare) e nei pronomi quæst, plur. quist; quæll, plur. quí "questo -i; quello -i". Diffusa è altresì la metafonesi di o??? e di ê (p. es. "piede": pe??? "piedi") e nella desinenza -ale. Da questo stato di cose frammentario risulta che per il passato i dialetti emiliani, come provano anche i documenti, furono sensibilissimi alla metafonesi e che questa va perdendosi per influsso toscano e letterario.

Consonantismo. - È notevole lo scempiarsi, come nei dialetti settentrionali, delle consonanti geminate (le cosiddette doppie); ma nella zona centrale, per lo meno, del sistema accade che le geminate siano rimaste tali, quando erano precedute da una vocale chiusa (cioè: e???, o???, í, ú), non tanto, crediamo noi, per effetto della qualità di queste vocali, quanto per effetto della quantità loro, suscettive com'erano in questa condizione di modificazioni ulteriori e perciò sottomesse agli squilibrî della catena sillabica turbata (p. es. moden. bota "colpo, botta", ma batta "botte"; scæćća "secchia" e vêća "vecchia"). Si vede da ciò come vada corretta l'opinione vulgata che i dialetti emiliani non abbiano in niun caso geminate: le hanno, invece, nel caso surriferito, quando cioè la vocale tonica era non soltanto chiusa ma breve in romanzo.

Le consonanti semplici o brevi intervocaliche digradano (ríva, fadíga); il -d- in non pochi dialetti dev'essere scomparso ed essere stato reintrodotto per influsso dotto, come è mostrato da certe voci quali pjîć (plur. divenuto sing.) "pidocchio" e in certi derivati che non hanno -d-: ragáñ (cioè radicaneu-, specie di fungo che cresce ai piedi degli alberi annosi), mentre nel termine positivo il -d- compare (radíś "radice", ma nelle campagne: raíś). In ogni caso, il digradamento è anteriore allo scempiamento delle geminate (per es. riva "ripa", ma kápa "cappa"). I: caratteristico di questi dialetti l'assimilarsi o il dissimilarsi o, in genere, il trasformarsi di certe consonanti, quando vengano a trovarsi in contatto, specie in sillaba protonica, per ragione della frequente caduta delle vocali atone (salvo a) prima dell'accento (altro tratto distintivo dell'emiliano): fsíga, psíga "vescica"; moden. ǵíva (dśíva) "diceva"; bol. ćnîm "moine, lezî", cioè dsnum "dissennume"; mod. tméin "comino" tñåsser "conoscere", ecc. Le consonanti nasali influiscono, in grado diverso, sulle vocali, ma ogni ulteriore modificazione procede da un fenomeno di chiusura preliminare, per cui un -ein da -īnu- o un -óun da -ōne-, o un vin, tin "viene, tiene", ecc., ecc., sempre risalgono a una vocale stretta o a un dittongo il cui elemento vocalico sia stato fortemente chiuso. Nei dialetti occidentali estremi, la nasale fra vocali è fortemente faucale (lañna "lana"). In specie nei dialetti orientali è sentita la nasalizzazione alla finale.

Dei gruppi consonantici, sarà opportuno mettere in vedetta quello di l + cons., che oggi appare conservato o, meglio, ricostruito nelle città, mentre nelle campagne è assai diffuso lo sviluppo per j + cons. soprattutto quando la consonante sia nasale labiale o gutturale (per es. ójem "olmo", biójca "biolca). Ma il fenomeno non fu ignoto, per il passato, anche dinnanzi a dentale, com'è dimostrato, ad es., dalla voce sóido (detta di terreno, negli antichi documenti emiliani), che non può essere che un "solido".

Morfologia. - I femminili plurali, nei casi in cui abbiano accanto un maschile, insieme con gli aggettivi femm., presentano un -i (amíøi "amiche", masch. plur. amíø; arźdori "massaie", masch. arźdo???r, arźdúr "massai, reggitori"; bèli "belle", masch. be??? "belli"). Negli altri casi, quando il sostantivo femminile non abbia accanto un maschile, la vocale finale cade, come nei plurali maschili (p. es. furmíø "formiche", ecc.). Numerosi i metaplasmi (re???da "rete", nîśa "noce", ecc.).

Sono ancor oggi conservati i perfetti forti (me???s "misi", pians "piansi", ecc.), che hanno accanto la forma debole (mitè, pianźè, ecc.). Nella 2ª pers. plur., in formula interrogativa, il pron. vos si è ridotto a -v (kantäv? "cantate?"). La finale -amus della 1ª pers. plur. del pres. si è estesa a tutte le coniugazioni. Così il gerundio in -ando.

Sintassi. - La sintassi ha i caratteri di quella alto-italiana (vedi italia: Dialetti). Di stampo gallico è, p. es., l'uso pronominale, che si può esprimere nella formula: "me ego dico", dove e(g)o, a seconda dei dialetti, diviene a o e. Rimangono nelle campagne vestigia di sic (tosc. ) innanzi al verbo (e s de???ø "e dico", "e sì dico").

Bibl.: A. Mussafia, Darstellung der romagnolischen Mundart, in Sitzungsberichte d. Wien. Akad. d. Wiss., Philol.-hist. Kl., LCVII (1871); A. Gaudenzi, I suoni, le forme e le parole dell'odierno dial. della città di Bologna, Torino 1889; E. Gorra, Fonetica piacentina, in Zeitschr. f. roman. Philol., XIV (1890) e Il dial. di Parma, nella stessa Zeitschr., XVI (1892); A. Restori, Note fonetiche sui parlari dell'alta valle di Magra, Livorno 1892; F. L. Pullè, Dialetti, in Appennino modenese, Rocca S. Casciano 1895; A. Trauzzi, introd. al Voc. del dialetto bolognese di G. Ungarelli, Bologna 1901; A. Piagnoli, Fonetica parmigiana, Torino 1904; G. Malagòli, Studi sui dialetti reggiani, in Arch. glott. ital., XVII (1910); G. Bottiglioni, Il dial. di Imola, Imola 1917; F. Schürr, Romagnolische Mundart, in Sitzungsber. d. Wien. Akad. d. Wiss., 1918-1920; G. Malagòli, Noterelle dialettali reggiane, in Studi in onore di N. Campanini, Reggio 1921; M. Casella, Fonologia del dial. di Fiorenzuola d'Arda, in Studj romanzi, XVII (1922); G. Bertoni, Profilo storico del dial. di Modena, Ginevra 1925; G. Malagòli, Fonologia del dial. di Lizzano in Belvedere, in Italia dialettale, VI (1930). (A Gombitelli, villaggio nel comune di Camaiore, all'estremo limite della Versilia, e a Sillano nell'estrema valle del Serchio, si parla un dialetto di tipo emiliano centrale: G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1917, p. 193).

Letteratura dialettale.

La poesia dialettale emiliano-romagnola fa la sua apparizione nel sec. XVI, quando, dopo il completo trionfo del toscano, viene abbandonato il vago ideale di una lingua letteraria alto-italiana a base di elementi regionali e municipali. Nel corso del sec. XVI si fece sentire, con maggiore forza, il distacco fra toscano e dialetto emiliano, come se si trattasse di lingue diverse. Allora quegli scrittori che non si proponevano di scrivere in lingua letteraria, ma in dialetto, procurarono di attenersi, quanto più poterono, alla loro parlata schietta e genuina.

Nel Cinquecento, il verseggiatore che più richiama l'attenzione, è il modenese Ippolito Pincetti, detto il Paisàn da Mòdna, arguto e festoso, morto nel 1595. Nel secolo seguente, composero versi dialettali a Bologna Giulio Cesare Croce (v.), l'autore ben noto del Bertoldo, e in Romagna un anonimo di Cesena (Pulòn matt, cantlena eroica) e un certo Ludovico Gabbusio, a cui si deve una frottola ancora inedita, la Batistonata. In realtà, la poesia dialettale fu poco feconda e di quasi nessun valore letterario in questo secolo e nel seguente. Poesia di carattere borghese e paesano, anche quando fu trattata da uomini colti e dotti. A Bologna fiorirono Lotto Lotti, autore del poema La liberazione di Vienna, Giuseppe Maria Buini (autore del Bertuldin dalla Zena, nonché di una versione dialettale della Secchia Rapita), Giambattista Gnudi e qualche altro. A Parma vissero Gaspare Bandini, Giuseppe Callegari, Tommaso Gasparotti e pochi altri. Di Angelo Mazza si sa che scrisse versi in dialetto, benché nulla di lui ci sia rimasto. A Modena il Cimicelli tradusse il Tassoni e il Muratori compose in buon dialetto alcuni pochi sonetti. A Ravenna non sono da dimenticare alcuni scrittori più moderni, Lorenzo Montanari (morto nel 1825) e Iacopo Landoni (morto nel 1855). Un testo interessante bolognese è la versione del Cunto de li cunti del Basile (La ciaqlira dla banzola, "La chiacchierata della banchicciuola", le chiacchiere da banca), e notevole è la parmense Catlenna d' Spazzadour, commedia in lingua rustica.

Più ricco di scrittori dialettali è stato il sec. XIX. Sono due autentici capolavori le commediole di Paolo Ferrari: La butéga dal caplèr (La bottega del cappellaio) e La medseina d'onna ragazza malèda (La medicina di una ragazza ammalata) ridotte in italiano dallo stesso autore. Versi dialettali di qualche pregio hanno scritto a Piacenza Vincenzo Capra, Agostino Marchesotti, entrambi fioriti intorno alla metà del secolo, e Valente Faustini (morto nel 1922), a Parma Domenico Galaverna (morto nel 1903), autore della Vita d' Batistein Panada, a Reggio Giovanni Ramusani (1851-1923), a Modena Emilio Roncaglia, Enrico Stuffler (Fulminant) e Lionelln Baccarini (Al Grell).

Oggi la poesia dialettale è coltivata un po' dappertutto in Emilia. A Bologna A. Testoni ha creato il tipo della Sgnera Cattareina (la quale parla una lingua fra letteraria e bolognese) e in Romagna scrive Aldo Spallicci, poeta un poco pascoliano, che si eleva talora a una vivace originalità e personalità. Va, infine, ricordata la rivista romagnola La piê, che si pubblica dal gennaio del 1920.

Bibl.: B. Biondelli, Saggio sui dialetti gallo-italici, Milano 1853; F. L. Pullè, Poeti dial. modenesi, Bologna 1891; A. Boselli, Testi dial. parmensi, in Arch. stor. per le prov. parm., n. s., V (1906); id., La Catlenna, ibid., XII (1912); O. Begani, La poesia dial. piacentina, in Boll. stor. piacentino, 1925; A. Nota, Poeti dial. modenesi (con introd. di G. Bertoni), Modena 1931.

Il canto popolare.

Per la materia poetica esso ha i canti narrativi, o canzoni (storiche, romanzesche, religiose), più proprî dell'Italia settentrionale e poi le forme della lirica monostrofica e del canto religioso più proprie dell'Italia centrale e meridionale.

Anche per la materia musicale il canto popolare emiliano mostra varie influenze (p. es. predilezione per il modo maggiore) derivate dal canto più diffuso nell'Italia settentrionale e specialmente dai canti circolari, lirici, corali, a ballo; di quello più proprio delle regioni centrali e meridionali mostra altri caratteri (come la frequenza dei modi antichi e del minore) proprî della melodia del cantare a distesa, legata alle forme dello strambotto e dello stornello.

Tenendo conto della maggiore o minore diffusione di una forma o di un'altra di canto, potremo distinguere: un gruppo romagnolo, un gruppo ferrarese-bolognese, un gruppo reggiano-parmense-piacentino e, più genericamente, due grandi sezioni: la montanara e quella della pianura. La sezione montanara emerge per le sue gaie scapigliate canzoni a ballo, mentre quella della pianura è caratterizzata dalle sue malinconiche e ariose cante in coro.

Difficile poter determinare i successivi stadî storici di queste canzoni. Genericamente, potremo distinguere:

1. periodo. - Le canzoni si sono conservate in una forma più schiettamente dialettale, e in esse l'elemento musicale è, in grande prevalenza, di modo maggiore. Canzoni storiche, romanzesche e domestiche: per es. tna eroina o La bella inglese, Cecilia, La donna lombarda, Ginevra, Frontila e Gismondo, Marión, Andarét a mêssa, ecc...; musica monodica, semplice, efficacissima, di sapore arcaico e di carattere giullaresco.

Canzone religiosa: orazioni dell'Anma danéda, della Passione, di San Giovanni (orazione-scongiuro magico), San Gregorio, Santa Lucia, ecc..., passate in eredità ai mendicanti di campagna e girovaghi: cantate su un motivo circolare - ritornante su sé stesso per inesauribile ripetizione (rondò) - sempre il medesimo per tutte le canzoni, ripetentesi a ogni verso.

Ninne-nanne: canti della nascita, delicati, teneri o drammatici, vestiti di musica dolce, nostalgica e di gusto arcaico.

Maggi: la majea o majé in Romagna, unita a una gioconda cerimonia primaverile dei primi di maggio, con melodia rimodernata. Nell'Appennino modenese fino a poco tempo fa si tenevano ancora le rappresentazioni popolari campagnole del Maggio, a somiglianza dei Maggi del contado toscano, con musica arcaica per canto, accompagnata dal violino.

Cantare alla boara: specie di strambotto, composto di quattro endecasillabi a rime baciate. Poesia arguta e comica del boaro, intonata su musica allegra e saltellante, affine a quella delle maitinade e delle polesane del Veneto.

Cantare alla distesa: stornèla, sturnèla, romanèla, corrispondente allo strambotto e stornello. La melodia è di modo minore.

Questo primo periodo va fino a tutto il 1600 e oltre.

11. Periodo. - Dalla prima metà del 1700 fino alla prima metà del 1800. Linguisticamente, sono piuttosto frequenti le canzoni tradotte nella lingua letteraria o contaminanti più o meno il dialetto con la lingua comune; musica di modo maggiore, assumente aspetti caratteristici locali e inconfondibili.

Canti in coro: si tratta, per la maggior parte, di pastorelle o di storie amorose in prevalenza allegre: La pastora e il cavaliere, La pesca dell'anello, L'amante confessore, La vien dalla montagna, Io son nata fra le rose, Mariulin bel Mariulin, La rondinella d'amore, ecc.... La caratteristica regionale è data dalla parte musicale, che si dimostra unica per la maniera (in coro), per lo stile melodico, per il sistema cadenzale, per il modo (costantemente maggiore) e per la struttura (bipartita e tripartita). Questi canti possono poi essere: in coro con assolo iniziale, in coro con assolo nel mezzo, per assolo accompagnato dal coro, a due o tre voci virili, raddoppiate all'ottava da due o tre voci femminili; intonati a orecchio per terze, per quarte, per quinte, seguendo un principio armonico elementare. Questi canti, in Emilia e specialmente in Romagna, prendono un carattere che li differenzia da quelli affini delle altre regioni.

Canzone a ballo: di due generi, vocale e istrumentale. Il genere vocale ha per tipi il Trescone e la Veneziana: due parti, una melodica e cantata, con parole dialettali sopra un'aria affine o simile a quella del cantare alla boara, l'altra anch'essa cantata e imitante (con le sillabe la e la) un ritmo istrumentale alfine a quello della tarantella meridionale. Il genere istrumentale conta parecchi tipi di danza, di forma bipartita e tripartita e su melodia di gusto settecentesco o del primo Ottocento. Gl'istrumenti arcaici e pastorali in Emilia sono scomparsi quasi completamente e hanno ceduto il campo all'organino a mantice e al violino o al clarinetto accompagnati dal violoncello (lirone).

iii periodo. - Dalla seconda metà del 1800 a oggi. Lingua: un italiano più o meno contaminato da forme dialettali varie; musica generalmente d'importazione o adattata da canti più antichi; canzoni e canzonette a solo accompagnate dalla chitarra.

A completare il quadro van ricordate da ultimo le canzoni di circostanza (per l'Epifania, per San Martino), i proverbî, i gridi dei venditori ambulanti (molto importanti dal punto di vista musicale), gl'indovinelli.

Bibl.: M. Placucci, Usi e pregiudizi de' contadini della Romagna, Forlì 1818; G. Ferraro, Saggi di canti popolari raccolti a Pontelagoscuro, in Riv. di filol. romanza, II, Roma 1875; Canti popolari racc. a Ferrara, Cento e Pontelagoscuro, Ferrara 1877; O. Guerrini, Alcuni canti popolari romagnoli, Bologna 1880; G. Bagli, Saggio di studi sui proverbi e la poesia popolare in Romagna, in Atti e mem. R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, Bologna 1885-86; T. Randi, Saggio di canti popolari raccolti nel territorio di Cotignola, Bologna 1891; G. Bellucci, Saggio di canti popolari romagnoli, Palermo 1893; B. Pergoli, Canti popolari romagnoli, Forlì 1894; G. Ungarelli, Le vecchie danze italiane ancora in uso nella provincia bolognese, Roma 1894; I. Bocchialini, Rispetti d'amore raccolti nell'Appennino parmense, Parma 1924; A. Sorbelli, L'Emilia, Palermo 1925; P. Toschi, Romagna solatia, Milano 1926; M. Spallicci, La poesia popolare romagnola, Forlì 1921; La piê, rivista d'illustrazione romagnola, Forlì, dal 1920 a tutt'oggi; C. Grimandi, Diciotto vecchie canzoni delle campagne emiliane, per canto e pianoforte, Bologna s. a.; E. Masetti, Canti popolari emiliani, per canto e pianoforte, Ricordi, Milano; F. Balilla Pratella, Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano, Bologna 1919; Poesie, narrazioni e tradizioni popolari in Romagna, parte 1ª: Le orazioni, Faenza 1922; Il canzoniere dei canterini romagnoli, Lugo 1923; Cante in coro della vecchia Romagna, libro V della Raccolta corale, Bologna 1929; G. Nardi, Proverbi, frasi e odi proverbiali del ravennate, Imola 1922.

Preistoria.

Le prime documentazioni della vita umana sono attestate nella Emilia dai rinvenimenti di strumenti silicei amigdaloidi nei depositi costituenti le terrazze quaternarie sulla sinistra del torrente Santerno presso Imola, nelle località dette la Merlina e il Monticino, e nel vicino Rio Correcchio, sul lato destro dello stesso Santerno, e in depositi non accertati a villa San Varano presso Forlì. Appartengono questi strumenti silicei al Paleolitico, e precisamente al tipo chelléano.

Più rappresentata è nell'Emilia l'industria moustériana: punte e raschiatoi, ricavati da grandi schegge silicee e che hanno regolari, minuti ritocchi su una sola faccia. Gli strumenti di questo tipo si sono trovati associati con quelli chelléani nelle suddette terrazze quaternarie del Santerno, mentre senza tale associazione si sono rinvenuti nella provincia di Parma, nelle colline tra il Parma e l'Enza, in varie stazioni dei comuni di Lesignano de' Bagni e di Traversetolo; circa ottocento manufatti si raccolsero ricavati dalla selce, dal diaspro, dalla quarzite, dalla resinite, ottimamente conservati. Si ricollegano questi rinvenimenti del Parmense a quelli dell'alta pianura del Reggiano, ove si trovarono anche oggetti non finiti, specialmente dischi e ciottoli o arnioni. Seguitando verso oriente, l'industria moustériana è attestata da manufatti raccolti a Pragatto, presso Bazzano nel Bolognese. Tarde persistenze delle industrie paleolitiche sono state riconosciute nella stazione imolese di Monte Castellaccio e a Castel de' Britti, sulla destra dell'Idice, nel Bolognese. Si tratta, per questi rappresentanti delle pure industrie paleolitiche, di stirpi errabonde: esse non hanno ancora fissata la loro dimora, non ancora i defunti sono affidati alla terra con il corredo funebre deposto dalla pietà dei superstiti.

Rinvenimento erratico, ma di grande importanza, è quello di una statuetta (alt. cm. 22,5) di serpentino, venuta alla luce fra Savignano sul Panaro e Bazzano, e rappresentante in modo assai schematico una donna dalle forme opulente del petto, del ventre, del bacino, mentre la testa è ridotta a un informe puntale (v. aurignaciana, civiltà, V, p. 373). Appartiene questa statuetta al Paleolitico superiore o aurignaciano, all'età di passaggio al Neolitico o Miolitico, oppure addirittura al Neolitico? Per il Neolitico nell'Emilia si hanno specialmente i villaggi di capanne del Reggiano, distribuiti in cinque gruppi: Albinea. Calerno, Campeggine, Castelnuovo di Sotto, Rivaltella.

Le capanne erano di forma circolare o ellittica, dal diametro che varia dai 7 ai 7 o 8 metri; erano scavate nel terreno per la profondità di mezzo metro; occasionalmente vi è l'unione di due capanne, sì da formare un otto. Il materiale siliceo raccolto in queste capanne è dato da coltellini, da romboidi, da punteruoli, da laminette. Si raccolsero a Campeggine un'accetta di pietra levigata e una pintadera di terracotta. La ceramica è di tipo rude e di tipo fine; è fatta a mano e ha la superficie levigata; le sagome sono semplici, a nappo sferico o angoloso con collo cilindrico; vi è qualche ornato o foglia impressa: in un esemplare si osserva l'ornato a spirale. Il rito funebre dell'inumazione rannicchiata si constata a Collecchio vicino a Parma. Il tardo Neolitico, con la presenza di punte di frecce, o romboidali, o peduncolate o anche peduncolate e con alette, e con la presenza di martelli a mazzuolo, è attestato da varie stazioni del Tresinaro e dell'Enza nel Reggiano, di Prà di Lago vicino a Bismantova, del Paseale lungo la Secchia, di Castelvetro nel Modenese, di Colunga a 12 chilometri a est di Bologna. Siamo forse col tardo Neolitico nei primi tempi del 3° millennio a. C.; secondo altri alla metà dello stesso 3° millennio.

Segue l'Eneolitico o civiltà del tipo di Remedello nel Bresciano. Scarse sono le stazioni, sporadici i rinvenimenti. È da supporre che i primi oggetti di rame d'importazione siano pervenuti nella valle del Po, e perciò nell'Emilia, attraverso l'Appennino dal territorio umbro-toscano, ove numerosi sono i rinvenimenti eneolitici; ma un'altra via può essere offerta dalla Liguria, e in questa via si sarebbe forse incanalata la corrente di provenienza iberica; mentre la importazione dalla Toscana e dall'Umbria parrebbe riconnettersi ad una corrente assai più forte, a quella ciprioto-cretese. Pare certo ad ogni modo che col mutarsi della civiltà neolitica in eneolitica nell'Emilia non sia mutato l'elemento etnico, che sembra sia sempre quello di razza mediterranea, cioè di stirpe ibero-ligure

Per l'Eneolitico emiliano si devono addurre due sepolcreti, quello di Cumarola presso Modena con quaranta tombe, e quello di Bosco di Malta a tre chilometri dal Sasso (prov. di Bologna). Caratteristici di questi rinvenimenti sono, per quanto concerne gli oggetti di rame, le daghe o cuspidi di lancia e le asce piatte. E questi rinvenimenti, come quelli sporadici nella regione, dimostrano, non solo analogia, ma comunanza con la civiltà tipica del grande sepolcreto di Remedello-Sotto nel Bresciano. Si aggiungano due caverne, in cui la vita trogloditica, iniziatasi nell'età della pietra, continuò in quella del rame e perdurò in quella del bronzo: la Tana della Mussina in provincia di Reggio e la Grotta del Farneto (comune di S. Lazzaro, a 11 chilometri da Bologna). Forse è da aggiungere la Grotta del re Tiberio (Valle del Senio).

La successiva civiltà del bronzo pare sia dovuta a stirpi nuove scese dalle Alpi Giulie nel secondo millennio a. C., e progenitrici delle genti italiche, tra cui i Latini. Ma per quanto concerne la civiltà enea o del bronzo dobbiamo fare nella regione emiliana una netta separazione; ad est del Panaro abbiamo villaggi a capanne semisotterranee, ad ovest le cosiddette terramare, peculiari anche del Mantovano e del Cremonese.

Numerose sono queste terramare emiliane, da quella di Rovere di Caorso, nel Piacentino, a quelle di Crespellano, di Castelfranco, di Rastellino lungo la sponda destra del Panaro. Contando quelle esattamente identificate e meglio studiate si può arrivare circa al numero di settanta: notevoli quelle di Castione dei Marchesi e di Casaroldo nel Parmense, ricostruite per ben tre volte, quella sotto la città di Parma, quelle di Campeggine nel Reggiano, di Corzano e di Montale nel Modenese; ma notevole soprattutto quella di Castellazzo di Fontanellato nel Parmense, con un'area di mq. 187,891, con una lunghezza di m. 319 e una larghezza che varia da m. 641 a m. 537; con le capanne raggruppate a insulae e con il cimitero vicino, in cui venivano accatastati i nudi cinerarî. I villaggi a capanne dell'età enea a est del Panaro sono: quello di Montirone di S. Agata, quello di Bologna alle falde dei colli tra porta d'Azeglio e porta Saragozza (villa Bosi e villa Cassarini), quelli di Castel de' Britti di Trebbo Sei Vie, di Toscanella, del Castellaccio d'Imola, della Prevosta in provincia di Bologna, di Villa S. Varano, di Villanova e di Bertarina di Vecchiazzano in provincia di Forlì. Ma anche a ovest del Panaro sono stazioni di tal tipo: a Fiastri e a Romei presso S. Ilario di Enza, a Monte delle Giarelle nel Parmense.

Questa civiltà del bronzo nella regione emiliana è contrassegnata da tre fatti concomitanti: prima di tutto l'uso di questo metallo, poi la sostituzione del rito funebre della cremazione a quello della inumazione, con l'annullamento del corredo funerario (tipici i sepolcreti di Copezzato nel Parmense, di Casinalbo nel Modenese, di Crespellano nel Bolognese), infine l'apparizione di una ceramica speciale, o grigia con superficie scura, o grigia scura o brunastra con superficie levigata per i vasi di minori proporzioni e con l'uso frequentissimo dell'ansa lunata.

Ma, paragonando il materiale uscito dai villaggi a capanne con quello delle terramare è d'uopo riconoscere un carattere più arcaico nel primo, mentre nel secondo abbiamo uno sviluppo omogeneo e graduale dello stesso tipo di civiltà. Ciò si avverte, per es., nelle forme di anse lunate, che nei villaggi di capanne sono di tipo arcaico, cioè coi rami o diritti o leggermente ricurvi o finienti a bottone piatto, mentre nelle terramare sono di varî tipi: o con le corna brevi, a curva non molto accentuata e di struttura schiacciata, o con le corna simili a quelle degli arieti, oppure a volute ioniche rovesciate con tubercoli nel centro della spirale e forti intaccature. Inoltre nelle terramare appaiono frecce di bronzo con peduncolo tubolare e foro per il chiodetto. Il peduncolo è invece piatto o appuntito nelle frecce bronzee uscite dai villaggi a capanne.

Tutto ciò evidentemente significa che i villaggi a capanne nell'Emilia rappresentano la fase più antica dell'età del bronzo, le terramare quella più recente. Con tutto ciò si deve ammettere che anche nella fase più antica si siano impiantate terramare, le quali nelle loro successive ricostruzioni rappresenterebbero tappe successive nel graduale sviluppo dell'età del bronzo. Lavoratori del legno, i terramaricoli ci hanno lasciato specialmente nella stazione di Castione dei Marchesi, documenti di questa perizia di carpentieri e di falegnami in costruzioni e in oggetti. Fondevano il bronzo per trarne utensili e armi, tra cui specialmente le accette a margini parzialmente rialzati; si aggiungano il rasoio a doppia lama e gli spilloni; ma non laminavano il metallo. La loro ceramica, caratterizzata nei vasi minori dalle anse lunate e cornute e dalle anse cilindro-rette, non era raffinata, ma grossolana e, mentre nei vasi dei villaggi a capanne si mantiene, come retaggio di età trascorsa, la decorazione graffita a motivi geometrici, nei vasi delle terramare la decorazione è per lo più ridotta soltanto a pochi tubercoli o a linee incavate o rilevate. Oggetti in osso (pettini e rotelle), anfore e conchiglie compiono il quadro, in cui rientrano anche i rudimenti d'arte figurata, cioè piccole figure di animali in argilla.

Ad est del Panaro sulla civiltà del bronzo, a partire all'incirca dall'inizio del primo millennio, si estende la civiltà del ferro, dovuta a genti discese forse dalle Alpi Carniche; genti rappresentanti la civiltà villanoviana e identificate da alcuni con gli Umbri. Ad ovest del Panaro rimane invece la civiltà terramaricola; ma sono avvertibili presso queste genti terramaricole, che sono cognate con le genti villanoviane, degl'influssi da parte della civiltà del ferro fiorente a destra del Panaro, da Savignano, proprio su questo torrente, sino a Verucchio nel Riminese, con centro principale e cospicuo in Bologna. Si deve a tal proposito addurre per la regione a sinistra del Panaro il sepolcreto di Bismantova sull'Appennino reggiano, il quale sepolcreto, insieme a quello di Fontanella di Casal Romano, è stato creduto di transizione dall'età del bronzo a quella del ferro ma pare in realtà rappresentare una civiltà arretrata, contemporanea a quella del territorio ad est del Panaro. Sulla base dei cospicui e ampî rinvenimenti di Bologna e del suo territorio lo sviluppo della prima civiltà del ferro, o villanoviana, a destra del Panaro può essere suddiviso in quattro fasi, dalla seconda metà del sec. IX a. C., termine più alto a cui possiamo risalire sulla scorta dei monumenti, sino agli ultimi decennî del sec. VI a. C.

La prima fase è rappresentata dalle tombe arcaiche della necropoli di fuori Porta S. Vitale in Bologna della 2ª metà del sec. IX a. C. La seconda fase, detta anche Benacci I, a cui appartengono nel Riminese il ripostiglio di Casalecchio e il sepolcreto del Lavatoio presso Verucchio, abbraccia la prima metà del sec. VIII. Il secolo all'incirca tra il 750 e il 650 spetta alla terza fase, o Benacci II, mentre dal 650 a. C. in poi si ha la quarta fase, o Arnoaldi. Nella civiltà villanoviana il rito funebre è sempre quello dell'incinerazione; ma le tombe sono distinte l'una dall'altra, con corredo funebre che dapprima è assai scarso, ma va sempre più dimostrando ricchezza di oggetti. Vaso tipico è l'urna contenente i residui del rogo, di forma biconica, sormontata da una ciotola. Solo nell'ultima fase cominciano ad apparire tombe a inumazione, non più di poveri schiavi come nella prima fase, ma di defunti collocati nella tomba con grande cura e abbondanza di corredo. Dapprima la civiltà villanoviana è assai rude, con ceramica brunastra, fatta a mano e con scarsa decorazione, con fibule a disco o ad arco semplice, con rasoi a doppio taglio e poi lunati, con assenza quasi completa del ferro. Ma poi si sviluppano le forme degli utensili e degli oggetti di ornamento, tra quelli sono le asce, note a noi in varie forme specialmente dal celebre ripostiglio di S. Francesco a Bologna, ricco di ben 14.841 oggetti di bronzo, tra questi sono le fibule, le quali assumono aspetti varî, allungando vieppiù la staffa.

E lo sviluppo della civiltà villanoviana è segnato da due elementi: la decorazione geometrica e la metallotecnica. La prima, che è costituita da un vero sistema decorativo, è dapprincipio graffita sui vasi di argilla, poi è anche dipinta, e infine nell'ultima fase è stampigliata. La metallotecnica nel bronzo comincia ad assumere una notevole espansione nella terza fase: è il bronzo laminato con decorazione sbalzata e incisa; e sono forme diverse di vasi, tra cui alcune imitanti i vasi di argilla, come il cinerario biconico. L'impulso alla decorazione geometrica e alla metallotecnica veniva dal mezzogiorno, cioè dall'Etruria. Man mano che si scende con l'età si fan sempre più frequenti gli utensili di ferro; mentre s'infiltrano oggetti (oreficerie) dovuti alla civiltà etrusca fiorente in Toscana durante il sec. VII a. C.

Tutto ciò è foriero di una colonizzazione etrusca nella regione emiliana; mentre ad ovest del Panaro continuava l'attardamento nella vieta ed umile cultura terramaricola, e ad est, con centro in Bologna, le genti villanoviane dedite all'agricoltura ed alla metallurgia davano floridezza al territorio, dai valichi dell'Appennino bolognese scendevano le schiere etrusche colonizzatrici.

Accanto al vasto abitato villanoviano di semplici capanne tra il Ravone e l'Aposa, laddove cioè ora si estende in parte la città di Bologna, fondarono gli Etruschi la città di Felsina e di là si diffusero a oriente sino a Rimini, a occidente sino a Piacenza, valicando in seguito il Po. La regione emiliana passava dalla preistoria alla protostoria.

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Storia.

Antichità. - Il nome di Emilia (lat. Aemilia) per indicare la regione VIII della divisione augustea dell'Italia, appare per la prima volta in Marziale (VI, 85, v. 5). Il nome deriva dalla via Emilia, la quale attraversa quasi tutta la regione da Rimini a Piacenza, così denominata dal console M. Emilio Lepido, che la tracciò nel 187 a. C. La regione era compresa tra il mare, il Po sino al punto che, lungo il corso del fiume, è a due terzi da Piacenza rispetto allo sbocco del Ticino, e una linea che sale sull'Appennino e che dapprima taglia esso Appennino nel versante settentrionale, poi segue il crinale dalle sorgenti del Parma a quelle del Montone, infine di nuovo si avvicina al piano, finendo nel mare a poca distanza a sud di Rimini col torrente Crustumius.

Ecco i centri principali dell'Emilia romana. Lungo la via Emilia: Ariminum della tribù Aniense, colonia latina del 268 a. C., Caesena, Forum Popili, Forum Livii o Forlì, forse della tribù Stellatina e forse fondato nel 188 a. C., Faventia della tribù Pollia, Forum Corneli o Imola della tribù Pollia, fondato da L. Cornelio Silla, Claterna della tribù Pollia, Bononia della tribù Lemonia, colonia latina del 189 a. C., Mutina della tribù Pollia, colonia latina del 183 a. C.; Regium Lepidum della tribù Pollia, forse fondato da Emilio Lepido nel 187 a. C., Tannetum o Sant'Ilario, Parma della tribù Pollia, colonia latina del 183 a. C., Fidentia della tribù Pollia, Florentia, Placentia della tribù Voturia, colonia latina del 218 a. C. A nord della via Emilia: Ravenna della tribù Camilia, Brixellum sul Po della tribù Aniense; a sud della via Emilia: Veleia della tribù Galeria. In un noto passo di Strabone (V, p. 216) città dell'Emilia sono Ravenna, Bologna, Modena, Parma, Piacenza, mentre Cesena, Faenza, Imola, Reggio sono piccole città (πολίσματα) insieme a Campi Macri (Magreda) e ad Ancara.

Nei secoli II e III d. C. l'Emilia è spesso nominata come parte di uno dei distretti italiani, per lo più quattro di numero, retti da giudici chiamati iuridici: l'Emilia, per tale rispetto, è unita alla Flaminia, alla Liguria, alla Tuscia. Sino al sec. IV Emilia e Liguria sono insieme riunite in una provincia consolare; poi l'Emilia fa provincia a sé. Ravenna, peraltro, ne fu separata dal tempo di Diocleziano, se non da quello di Marco Aurelio, e non tornò a farne parte, se non per un breve periodo intorno al 399.

Bibl.: Corp. Inscr. Lat., XI, I e II, Berlino 1888 e 1926, p. 2; P. Ducati, Storia di Bologna, I: I tempi antichi, Bologna 1928; A. Grenier, Bologne villanovienne et étrusque, Parigi 1912; H. Nissen, Italische Landeskunde, II, I, Berlino 1902, p. 243 segg.; J. Beloch, Der italische Bund, Lipsia 1880, p. 24 seg.; id., Römische Geschichte, Lipsia 1926, p. 612 seg.; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, I, Lipsia 1873.

Medioevo ed età moderna. - L'estensione originale della provincia romana dell'Emilia fu modificata dall'invasione longobarda del 568. La difesa greca essendo limitata a Bologna e alla riva destra del Panaro, il territorio adiacente divenne il campo di battaglia dei due avversarî: Modena, devastata dagli uomini e dalle acque non più contenute, cadde in rovina, e cominciò a risorgere solo con re Liutprando, quando questi occupando Bologna e Imola spostò per qualche tempo il confine. Ma la sconfitta di Astolfo e la donazione di Pipino a San Pietro delle terre già greche, ritolsero al regno longobardo Bologna. In realtà nel periodo successivo, quando fu veramente efficace l'azione imperiale in Italia, questa trattò Bologna e la Romagna come terre dell'impero: e solo le rinunce esplicite di Ottone IV (1201) e di Federico II (1213) in favore del papato separarono politicamente queste terre dall'Emilia.

La descrizione dell'Emilia nell'età longobarda che è in Paolo Diacono (l. II, cap. XVIII) riporta come ricche città, Piacenza, Parma, Reggio, oltre Bologna e Foro Cornelio (Imola): le tre prime furono sedi di ducati e sembra che nel territorio già modenese, per difesa verso il confine greco, vi fosse un quarto ducato di Persiceto. Risale all'età longobarda la fondazione nell'Emilia di due fra i più celebri monasteri benedettini di Italia: Bobbio e Nonantola. Trasformatisi con i Franchi e Carlo Magno i ducati in comitati, fra i conti della regione ebbe una certa importanza la famiglia dei Supponidi da un Suppone duca di Spoleto; essa ebbe larghi beni, tenne il comitato di Piacenza, e fu mescolata alla grande politica del regno. Va notato che nel Capitolare di Lotario dell'825 per l'istituzione di scuole pubbliche, gli scolari di Piacenza, Parma, Reggio e Modena dovevano andare a Cremona, quasi nella regione mancasse un centro opportuno. Due secoli dopo, invece, nella prima metà del sec. XI, Parma emergeva sulle altre città dell'Emilia per l'insegnamento delle lettere, e fra gli altri vi fece i suoi studi Pier Damiani.

Col decadere dell'impero carolingio e durante il regno italico (888-961) vi è il lento passaggio di queste città dai conti ai vescovi, che comincia già prima che la minaccia ungara spingesse i vescovi a prendere iniziative per difesa delle città. Già Lodovico II, con diploma dell'872, concedeva alla chiesa di Piacenza che gli avvocati di essa esercitassero la giurisdizione sui suoi dipendenti: concessione questa estesa alla chiesa di Reggio nell'882 da Carlo il Grosso e a Parma nell'885. A questa poi veniva anzi concessa la curtis regia della città con tutti i diritti annessi e la cerchia delle mura, cioè una vera trasmissione di pubblici poteri sulla città. L'esempio fu presto imitato dai re italici stretti dal bisogno di assicurarsi potenti partigiani: Guido di Spoleto re ed imperatore, nell'891 dava al vescovo di Modena, Leodoino, il diritto di fortificare le città ed esiger tributi e di esercitare la giurisdizione nel giro di un miglio. Questa concessione, confermata dai re successivi, si ebbe presto nelle altre città; Reggio l'ebbe coi re Ugo e Lotario nel 942 per il giro di tre miglia, che Ottone I nel 962 portò a quattro: Parma dallo stesso Ottone nel 962 per il giro di quattro miglia e Piacenza per un miglio nel 997 da Ottone III, benché il vescovo esercitasse anche prima poteri giurisdizionali. Così nel sec. X le città dell'Emilia sono già passate interamente ai vescovi. Nel secolo seguente lo sviluppo dell'autorità vescovile è maggiore nella parte occidentale in confronto con l'orientale. Il vescovo di Parma avrà nel 1039 da Corrado II tutto il comitato col titolo di conte, e così pure Piacenza, forse dallo stesso imperatore, certo avanti il 1065, il che non avviene a Modena e Reggio. La causa della differenza sta nel grandeggiare della famiglia degli Attonidi, o dei Canossa. Adalberto Atto, vasso del vescovo di Reggio, col servigio reso ad Adelaide di Borgogna accogliendola profuga nella sua rocca di Canossa, otterrà dal marito di lei, Ottone I, i comitati di Modena e Reggio salvo le città, e questa famiglia di signori ambiziosi ed avidi non solo non se li lascerà togliere in favore delle chiese, ma eserciterà un'opera di prepotenza a danno di esse per farsi cedere i loro migliori possessi. L'azione politica dei Canossa contribuì alla divisione della regione in quanto certo più che per un disegno, per opportunità politica, essi rivolsero le loro mire, anziché a Parma e Piacenza, a Mantova, ottenuta già da Atto, a Ferrara e Brescia avute dal figlio di lui, Tedaldo detto marchese, ma della cui marca non sono noti i dati precisi. Così già avanti il Mille si fissarono quei legami (già fondati sulle necessità del commercio per il Po) di Modena e Reggio con Ferrara che poi per secoli costituiranno la base della signoria estense. Il centro della signoria dei Canossa a nord degli Appennini fu a Mantova. La potenza dei vescovi della regione influì sul contegno delle città verso il movimento di riforma della Chiesa, e durante le lotte delle investiture. I vescovi delle quattro città furono legati all'impero e scismatici: Parma e Piacenza (dove il vescovo era più potente) furono il vero centro della lotta contro la Pataria. Il vescovo di Parma Cadalo fu, nel 1061, eletto papa (Onorio II) a Basilea contro Alessandro II e tentò due volte di occupare Roma. Guiberto da Parma, cancelliere d'Italia e arcivescovo di Ravenna, diviene antipapa (Clemente III), contrapposto a Gregorio VII nel 1080 a Bressanone, viene intronizzato a Roma nel 1084 e mantiene le sue pretese sino alla morte (1100). A Piacenza si approva dai vescovi lombardi la deposizione di Gregorio VII nel 1076, e nel 1090 viene ferito a morte il vescovo ortodosso Bonizone. E anche a Reggio e a Modena si affermano i vescovi scismatici, finché Enrico IV non abbandona definitivamente l'Italia (1097). Con il trionfo della causa papale, e l'avvento di vescovi ortodossi (a Parma andò Bernardo Uberti, abate di Vallombrosa, nel 1106) anche il govemo delle città dovette profondamente risentirsene. Il vescovo imperiale governava la città con il consiglio e l'appoggio dei suoi capitani e vassalli. Il vescovo ortodosso eletto dal clero, dovette cercare la sua base nella classe borghese. Lo sviluppo di questa partecipazione per circostanze a noi ignote conduce all'affermazione di un governo autonomo, il comune con i consoli, il quale, data la sua origine è in principio in stretto contatto con il vescovo. Abbiamo i consoli a Modena nel 1135, a Reggio nel 1136, a Parma nel 1149, a Piacenza nel 1127.

Il costituirsi delle città a comune apre anche nell'Emilia una nuova fase storica delle rivalità per estendere il territorio dipendente, unica causa delle guerre tra le città e dello stesso loro schierarsi pro o contro l'imperatore nelle lotte generali italiane. Sono vecchi dissidî che si acuiscono ora, dati i mezzi maggiori e l'importanza sempre più evidente di una via, di un fiume, di un porto. Parma e Piacenza si disputano Borgo San Donnino, Reggio e Modena le acque del Secchia, Modena e Bologna la riva destra del Panaro e i castelli del Frignano. Per Reggio e Modena la contesa è aggravata dalla gara per i beni matildici disputati tra papa e imperatore, ma di cui alla fine s'impadroniscono invece le città vicine. Nella lotta con Federico I, Piacenza è subito con Milano e subisce una dura punizione già nel 1162. Le altre tre città furono fra le più tarde ad aderire alla Lega nel 1167, ma rimasero poi fedeli ad essa sino alle trattative di pace fatte a Piacenza nel 1183 e alla sua proclamazione a Costanza. Nel rinnovo però della Lega del 1185 a Piacenza manca Reggio, e in quello del 1195 a Borgo San Donnino non è presente Parma. Ma l'evoluzione più grave si ha nel periodo di tregua fra comuni e impero dalla morte di Enrico VI (1197) al 1226, quando contro le pretese di Federico II si rinnova la Lega lombarda e si riaccende la lotta; Modena, Parma, Reggio con Cremona formano una specie di quadrilatero imperiale nella valle Padana che servirà di base sicura all'azione ghibellina; Piacenza, con qualche oscillazione per le fazioni interne, rimane legata a Milano e al guelfismo. E il sintomo più grave della decadenza imperiale si ha con la rivolta di Parma (1247), la sconfitta di Federico sotto le sue mura (1248), a cui tien subito dietro il ritorno dei guelfi a Modena dopo la sconfitta di re Enzo a Fossalta (1249). Il partito ghibellino si sostiene ancora per l'abilità di Oberto Pelavicino, che diviene signore di Piacenza (1254-57, 1261-66); ma con la vittoria di Carlo d'Angiò a Benevento (1266), i guelfi trionfano in tutte le città. Cominciano ora però le rivalità nel partito vincitore che si scinde in gruppi di famiglie, perché cessate le ragioni generali che imponevano una disciplina, nelle singole città i partiti ritornano ad essere fazioni locali pronte a dilaniarsi senza alcuna visione d'interesse generale. Queste lotte cruente prepararono le signorie: ma fatto caratteristico comune alla regione è che in nessuna città si forma una signoria solida e vitale, sicché, dopo molti tentativi locali e oscillazioni, l'Emilia finisce con essere divisa fra due grandi signorie forestiere, i Visconti che domineranno Parma e Piacenza, gli Estensi che terranno Modena e Reggio. Questa divisione non è fondata tanto su quella più antica del sec. XI, del tempo dei Canossa, quanto sull'importanza che Milano annette a Parma e al suo valico appenninico per la Toscana: l'estensione delle due signorie oscillerà attorno a questo punto. I Visconti occupano Reggio dal 1371 al 1404. Alla lor volta gli Estensi, approfittando della crisi della signoria viscontea, riprendono Reggio e Parma (1409) ma debbono poi rinunciare a quest'ultima città nel 1420, e Parma e Piacenza rimangono legate al ducato di Milano sino al 1521, in cui passarono definitivamente alla Santa Sede.

Le guerre combattute in Italia nella prima metà del sec. XVI da Francia e Spagna e più gli ambiziosi disegni di Papa Giulio II, continuati per nepotismo da Leone X e Clemente VII, parvero mutare la sorte dell'Emilia, quando Modena e Reggio venivano tolte agli Estensi da Giulio II (1510) e Parma e Piacenza gli erano assegnate per compenso dell'alleanza contro Francia (1512). Il papato avrebbe avuto così una posizione politica preponderante nella valle padana. La sentenza di Carlo V che, contro le promesse fatte a Clemente VII, restituì Modena e Reggio alla casa d'Este (1531) volle soprattutto impedire questa aspirazione politica; così fu facile a Paolo III assegnare al figlio Pier Luigi Farnese nel 1545 il ducato di Parma e Piacenza, benché la Spagna, all'atto dell'uccisione di Pier Luigi (1547) nella quale aveva avuto parte, tentasse di riprenderlo e occupasse Piacenza, che poi restituì nel 1556 a Ottavio Farnese, sotto la sovranità però dell'imperatore. Del resto la scaduta importanza politica del papato e la decadenza economica della Toscana e della Lombardia avevano diminuito l'antico valore della strada da Parma alla Toscana. L'Emilia rimane nel nuovo assetto d'Italia (1559) divisa tra Farnesi ed Estensi, oltre le piccole Signorie minori dei Pico a Mirandola e Concordia (1311-1708), vendute dall'impero nel 1710 agli Estensi; dei Correggio, il cui piccolo principato passò pure nel sec. XVII agli Estensi; dei Gonzaga di Guastalla (1139-1746), unita nel 1748 a Parma e Piacenza. Un certo mutamento nelle condizioni di Modena lo si ebbe nel 1598, quando, per la perdita di Ferrara, gli Estensi vi portarono la loro sede, pur conservando nel cuore l'aspirazione a Ferrara che nel 1648 fece loro accettare l'alleanza francese offerta dal Mazzarino, e nel 1742 quella franco-spagnola, che ebbero risultati nulli, anzi disastrosi. Anche i Farnesi ebbero qualche velleità d'ingrandimento con Odoardo, che nel 1635, alleato di Francia, attaccò imprudentemente gli Spagnoli in Lombardia. Nel sec. XVIII le complicazioni politiche delle guerre di successione, come pure l'estinguersi delle due dinastie ebbe effetti gravi, ma diversi per le due parti dell'Emilia. L'irrequieta ambizione di Elisabetta Farnese, ultima della sua famiglia, divenuta regina di Spagna per opera dell'Alberoni, fa assegnare al suo primogenito, Don Carlos, Parma e Piacenza con la Toscana (trattato dell'Aia 1720), mutate poi per il trattato di Vienna (1738) nel regno di Napoli e Sicilia; Parma e Piacenza rimasero per dieci anni all'Austria e per il trattato di Aquisgrana (1748) passarono al secondogenito di Elisabetta, Don Filippo di Borbone, genero di Luigi XV. Questa parentela spiega la profonda influenza francese sulla corte parmense, divenuta un centro brillante di cultura, e l'opera riformatrice del du Tillot. A Modena invece, dopo le delusioni della guerra di successione austriaca, il duca Francesco III, si stringeva all'Austria, abbandonava Modena per il governo di Milano e col matrimonio dell'unica nipotina con un arciduca austriaco preparava l'avvento della dinastia d'Austria-Este.

Durante l'epoca francese le due parti dell'Emilia ebbero pure sorte diversa. I Borboni di Parma e Piacenza furono rispettati per riguardo a Spagna sino al 1802, poi in quell'anno il ducato venne unito alla Francia di cui seguì la sorte sino al 1814. Modena e Reggio fecero invece parte della Repubblica Cispadana, poi della Cisalpina anche quando divenne italiana e infine del Regno italico. La restaurazione stabilì a Modena e Reggio, Francesco IV d'Austria-Este (1814-46) e i suoi metodi crudelmente repressivi di ogni aspirazione liberale (che ebbero per vittime gloriose D. Andreoli nel 1822 e il Menotti nel 1831), continuati dal figlio Francesco V (1846-59), mentre a Parma e Piacenza, Maria Luigia d'Austria, seconda moglie di Napoleone I, dal 1814 al 1847, per merito del suo amante conte di Neipperg (1816-29) e del conte Bombelles sposato nel 1834, assicurò ai sudditi un governo mite e benefico, e neppure dopo i moti del 1831 volle infierire. Alla morte di Maria Luigia nel 1847, il ducato di Parma tornò ai Borboni presto fatti fuggire nel 1848 dalla rivoluzione, ma ricondotti nel 1849 dalle baionette austriache. Presso a poco lo stesso avvenne a Modena, ma nel 1859 la sconfitta dell'Austria faceva riprendere alle due dinastie la via dell'esilio. L'Emilia nel 1859 si riuniva intera sotto la dittatura di L. C. Farini e con la sua virile fermezza otteneva il 18 marzo 1860 l'annessione al regno d'Italia.

Bibl.: Mancando una trattazione complessiva sulla storia dell'Emilia, si rinvia alla bibl. delle singole città.

Arte.

Antichità classica. - I più cospicui monumenti romani dell'Emilia sono quelli di Rimini e cioè l'arco di Augusto, il ponte sulla Marecchia, e l'anfiteatro.

A Savignano di Romagna, a 15 km. dalla via Emilia, è il cosiddetto ponte consolare romano a tre archi sul torrente Fiumicino, restaurato nei secoli XVII e XVIII. Ravenna, la Roma del Basso Impero, non ci ha conservato costruzioni romane, qualora non si vogliano comprendere in esse i mausolei di Galla Placidia e di Teodorico e il battistero degli Ortodossi o S. Giovanni in Fonte.

A Bologna, o più precisamente nel Bolognese, è rimasto un importante monumento di romanità nell'acquedotto, che serve tuttora alla città moderna e che ha inizio allo sbocco del torrente Setta nel Reno. L'acquedotto giunge a Bologna attraversando mediante un cunicolo i poggi, con uno sviluppo di più di 17 km. di lunghezza.

Si debbono infine ricordare le rovine di Veleia nell'Appennino piacentino, a noi note specialmente dagli scavi regolari eseguiti tra il 1760 ed il 1765, dopo la scoperta della famosa iscrizione in bronzo della Tabula Veleiatum. Visibili sono i ruderi del foro con un tempio anfiprostilo, sorgente nel centro del lato settentrionale; degli altri edifizî circondanti il foro (l'abitazione dei sacerdoti, il comizio, l'erario, il vestibolo di Bebia Basilla, la basilica) rimane solo la pianta con qualche muricciolo. Tracce meschine dell'antica Veleia si stendono all'intorno, tra cui quelle dell'anfiteatro e delle terme.

Bibl.: E. Bormann, in Corp. Inscr. Lat., XI, I, Berlino 1888; P. Ducati, Storia di Bologna, I: I tempi antichi, Bologna 1928, p. 425 segg.; A. Frova, Archeologia ed arte nei dintorni di Salsomaggiore, Milano 1907; L. Tonini, Rimini avanti il principio dell'èra volgare, Rimini 1848; id., Rimini dal principio dell'èra volgare all'anno MCC, Rimini 1856.

Medioevo ed età moderna. - L'arte da Piacenza, Parma, Reggio, Modena a Bologna, da Bologna a Ferrara, e, per le sponde adriatiche, sino a Sinigaglia, ebbe poca vita nel primo Medioevo. Bologna contrastò con Ravenna; Modena ricorda, in un inno di guerra, nel secolo nono, i Quiriti difensori del Campidoglio e della libertà; non serpeggia ancora amor d'arte fra le boscaglie di canne delle basse paludi circumpadane, nel popolo che risiede sul delta formato dal Po e dall'antico suo alveo. Allo spirare dell'età romanica Parma, nel suo studio, insegna a San Pier Damiani e a Uberto da Bobbio, maestro dei glossatori; Reggio dà sede nei suoi castelli alla contessa Matilde di Canossa; Bologna, patria del diritto, accoglie scolari di tutt'Europa nello studio esaltato da Irnerio. L'arte romanica, che la grande contessa suscita a Piacenza nel duomo, a Parma, a S. Benedetto di Polirone, a Modena, a Nonantola, a Ferrara, fiorisce, e sempre più quando nel comune rivive l'antico municipio romano. Si stabilisce, durante il dominio matildico, la grande scuola d'arte che fa capo a Wiligelmo, scultore della cattedrale di Modena fondata nel 1099, costruita dall'architetto Lanfranco, inaugurata il 30 aprile 1106. Niccolò, scultore, aiuto di Wiligelmo, si ritrova in quella, nella Porta dei principi e della pescheria, a Nonantola, a Piacenza, a Ferrara, a Cremona, a Verona in San Zeno. Da tutte quelle città, da quelle badie, si diffondeva lo stesso spirito d'arte, mentre le cave dei marmi venivano riaperte, e le miniere ridavano ferro agli scavatori. Da allora, a mezzo il sec. XII, con i blocchi di marmi scendevano muratori e tagliapietra Comacini e Campionesi per tutta Italia, come i "magistri Antelami" dalla valle Antelamo presso il Lago Maggiore, e i maestri veronesi col rosso e col biancone delle loro cave. Si cessò di adoperare marmi romani, secolari vestigia, per le torri e per le chiese, per i palazzi del vescovo e del comune. Allora vetusti monumenti furono incastrati nelle pareti delle cattedrali; e i Modenesi, mirando, sulla loro, l'arca della matrona Bruttia Aureliana, tratti in errore dalle prime lettere dell'epigrafe, pretesero che dentro al sarcofago giacessero le spoglie di Bruto.

Continuò l'arte romanica le orme di Wiligelmo e di Niccolò lungo la via Emilia, da Piacenza, a Fano, finché sopravvenne nel 1178 l'Antelami (v.) a scolpire un bassorilievo nel duomo di Parma, a ornarlo di sculture, affini a quelle provenzali di Arles e di Saint-Gilles, e a coprirne più tardi, alla fine del sec. XII, il battistero parmense e la cattedrale di Borgo San Donnino. Il grande maestro produsse l'ultima fioritura d'arte romanica, che si estese nell'Italia settentrionale, da Vercelli a Milano, da Ferrara a Padova, a Venezia, a Forlì.

La pittura, nel sec. XIII, lascia nell'Emilia la grande decorazione del battistero parmense, e molte tracce a Reggio nella fronte della cattedrale, a Modena, e a Bologna; così pure parecchi segni altrove in varî frammenti. Si dice che dipingesse verso la metà di quel secolo un pittore Gelasio ferrarese, discepolo di maestro Teofane di Costantinopoli. Ma sino al Trecento non abbiamo nell'Emilia una vera fioritura pittorica.

Un giottesco, Giuliano da Rimini, che firmò in Urbania un quadro con la data del 1307, è il battistrada della schiera romagnola, della quale fecero parte i pittori Giovanni Baronzio (v.) e Pietro da Rimini, e forse Giuliano da Rimini il Giovane, che dipinse negli anni 1366-1367 alla Fraternita d'Urbino. La schiera dei maestri romagnoli, capitanata da Giovanni Baronzio da Rimini, scende da Tolentino, da Mercatello e da Urbino; decora Sant'Agostino di Rimini, Santa Maria in Porto a Ravenna, Santa Chiara e San Giovanni Evangelista di quella città, San Francesco a Bologna, il coro e il refettorio di Santa Maria di Pomposa.

La storia della pittura a Bologna si è collegata, senza ragione, col miniatore Franco Bolognese vantato da Dante, e conta nel Trecento deboli rappresentanti con Vitale delle Madonne, Andrea da Bologna, Iacopo Avanzi, Simone de' Crocefissi, Lippo Dalmasio. Meglio ebbe sviluppo a Modena con Barnaba (v.), che a Pisa, a Genova, ad Alba lasciò saggi di sé; più ancora con Tommaso da Modena (nato circa il 1325), che lavorò a Karlstein per l'imperatore Carlo IV e a Treviso nelle chiese di San Nicolò, di Santa Maria Maggiore e di Santa Margherita, donde provengono al museo trevigiano le celebrate storie della leggenda di sant'Orsola. Sono queste i resti della decorazione, vivacissima per la mimica delle figure, portata dal Veneto da un Emiliano, separato dalla toscanità imperante.

Giotto fu a Ferrara, ove, secondo la tradizione, dipinse negli Agostiniani di S. Andrea e nel palazzo estense: dopo il grande maestro, vi lavorò il discepolo suo, Ottaviano da Faenza, che dipinse, a quel che si scrisse, nella chiesa di S. Giorgio, luogo dei monaci di Monte Oliveto. Ferrara che, nel Quattrocento, signoreggiò la pittura emiliana, era povera d'artisti, e, alla fine del Trecento, vi accorse da Modena Serafino de' Serafini, a dipingere nella chiesa di S. Domenico. Si fa appena il nome di Cristoforo da Ferrara pittore. Può supporsi che da Venezia a Ferrara venisse qualche riflesso d'arte bizantina; che tra le mura ferraresi vi fossero, come nella città della laguna, i cosiddetti "madonneri" pronti a ristampare le stesse "maestà" e Madonne. Un maestro Giorgio del quondam Salvatore di Costantinopoli, viveva nel principio del sec. XV a Ferrara.

L'architettura del Trecento ebbe, in San Petronio di Bologna, innalzato da Antonio di Vincenzo, una solenne affermazione gotica, come nel possente castello degli Estensi eretto a Ferrara da Bartolino novarese; mentre nella scultura, l'Emilia, sprovvista di marmi, quando non ricorse alla Toscana, alla Lombardia, al Veneto, s'industriò al lavoro della terracotta. In Bologna, alla fine del Trecento, tennero il campo nella scultura Iacobello e Pierpaolo delle Masegne, che lasciarono, oltre sepolcri di lettori bolognesi, il grande altare marmoreo in San Francesco; Paolo, figlio di Iacobello, eresse il monumento a Prendiparte Pico della Mirandola; Giovanni di Riguzzo, Paolo Buonaiuto e altri Veneziani scolpirono figure di santi entro quadrilobi nel grande zoccolo della facciata di San Petronio. Precorsero questi maestri Iacopo della Quercia, e i maestri toscani che, nel Quattrocento, adornarono l'Emilia: Agostino di Duccio, a Modena e a Rimini, Antonio di Cristoforo e Niccolò di Giovanni Baroncelli, fiorentini del ciclo di Lorenzo Ghiberti, del Brunellesco e di Donatello, a Ferrara, e infine Pagno Portigiani a Bologna, Francesco di Simone fiesolano a Bologna, nelle Romagne e nelle Marche, Benedetto da Maiano a Faenza.

Sprovvista di marmi, l'Emilia con la creta forma i gruppi delle Deposizioni; con la cera gli ex-voto; col bronzo, i monumenti e le statue. La terracotta pulita, rinettata anche a colpi di scalpello, come mista a parti invetriate, riesce a un effetto pittorico straordinario, come in una porta di palazzo Pepoli a Bologna. Anche il colore aiuta la terracotta a ottenere un effetto ingannevole e a temperare con le tinte certi tratti un po' crudi della modellatura. Il Mistero religioso trovò con Niccolò dall'Arca in Santa Maria della Vita a Bologna, e con Guido Mazzoni, a Modena, Ferrara, Reggio, Busseto, interpreti che lo sorpresero, lo riprodussero, lo eternarono.

L'architettura del Rinascimento s'inizia a Ferrara, alla corte del principe Lionello d'Este, per il quale Leon Battista Alberti disegnò l'"Arco del cavallo", cioè il piedestallo, riduzione toscana, sveltita, di arco trionfale, per la statua di Niccolò III. A Rimini, l'Alberti continuò i suoi progetti di architetture monumentali, di trionfi per il tempio di San Francesco, rinnovato per volontà di Sigismondo Pandolfo Malatesta.

A Bologna, la famiglia dei Fieravanti raccolse l'eredità del grande architetto di San Petronio; e Fieravante spiegò l'arte sua nel palazzo comunale. In generale, le architetture emiliane con terracotte, a stampa, ebbero effetti pittorici, ma trovarono esempî nitidi, puri, con i mattoni a filo tagliente, in Biagio Rossetti, architetto ferrarese, ed effetti men giusti e semplici in Sperandio mantovano.

Nella pittura del Quattrocento, Ferrara domina. Era stato lungamente in quella città il Pisanello, che aveva contrastato la gloria a Iacopo Bellini, all'inizio della signoria di Lionello d'Este. Alla corte dell'umanista marchese, accorsero Piero della Francesca, Angelo Maccagnino, detto Parrasio da Siena, Roggiero van der Weyden, Alfonso di Spagna, Andrea Mantegna giovinetto, i fratelli da Lendinara; e si andarono formando i maestri ferraresi che salirono in fama: Bono, Galasso, Cosme Tura, Francesco del Cossa. Questi maestri si sparsero per le città vicine, Bono a Padova, Galasso a Bologna, il Tura per alcun tempo alla Mirandola, il Cossa a Bologna, ove fu continuato dagli ultimi pittori ferraresi, Ercole de' Roberti e Lorenzo Costa. Bologna, che aveva avuto in Marco Zoppo qualche riflesso delle forme mantegnesche di Padova, trovò infine nel Francia, orafo e pittore, colui che tradusse in compunzione religiosa la grande forza di Ercole de' Roberti, e infuse nelle sue immagini serene la pace dei chiostri. Da Ferrara l'influsso di Francesco del Cossa raggiunse a Modena il Bonascia e i fratelli degli Erri; quello di Ercole de' Roberti, il divoto pittore Francesco Bianchi Ferrari. Dal ceppo ferrarese, specie dall'arte del Costa, si dipartirono i pittori Bernardino e Francesco da Cotignola, e tanti altri minori di Modena, Reggio e Parma.

Al principio del '500, Ferrara aveva abbandonato l'architettura a mattoni con i grandi palazzi Costabili e dei Diamanti, Bologna con quello del podestà; e si volse al monumentale tanto da dare ispirazione e forza a Pellegrino Tibaldi, poi architetto di San Carlo Borromeo in Lombardia. Nella scultura tra i maestri in gran parte michelangioleschi venuti dal di fuori, venne Giambologna, che l'adornò col Nettuno della magnifica fonte. Nella pittura, l'architetto Pellegrino Tibaldi diede, in pieno tempo manieristico, negli affreschi del palazzo dell'università e della chiesa di San Giacomo Maggiore, un esempio dell'altezza che l'arte pittorica può raggiungere quando agli ordinamenti d'una scienza prospettica infallibile si congiunga lo slancio fantastico. Alla fine del secolo, con i Carracci, l'eclettismo che era nel fondo dell'arte manieristica divenne sistema.

Con essi e con la loro scuola s'inizia la decorazione monumentale italiana. In quell'ecclettismo è parte precipua l'arte del Correggio, che, mentre dominavano i Dossi, artisti ufficiali degli Estensi a Ferrara, e gl'indiretti raffaelleschi a Bologna e nelle Romagne, coronò l'Emilia; e, su per la cupola del duomo di Parma, fece vivere la forma umana nell'aria, applicò a nuove estensioni le leggi della prospettiva aerea, gettando le basi dello stile barocco, attuando, per desiderio d'umano e fisico raffinamento, un sogno edonistico. All'arte del Correggio, Francesco Mazzola, detto il Parmigianino, unì caratteri classici, raggiungendo una preziosa eleganza di forme, prototipo al Cinquecento, come il Correggio lo fu al Seicento e al Settecento.

Il Seicento è signoreggiato dall'arte dei Carracci, da cui sorsero Guido Reni, il Domenichino, Francesco Albani, Alessandro Tiarini, il Guercino. A questi si accompagnò Giovanni Lanfranco, di Parma, grandioso decoratore. E a Bologna i pittori bolognesi cercarono negli ambienti fastosi l'illusione prospettica con Girolamo Curti, detto il Dentone, con Angelo Michele Colonna e col suo collaboratore Mitelli, sino ai sogni fantastici del Bibbiena. Così Bologna nel Seicento dominò, al pari di Genova sulla regione ligure e di Napoli sull'Italia meridionale. Anche nella scultura, a riscontro del Bernini, la felsinea città innalzò l'Algardi. E pare chiudere con Marcantonio Franceschini, principe dell'accademia clementina, che sparse opere nell'Emilia, nella Lombardia e fuori d'Italia, il suo libro di gloria. Da tutta l'Emilia concorse l'arte a Bologna come al suo centro naturale.

L'arte in Emilia, durante il sec. XIX, si limita alla pittura. Durante il periodo dei puristi, due pittori emiliani si distinsero: Tommaso Minardi di Faenza (1797-1871), dittatore artistico a Roma per lunghi anni, scrittore d'arte, massimo rappresentante del primitivismo in Italia, e Adeodato Malatesta di Modena (1806-1891).

Dalla corrente del primitivismo uscì anche Luigi Serra di Bologna (1846-1888), disegnatore acuto, incisivo, sapiente, studioso attento del vero, distratto tuttavia dalle sue possibilità per desiderî di ricostruzioni storiche e per il vano sforzo di conquistare un'armonia di colore. Il Serra appartiene al periodo del rinnovamento pittorico più per la cronologia che per tendenze artistiche. Tre pittori ebbero un posto molto alto nel mondo pittorico sul finire del secolo scorso, ma non costituirono un centro emiliano, vissero fuori della loro regione, e parteciparono a tendenze estranee. Essi furono Alberto Pasini, di Busseto (1826-1899), Annio Fontanesi di Reggio (1818-1882), Silvestro Lega di Modigliana (1826-1895). Il Pasini e il Fontanesi assimilarono il gusto francese, e v'improntarono la loro personalità; il Lega invece gravitò su Firenze ed è uno dei maggiori rappresentanti della scuola dei macchiaioli fiorentini. Il Pasini ebbe notevoli successi, anche ufficiali, in Francia, e finì per ritirarsi a vivere vicino a Torino. Il Fontanesi costituì a Torino una scuola propria, che lo rese famoso, e per cui egli è considerato dai più come pittore piemontese.

Il Lega visse in Toscana, miseramente e sempre più tristemente, quanto più in alto volava il suo valore di artista.

Il Pasini fu celebrato come orientalista; ma certo le sue cose migliori sono le vedute di Venezia e di Cavoretto (Torino), ove egli spiega la sua sensibilità coloristica, che è talvolta perfetta e che assorge a valore contemplativo. Il Fontanesi è un poeta della campagna, ora idilliaco, ora drammatico. Egli ha sentito le voci riposte della natura, la comunità di vita fra uomini, animali, alberi e terra, ha adorato quelle voci e ha espresso la sua adorazione con armonie coloristiche, attenuate, ricche di mezze tinte e di sottintesi. Il Lega, che in un primo tempo ha gareggiato col Fattori e con l'Abati nella sottilità del segno, nella calma toscana della visione, nella padronanza assoluta di ogni armonia coloristica, e ha prodotto in codesto suo primo stile alcune opere che sono considerate fra le migliori di lui, ha riflesso più tardi la cupa drammaticità della sua vita, in tocchi sempre più movimentati, in immagini sempre più rapide, in espressioni di vita sempre più tormentate e intense. E appunto nella sua produzione più tarda e tormentata egli ha raggiunto un'altezza incomparabile.

Il gruppo d'artisti italiani, che esordirono a Firenze presso i macchiaioli, poi trassero ispirazione in Francia, è da chiudersi col ferrarese G. Boldini, che ebbe doti di coloritore scintillante, di arguto spirito, ma divenne poi il pittore della moda francese.

Bibl.: Per le singole città e gli artisti emiliani v. le voci relative. Inoltre: A. Venturi, Storia dell'arte ital., Milano 1901 segg.; P. Toesca, Storia dell'arte ital., I: Il Medioevo, Torino 1927; T. Krautheimes-Hess, Die figurale Plastick d. Ostlombardei von 1100 bis 1178, in Marburger Jahrb. f. Kunstw., IV (1928); L. Magnani, Antonio Begarelli, Milano-Roma 1931; R. Buscaroli, La pittura romagnola del '400, Faenza 1931; L. Coletti, Tomaso da Modena e le origini del naturalismo nella pittura, in Riv. del R. Istit. d'archeol. e storia dell'arte, III (1931), pp. 95-159; A. Venturi, Studio generale sui pittori dell'Emilia nel Quattrocento, Verona 1931.

V. tavv. CXXXV-CXLVIII.

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