ELEZIONE

Enciclopedia Italiana (1932)

ELEZIONE (lat. electio, da eligo "scelgo")

Giovanni CORSO
Pietro PISANI
Manfredi SIOTTO-PINTOR

Etimologicamente elezione significa scelta. Nel linguaggio politico significa più precisamente il procedimento mediante il quale si designano le persone chiamate a rappresentare una collettività, cioè a manifestare una volontà e a dispiegare un'attività, che sono giuridicamente valutate come proprie della collettività stessa. In questo senso, la rappresentanza e l'elezione, prescindendo dalle diversissime modalità della loro attuazione, sono di tutti i tempi e di tutti i paesi.

Storia del regime elettorale. - Nelle prime età l'elezione si attuò verosimilmente senza regole precise. Gli uomini atti alle armi, che furono originariamente i soli elettori, si scelsero i loro capi per acclamazione, e questi capi divennero, con diversi titoli, i reggitori della comunità intiera anche in tempo di pace. L'ingrandimento territoriale e demografico delle comunità e il moltiplicarsi delle magistrature fecero però nascere presto la necessità di una disciplina delle elezioni, sia nei riguardi della determinazione dei requisiti richiesti per l'ammissione alla votazione (formazione, cioè, del corpo elettorale), sia nei riguardi delle modalità della votazione stessa. Esempî classici di questa regolamentazione sono, in Grecia, la legislazione attribuita a Licurgo e quella solonica, e in Roma la riforma serviana. Il consolidarsi del potere dei principi (re, imperatori, ecc.) e l'esempio dell'Oriente, dove prevalsero sempre le forme di governo autocratiche, fecero scadere l'elezione nei paesi retti da governi di tipo monarchico. In quelli di tipo repubblicano la diffidenza verso l'autorità e gli eccessi dello spirito egualitario condussero assai spesso a sostituire all'elezione l'estrazione a sorte.

Questo stato di cose perdurò, in massima, per tutto il Medioevo. Persino in Inghilterra, dove pure il parlamento assurse, sin dal sec. XIII, a tanta importanza, non si pensò che assai tardi a disciplinare le elezioni. È rimasta famosa la motivazione dell'Atto emanato nell'ottavo anno di regno di Enrico VI (1429), dove si dice che "le elezioni dei cavalieri delle contee sono state fatte troppo spesso, negli ultimi tempi, da una moltitudine di gente turbolenta, in massima parte priva d'ogni consistenza reale o personale, e che tuttavia pretende d'essere equiparata, nel suffragio, ai cavalieri e gentiluomini più degni della rispettiva contea". Né le cose andavano diversamente nei borghi, dove regnavano, in questa materia, le più disparate consuetudini. Col ricordato Atto del 1429 e col successivo del 1432 il diritto di partecipare alle elezioni fu ristretto ai liberi possidenti, che godessero d'un reddito annuo di almeno 40 scellini. Altre leggi frammentarie provvidero a stabilire qualche regola di procedura per il sindacato sulla validità dei voti emessi, a reprimere le frodi, a fissare il requisito della residenza per l'eleggibilità.

È degno di nota, che anche nelle colonie nordamericane mancarono, durante quasi tutto il sec. XVII, regole precise, sia riguardo alla composizione del corpo elettorale, sia riguardo alla procedura delle elezioni. In alcune disposizioni si parla di freemen, in altre di freeholders, in altre persino, genericamente, di inhabitants. Neppure gli uffici da coprirsi mediante elezione erano sempre ben precisati.

La prima legislazione completa e organica in materia elettorale fu emanata in Francia, all'alba della grande rivoluzione. Anteriormente si erano avute disposizioni frammentarie, in ispecie per le elezioni degli Stati Generali del 1583 (elezione dei deputati del Terzo Stato, con suffragio a tre gradi), ma ogni elaborazione successiva di questi spunti iniziali d'una legislazione elettorale venne a mancare, non essendosi più convocati gli Stati Generali dopo il 1614. Luigi XVI riunì, con decreto del 5 ottobre 1788, l'assemblea dei notabili, per fissare le regole che avrebbero presieduto all'elezione degli Stati Generali, da convocarsi nel maggio dell'anno seguente. In sezioni separate l'assemblea deliberò sulle condizioni di elettorato e di eleggibilità, sulla composizione degli Stati, sul numero dei deputati da eleggere e sulle forme della convocazione. Le norme per le elezioni pubblicate il 27 aprile 1789, sanciscono il principio fondamentale, che tutti i cittadini devono partecipare all'elezione dei deputati. È fissato il requisito di 25 anni d'età (salvo per i nobili aventi feudo proprio). Gli elettori del Terzo Stato devono, inoltre, essere domiciliati nel luogo dove si tiene l'assemblea elettorale primaria e iscritti nel ruolo delle contribuzioni dirette. I nobili hanno diritto di suffragio diretto, gli ecclesiastici solo se sono investiti di benefizî; se invece appartengono a corpi, o a comunità religiose e se non fanno parte di ordini e neppure sono titolari di un beneficio hanno voto indiretto, a due gradi. Gli elettori del Terzo Stato sono raggruppati in baliaggi, in gran parte creati ex noivo, con una rappresentanza proporzionale alla popolazione. I vecchi baliaggi conservano, invece, la rappresentanza che avevano nel 1614, nonostante i mutamenti demografici sopravvenuti. In queste circoscrizioni le elezioni si fanno con diverse modalità, a tre e qualche volta a quattro gradi. La fusione dei tre Stati, compiuta dall'Assemblea nazionale nell'agosto 1789, spazzò via questo complicato sistema, che merita tuttavia di essere ricordato, come il primo ordinamento nel quale siano state affrontate seriamente tutte le principali questioni relative al regime elettorale. Il decreto del 22 dicembre 1789 tenne fermi i requisiti di età, di censo e di residenza, stabiliti dalle norme del 2 aprile, aggiungendo quelli dell'iscrizione nei ruoli della guardia nazionale e della prestazione del giuramento civico. Mantenne pure, generalizzandolo, il sistema dell'elezione indiretta, a due gradi. Stabilì inoltre i motivi di esclusione dall'esercizio dell'elettorato (domesticità, condizione di accusato penale di fallito, ecc.). La costituzione del 14 settembre 1791 abbassò il requisito dell'età a 21 anni per gli elettori primarî, mantenendolo a 25 per gli elettori di secondo grado. Quella del 24 giugno 1793 (non applicata) stabilì il suffragio diretto, l'età di 21 anni per l'elettorato attivo e per l'eleggibilità, e concesse anche agli stranieri residenti in Francia, sotto condizioni facili a verificarsi, il diritto di suffragio. La Camera (unica) doveva comprendere un deputato ogni 40.000 abitanti. Ma la costituzione del 1° vendemmiaio anno IV (23 settembre 1795) ristabilì il suffragio a due gradi, le età rispettive di 21 e 25 anni e la condizione del censo, esentandone solamente i reduci da campagne di guerra repubblicane. Prescrisse inoltre, per l'iscrizione nel registro civico, la condizione alternativa di saper leggere e scrivere, o di esercitare una professione manuale; ma l'entrata in vigore di questa disposizione era dilazionata sino all'anno XII (1803-1804), e nel frattempo si succedettero il Direttorio, il Consolato e l'Impero. Le leggi effimere che furono emanate in questo periodo procelloso non meritano d'essere ricordate, non contenendo alcuna novità degna di menzione. Merita tuttavia un breve cenno il fugace tentativo fatto da Napoleone durante i Cento giorni di dare un principio di attuazione a una feconda idea dell'abate Sieyès. In un discorso tenuto nel 1795 alla Convenzione il Sieyès aveva detto che il migliore sistema di rappresentanza sarebbe stato quello di comporre l'assemblea di uomini dediti ai tre grandi rami del lavoro, cioè l'industria rurale, l'industria cittadina e l'attività rivolta all'incremento della cultura. Nell'Atto addizionale alle costituzioni dell'Impero emanato da Napoleone il 22-23 aprile 1815 si trova una disposizione che è un'eco manifesta per quanto tenue di questa idea. L'art. 33 dispone infatti che l'industria e la proprietà manifatturiera e commerciale avranno un'apposita rappresentanza. L'elezione sarà fatta dall'ordinario collegio del dipartimento in base a una lista formata per cura delle camere di commercio e delle camere consultive riunite. Era uno spunto di attuazione di quella rappresentanza degl'interessi che doveva formare oggetto in seguito di tanti animati dibattiti. Caduto definitivamente Napoleone, la Carta borbonica del 1814, rimessa in vigore con regia ordinanza, stabilì le elezioni a suffragio diretto ma elevò a 30 anni l'età per l'elettorato attivo e a 40 anni per l'eleggibilità, e fissò per quello il censo di 300 franchi di contribuzione diretta, e per questa il censo di 1000 franchi (con un temperamento, nel caso che in un dipartimento si trovassero meno di 50 persone aventi questo censo). Quanto ai collegi, la legge del 5 febbraio 1817 ridusse a collegio unico ciascun dipartimento, istituendo l'elezione a scrutinio di lista. Con legge successiva si crearono collegi circondariali e dipartimentali e si diede doppio suffragio ai maggiori censiti chiamandoli a votare sia in quelli sia in questi. La Carta del 14 agosto 1830 temperò alquanto questo sistema ultra-restrittivo, abbassando a 25 anni l'età per l'elettorato attivo e a 30 quella per l'eleggibilità. La legge del 19 aprile 1831 modificò inoltre notevolmente le condizioni del censo e abolì i collegi dipartimentali nonché lo scrutinio di lista, assegnando a ogni circondario un solo deputato. Finalmente, in seguito alla rivoluzione del 1848, ogni traccia della tendenza restrittiva scomparve. Le disposizioni del governo provvisorio e della costituzione del 4 novembre 1848 statuirono il principio del suffragio universale diretto. Fu dichiarato elettore ogni cittadino francese di anni 21 e nell'art. 25 della costituzione non è neppure ricordata la condizione della residenza semestrale nel comune che figurava nell'art. 6 del decreto 5 marzo 1848 del governo provvisorio. Tuttavia questa estrema larghezza si rivelò ben presto gravida di sensibili inconvenienti e di pericoli, e una legge del 31 maggio 1850 si spinse all'eccesso opposto, esigendo ben tre anni di domicilio nel cantone. Quanto alle modalità dell'elezione, si ripristinarono i collegi dipartimentali, con lo scrutinio di lista. Dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 Luigi Napoleone ridusse daccapo la condizione della residenza alla durata semestrale e riservò al capo del potere esecutivo il diritto di dividere i dipartimenti in circoscrizioni elettorali con scrutinio uninominale. Da allora in poi il suffragio universale non è più stato toccato in Francia. Ha avuto, invece, lungo seguito l'altalena tra i sistemi del suffragio uninominale e dello scrutinio di lista.

La complessa e tormentosa elaborazione degli ordinamenti elettorali svoltasi in Francia, non poteva non destare desiderî sempre più acuti di riforme in Inghilterra, dove persisteva ancora, nei primi decennî del sec. XIX, il vetusto regime, restaurato in seguito al crollo della repubblica cromwelliana. Ancora nel primo quarto del sec. XIX i membri della Camera dei Comuni erano eletti, in grande maggioranza, da borghi d'infima importanza, nei quali, dato lo scarsissimo numero di elettori, spadroneggiavano pochi plutocrati, che esercitavano la corruzione elettorale, si può dire, alla luce del sole. In seguito al risveglio degli spiriti determinato dalla rivoluzione francese, e ai profondi mutamenti verificatisi nelle condizioni sociali, una tenace lotta fu intrapresa, sin dalla fine del sec. XVIII, per la riforma del regime elettorale. Dopo lunghe e aspre contese che sfociarono anche in violenti tumulti popolari, fu alla fine varata la prima riforma del 1832. Essa tolse a più di 50 cosiddetti "borghi putridi" (rotten boroughs) il diritto di eleggere deputati al parlamento, e lo conferì, invece, a qualche diecina di centri importanti quali Manchester, Birmingham, ecc., che ne erano privi. Il diritto di suffragio fu esteso a diverse categorie di proprietarî e di affittuarî (copyholders, leaseholders, ecc.), con riduzione considerevole del requisito del censo, e nei centri urbani fu conferito agli occupanti (occupiers), a qualunque titolo, di un locale, per il quale fosse corrisposto un canone di affitto di 10 sterline. Per far cessare i diffusissimi abusi in materia di riconoscimento delle qualità di elettore, furono istituite liste elettorali permanenti da compilarsi e da aggiornarsi periodicamente, per cura delle autorità comunali, con la garanzia del ricorso all'autorità giudiziaria. Per effetto di questa riforma il numero degli elettori fu più che raddoppiato, e furono rimossi gli sconci più gravi nel procedimento delle elezioni e nella distribuzione della rappresentanza. Rimasero, tuttavia parecchie anomalie. Le circoscrizioni elettorali, costituite sempre sul fondamento delle contee, dei borghi, delle città, avevano normalmente il numero tradizionale di due rappresentanti. A parecchie, però, ne era stato lasciato uno solo, e ad alcune ne erano stati, invece, assegnati tre, badandosi più all'importanza storica e alla rilevanza della proprietà fondiaria che non all'entità della popolazione e al numero degli elettori. Accadde così, p. es., che mentre pochi borghi con un numero complessivo d'un migliaio di elettori mettevano insieme sei rappresentanti, ne aveva un egual numero una contea con più di 50.000 elettori. Di qui la ripresa dell'agitazione per una nuova riforma, soprattutto in seguito alla rivoluzione del 1848, che agitò tutta l'Europa. Dopo una lunga vicenda di battaglie parlamentari fu condotto in porto il secondo Reform bill del 1867, che toglieva a una quarantina di piccoli borghi uno dei due rappresentanti, dandone, invece, due a diverse grandi città, e instaurava un modestissimo esperimento di rappresentanza delle minoranze prescrivendo che nelle circoscrizioni con tre rappresentanti (three-cornered constituencies) gli elettori votassero per due soli candidati, e in quella di Londra, che ne aveva quattro, votassero per tre soli. Molto più importante fu l'allargamento del diritto di suffragio, che si attuò, sia abbassando il censo, sia prendendo in considerazione, nelle città, nuove categorie di affittuarî (gli inhabitant occupiers e i lodgers). Il corpo elettorale ne risultò triplicato. Restavano da correggere la persistente cattiva distribuzione della rappresentanza (troppi piccoli centri urbani avevano ancora uno o due rappresentanti, mentre diecine di città importanti non ne avevano affatto, e due soli ne avevano diverse grandi città e popolose contee) e l'ingiusta disparità fra città e borghi da un lato, e contee dall'altro, nel conferimento del diritto di suffragio, non essendo state estese a queste ultime le misure di attenuazione del censo, che in maggior misura avevano contribuito ad accrescere, nei centri urbani, il numero degli elettori. Per eliminare questi vizî, che causavano crescente scontento (manifestatosi specialmente nelle elezioni posteriori al Ballot act del 18 luglio 1872, che con l'istituzione del voto segreto consentiva la libera espressione delle tendenze popolari) conveniva abbandonare due capisaldi del regime elettorale inglese tradizionale, la connessione, cioè fra il diritto di suffragio e il pagamento d'una imposta diretta e il sistema di collegi cosiddetti organici, o storici, cioè degli enti non meramente costituiti in vista della funzione elettorale, ma dotati, indipendentemente da questa, di vita unitaria propria. Ambedue questi capisaldi erano già stati intaccati dalla riforma del 1867, ma sussistevano ancora in massima. Per fare altri passi nel senso dell'estensione del diritto di suffragio e dell'equa distribuzione della rappresentanza bisognava sovvertirli senz'altro. Ebbe questo coraggio Guglielmo Gladstone. La terza riforma da lui ideata e fatta approvare in due riprese (The representation of the people act del 6 dicembre 1884 e The redistribution of seats act del 24 giugno 1885) consiste sostanzialmente in questo: sono ammessi all'elettorato, senza distinzione fra città, borghi e contee, tutti i cittadini maggiorenni che abbiano un alloggio proprio (lodgers e householders) e tutti i possessori (occupiers) di beni immobili urbani o rurali che diano un reddito annuo di 10 sterline. I diritti elettorali nascenti da anteriori disposizioni di legge sono inoltre conservati. Ciò equivaleva press'a poco in pratica all'adozione del suffragio universale; temperato però saggiamente da diverse prescrizioni sulla durata del possesso dell'alloggio o del bene immobile, e dall'implicita esclusione dei cittadini viventi a carico altrui. Non meno radicale è la riforma delle circoscrizioni elettorali. Abbandonando i criterî-base storici e territoriali, si assume a fondamento della distribuzione della rappresentanza la popolazione. A ciascun gruppo dalle 50.000 alle 54.000 anime all'incirca è assegnato un rappresentante da eleggere con votazione uninominale (single seat system). Sono eccettuate le università e sono fatte salve una trentina circa di circoscrizioni binominali. Scompaiono tutte le three-cornered constituencies, e con esse il ricordato esperimento della rappresentanza delle minoranze mediante il voto limitato. Circa 100 borghi e città perdono per deficienza di popolazione la qualità di collegi elettorali; l'acquistano invece 33 città. Le contee e le città popolose sono divise in numerosi collegi uninominali; così la contea di York è divisa in 27 collegi e Londra, che contava 9 collegi binominali più il quadrinominale della city, è divisa in 59 collegi uninominali, più uno binominale per la city. È una trasformazione ab imis del regime elettorale britannico tradizionale. Salvo scarse eccezioni superstiti, la Gran Bretagna, col suffragio quasi universale e segreto e coi collegi basati sul dato demografico, non si differenzia più, quanto al regime elettorale, dai principali stati del continente che negli ultimi decennî del sec. XIX accolsero più o meno i principî sanciti dalla legislazione francese del 1848.

In Italia la legge del 22 gennaio 1882 recò modificazioni radicali al regime elettorale del 1848 che la legge del 20 novembre 1859, emanata in virtù dei pieni poteri, aveva lasciato presso che inalterato, limitandosi ad aggiungere diverse esenzioni dal requisito del censo, in ragione di speciale capacità resultante da titoli, e a equiparare al censo il pagamento di canoni d'affitto variabili secondo le località. La legge del 1882 ammise invece all'elettorato tutti i cittadini italiani maggiorenni e alfabeti che fossero in possesso di uno o dell'altro di questi due requisiti: aver superato l'esame del corso elementare obbligatorio (con esenzione per diverse categorie di persone fornite di titoli superiori di cultura, o prese in considerazione dalla legge per gli uffici coperti, per la situazione sociale, o per benemerenze civili o militari), oppure corrispondere un annuo tributo di L. 19,80 (con diverse equiparazioni a favore degli affittuarî e dei conduttori di fondi). Questa riforma fece salire il numero degli elettori da circa 628.000 a più di due milioni. Con legge 7 maggio 1882 le circoscrizioni furono del pari modificate radicalmente, prendendo a base, in massima, le provincie, e si costituirono collegi con due sino a cinque rappresentanti, adottando lo scrutinio di lista, con una modesta applicazione della rappresentanza delle minoranze. L'esperimento fu, però, poco felice, e con legge 5 maggio 1891 si ritornò allo scrutinio uninominale.

Con la legge del 30 giugno 1912 il diritto di suffragio fu concesso a tutti i cittadini, all'età di 30 anni, senza alcuna condizione di censo, né d'istruzione, comprendendo, quindi, anche gli analfabeti. Ai maggiorenni d'età inferiore ai 30 anni fu concesso, con condizione di censo o di prestazione del servizio militare, restando ferme le molteplici condizioni equiparate di cultura, di stato sociale, di benemerenze civili e militari, già enumerate nella legge precedente. Il corpo elettorale ne risultò, alla fine dell'anno 1913, aumentato dalla cifra di circa 3.300.000 a quella di circa 8.700.000, dei quali 2.500.000 circa analfabeti. Malauguratamente non si provvide a rivedere il riparto del numero dei deputati per ogni provincia e la corrispondente circoscrizione dei collegi, come era prescritto dalla disposizione dell'art. 46 della vecchia legge, ripetuta dall'art. 54 della nuova. La revisione, che avrebbe dovuto farsi dopo la pubblicazione dei risultati di ciascun censimento ufficiale, fu trascurata dal 1890 in poi, e ne derivò una composizione e distribuzione difettosissima dei collegi, in seguito ai considerevoli spostamenti demografici.

Subito dopo la guerra, con la legge del 16 dicembre 1918, erano dichiarati elettori tutti i cittadini maschi maggiorenni, e inoltre, prescindendo dal limite di età, coloro che avevano preso parte alle operazioni di guerra. Pochi mesi dopo si procedeva a una radicale riforma del nostro ordinamento elettorale, che sembrava suggerita da copiosi esempî dati dall'estero. La legge del 15 agosto 1919 introdusse anche in Italia il sistema proporzionale. Base dei collegi le provincie, con riguardo, però, alla cifra della popolazione, dovendosi le provincie meno popolose unire alle contigue, in modo che a ciascun collegio spettassero non meno di 10 rappresentanti. Eccezionalmente si fece astrazione da questa regola nella prima applicazione della legge, e si ebbero 32 collegi con un numero di rappresentanti che variava da 5 a 9, e 22 con un numero che variava da 10 a 20. Fu adottato il sistema più semplice di rappresentanza proporzionale, cioè la divisione successiva della cifra elettorale di ciascuna lista per i numeri cardinali e la distribuzione dei seggi secondo l'ordine di grandezza dei quozienti. Fu consentito all'elettore d'indicare la propria preferenza per uno o più (sino a quattro, secondo il numero dei rappresentanti del collegio) dei candidati della lista da lui prescelta, oppure, quando la lista stessa fosse incompleta, di aggiungere (nella stessa misura suddetta) nomi di candidati compresi in altre liste. La somma dei voti aggiunti riportati dai singoli candidati di ciascuna lista, divisa per il numero dei rappresentanti del collegio, concorreva a costituire la cifra elettorale della lista stessa. I voti di preferenza e i voti aggiunti raccolti da ciascun candidato costituivano, sommati coi voti di lista, la cifra individuale, che serviva per graduare i candidati appartenenti alla medesima lista. L'assegnazione individuale dei seggi spettanti alla lista era fatta seguendo questa graduatoria. Con l'annessione dei nuovi territorî, in seguito alla conclusione dei trattati di pace, le circoscrizioni furono rimaneggiate e si ebbero sei collegi con un numero di rappresentanti da 1 a 7, e 23 con un numero da 10 a 28 (r. decreto 2 aprile 1921). Con l'avvento del governo fascista l'infausta applicazione di questo sistema, che impediva qualsiasi continuità d'indirizzo politico e legislativo, fu abbandonata. La legge del 18 novembre 1923 costituì il regno intiero in collegio unico nazionale, ripartendolo, per determinati effetti, in 15 circoscrizioni regionali (che avrebbero, poi, con una predisposta modificazione, dovuto essere portate a 16), alle quali fu assegnato, in base alla cifra della popolazione, un numero di deputati variante da 12 a 70, dei quali 2/3 assegnati preventivamente alla maggioranza, e 1/3 riservato alle minoranze. All'elezione si procedeva in questa guisa. Le liste dei candidati, comprendenti non più di 2/3 del numero dei rappresentanti assegnato a ciascuna circoscrizione, si presentavano, munite di un proprio contrassegno, all'ufficio centrale circoscrizionale (corte d'appello locale). Entro 5 giorni i presentatori dovevano dichiarare all'ufficio centrale nazionale (Corte d'appello di Roma) con quali liste di altre circoscrizioni, recanti lo stesso contrassegno, intendessero di unificarsi. Volendo dare alla lotta elettorale un carattere nazionale, la legge escluse senz'altro dalla votazione le liste che non fossero presentate, con lo stesso contrassegno e con dichiarazione reciproca di unificazione, in due circoscrizioni almeno. Compiuta la votazione, l'ufficio centrale nazionale procedeva a determinare la somma dei voti validi riportati dalle singole liste unificate, in tutto il regno, e attribuiva 2/3 dei deputati a quella che aveva raccolto la maggioranza relativa dei voti e non meno del 25% del totale generale. Si dichiaravano eletti, in ogni circoscrizione, i candidati compresi in questa lista. Poi l'ufficio determinava la somma dei voti emessi, in ciascuna circoscrizione, per le altre liste, e dividendola per la cifra dei posti riservati alle minoranze (1/3 dei deputati assegnati alla circoscrizione) ricavava il numero di voti che dava diritto a un seggio, e in base a questo numero distribuiva tra le liste rimaste in minoranza il terzo dei posti a esse riservati. Il principio del collegio unico nazionale non era dunque applicato integralmente. Ciò avvenne dopo un ritorno di mera forma al sistema dei collegi uninominali (la legge del 15 febbraio 1925 che li ristabilì non ebbe applicazione), con la fondamentale riforma recata dalla legge del 17 maggio 1928, fusa, con altre, nel testo unico del 2 settembre.

I sistemi elettorali vigenti. - Tracciata così, nelle sue grandi linee, la storia del regime elettorale, passiamo a un breve esame dei principali sistemi elettorali vigenti.

Dal punto di vista dell'efficacia attribuita ai voti dei singoli elettori si distingue l'elezione diretta dall'indiretta, o a più gradi. Nel primo caso il voto di ciascun elettore significa senz'altro designazione di un deputato all'assemblea, o di altro magistrato elettivo. Tutti i voti si equivalgono e il solo computo numerico determina quali siano gli eletti. Nel secondo caso gli elettori cosiddetti primarî (o di primo grado) sono chiamati a designare una seconda schiera di elettori, detti secondarî (o di secondo grado), ai quali spetta di designare i rappresentanti, o, se l'elezione è a tre gradi, di nominare una terza schiera di elettori definitivi. Questo sistema, che ha goduto un tempo, d'un assai largo favore, in ispecie in Germania, è caduto quasi totalmente in disuso ai tempi nostri (è stato rimesso in vigore in Egitto, con la riforma costituzionale dell'ottobre 1930). La più importante applicazione superstite se ne ha oggi nell'elezione del presidente e del vicepresidente degli Stati Uniti d'America. Secondo l'art. 11, sez. 1ª della costituzione americana, modificato dall'emendamento XII (del 1804), il corpo elettorale di ciascuno stato dell'unione elegge un numero di elettori presidenziali, pari alla somma dei rappresentanti che allo stato spettano nelle due camere del congresso. Gli elettori presidenziali votano, con schede separate, per il presidente e per il vicepresidente, e il presidente, cui vengono trasmessi i risultati di queste votazioni, proclama elette rispettivamente le due persone che hanno raccolto, in tutta la federazione, il maggior numero di voti.

Sempre dal punto di vista dell'efficacia attribuita ai singoli voti, il suffragio può essere uguale o disuguale. La disuguaglianza si attua, o in modo diretto, attribuendo più voti a determinati elettori, in ragione del censo, della cultura, dell'età e via dicendo (sistema del voto plurimo, o plurale), oppure in modo indiretto, dividendo il corpo elettorale in classi, o curie, in base a diversi criterî di rilevanza sociale, e distribuendo fra esse la rappresentanza in modo ineguale, o assegnando loro lo stesso numero di rappresentanti, nonostante la diversa composizione numerica. La più notevole applicazione del primo sistema si ebbe in Belgio, con la riforma costituzionale del 7 settembre 1893 e con la legge elettorale del 28 giugno 1894. Giusta queste disposizioni, oltre al voto dato a tutti i cittadini di 25 anni con residenza annua nel comune rispettivo, un voto supplementare spettava a chi ne avesse 35 e fosse padre di famiglia, o pagasse una data quota d'imposta, oppure avesse 25 anni e possedesse un dato patrimonio; due voti supplementari a chi, oltre all'età di 25 anni, avesse certi requisiti di capacità. In nessun caso un elettore poteva disporre di più di tre voti. In pratica si ebbero 850.000 elettori con un sol voto, 294.000 con due e 223.000 con tre.

Il sistema del voto per classi, basato sul mero criterio delle imposte pagate, fu adottato in Prussia e in Sassonia, e nel primo di questi stati rimase in vigore sino alla fine della guerra mondiale (in Sassonia, invece, fu abrogato dalla legge del 5 maggio 1909). Con esso avevano un egual numero di rappresentanti i pochi grossi contribuenti che con i loro pagamenti coprivano 1/3 dell'importo dei tributi nella rispettiva circoscrizione, i numerosi contribuenti medî che ne coprivano un altro terzo, e la gran massa dei contribuenti minori che coprivano il terzo rimanente. Più sensato era il voto per classi, in vigore in Austria fino alla radicale riforma del 1907. Si fondava su categorie distinte d'interessi, cui corrispondevano le curie della grande proprietà fondiaria, delle città ecc., e manteneva fra le rappresentanze di queste categorie una certa ragionevole proporzione. Dei deputati al Reichsrat toccava il 20% alla grande proprietà fondiaria, il 30% circa ai centri urbani e industriali, il 33% circa ai comuni e il 17% alla generalità degli elettori (curia del suffragio universale). Uno dei difetti inerenti al sistema era l'esistenza del voto multiplo (da non confondersi col voto plurimo): chi votava nella curia generale poteva appartenere ad altre curie ed esercitarvi il diritto elettorale (questo vizio persistette sino agli ultimi tempi anche in Inghilterra).

Dal punto di vista della distribuzione della rappresentanza si contrappongono, prima di tutto, i due sistemi dello scrutinio uninominale e del plurinominale, o di lista. Col primo si hanno tanti collegi quanti sono i deputati da eleggere, e quindi si vota per un solo candidato. Col secondo si hanno collegi più ampî, ai quali è assegnato un numero vario di rappresentanti, e si vota per una lista di candidati. Questo secondo sistema presenta, come si è visto nell'esposizione storica, diverse possibilità di attuazione. Può essere stabilito, per es., l'obbligo della lista completa (cioè contenente tanti candidati quanti sono i deputati da eleggere nel collegio), oppure può essere consentita la presentazione di liste incomplete. La lista può essere chiusa, o aperta, cioè può essere, o no, concesso all'elettore di modificarla. Può essere ammesso il solo voto per la lista, oppure può essere consentito all'elettore di dichiarare anche le sue preferenze per uno o più candidati. E così via.

Al sistema dello scrutinio di lista si riannoda il sistema della rappresentanza proporzionale, cioè della distribuzione della rappresentanza in proporzione dei voti concordi emessi dai singoli gruppi di elettori, gruppi che possono corrispondere a partiti politici, oppure possono essere costituiti in base a differenziazioni d'interessi di nazionalità e via dicendo. Col sistema maggioritario una maggioranza, anche tenue, può escludere dalla rappresentanza minoranze cospicue. Coi collegi uninominali può aversi un tal quale contemperamento, potendo le minoranze, che tali sono avuto riguardo all'intero corpo elettorale, essere, invece, in maggioranza in singoli collegi. E con lo scrutinio di lista possono aversi i temperamenti del voto limitato (consentendosi all'elettore di votare solamente per i 3/4, o altra frazione dei deputati spettanti al collegio), o del voto cumulativo (consentendosi di accumulare su un nome solo i voti, o un dato numero dei voti che l'elettore dovrebbe dare all'intiera lista), o altri simili. Ma si tratta sempre di rimedî d'incerta efficacia, e che, mentre possono eludersi con facili artifici, offrono le medesime probabilità alle minoranze cospicue e alle infime. Di qui il grande successo del sistema proporzionale. Lo schema elementare del sistema è semplicissimo e persuasivo. Se si hanno da eleggere 100 deputati e i votanti sono 100.000, è chiaro che basta dare un deputato a ciascun gruppo di 1000 votanti. Di qui l'idea del quoziente elettorale e dell'assegnazione di tanti seggi a ciascuna lista, quante volte il quoziente entra nella cifra dei voti da essa raccolti. Sennonché, in pratica, le cose si complicano. Il quoziente non entra quasi mai esattamente, una o più volte, nelle cifre delle liste. La divisione lascia resti insignificanti riguardo a certe liste e resti cospicui riguardo a certe altre. Questo fatto, ripetendosi in più collegi, genera disarmonie che mal si giustificano. Ecco la ragione dell'abbondante fioritura di modalità di applicazione del sistema proporzionale. Si tratta ora di artifici matematici per far riuscire esatte quanto più è possibile le divisioni, ora di diversi modi di utilizzare i resti. Altre varietà nascono dai diversi modi di distribuire i seggi tra i candidati di ciascuna lista, dato che si voglia lasciare all'elettore la possibilità di esprimere le proprie preferenze, non solo per il gruppo, ma anche per uno o più candidati proposti dal gruppo stesso. In Finlandia si è pervenuti sino al segno di considerare il voto diviso in tanti segmenti computandolo per metà a favore del secondo candidato inscritto nella lista, per 1/3 a favore del terzo e così via. E altre difficoltà ancora nascono se per menomare la tirannia dei presentatori delle liste si consente il panachage. Lasciando stare questi particolari, che hanno fatto del sistema proporzionale una vera selva di fastidiosi problemi e di complicate misure di svariatissima applicazione, è certo che esso dispiega la sua massima efficacia quando si accoppia col collegio nazionale unico. L'inconveniente dei residui inutilizzati è, così, grandemente ridotto e ai partiti, o gruppi minori, è facilitata la conquista di qualche seggio. Ciò però, se è, astrattamente parlando, un pregio del sistema, è invece, dal punto di vista politico concreto, il suo maggior vizio. Ne risulta, infatti, un frazionamento della rappresentanza, che rende difficile ogni durevole attività di governo. In diversi stati si cerca perciò di rendere più ardua ai gruppi minori la conquista di seggi nelle assemblee parlamentari. La Cecoslovacchia, p. es., non ammette al secondo scrutinio i gruppi, che non abbiano conquistato, nel primo, almeno un seggio.

Il sistema elettorale italiano. - Le elezioni politiche hanno luogo per la costituzione della Camera dei deputati. Il sistema italiano mira a formare una camera che non sia, come nel regime demo-liberale, la depositaria effettiva di tutti i poteri sovrani, ma un organo dello stato per la funzione legislativa: non l'esponente degl'interessi locali, spesso in contrasto con l'interesse generale, ma la compiuta espressione della vita nazionale nei suoi aspetti economici, politici e culturali; la sincera interprete delle necessità e dei sentimenti sociali da armonizzare con le necessità storiche ed immanenti della nazione. Essa corrisponde ai postulati fondamentali della dottrina fascista, che nega la sovranità popolare, afferma la sovranità dello stato ed esige che la scelta dei membri del parlamento non sia abbandonata all'arbitrio delle masse, ma derivi da un sistena razionale e organico. Nel sistema positivo italiano (testo unico di legge 2 settembre 1928, n. 1993), le elezioni costituiscono un atto complesso di volontà di varî enti e organizzazioni, del Gran Consiglio del fascismo e del corpo elettorale.

Elettorato attivo. - Proposta, designazione, approvazione sono i tre atti con cui si esplica la funzione elettorale: funzione pubblica, ma non statale; espressione, secondo un'autorevole dottrina, dell'autarchia attribuita alla nazione, e per essa agli enti e ai singoli che la compongono. Soggetti attivi di questa funzione sono tre: gli enti e le organizzazioni che propongono; il Gran Consiglio che designa; il corpo elettorale che approva. Notevole importanza ha la proposta dei candidati. Spetta: 1. alle maggiori organizzazioni economiche della nazione, vale a dire alle confederazioni nazionali dei sindacati riconosciuti, ai sensi dell'art. 41 del r. decr. 1 luglio 1926, n. 1130. Il numero complessivo dei candidati da proporre è pari al doppio dei deputati da eleggere. Il riparto è stabilito in misura equa fra le varie confederazioni (art. 47 legge cit.); 2. agli enti morali legalmente riconosciuti e alle associazioni esistenti anche solo di fatto, che abbiano importanza nazionale e perseguano scopi di cultura, di educazione, di assistenza e di propaganda. La facoltà di proporre candidati è riconosciuta loro con decreto reale, su conforme parere di una commissione di cinque senatori e di cinque deputati nominati dalle rispettive assemblee. Il decreto di riconoscimento è soggetto a revisione ogni triennio. Gli enti possono proporre un numero complessivo di candidati pari alla metà dei deputati da eleggere. Il riparto di tale numero fra i varî enti riconosciuti e il modo della loro scelta sono stabiliti nel decreto di riconoscimento (art. 51 legge cit.).

Preminenza decisiva ha l'intervento del Gran Consiglio. Se la nomina dei deputati fosse affidata soltanto alle organizzazioni economiche e culturali, la Camera assumerebbe carattere prevalentemente sindacale. Essendosi voluto, invece, che fosse un'assemblea politica, si è demandato al massimo organo politico del regime, di formare "la lista dei deputati designati", mediante l'atto di designazione. Nella facoltà di designazione, il Gran Consiglio è pienamente libero: può scegliere i candidati da sottoporre ai suffragi del corpo elettorale, sia fra i proposti dagli enti e dalle organizzazioni, sia fra le persone di chiara fama nelle scienze, nelle lettere, nella politica e nelle armi, che siano rimaste escluse dall'elenco dei candidati (art. 52). Quando la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio non risulti approvata, si rinnovano le elezioni col sistema delle liste concorrenti. Possono presentare liste di candidati tutte le associazioni e le organizzazioni che contino cinquemila soci iscritti nelle liste elettorali. Ciascuna lista non può comprendere più di tre quarti dei deputati da eleggere (art. 88 e 89).

Alla votazione per l'approvazione della lista procede il corpo elettorale. Hanno diritto di voto i cittadini italiani che abbiano compiuto il ventunesimo anno o lo compiano non più tardi del 31 maggio dell'anno in cui ha luogo la revisione delle liste, o che, essendo minori degli anni ventuno ma maggiori dei diciotto, siano ammogliati o vedovi, e siano, inoltre, in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) pagare un contributo sindacale, a termini della legge 3 aprile 1926, n. 563, ovvero essere amministratori o soci di una società o di altro ente, che paghi un contributo sindacale a termini della legge stessa. Nelle società in accomandita per azioni e anonime, solo le azioni nominative, intestate da almeno un anno, conferiscono il diritto elettorale; b) pagare almeno cento lire annue di imposte dirette allo stato, alle provincie e ai comuni, ovvero essere, da almeno un anno, proprietarî o usufruttuarî di titoli nominativi di prestiti provinciali o comunali, per la rendita di 500 lire; c) percepire uno stipendio, o salario, o pensione, o altro assegno di carattere continuativo a carico del bilancio dello stato, delle provincie o dei comuni, o di altro ente sottoposto per legge alla tutela o alla vigilanza dello stato, delle provincie, o dei comuni; d) essere membri del clero cattolico, secolare o regolare, ovvero ministri di un altro culto ammesso dallo stato (art. 2 testo unico; r. decr. 30 settembre 1928, n. 2225).

Speciali incapacità sono stabilite nei riguardi degl'interdetti e degli inabilitati per infermità di mente; dei commercianti falliti; di coloro che vivono a carico della pubblica beneficenza; di una serie di condannati non riabilitati o amnistiati; degli ammoniti, dei sorvegliati speciali, dei confinati e dei tenutarî di case di meretricio. Incapacità temporanee colpiscono i sottufficiali (esclusi i marescialli), i militari di truppa e gli appartenenti a corpi militarmente organizzati, finché si trovano sotto le armi o appartengono al corpo (art. 6, 107, 108, 109, 118 legge cit.).

Il sistema italiano, per quanto riflette la capacità elettorale, è del tutto originale, e non potrebbe essere inquadrato in alcuno dei sistemi comunemente escogitati. Non si tratta di suffragio universale, perché il voto non è concesso a tutti i cittadini, ma soltanto a coloro che risultino in possesso dei prescritti requisiti di capacità. Non di suffragio ristretto, perché, pur richiedendosi particolari requisiti di capacità, l'elezione non avviene soltanto col voto degli elettori, ma anche col concorso della volontà di enti, e di organizzazioni e del Gran Consiglio. Mancano punti di contatto col sistema delle elezioni a doppio grado, per cui i deputati sono eletti da un ristretto numero di elettori secondarî scelti, a loro volta, da un maggior numero di elettori primarî, e col sistema del voto plurimo per cui i più capaci disporrebbero d'un numero plurale di voti.

Liste elettorali. - Il diritto elettorale è riconosciuto mediante l'iscrizione in apposite liste. Le liste sono compilate in doppio esemplare e contengono i nomi degli elettori in ordine alfabetico. Sono permanenti, ma vengono rivedute ogni anno, e non possono essere modificate che in forza della revisione annua. L'iscrizione ha luogo d'ufficio o su domanda. L'iscrizione d'ufficio si fa in confronto di coloro che risiedono stabilmente nel comune e che risultino in possesso dei requisiti descritti. Per l'iscrizione su domanda, il podestà invita, il 1° dicembre di ogni anno, tutti coloro che sono chiamati all'esercizio del diritto elettorale, a chiedere la loro iscrizione nelle liste. Le istanze possono essere presentate entro il 15 di detto mese, e devono essere corredate dei documenti comprovanti il possesso dei requisiti per essere elettore. L'iscrizione può essere richiesta per le liste di un comune diverso da quello in cui si ha il domicilio civile (domicilio politico) e, precisamente, del comune in cui si è trasferita la propria residenza da oltre sei mesi, o dove si ha la sede principale dei proprî affari o interessi. Occorre, allora, dimostrare di aver rinunciato all'iscrizione nelle liste del comune nelle quali si ha titolo per essere iscritti d'ufficio. Del pari, si può chiedere di rimanere iscritti nelle liste di un comune, pur avendo trasferito la propria residenza in altro comune, e essendosi iscritti nel registro della popolazione stabile. Tutte queste garanzie erano richieste per impedire il rapido trasferimento degli elettori da un collegio all'altro per fini elettorali; ma, ormai, col sistema del collegio unico, hanno perduto la loro ragion d'essere. Trascorso il 15 dicembre, il podestà, assistito dal segretario comunale, forma tre elenchi separati in ordine alfabetico.

Nel primo elenco, propone l'iscrizione di coloro che hanno diritto di essere elettori; nel secondo, propone la cancellazione dei morti e di coloro che hanno perduto il diritto elettorale; nel terzo, annota gli elettori emigrati in via permanente all'estero. Delle operazioni compiute si stende processo verbale (art. 8 e 19). Gli elenchi, così compilati, sono pubblicati non più tardi del 31 gennaio e fino al 15 febbraio, con facoltà a chiunque di produrre reclami nel termine prescritto per la pubblicazione. Si chiude così il primo stadio del procedimento, che è di ricerche e di proposte, e si entra nello stadio delle deliberazioni e dei provvedimenti. Questi sono demandati a una commissione elettorale provinciale, composta del presidente del tribunale (presidente), di un consigliere di prefettura e di tre membri effettivi e due supplenti, nominati annualmente dal prefetto fra gli elettori della provincia, esclusi i podestà e i vicepodestà. Assiste alle sedute della commissione un rappresentante del pubblico ministero, senza voto deliberativo. Le attribuzioni della commissione sono assai ampie: essa rivede tutte le operazioni compiute dal podestà; decide sui reclami; provvede alle nuove domande di iscrizione o di cancellazione; cancella i cittadini indebitamente iscritti; mantiene iscritti quelli indebitamente cancellati; può procedere a iscrizioni di ufficio (art. 29). La definitiva approvazione degli elenchi deve essere decretata entro il 30 aprile. Gli elenchi definitivamente approvati vengono pubblicati non più tardi del 10 maggio e fino al 31 maggio; in base ad essi il podestà verifica la lista permanente, che, entro i predetti termini, viene depositata nella segreteria del comune, con diritto ad ogni cittadino di prenderne cognizione e d'impugnare le deliberazioni della commissione provinciale. L'impugnativa può esser fatta anche dal pubblico ministero (art. 27, 29, 30, 36 legge cit.). Si chiude, così, il secondo stadio, e si apre il terzo, che è rappresentato dalle contestazioni in sede giudiziaria. È ammessa, come si è visto, l'azione popolare. Il giudizio viene celebrato dinnanzi alla Corte d'appello, con procedimento sommario, semplice e gratuito. Non occorre l'assistenza del difensore. Contro la decisione della corte è ammesso il ricorso per cassazione.

Elettorato passivo. - Costituisce l'insieme delle condizioni personali per cui un candidato possa essere validamente eletto. È da distinguere l'ineleggibilità dalla incompatibilità. La prima riguarda la capacità del candidato. La seconda riguarda la compatibilità della posizione di candidato o della funzione di deputato con altra pubblica funzione. Nel nostro diritto positivo, esistono condizioni di capacità, non esistono motivi d'incompatibilità (art. 106 legge cit.). Sono condizioni di capacità positive: la cittadinanza, il sesso (maschile), l'età (25 anni); negative: l'interdizione, l'inabilitazione per infermità di mente, il fallimento, l'ammonizione, la vigilanza speciale, il confino, la condanna per reati che o per sé stessi importano interdizione definitiva o temporanea della piena capacità giuridica, o sono particolarmente degradanti, come oziosità, vagabondaggio, mendicità, furto, truffa, abuso di fiducia, frode, calunnia, ecc. Da incapacità sono pure colpiti i tenutarî di case di meretricio, i ricoverati negli ospizî di carità e coloro che vivono a carico della pubblica beneficenza (art. 107 legge cit.).

La collettività di persone riunite per il contemporaneo esercizio del diritto elettorale costituisce il collegio. Può esservi un solo collegio per tutto lo stato, come può esservi una pluralità di collegi. Si hanno, in quest'ultima ipotesi, collegi territoriali, sindacali e misti, a seconda che gli elettori sono raggruppati per territorio o per classi (culturali, economiche, ecc.), o per territorio e classi insieme. Se si ha, poi, riguardo non agli elettori, ma agli eligendi, devono distinguersi i collegi a scrutinio uninominale dai collegi a scrutinio plurinominale, detto altrimenti di lista, a seconda che gli elettori votano per un solo deputato o per una lista di deputati. Vi siano, poi, uno o più collegi nello stato, occorre ancora distinguere, con riguardo al modo con cui si determina l'elezione, il sistema maggioritario dal sistema di rappresentanza delle minoranze. Nel sistema maggioritario, sono eletti coloro che riportano maggior numero di voti; nel sistema di rappresentanza delle minoranze sono eletti i designati dalla maggioranza e dalla minoranza. Questo ultimo comprende sistemi semplici e proporzionali. I sistemi semplici, detti anche empirici o meccanici, mirano ad assicurare una qualsiasi rappresentanza alle minoranze. La quota parte assegnata alle minoranze è stabilita preventivamente dalla legge o dai comitati elettorali. I sistemi proporzionali, detti anche razionali od organici, tendono, invece, ad assicurare, così alle maggioranze come alle minoranze, una rappresentanza proporzionata alle forze elettorali di cui esse dispongono. Sono detti organici o razionali perché la proporzionalità sorge dalla stessa elezione.

Il sistema italiano, del tutto originale, costituisce il regno in unico collegio, nella considerazione che i collegi plurimi creano nel paese altrettanti centri separati di vita, esasperando lo spirito campanilistico e, spesso, escludendo i migliori dalla vita pubblica. La votazione della lista dei deputati designati dal Gran Consiglio ha luogo col sistema maggioritario. La lista è approvata se riporta la metà più uno dei voti validamente dati. La parità di voti equivale ad approvazione (art. 83 testo unico). Ove debba, invece, procedersi alle elezioni con liste concorrenti (nel caso cioè in cui la lista formata dal Gran Consiglio non risulti approvata), si adotta un sistema che può iscriversi fra quelli misti. Le liste, che possono liberamente presentare le associazioni e le organizzazioni che contino almeno cinquemila soci elettori, non possono comprendere più di tre quarti dei deputati da eleggere. Sono dichiarati eletti tutti i candidati della lista che ha ottenuto maggior numero di voti. I posti riservati alla minoranza sono ripartiti fra le altre liste, in proporzione del numero dei voti riportati da ciascuna. A tale effetto, si divide la somma dei voti ottenuti da tutte le liste, che concorrono alla ripartizione dei posti riservati alla minoranza, per il numero complessivo di tali posti. La cifra che si ottiene è il quoziente di minoranza. Si divide, poi, la somma dei voti riportati dalle singole liste per tale quoziente, e il risultato rappresenta il numero dei posti da assegnare a ciascuna lista. In ogni lista sono proclamati eletti i primi iscritti, entro i limiti dei posti assegnati alla lista (art. 88, 89, 90, 100 testo unico cit.).

Procedimento. - Il collegio unico nazionale per l'elezione dei deputati, in numero di quattrocento, è convocato con decreto reale. Il podestà di ciascun comune ne dà notizia al pubblico. Nel decreto reale di convocazione, è stabilito il termine entro il quale gli enti debbono procedere alle proposte dei candidati. Il termine non può essere minore di venti, né maggiore di quaranta giorni. Per ciascuna confederazione, la proposta è fatta dal rispettivo consiglio generale o nazionale, convocato a termine degli statuti. Le riunioni indette per deliberare hanno luogo in Roma e risultano proposte le persone che riportano maggior numero di voti. Un regio notaio redige processo verbale della riunione e della votazione (art. 47). Per gli altri enti e per le associazioni d'importanza nazionale, che perseguono scopi di cultura, di educazione, di assistenza e di propaganda, e ai quali è riconosciuta, con regio decreto, la facoltà di proporre candidati, in numero complessivo pari alla metà dei deputati da eleggere, lo stesso decreto di riconoscimento stabilisce la procedura per la scelta (art. 51). I candidati proposti sono in tutto mille: ottocento dalle confederazioni, duecento dagli altri enti (art. 47 e 51). Viene, quindi, il secondo momento della procedura.

La segreteria del Gran Consiglio, ricevute le proposte, forma un unico elenco di candidati per ordine alfabetico, indicando, accanto a ciascuno di essi, l'ente che lo ha proposto. Non si tiene conto delle proposte giunte fuori termine. Il Gran Consiglio sceglie fra l'elenco dei proposti, aggiunge, se crede, candidati proprî, e forma una lista di quattrocento nomi. Ai fini dell'elezione definitiva, l'intervento del Gran Consiglio ha importanza preponderante. Salva l'approvazione del corpo elettorale, i candidati possono considerarsi eletti. La legge non usa più la parola candidati, ma l'espressione deputati designati. Delle deliberazioni del Gran Consiglio è redatto processo verbale a cura del segretario. La lista dei deputati designati, munita del segno del fascio littorio, è pubblicata nella Gazzetta ufficiale e affissa nei comuni del regno, a cura del Ministero dell'interno.

Segue l'ultimo stadio del procedimento: l'approvazione della lista da parte del corpo elettorale. La votazione per l'approvazione della lista dei deputati designati ha luogo nella terza domenica successiva alla pubblicazione della lista nella Gazzetta ufficiale. La votazione avviene mediante schede portanti il segno del fascio littorio e la formula: "Approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio nazionale del fascismo?" Il voto si esprime in calce alla formula per o per no. Perciò la votazione assume il carattere di plebiscito (art. 53). Agli effetti elettorali, ogni comune è diviso in sezioni. Gli elettori votano nelle sezioni in cui sono iscritti. Ogni sezione comprende un numero di elettori non superiore a 800 né inferiore a 100. Quando gli elettori iscritti siano inferiori a 100, si costituisce la sezione riunendo gli elettori a quelli dei comuni o di frazioni di comuni limitrofi (art. 31 e 54). Per dirigere il procedimento della votazione, si costituisce, in ciascuna sezione, un ufficio elettorale, composto di un presidente, di quattro scrutatori e di un segretario. Il presidente è designato dal primo presidente della Corte d'appello, preferibilmente fra i magistrati, gli impiegati a riposo, gli ufficiali delle forze armate a riposo o in posizione ausiliaria speciale. Il segretario è scelto dal presidente dell'ufficio elettorale tra i funzionarî delle cancellerie e segreterie giudiziarie, i notai, i segretarî comunali, gli elettori (art. 59, 60, 62). L'assunzione di tale incarico è obbligatoria. Le attribuzioni dell'ufficio elettorale sono importantissime: mantenere la polizia delle adunanze; constatare l'identità degli elettori; pronunciare in via provvisoria su tutte le difficoltà e gl'incidenti che si sollevino intorno alle operazioni della sezione e sulla nullità dei voti; procedere allo scrutinio dei voti. Molte di queste attribuzioni spettano al presidente del seggio, che le esercita o da solo o con l'assistenza e il parere degli scrutatori. Il voto è segreto. Di regola è vietato il voto per rappresentazione. I mutilati, gl'invalidi di guerra e coloro che si trovano in condizioni di evidente e dimostrato difetto fisico possono far esprimere il voto da un elettore di loro fiducia.

Lo scrutinio complessivo dei voti e la proclamazione degli eletti sono fatti da un ufficio elettorale nazionale, costituito dal primo presidente e da quattro presidenti di sezione della Corte d'appello di Roma. A tale ufficio sono trasmessi, per il tramite dei pretori, i verbali degli uffici delle varie sezioni in cui ha avuto luogo la votazione. L'ufficio nazionale fa la somma dei voti favorevoli e di quelli contrarî riportati dalla lista dei deputati designati; pronuncia provvisoriamente sopra qualunque incidente relativo alle operazioni ad esso affidate; accerta il risultato complessivo della votazione e, se la lista riporta il prescritto numero di voti, la dichiara approvata e proclama eletti tutti i deputati in essa designati. Dell'avvenuta proclamazione il presidente rilascia attestato ai deputati proclamati e dà notizia alla segreteria della camera dei deputati e alle prefetture, le quali la portano a conoscenza del pubblico (art. 83). Il giudizio definitivo su ogni incidente o contestazione spetta alla Camera (art. 86).

Quando la lista dei deputati designati non risulti approvata, la Corte d'appello di Roma ordina, con suo decreto, la rinnovazione delle elezioni con liste concorrenti, e fissa la data della votazione non prima di trenta e non oltre quarantacinque giorni dalla data del decreto. Il decreto è immediatamente pubblicato nella Gazzetta ufficiale ed è affisso in tutti i comuni del regno, a cura del Ministero dell'interno. Le liste devono essere accompagnate da un contrassegno, anche figurato, e, con gli atti di accettazione delle candidature nonché i documenti valevoli a provarne la regolarità, debbono essere presentate alla cancelleria della Corte d'appello di Roma, funzionante da ufficio centrale nazionale, quindici giorni prima del giorno fissato per le elezioni. La Corte, verificata la regolarità delle liste, le ammette alla votazione. La votazione ha luogo con sistema analogo a quello testé esposto. Avvenuta la votazione, i verbali degli uffici delle varie sezioni elettorali del regno sono trasmessi, per il tramite dei pretori, alla Corte d'appello di Roma. La Corte d'appello fa la somma dei voti riportati da ciascuna lista e proclama l'esito della votazione.

Bibl.: V. le opere citate nella bibliografia della voce candidatura, e inoltre: G. Meyer, Das parlamentarische Wahlrecht, Berlino 1901; J. Rogers, On elections, Londra 1914; C. F. Bishop, History of elections in the American colonies, New York 1893; Ch. Benoist, L'organisation du suffrage universel, Parigi 1897; E. Cahn, Das Verhältniswahlsystem in den modernen Kulturstaaten, Berlino 1909; J. Unold, Wie das Wahlrecht war, wie es ist und wie es werden soll, Lipsia 1904; E. Klöti, Die Proportionalwahl in der Schweiz, Berna 1901; J. St. Mill, Il governo rappresentativo, in Biblioteca di Scienze politiche, s. 1ª, II, Torino 1884; G. Bandini, La riforma elettorale con la rappresentanza proporzionale, Roma 1910; G. Ambrosini, La riforma elettorale, Palermo 1923; M. Siotto Pintor, Le riforme del regime elettorale nel secolo XX, Roma 1912; S. Romano, Corso di diritto costituzionale, 3ª ed., Padova 1931, p. 211 segg.; O. Ranelletti, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1931; G. Zanardelli, Relazione alla Camera dei deputati, 21 dicembre 1880, Atti parlamentari, Legisl. XIV, doc. 38 A; F. Lampertico, Relazione al Senato, 24 novembre 1881, Atti c. s., doc. 38 B; E. Flandin, Institutions politiques de l'Europe, Parigi 1910; B. Mirkine-Guetzevitch, Les constitutions de l'Europe nouvelle, Parigi 1931; Jahrbuch des öffentlichen Rechts, X e segg., Tubinga 1921-1930.

Elezioni amministrative.

L'ordinamento delle istituzioni locali presenta storicamente due tipi diversi: l'uno inglese, l'altro francese. Effetto di evoluzione l'uno, di rivoluzione l'altro. La forma classica e storicamente perfetta del sistema inglese (self-governement) consiste nell'amministrazione libera degl'interessi locali, affidata dal potere regio a una classe dirigente, sotto la tutela dello stato. Il sistema francese, copiato in Italia prima della riforma fascista del podestà e del rettorato provinciale, in mancanza di una classe politica cui affidare l'amministrazione locale attese all'ordinamento di rappresentanze, col presunto criterio della capacità fornito dalla designazione dei suffragi popolari. Consigli comunali e provinciali - cioè i massimi organi deliberativi dei due enti, comune e provincia - sorgevano così da elezioni amministrative, mediante sistema che gli stessi scrittori di scuola liberale giudicavano "non scevro di gravi inconvenienti" e giustificavano con la ragione suprema della necessità.

Le condizioni per essere elettore erano generali e speciali. Le prime si suddistinguevano in positive e negative. Positive: l'età, la cittadinanza, l'appartenenza al comune, e, per lungo tempo, il sesso. Negative: il non trovarsi in istato di incapacità o indegnità o per determinate condanne, o per essere interdetto, inabilitato, ammonito, soggetto alla vigilanza speciale o a carico della pubblica beneficenza. Circa le condizioni speciali, il sistema italiano adottò, fino al 1912, il tipo del suffragio ristretto: per essere elettore occorreva almeno una limitata capacità intellettuale da comprovarsi con titoli di studio, il pagamento di un tributo, e il saper leggere e scrivere. La riforma del 1912 introdusse il suffragio universale, riconoscendo la capacità elettorale a tutti i cittadini che avessero compiuto i trent'anni. Ai minori degli anni trenta, ma maggiori dei ventuno, la capacità elettorale derivava o da titoli di cultura e di onore, o dall'aver prestato servizio militare e dal censo. Le liste degli elettori venivano compilate da una commissione comunale e rivedute da una commissione provinciale, con procedimento identico a quello stabilito per le elezioni politiche. Erano permanenti. Potevano essere eletti consiglieri comunali e provinciali tutti gli elettori iscritti, che non fossero ineleggibili o incompatibili o a causa dell'ufficio ricoperto (p. es. i funzionarî incaricati della vigilanza sui comuni e le provincie), o per la loro particolare qualità (p. es. ecclesiastici con giurisdizione o cura d'anime), o per opposizione d'interessi con l'ente (p. es. coloro che si trovavano in lite con l'ente, ecc.).

Di regola, gli elettori di un comune concorrevano tutti egualmente all'elezione di un consigliere. Era adottato il sistema del voto limitato per assicurare la rappresentanza alle minoranze. Le elezioni dei consiglieri provinciali si facevano, invece, per mandamenti, nelle stesse epoche e con le stesse forme delle elezioni comunali.

Si votava per sezioni, sotto la direzione, prima di uffici provvisorî, poi di uffici definitivi. Presieduti, come i provvisorî, da magistrati, gli uffici definitivi erano costituiti da quattro scrutatori, eletti col sistema del voto limitato, e da un segretario. L'ufficio di ciascuna sezione pronunciava in via provvisoria sulle difficoltà e gl'incidenti insorti durante le operazioni. Il presidente della sezione o l'adunanza dei presidenti delle sezioni proclamavano eletti a consiglieri comunali coloro ehe avevano riportato il maggior numero di voti. Analogamente la proclamazione dei consiglieri provinciali era fatta dall'adunanza dei presidenti delle varie sezioni del mandamento o dei mandamenti.

Contro le operazioni elettorali era ammesso l'esercizio dell'azione popolare, dinnanzi ai consigli comunali o provinciali in prima istanza. In seconda istanza, si ricorreva alla Giunta provinciale amministrativa se si trattava di elezioni comunali; quindi in terza istanza alla Corte d'appello o al Consiglio di stato in sede giurisdizionale, a seconda della natura della controversia. Se si trattava di elezioni provinciali non era consentito il ricorso intermedio alla Giunta provinciale amministrativa.

Bibl.: L. Raggi, Elettorato ed eleggibilità nel comune, nel Trattato di V. E. Orlando, II, parte 1ª; S. Romano, Il comune, ibid.; Soro, Delitala, Elezioni amministrative, in Enciclopedia giuridica italiana.

Elezione canonica.

In senso proprio è la promozione di persona idonea a un ufficio ecclesiastico vacante, fatta mediante il voto e secondo le leggi canoniche da coloro che ne hanno diritto.

Concetto giuridico. - Nel suo significato stretto l'elezione canonica differisce: a) dalla "postulazione", che si ha quando alla nomina di un candidato preferito dagli elettori si oppone un impedimento dal quale si possa e si usi dispensare; b) dalla "presentazione", che è il diritto di un patrono di presentare al legittimo superiore una persona ecclesiastica per una chiesa o un beneficio vacante; c) dalla "nomina" propriamente detta, che è l'aao per cui da un collegio di elettori si propongono alla libera scelta del superiore due o tre persone. Di questi tre modi dell'elezione canonica presa in senso largo il più importante e frequente è la presentazione, che esige l'"istituzione canonica" dell'eletto da parte del prelato competente, mentre per l'elezione propriamente detta si richiede soltanto la conferma del superiore legittimo. L'elezione inoltre a differenza della presentazione, è riservata ai soli ecclesiastici, secolari o regolari, ed esige il previo consenso dell'eletto. Alcuni autori enumerano fra i modi di elezione anche la "raccomandazione", la "petizione" e la "libera collazione", che però non le appartengono.

L'elezione attiva (il diritto di eleggere) spetta direttamente al collegio ecclesiastico per il quale si deve procedere alla nomina del superiore, o all'ammissione d'un nuovo membro, o all'assegnazione di un ufficio.

Elettori. - Sono tali tutti e soltanto i membri di un dato collegio che si trovano nelle condizioni richieste dal diritto comune o da costituzioni particolari. Per ciascuna specie di elezioni la legge designa gli elettori competenti: i cardinali, per l'elezione del papa; i capitoli cattedrali, per quella di alcuni vescovi; i capitoli generali dei religiosi, per quella dei superiori regolari, ecc. Per esercitare il loro diritto gli elettori debbono essere membri perfetti della comunità o del corpo cui appartengono: esclusi quindi, nei capitoli cattedrali, i non promossi almeno al suddiaconato; nei capitoli delle varie religioni, i non professi, ecc. Sono inoltre esclusi dal voto gli estranei, gl'incapaci di atti umani, gl'impuberi, i colpiti da censura o da infamia iuris (v. censura), gli ascritti a sette eretiche e scismatiche, i privati di voce attiva nello stesso collegio. Il loro voto è nullo, ma non invalida l'elezione, salvo nel caso di scomunica per sentenza dichiaratoria o di condanna (can. 165, 167). Nessuno può dare il voto a sé stesso.

Eligendi ed eletti. - Per ogni genere di elezione vi sono requisiti speciali da verificarsi caso per caso. In generale si può dire che l'eligendo deve essere persona idonea e degna, cioè fornita delle qualità richieste dall'ufficio per cui viene proposto, e di condotta morale incensurabile. Nel Codex Iuris Can. (cfr. il suo indice, sotto Vox) sono elencati i casi di ineleggibilità, come pure quelli di privazione del voto attivo.

Forma e atto dell'elezione. - Il presidente del collegio deve convocarne tutti i membri non oltre tre mesi dalla vacanza dell'ufficio; altrimenti il diritto di eleggere passa al superiore ecclesiastico cui spetta confermare l'elezione. Se più di un terzo degli elettori non furono convocati debitamente, l'elezione è per sé nulla. Se furono poste delle condizioni al voto, dovranno ritenersi come non poste.

Le forme di elezione ammesse dal Codex Iuris Can. sono due, lo "scrutinio" e il "compromesso", non essendo più menzionata quella detta per "quasi ispirazione", ammessa nel diritto precedente. Il can. 171 prescrive il processo dello scrutinio, che comincia con la nomina di almeno due scrutatori da scegliersi in seno al collegio, e finisce con la proclamazione dell'eletto. Il voto non è valido se non è libero, segreto, certo, assoluto e determinato (can. 169). Nei due primi scrutinî si richiede la maggioranza assoluta dei voti; nel terzo, la maggioranza relativa; dopo il terzo interviene l'autorità del presidente (can. 101, 174).

Il compromesso è l'atto col quale gli elettori per consenso unanime e d. chiarato trasferiscono il proprio diritto di eleggere - per quella volta soltanto - a uno o più colleghi idonei, incaricati di procedere all'elezione a nome degli altri. Se si tratta di collegio ecclesiastico, i "commissarî" devono essere sacerdoti, altrimenti l'elezione è invalida. Se gli elettori hanno imposto condizioni, debbono osservarsi: se no, si segue il diritto comune.

L'atto dell'elezione chiama l'eletto a un ufficio ecclesiastico, ma non glielo conferisce. Il conferimento (collatio officii) avviene o per la conferma del superiore legittimo, o in forza del diritto comune (a iure). L'elezione deve essere subito comunicata all'eletto, il quale entro otto giorni dalla comunicazione ricevuta deve acconsentire o rinunciare: se no, perde ogni diritto proveniente dall'elezione. Così pure la conferma del superiore deve essere richiesta entro otto giorni dall'accettazione da parte dell'eletto (can. 177).

Bibl.: Gli autori più consultati prima della pubblicazione del Codex Iuris Can. erano: Fr. Schmalzgrueber, Ius ecclesiast. universum, Ingolstadt 1717; T. M. Salzano, Institutiones iuris can., 2ª ed., Napoli 1842; Fr. Santi, Praelectiones iuris can., 4ª ed., Roma 1904; Fr. X. Wernz, Ius decretalium, 2ª ed., Roma 1905, riadattato dopo la pubblicazione del Codex; Wernz-Vidal, Ius canonicum, II, Roma 1923, nn. 571-611.

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