Elettronica italiana: una storia con un futuro

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

Elettronica italiana: una storia con un futuro

Luca De Biase
Giuseppe Caravita

Il miracolo economico

L’Italia del dopoguerra è percorsa da una fioritura generale di iniziative, imprese, ricerche, invenzioni. Sulla scorta del grande piano Marshall, dell’infrastrutturazione, della crescita dei consumi, gli italiani trasformano il loro territorio devastato. L’agricoltura tradizionale che prima della guerra occupava più della metà della popolazione attiva viene rapidamente accantonata, mentre l’industrializzazione attrae in città e al Nord un’emigrazione epocale. I capitali non mancano, piuttosto sembra mancare il tempo per fare tutto quello che serve: le case crescono come funghi, le strade coprono il territorio, le fabbriche nascono sui prati verdi. È troppo presto per preoccuparsi del cielo che si annerisce e dell’acqua che si inquina. L’attenzione è concentrata sulla grande trasformazione, sulla fine della fame, sul piacere di consumare. A tanti decenni di distanza, sapendo com’era l’Italia prima, ma anche come sarebbe evoluta dopo, si può ben comprendere perché quell’epoca è stata chiamata epoca del ‘miracolo economico’.

Le partecipazioni statali, dall’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) all’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) e alla Finmeccanica, guidano il processo. La Fiat e i suoi prodotti trasformano le abitudini e le distanze. Le banche crescono. Le università si lanciano in ricerche di livello internazionale. La chimica, la meccanica, il tessile e ogni industria si sviluppano. Gli imprenditori, che non devono preoccuparsi troppo dell’arcaico e incompleto sistema dei brevetti, si ispirano alle realizzazioni dell’industria internazionale per aggiungere innovazione nei processi, nelle forme, nelle dimensioni dei prodotti. Il baby boom riempie le scuole e il settore pubblico assume maestri e professori. Presto gli animi sensibili cercano di interpretare il grande cambiamento. E, in quel clima fecondo, la cultura italiana dà il meglio di sé, riuscendo a coniugare una visione tecnicamente e scientificamente avanzata con una sensibilità poetica e artistica straordinaria. L’innovazione scaturisce dalla ricerca e, dunque, dall’esplorazione dei territori sconosciuti, nei quali si incontrano gli spiriti umanistici e scientifici. Non per nulla il design industriale, quasi una sintesi delle due tensioni di ricerca, diventa una specialità italiana.

Nel 1953 esce il primo numero della mitica rivista «La civiltà delle macchine», diretta dal poeta e designer Leonardo Sinisgalli (1908-1981), che resta un documento della qualità della riflessione allora dedicata alla comprensione della grande trasformazione. La rivista è finanziata dalla Finmeccanica guidata da Giuseppe Eugenio Luraghi, che aveva conosciuto e apprezzato Sinisgalli nel periodo in cui lavorava alla Pirelli (presso la quale sarebbe rimasto fino al 1952) e in cui si occupava dell’omonima rivista aziendale del gruppo. L’idea è chiara: indagare la grande trasformazione sulla scorta della cultura che scaturiva dall’incontro tra la ricerca umanistica e quella scientifica, incontro che in quel periodo storico sembrava possibile e fecondo:

La Scienza e la Tecnica ci offrono ogni giorno nuovi ideogrammi, nuovi simboli, ai quali non possiamo rimanere estranei o indifferenti, senza il rischio di una mummificazione o di una fossilizzazione totale della nostra coscienza e della nostra vita,

scriveva Sinisgalli in un articolo intitolato Natura calcolo fantasia e pubblicato nel 1951 sulla rivista edita dalla Pirelli (3, pp. 54-55):

L’uomo nuovo che è nato dalle equazioni di Einstein e dalle ricerche di Kandinskij è forse una specie di insetto che ha rinunciato a molti postulati: è un insetto che sembra incredibilmente sprovvisto di istinto di conservazione. […] L’Arte deve conservare il controllo della verità, e la verità dei nostri tempi è una verità di natura sfuggevole, probabile più che certa, una verità ‘al limite’, che sconfina nelle ragioni ultime, dove il calcolo serve fino ad un certo punto e soccorre una illuminazione; una folgorazione improvvisa. Scienza e poesia non possono camminare su strade divergenti.

Era quasi un programma interpretativo. E sulla sua «Civiltà delle macchine» Sinisgalli chiama a scrivere tecnologi e scienziati insieme a poeti e intellettuali come Giuseppe Ungaretti, Pasquale Saraceno, Giulio Carlo Argan e molti altri. Si parla di macchine agricole e nuovi mestieri operai, di pubblicità e design, di elettrodomestici. Si parla di Leonardo da Vinci, di come per secoli fosse stato considerato solo dal punto di vista artistico mentre la scoperta della sua opera scientifica risaliva soltanto a cinquant’anni prima. Si parla dell’Italia che si sviluppa: anche la pubblicità del primo numero è tutto un programma. Oltre ai messaggi che promuovono olio per automobili e pneumatici, si incontra anche un’inserzione che pubblicizza una delle macchine protagoniste di quell’epoca, nelle banche e negli uffici: la Divisumma 14 dell’Olivetti, una macchina di calcolo meccanica che fa le quattro operazioni e che, all’epoca, risulta tra le più avanzate del mondo. Intanto gli articoli parlano dei viaggi in aereo e di navi sempre più veloci, descrivono le grandi realizzazioni italiane nell’ingegneria dell’energia, annunciano i primi passi dell’elettronica.

Il primo a introdurre l’argomento è proprio Ungaretti, che parla di elettronica per esprimere una preoccupazione. Il poeta riflette sulle conseguenze per la cultura degli uomini del progresso dell’elettronica. Da giovane, prima della Grande guerra, Ungaretti era stato affascinato dal movimento futurista e aveva espresso sentimenti forti per la poetica della meccanica e per l’estetica degli avanzamenti tecnologici. Ma dopo la Seconda guerra mondiale, a 65 anni, era preoccupato. In passato, scriveva, l’immaginazione umana riusciva ad anticipare la tecnologia, ma, nel futuro, il progresso dell’ingegneria guidato dall’elettronica sarebbe andato più veloce di qualunque immaginazione. Ungaretti vedeva l’avvento di macchine che superavano la fantasia e il rischio conseguente era che gli umani imparassero a pensare come macchine:

Quale sforzo dovrà sempre più fare l’uomo per non essere senza amore, senza dolore, senza tolleranza, senza pietà, senza ironia, senza fantasia; ma crudele, con il passato crollato, insensibilmente crudele come la macchina? («La civiltà delle macchine», 1953, 1, p. 7).

Accompagnati da queste sensibilità, gli articoli sull’elettronica non possono essere votati alla mera tecnologia e cercano di esplorare valori simbolici e culturali più ampi. Le macchine per i controlli automatici descritte da Carlo Calosi sono introdotte da una citazione del padre della cybernetica Norbert Wiener che si interroga sulle capacità crescenti degli automi. E il tornio parallelo della S. Eustacchio viene descritto da Francesco Voltolini come il frutto di una ricerca interdisciplinare che riunisce la meccanica, la metallurgia, l’idraulica, l’elettrotecnica e l’elettronica.

L’Italia tecnologica descritta da Sinisgalli, insomma, cerca di digerire culturalmente il grande cambiamento che sta contribuendo a realizzare. E nell’interpretarlo in base alla sua più profonda sensibilità, lo fa proprio. Preparandosi, quindi, a essere protagonista dell’innovazione.

Un episodio premonitore

Forse il primo passo dell’elettronica, di certo uno dei primi, era stato l’acquisto da parte del Politecnico di Milano di un calcolatore elettronico programmabile. Ne parla Luigi Dadda (1923-2012), tra i primi scienziati dell’informatica italiani, nella sua storia della nascita dell’informatica in Italia (2006).

Avvenne che, nel 1951, il rettore Gino Cassinis decise di chiedere un finanziamento per comprare un calcolatore usando i fondi del piano Marshall. E che, inopinatamente, quel finanziamento fu accordato dal ministero dell’Istruzione. Ci volle solo qualche tempo: infatti, nel dicembre 1953, Dadda fu inviato in California, dove aveva studiato al CalTech (California institute of Technology), per portare a termine l’acquisto. La macchina scelta fu una CRC102A della CRC-Computer research corporation. Per l’input-output era disponibile una macchina a schede perforate dell’IBM (International Business Machines), ma non sarebbe rientrata nel budget previsto che non doveva superare i 130.000 dollari, sicché Dadda optò per una telescrivente dotata di lettore e perforatore a nastro. Definita la macchina, Dadda restò in California per tutto il tempo della costruzione perché doveva conoscerne ogni segreto in quanto, dopo la consegna alla nave che lo avrebbe trasportato, il costruttore non se ne sarebbe più occupato. Il progetto fu completato e collaudato ai primi di settembre del 1954. Il calcolatore fu imbarcato sotto la sorveglianza di Dadda. E arrivò a Genova l’11 ottobre. L’episodio premonitore avviene alla dogana. Ecco il racconto di Dadda:

Lo sdoganamento fu un po’ speciale: infatti, i doganieri non riuscirono a trovare una denominazione adeguata nei loro regolamenti. Una prima proposta: macchina a schede perforate si rivelò inapplicabile perché la macchina non usava schede, bensì un nastro di carta perforato, noto però solo per le telescriventi. Non ricordo come abbiano risolto il problema. Subito ne sorse un altro, riguardante le valvole termoioniche nonché i diodi al germanio. Infatti la legge prescriveva per questi oggetti il pagamento di una tassa (la ‘tassa radio’, che fungeva da canone per la radio). Tentai di fare passare i diodi (ben seimila) come ‘resistori anomali’ secondo una dizione famigliare per gli ingegneri elettrici di allora. Ma la proposta non passò, perché si trattava di diodi, e su questi era pure imposta la tassa radio. Il Politecnico, si intende, non pagò nulla, ma occorreva comunque affiggere un grosso francobollo su ciascuna valvola o diodo: cosa impossibile per i diodi, che apparivano come piccoli cilindri lunghi circa un centimetro. Il problema fu risolto con la consegna di un pacco di fogli con i quasi settemila bolli e la firma di una dichiarazione nella quale dichiaravo che li avrei affissi personalmente. Non ci fu poi, al riguardo, alcuna ispezione (Il primo calcolatore del Politecnico di Milano nel 1954, in La nascita dell’informatica in Italia, a cura di L. Dadda, 2006, www.museocilea.it/index.php?id=616, 4 ottobre 2013).

L’elettronica dei pionieri

L’università italiana era un ambiente attivo nel processo innovativo. E tra le università fu Pisa a diventare in poco tempo uno dei centri della cultura informatica italiana, grazie a un dono dell’intelligenza di Enrico Fermi (1901-1954) che, nel 1954, suggerì di investire i 150 milioni (circa 2 milioni di euro attuali) messi a disposizione dell’università dalle autorità locali, come riporta Pietro Maestrini, nella costruzione di una calcolatrice elettronica: «Costituirebbe un mezzo di ricerca di cui si avvantaggerebbero in modo, oggi quasi inestimabile, tutte le scienze e tutti gli indirizzi di ricerca» (lettera di Fermi al rettore dell’Università di Pisa, www.cep.cnr.it/storia02.html, 4 ottobre 2013). Costruire, suggerì Fermi, non comprare.

Il consiglio di Fermi trovò nell’Università di Pisa un ambiente ricettivo. E il progetto fu avviato. Nel 1955 fu istituito il CSCE (Centro Studi Calcolatrici Elettroniche) guidato da Marcello Conversi (1917-1988), con sede all’Istituto di fisica. La squadra doveva comprendere fisici e ingegneri: i primi furono scelti da Conversi, per i secondi fu chiamato in causa Adriano Olivetti (1901-1960), la cui azienda si occupava di meccanica, ma – come si è detto – aveva già un’attività nelle macchine per il calcolo. All’università lavorarono molti eminenti scienziati per produrre la loro macchina, la Calcolatrice elettronica pisana (CEP) che, sebbene con un anno di ritardo rispetto ai programmi, alla fine, nel 1961, fu completata. Ma il ruolo di Olivetti fu decisivo nel trasformare il progetto nell’inizio di una grande epopea: perché l’imprenditore sapeva coltivare un progetto radicale e realizzarlo.

Olivetti cercò talenti che potessero mettere in atto il progetto e scovò un ingegnere nato a Roma da una famiglia di diplomatici cinesi, che si era laureato al Brooklyn Polytechnic per poi andare a insegnare alla Columbia University di New York: si chiamava Mario Tchou (1924-1961). Nel 1955, all’età di 31 anni, fu incaricato da Olivetti di formare un gruppo di ricerca con l’Università di Pisa per realizzare un calcolatore elettronico tutto italiano. E poco dopo avviò anche il Laboratorio di ricerche elettroniche Olivetti a Barbaricina, vicino a Pisa, con il compito di affiancare alla progettazione di una macchina scientifica anche la realizzazione di una macchina commerciale.

Il primo Olivetti Elea 9001 fu completato nella primavera del 1957 e funzionò per sei anni a Ivrea. Usciva a pochi mesi dal lancio di una macchina di calcolo della Siemens che però non funzionava completamente a transistor. E, soprattutto, usciva con qualche mese di anticipo rispetto al primo calcolatore interamente elettronico dell’IBM, il 7090. Il nome Elea era un omaggio alla sintesi tra cultura tecnica e cultura umanistica: stava per ELaboratore Elettronico Aritmetico (o come fu poi rinominato Automatico), ma l’acronimo si riferiva alla città di Elea, nella Magna Grecia, oggi nel Cilento, sede della scuola eleatica di filosofia, quella di Parmenide e Zenone che puntavano sul linguaggio matematico per cercare chiarezza e verità.

L’Elea conquistò una posizione di vantaggio nel mondo per potenza e prestazioni. Fu venduto in quaranta esemplari, il che fece dell’Olivetti una potenza mondiale del settore. Anche se Tchou lamentava la mancanza di aiuti di Stato che invece sostenevano la ricerca negli Stati Uniti e in Gran Bretagna.

Tchou fu un innovatore straordinario, seppe conquistare spazio per l’elettronica nell’ambito dell’Olivetti, la cui cultura era di altro tipo. Sviluppò il laboratorio pisano di Barbaricina puntando sui giovani («Perché le cose nuove si fanno solo con i giovani. Solo i giovani ci si buttano dentro con entusiasmo, e collaborano in armonia senza personalismi e senza gli ostacoli derivanti da una mentalità consuetudinaria» diceva). Ma non arrivò a integrarlo nella sede storica di Ivrea, nonostante il successo tecnologico e commerciale. Fu invece trasferito a Borgo Lombardo, vicino a Milano, nel 1960, proprio l’anno della prematura morte di Adriano Olivetti. E, viaggiando in automobile da Borgo Lombardo verso Ivrea per una riunione, Tchou fu coinvolto in un incidente e morì, nel 1961, a 37 anni: nella borsa aveva i progetti per una nuova architettura hardware programmabile con il linguaggio Palgo e un compilatore chiamato Psico. La perdita di Adriano Olivetti e Mario Tchou fu un colpo durissimo per lo sviluppo dell’elettronica italiana. Senza il suo grande visionario e priva del suo maestro di tecnologia, l’Olivetti non considerò l’elettronica come un grande business e la confinò nella dimensione delle attività pionieristiche.

Fu proprio in quell’ottica che l’Olivetti arrivò pochi anni dopo a mettere a segno un colpo magistrale. Quattro ingegneri, guidati da Pier Giorgio Perotto (1930-2002), si misero in testa di costruire una macchina elettronica programmabile completa e personale. Non un enorme calcolatore elettronico come l’Elea o i mainframes dell’IBM che occupavano spazi giganteschi e potevano funzionare solo grazie al lavoro di specialisti informatici. Volevano fare una macchina che potesse stare su una scrivania e che fosse utilizzabile abbastanza facilmente da qualunque impiegato per compiere calcoli complessi. Nel 1964 riuscirono a lanciare la loro creatura: si chiamava Olivetti Programma 101. Fu presentata nell’ottobre 1965 a New York, alla Mostra internazionale dell’Associazione produttori di macchine per ufficio (BEMA, Business Equipment Manufacturers Association), e la produzione in grandi volumi iniziò nello stesso anno. Era il primo personal computer del mondo. Ed era nato in Italia (cfr. P.G. Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer, 1995).

Vittorio Marchis cita la Programma 101 nel suo 150 (anni di) invenzioni italiane (2011) qualificandola con un aggettivo senza perifrasi: «mitica». E la descrive con le parole dello stesso ingegner Perotto, pronunciate nel 2002: «Dopo la laurea avevo lavorato come ricercatore al Politecnico di Torino ed ero rimasto colpito dalla mancanza di strumenti di calcolo di uso personale che affliggeva i ricercatori, per i quali l’accesso al lontano mainframe era complicato o quasi impossibile». E così venne fuori l’idea:

La Olivetti P101 nacque nel 1965 e, nonostante nella forma assomigliasse più a una calcolatrice che a un PC dei nostri giorni, del personal aveva molte caratteristiche. Prima di tutte quella di essere uno strumento personale di elaborazione dati, dotato di un programma che poteva essere registrato in memoria; [...] un semplice sistema di progettazione con un linguaggio facile da apprendere in poche ore anche da un utente non specializzato; inoltre era fornita di una libreria di programmi di tipo matematico, statistico, finanziario. La P101 era in grado di fare velocemente le operazioni aritmetiche elementari, in più poteva essere programmata dall’utente con un massimo di 120 istruzioni, scelte tra 15 funzioni disponibili.

Quando uscì sul mercato, la Programma 101 ebbe un riconoscimento straordinario. Costava 3200 dollari di allora e invase il mercato che aveva inventato: ne furono venduti 44.000 esemplari, quasi tutti negli Stati Uniti. Questo non mancò di richiamare l’attenzione dell’industria americana. E la Hewlett Packard (Hp) reagì, costruendo a sua volta una macchina analoga ispirata alla P101. Tre anni dopo l’exploit dell’Olivetti, la Hp attaccò il suo mercato. E riuscì a conquistarlo. Ci sono i pionieri. E ci sono i costruttori di imperi.

L’Italia nello spazio

Gli anni Sessanta portarono l’Italia a raggiungere i vertici dell’elettronica. Pur se dal punto di vista aziendale l’opportunità fu colta in modo piuttosto superficiale, la cultura tecnologica italiana appariva invece molto più matura. Meccanica, chimica, aeronautica procedevano spedite. La fisica si applicava al nucleare. La stessa tecnologia delle telecomunicazioni andava forte, come si vedrà nelle pagine che seguono. Ma per dare un’idea di quanto avanzata fosse l’ingegneria italiana basta una notizia che dal punto di vista simbolico appare tuttora eccezionale. Proprio nell’anno in cui veniva lanciata la Programma 101 (1964), l’Italia lanciava nello spazio il satellite San Marco 1, diventando così la quarta potenza spaziale del mondo.

I sovietici e poi gli americani e i canadesi avevano mandato nello spazio i loro satelliti. Ma un ingegnere italiano era riuscito nell’impresa di raggiungerli, con mezzi limitati e finanziamenti costantemente precari. Luigi Broglio (1911-2001) aveva acquistato fama mondiale per i suoi progetti aeronautici. E si era fatto notare persino alla NASA. Il suo progetto di satellite riuscì a convincere i ricercatori italiani e americani. E fu appoggiato anche dal governo italiano, meno dall’industria privata del Paese. Il progetto San Marco era destinato alla ricerca: doveva servire allo studio dell’atmosfera in collaborazione con gli scienziati americani. Faceva parte di un programma molto ambizioso, che prevedeva la costruzione di una base di lancio italiana e di una serie di otto satelliti. Si fermò prima di raggiungere tutti i suoi obiettivi, anche perché nel frattempo la crisi petrolifera degli anni Settanta mise in seria difficoltà il sistema dei finanziamenti. Ma resta la riuscita del progetto. E l’indotto scientifico e tecnologico che si portò dietro. Anche in questo caso, il successo era dovuto a una persona di enormi capacità e grande visione.

L’Olivetti si riconfigura

Perotto non fu sempre tenero nel giudizio su quello che fu fatto all’Olivetti dopo gli anni eroici. E in effetti non aveva tutti i torti. Acquisita una posizione di vantaggio davvero globale nei personal computer, lasciò che altri prendessero il suo posto senza davvero occuparsene, perdendo una decina d’anni. La riorganizzazione e l’entrata in gioco di Carlo De Benedetti, alla fine degli anni Settanta, sembrarono rilanciare le sue ambizioni. E la circostanza, piuttosto fortunata, fu un altro colpo di acceleratore inventivo degli ingegneri dell’Olivetti.

Il gruppo ricerca e sviluppo, sotto la guida di Gian Luigi Ponzano e Filippo Demonte, uscì nel 1978 con la prima macchina per scrivere elettronica del mondo, la ET 101. Era un buon colpo. Riusciva a modernizzare tutta la linea tradizionale di produzione e vendita dell’Olivetti e aggiungeva funzioni che la concorrenza non seppe pareggiare subito: si batteva a macchina come al solito, ma l’ultima riga si poteva correggere sul display e c’erano persino alcune frasi standard da richiamare all’occorrenza.

Fino alla metà degli anni Ottanta, quando i personal computer cominciarono a essere relativamente concorrenziali per la dattilografia, l’Olivetti contò sul vantaggio così raggiunto nelle macchine per scrivere elettroniche per restare all’avanguardia nell’office automation. Certo, giocò la sua partita anche nei personal computer, che pure l’Olivetti produsse dapprima con tecnologie proprie e poi con tecnologie standard, ma la concorrenza americana prima e asiatica poi era destinata a prevalere. Il mercato delle macchine da scrivere elettroniche durò fino alla fine degli anni Ottanta. Ma fino alla sua ennesima trasformazione, l’Olivetti ebbe molto da combattere: negli anni Novanta sarebbero arrivati i telefoni cellulari e l’azienda ne fu inesorabilmente attratta, conquistando la licenza GSM (Global System for Mobile communications) con la Omnitel, per ottenere un successo commerciale molto grande, ma inevitabilmente con minore creatività tecnologica.

L’epopea della Telettra

A rileggere la vicenda del giovane ingegnere Virgilio Floriani (1906-2000), lo si potrebbe pensare dotato di virtù profetiche. Basti il nome dell’azienda che fonda nel 1946 a Milano, con 7 milioni suoi e della famiglia, ancora in mezzo alle rovine della guerra: Telettra, acronimo per Telecomunicazioni più Elettronica più Radio.

Allora la tecnologica industria delle telecomunicazioni non era tale. La norma erano centraline elettromeccaniche o persino a spinotti, con le classiche signorine in cuffia a passare telefonate. E cavi di rame appesi ai pali percorrevano le vie cittadine e le strade di campagna. C’era un Paese da ricostruire, e Floriani insieme agli altri dieci fondatori di Telettra erano ingegneri che venivano dalla Safar, l’unica azienda di comunicazioni radio anteguerra. Conoscevano la frontiera, scolpita nel nome della start-up company Telettra. Scriverà poi, nel 1981, nelle sue memorie (Ricordi della mia vita: dall’ambiente veneto-contadino di fine Ottocento alla fondazione di un’industria moderna):

L’elettronica è un mondo nuovo e meraviglioso. Un mondo che offre possibilità senza limiti a chi ne conosce le leggi ed ha immaginazione. E non è vero che richiede grandi mezzi: chiunque in campo elettronico possieda un’idea veramente originale, suscettibile di applicazioni interessanti, può essere in grado di realizzare, con mezzi anche modesti, un qualche esemplare. E quando l’idea si dimostra valida gli acquirenti arrivano e i mezzi fluiscono.

Nei 200 m2 dello spazio iniziale di via Marcona, a Milano, il gruppo si mise al lavoro sul primo prodotto, uno scatolotto elettronico (monocanale a frequenze vettrici) in grado di segmentare il segnale e quindi moltiplicare per dieci le telefonate trasmesse su un singolo cavo telefonico. Ebbe successo. E già tre anni dopo la piccola Telettra doveva traslocare, raggiunto ormai il numero di ottanta addetti e con ordini superiori alle sue, ancora modeste, capacità di consegna. La start-up funzionava, si direbbe oggi. E bene. Dai monocanali analogici ai primi e più sofisticati multiplex. Ai ponti radio multicanale, come il Ch1-M da Stradella a Torino nel 1949, novità assoluta per l’Italia.

Da allora, in pratica fin dall’inizio, Telettra resterà fedele alla sua frontiera tecnologica. E la terrà per quarantaquattro anni filati. L’elettronica era in evoluzione, si affacciavano via via nuove tecnologie di base (dalle valvole termoioniche ai transistori ai circuiti integrati), si passava dall’analogico al numerico, dal rame alla fibra ottica, dai segnali grezzi ai sofisticati algoritmi di compressione. Telettra, con i suoi progettisti, era sempre la prima a saper cogliere le evoluzioni in atto, onda dopo onda. Era nel suo DNA, definito da Floriani.

Divenne una sorta di ‘mosca bianca’ in un oligopolio degli apparati di telecomunicazioni allora (anni Cinquanta e Sessanta) dominato da poche multinazionali (Siemens, Ericsson, ITT, International Telephone and Telegraph, ecc.) focalizzate, al più, sull’elettromeccanica delle centrali, sui telefoni neri in bachelite e sui cavi di rame. Un mondo statico e spartitorio di colossi, che guardavano con noncuranza divertita alla piccola e strana Telettra e alle sue inattese novità.

Eppure il ponte radio, apparato flessibile, leggero e poco costoso, si dimostrò estremamente indicato per Paesi, e non solo l’Italia, con la rete telefonica da ricostruire. La dimostrazione fu in Turchia. E prima, nel 1951, nella tratta Firenze-Lucca, con frequenza di 1,5 gigahertz, dieci volte il primo esperimento del 1949.

Telettra, l’outsider, doveva vivere di innovazione. Doveva convincere, con i fatti, i suoi grandi clienti (in Italia, in pratica, due: SIP, Società Idroelettrica Piemonte, e ASST, Azienda di Stato per i Servizi Telefonici) che i suoi sistemi radio ed elettronici miglioravano nettamente la rete, e costavano meno.

Per questo Floriani spinse i suoi cento progettisti ad apprendere e a dialogare con il mondo esterno. Pagò la partecipazione a convegni internazionali, avviò collaborazioni con le università (il Politecnico di Milano, il gruppo elettronico bolognese guidato dal professor Ercole De Castro, ecc.). E su ogni scrivania di progettista era d’obbligo un libricino blu, il «Bell labs technical journal», fonte di aggiornamento e di ispirazione.

Nel 1955 Telettra era cresciuta arrivando a 500 dipendenti, in gran parte tecnologi. E l’anno dopo Floriani avviò un altro investimento d’avanguardia: una piccola linea di produzione a Milano per semiconduttori planari al germanio, i componenti chiave per la produzione di transistori. I primi esemplari ebbero successo. Vennero presentati e discussi con Tchou, Adriano Olivetti e con gli elettronici di Fairchild. Decisero così di far nascere l’SGS (Società Generale Semiconduttori), azienda di transistor ma anche di dispositivi numerici.

Da questo momento in avanti la frontiera di Telettra si innalzò. Non solo elettronica e radio nelle telecomunicazioni, ma la nuova elettronica allo stato solido, numerica. Niente più valvole termoioniche o circuiti complessi e fatti a mano. Prodotti durevoli, a basso consumo di energia, matematicamente precisi.

L’azienda aveva ormai raggiunto medie dimensioni. E nel 1960 spostò a Vimercate la sua sede storica. Nel 1962 fu la volta di un record, questa volta non solo italiano, ma europeo: DT24, il primo multiplex PCM (Pulse Code Modulation), numerico, in servizio nel continente, preceduto solo di pochi mesi (guarda caso) da un prototipo AT&T-Bell labs.

E così per i successivi otto anni. Telettra si giocò la nuova tecnica numerica (a transistori) su tutte le sue famiglie di sistemi. Arrivando sempre in anticipo sui concorrenti, italiani ed esteri.

Fu la prima, e forse l’unica, azienda italiana di quei tempi a porre davvero al centro del suo modello di business la ricerca e lo sviluppo. Dal 1946 al 1968 visse letteralmente di nuovi prodotti. Anche con l’ansia per il loro successo. Con limitate coperture finanziarie e nessuna rendita di posizione (a differenza dei suoi grandi concorrenti, sovente controllati o garantiti dai gestori telefonici pubblici). E ogni innovazione era un rischio. Ma, anno dopo anno, successo dopo successo, i suoi grandi clienti cominciarono ad apprezzarla. I risultati positivi dei sistemi Telettra nelle reti telefoniche (anche di grandi gruppi privati) erano tangibili, i contatti con i laboratori di ricerca dei gestori (in Italia lo CSELT, Centro Studi E Laboratori Telecomunicazioni, del gruppo IRI-STET Società finanziaria telefonica) proficui, i prezzi offerti dall’azienda milanese calmieravano le situazioni oligopolistiche.

Telettra entrò così nella sua seconda fase. Dal 1963 in avanti fu una media azienda tecnologica ormai dal marchio affermato, che non riusciva però a produrre il necessario salto dimensionale per andare oltre i suoi 500 addetti e i 7-8 miliardi di fatturato. E cominciò a segnalarsi un preoccupante rosso nei conti.

Per Floriani, anima della start-up, abituato a passare le giornate nei laboratori, gomito a gomito con i suoi ingegneri, si delineò una nuova sfida: diventare imprenditore a tutto tondo, modernizzare la gestione e la struttura dell’azienda, internazionalizzarla, trovare dei partner forti.

Per questo acquisì progressivamente le quote dei soci minori (gli ingegneri venuti con lui dalla Safar) e, divenuto socio unico, nel 1968 strinse un accordo con il gruppo Fiat. Cedette subito il 35% al gruppo torinese, mentre il restante 65% sarebbe stato ceduto al momento della sua fuoriuscita dall’azienda.

Sotto l’ombrello Fiat Telettra ricominciò a crescere, soprattutto all’estero. Già nel 1972 era nata Telettra Española, riuscita partnership (al 49% per Telettra) con il gestore telefonico iberico. Una formula replicata in Brasile, Argentina, Norvegia, Messico. Dare ai gestori (monopolisti) la maggioranza azionaria era un passaggio necessario per entrare. Quello che contava, però, era il controllo della tecnologia.

Non solo. In quegli anni l’azienda di Vimercate tentò la sua più importante diversificazione dall’area della trasmissione e dei ponti radio: entrare nel mercato ‘grosso’, ma fortemente presidiato, delle centrali di commutazione telefonica, con un sistema interamente elettronico e digitale, una sorta di computer dedicato a smistare indifferentemente pacchetti vocali e di dati. Nel 1976 questa centrale entrò in servizio nella rete ASST, ma in posizione minore (dedicata al traffico delle grandi aziende). L’ennesimo primato di Telettra su scala europea non si tradusse in un decollo pieno nella commutazione alla pari con le multinazionali o aziende pubbliche come Italtel.

L’operazione crescita di Floriani, comunque, aveva avuto successo. Telettra uscì dallo stallo dimensionale della seconda metà degli anni Sessanta. Ma l’attendeva una nuova prova: la conflittualità di quegli anni turbolenti. Il grande stabilimento di Vimercate, con i suoi 2700 addetti, era percorso da conflitti sindacali. Il decentramento su fabbriche più piccole e focalizzate (Trieste, Rieti, Chieti, San Giovanni in Persiceto) fece da moderatore. Ma la stagione difficile produsse una vittima: lo stesso Floriani che, nel 1976, a 70 anni, lasciò l’azienda. E si occupò solo della sua straordinaria fondazione per l’applicazione della terapia del dolore ai malati terminali. Era un po’ intristito dalla fine della sua start-up, di quel clima di collaborazione aperta, lungo le traiettorie dell’innovazione, che la conflittualità e la stessa scala aziendale rendevano un ricordo.

Con l’uscita di scena del fondatore per Telettra non ebbe però certo inizio il declino. Dal 1978 al 1990 si ebbe una crescita dell’azienda, lungo un tracciato abbastanza costante, di ben dieci volte, da 112 fino a 1011 miliardi di fatturato. Un’esplosione figlia della cultura di Floriani, ormai radicatasi in un’azienda in cui era normale che un gruppo di ingegneri di talento potesse sviluppare in autonomia le proprie idee, tradurle in progetti e prodotti, aprire nuovi mercati. Spesso citato come motore della crescita, lo stile di management Fiat, ormai azionista unico dell’azienda, c’entrava ben poco. In realtà, il gruppo torinese considerava Telettra una diversificata, controllava i suoi conti, sorvegliava. Ma fu dall’interno dell’azienda che, per es., si decise di passare dai cavi coassiali alle fibre ottiche, sfruttando, tra i primi, un rivoluzionario brevetto italiano: il ripetitore ottico all’erbio di Pirelli, che aprì alla trasmissione ottica in fibra le reti a lunga distanza.

E i tecnologi di Telettra riversarono tutto il proprio precedente bagaglio sistemistico di trasmissione sul nuovo mezzo. Collaborando strettamente con lo CSELT di Torino e con varie università. E cominciarono a consegnare, persino negli Stati Uniti, i nuovi sistemi fotonici.

«Di sicuro è stata una fase in cui la Sip alimentava l’innovazione, attraverso una politica dei prezzi che consentiva alle aziende di sostenere la propria ricerca e sviluppo in Italia – ricorda Roberto Castelli, ex manager della divisione Optics (ereditata da Telettra) di Alcatel-Lucent – E questa politica generava innovazione che poi si trasferiva anche all’estero. La Telettra, sulla base di queste risorse interne, ha potuto affermarsi anche all’estero. Dalla Spagna all’Argentina al Brasile al Medio Oriente all’Australia. Sono stati gli anni d’oro del monopolista illuminato. Prima della liberalizzazione. Che ha certamente avuto effetti positivi sulle Tlc, ma anche negativi per l’industria. Questo clima spiega come mai Telettra in quegli anni fece il suo grande salto dimensionale. Fino a quasi diecimila dipendenti».

Un altro esempio di lungimiranza fu l’avvio di un gruppo di ricerca e sviluppo su un tema apparentemente lontano dai ponti radio e dalla fotonica: la trasmissione video in alta definizione. Un segnale ‘pesante’ che, per transitare su un canale via satellite o su un cavo televisivo, deve essere compresso e in modo piuttosto sofisticato. Un team di Telettra, in occasione dei Campionati mondiali di calcio del 1990, effettuò la prima trasmissione via satellite di una partita in alta definizione. L’algoritmo che la consentì diverrà poi l’Mpeg2, oggi diffuso in miliardi di DVD, reti televisive e su Internet.

Ma fu proprio il 1990 l’anno fatidico per la Telettra, che giocava ormai da protagonista nelle telecomunicazioni globali. Era ritenuta, secondo la vulgata (un po’ ossessiva) allora prevalente, ancora troppo piccola per reggere le sfide a lungo termine del settore. Di qui trattative della Fiat con la STET (e il governo Craxi) per fonderla con Italtel nel nuovo ‘campione nazionale’ Telit. Purtroppo l’operazione Telit fallì, Cesare Romiti e Bettino Craxi (per motivi mai completamente chiariti) non trovarono un terreno di intesa. E i manager Telettra aprirono colloqui, anche promettenti, con la svedese Ericsson. Però nemmeno l’azionista Fiat rimase fermo. E, riservatamente, spostò a Parigi la sua attenzione, verso la conglomerata CGE (Compagnie Générale d’Électricité), con la quale firmò un complesso accordo di scambi di partecipazioni. All’insegna del reciproco rafforzamento dei core business. In pratica, fabbriche di componenti auto e batterie per la Fiat contro telecomunicazioni per la CGE. E la fusione di Telettra nell’Alcatel (in Italia presente con la vecchia Face).

Fu la morte di Telettra? Per tanti, manager e tecnologi cresciuti nella cultura di Floriani, venne vissuta così. Un evento traumatico, un esodo parziale che in pratica dimezzò l’azienda una volta confluita nel gruppo Alcatel.

Ma non fu proprio vero, a ben vedere. Per es., per i due veri pilastri dell’ultima Telettra: i ponti radio e la fotonica. In ambedue i casi i ‘telettrini’ difesero con le unghie e con i denti le loro eccellenze tecnologiche dentro il gruppo francese. E in ambedue i casi vinsero. Una riprova? I sistemi fotonici in tecnologia SDH (Synchronous Digital Hierarchy) di Vimercate si dimostrano, di fatto, il pilastro che nella prima metà degli anni Novanta resse la crisi del gruppo Alcatel, colpita dal crollo della commutazione tradizionale e dalla veloce discesa dei prezzi dei modem ADSL.

E, quando Alcatel acquisì Lucent, effettuando la fusione tra le due società, questa eccellenza fotonica continuò: «Alcatel ha conseguito nei primi anni duemila, e fino al 2009, per otto anni consecutivi la posizione numero uno di mercato a livello mondiale nelle reti fotoniche», spiega Castelli. Non poco. Ma non fu l’ultimo primato di Telettra, e della sua scia. Da Vimercate sono nate ben 65 aziende, di vario genere e dimensione, tutte nate da manager e ingegneri cresciuti all’ombra della scuola di Floriani. È stata questa l’altra faccia dell’imprenditorialità interna dell’azienda, capace di riversarsi sul mercato.

E non sembra casuale che Huawei, l’astro nascente cinese delle telecomunicazioni, abbia deciso nel 2012 di investire proprio in Italia, a Segrate, in un laboratorio specializzato in microonde e ponti radio. Come se il DNA di Telettra fosse ancora vivo.

Una start-up dentro un gigante: i MEMS della STM

La vicenda (attualmente in pieno corso) della più straordinaria innovazione tecnologica nata dall’elettronica in Italia ha inizio nel 1995 a Cornaredo. Dove lavorava il gruppo di Bruno Murari, un mito tra i progettisti di microcircuiti, con oltre duemila progetti al suo attivo.

Murari, dopo tanti anni, dalla prima SGS fino all’STMicroelectronics, è divenuto progressivamente un sostenitore del ‘pensiero laterale dell’elettronica’, ovvero «concepire e realizzare dei chip che facciano qualcosa di nuovo e non solo correre sulla strada di una miniaturizzazione sempre più spinta» (Gli eretici della Micromeccanica, intervista a B. Murari, «Il Sole-24 ore», 17 marzo 2000).

Nel 1995 il gruppo di progettisti di Murari aveva già un buon carnet di risultati positivi provenienti da questi chip anomali, che combinavano elettronica di potenza a elaborazione digitale su misura per i clienti. Per ottimizzare lampadine, modem digitali che comunicano su linea elettrica, stabilizzatori per TV. Ma non bastava. Murari volle affrontare un campo ancora inesplorato per l’ST. Quello della micromeccanica, minuscoli dispositivi in silicio, con i loro ‘pettini’ e molle vibranti scolpite nel chip, capaci di tradurre il movimento o la pressione in piccoli segnali elettrici, a loro volta ‘interpretati’ da processori connessi. Risultato: sensori di nuova generazione e a basso costo, inseribili in qualunque macchina. MEMS (Micro Electro Mechanichal System), fatti di silicio e realizzati con tecniche di fabbricazione quasi identiche a quelle microelettroniche.

Nessuno, nell’ST di quel 1995, sapeva però nulla di micromeccanica. E Murari decise di partire da zero, proponendola a un suo nuovo assunto, un brillante fisico lucano con esperienze al CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire), al sincrotrone di Grenoble e al Max Planck Institut, ossia Benedetto Vigna, che volle gettarsi nell’avventura armato solo di un breve articolo bibliografico di un ricercatore dell’Analog devices, azienda concorrente e allora tra le poche a produrre sensori MEMS per applicazioni industriali. Vigna passò poi due anni fra Berkeley, in California, e il centro di ricerca di Murari per orizzontarsi tra corsi universitari e imprese high-tech.

A ogni ritorno a Cornaredo spiegava ai suoi colleghi il risultato del suo studio della micromeccanica. Sosteneva Vigna (2012):

Oggi i Mems sono troppo grossi e costosi. In pratica, sono dei gioielli. Ma noi siamo un’azienda che sforna qualche miliardo di chip all’anno e non possiamo produrre Mems da gioielleria. Dobbiamo fabbricare Mems da grandi magazzini, da hard discount, cioè molto più economici. Ma allo stesso tempo molto più piccoli, che consumino molta meno energia e che sappiano fare molte più cose. E ne dobbiamo fabbricare a milioni, al giorno.

Dal punto di vista puramente tecnico la produzione di MEMS in silicio non presentava, almeno sulla carta, problemi insormontabili. L’STMicroelectronics aveva una lunga esperienza di architetture complesse, e non convenzionali, scolpite in silicio sui chip. E il piccolo gruppo di una decina di giovani progettisti e tecnologi di MEMS, neoassunti in azienda e destinati al nuovo team, si mise al lavoro.

Alla fine del 1997 fu la volta del primo prototipo funzionante, con i suoi invisibili bracci vibranti. Poi, nei tre anni successivi, di un primo accelerometro ad asticella, di un chip a microspecchi per commutare segnali fotonici, di un micromotore per allineare le testine dei dischi rigidi. Progetti che esigevano un inedito percorso di apprendimento che doveva affrontare problemi mai toccati dalla microelettronica ‘classica’ sviluppando una rete di relazioni con tutti i centri di ricerca affini. Soprattutto in Germania, dove la micromeccanica si era più sviluppata. Non solo. Il gruppo dei dieci progettisti e tecnologi (più Vigna) doveva coltivarsi persino ‘alleati nascosti’ in un’azienda abituata a lavorare solo sulla microelettronica. E quindi scettica su questi chip che non avevano ancora generato un euro di ricavi. Poco disposta, a volte, ad affrontare i problemi nuovi, spesso difficili, posti dalla ‘laterale’ micromeccanica.

Nel 2000, comunque, il team di Vigna cominciò a mostrare all’esterno, a convegni e fiere, i suoi prototipi. Ma subito dopo, nel 2001, lo scoppio della bolla speculativa delle dot-com fu l’avvio di una serie di fallimenti a catena. Un’autentica doccia fredda. Il chip a microspecchi non trovava acquirenti perché l’intero mercato mondiale della fibra ottica era crollato di colpo, i potenziali acquirenti del micromotore per hard disk cancellarono con una scusa gli ordini e l’accelerometro a due assi non era ancora abbastanza competitivo con quello di Analog devices.

Fu in questo frangente, con il rischio ravvicinato di chiusura del gruppo e dell’avventura micromeccanica di ST, che Vigna si inventò il rilancio. L’idea di fondo era ancora quella di tre anni prima. STMicroelectronics doveva fare MEMS non come ‘gioielli’, ma per grandi volumi, bassi costi e assoluta facilità d’uso. Per l’elettronica di consumo, dai Pc, ai videogiochi, ai cellulari.

E cosa avrebbe chiesto domani – si domandava – questo sistema di industrie? Una nuova interfaccia uomo-macchina più semplice. Un’interazione non più basata sulla comunicazione via tasti, e nemmeno sul mouse o sui comandi vocali. Ma sul semplice e naturale movimento. Di una mano o del corpo.

Per questo Vigna propose, e ottenne con il consenso di tutti i suoi ragazzi, una virata radicale. Abolì tutti gli altri progetti per concentrarsi su uno solo, chiave. Un accelerometro non più a due, ma a tre assi, capace di percepire il movimento in ogni direzione. E quindi di divenire il motore della nuova interfaccia naturale tra oggetti elettronici e l’uomo.

Se questa scommessa avesse funzionato i MEMS sarebbero usciti dalla nicchia degli airbag e delle applicazioni industriali su misura. Per dispiegarsi in centinaia di milioni di applicazioni di uso quotidiano.

Velleità? Avventurismo? Eppure il vertice di STMicroelectronics (grazie anche ad autorevoli sponsor come Murari, Pasquale Pistorio prima, e Carlo Bozotti poi) appoggiò Vigna. ST non era solo un’azienda di chip, ma conosceva molto bene il mondo dei PC e dell’informatica avanzata (in passato aveva, per es., acquisito la Inmos inglese, che produceva ‘motori’ per supercomputer paralleli), dei cellulari e dell’elettronica di consumo. E le idee di Vigna vennero prese sul serio, nonostante gli scetticismi nei livelli intermedi.

In poco più di un anno, alla fine del 2002, il disastro potenziale dei MEMS si era così trasformato in una sfida globale. Il gruppo lavorò a pieno ritmo sul progetto mai tentato da nessuno. E il primo accelerometro a tre assi al mondo fu pronto. Occupava meno di un terzo dello spazio delle ‘scatolette’ concorrenti (14 mm × 7 mm × 2 mm di spessore), consumava trenta volte meno del suo predecessore a due assi (un milliampere), poteva costare a volume 1,5 dollari contro 10, il package era in plastica su misura, semplice, ma resistente. E soprattutto percepiva ogni movimento lineare in ogni direzione, con costi e consumi energetici alla portata di ogni batteria. Lo chiamarono Monviso, la fonte del Po, la speranza di un futuro fiume di successo e di ricavi. Con una decisione un po’ rischiosa il vertice di ST decise quindi di far fare un salto organizzativo al gruppo di Vigna, potenziandolo in business unit dotata di capacità non solo di progetto, ma anche di azione autonoma sui mercati.

Ma un’offerta tecnologica fuori dal comune non significava, di per sé, il successo dell’ambiziosa visione di Vigna e del suo gruppo. Il primo cliente viene trovato solo mesi dopo, nel 2003. E si trattava di un produttore statunitense di elettrodomestici, interessato all’accelerometro per il controllo delle vibrazioni del cestello delle lavatrici, quindi alla riduzione dell’usura, del rumore e dei consumi energetici nella delicata fase di centrifuga.

MEMS nelle lavatrici. Progetto un po’ banale, almeno per gli obiettivi di Vigna. Ma che ebbe un importante effetto. Far conoscere nel mondo Monviso. Il quale, a seguito di un premio per la lavatrice Maytag, si aggiudicò il titolo di prodotto dell’anno 2003 su «Edn», una delle principali riviste tecniche di elettronica del mondo.

Era il momento di spingere sulle applicazioni innovative. Un contatto con Ericsson consentì di sviluppare il primo sistema di rotazione dello schermo per smartphone insieme a un pedometro incorporato nell’apparecchio. E, un anno dopo, il gruppo dei MEMS era al lavoro su un progetto di punta di Nokia per una piccola consolle portatile per videogiochi. Un prodotto che non avrà successo, ma che sarà fondamentale per il gruppo MEMS. Nokia, infatti, stava mobilitando numerosi partner nel mondo dei videogiochi e lavorare con loro poteva insegnare molto.

L’obiettivo grosso, però, era ancora lontano. Sony e Microsoft, i dominatori allora di questo mercato non davano segnali di interesse. Si mosse invece, nel 2005, Toshiba che scelse Monviso per la messa in sicurezza degli hard disk in caso di caduta dei PC portatili. Fu il primo contratto a volumi sostenuti. In prospettiva, volumi superiori a quelli che può sfornare la vecchia linea a 6 pollici di Castelletto, abitualmente usata dai progetti speciali che facevano capo ai team di Murari. Circa 100.000 pezzi alla settimana, ma per i grandi clienti occorreva salire di almeno dieci volte tanto, con costi e prezzi sempre più ridotti, argomentava Vigna di fronte al vertice ST.

E a questo punto, nel 2005, avvenne qualcosa che ha pochi riscontri nella storia dell’elettronica italiana. Il vertice ST prese una decisione coraggiosa, in pratica al buio, investendo 35 milioni di euro in una nuova linea ad Agrate da 8 pollici e oltre un milione di pezzi al giorno. Una capacità produttiva, per la micromeccanica, fino ad allora mai vista al mondo.

Dietro l’angolo, però, c’era la soluzione del rischioso enigma. Qualcuno che, dopo avere a lungo osservato Monviso e il progetto Nokia, aveva un progetto ‘forte’. E Nintendo e i suoi vertici già stavano parlando, riservatamente, con Vigna. Sul piatto l’idea di una consolle per videogiochi rivoluzionaria, totalmente comandata dal movimento umano: la Wii. Capace di far uscire la Nintendo dalla retroguardia del mercato, dove l’avevano cacciata Sony e Microsoft. Era quasi l’avverarsi perfetto del sogno di Vigna e dei suoi.

Sino all’arrivo sul mercato della Wii, i videogiochi – come qualunque altra apparecchiatura elettronica – venivano controllati attraverso la pressione di tasti, lo spostamento di selettori o al massimo con il movimento di un joystick. L’interfaccia uomo macchina era tutt’altro che amichevole. Per chi aveva superato l’adolescenza e non aveva saputo conquistarsi un’adeguata mobilità dei pollici, l’impatto con il gioco era addirittura ostile. Il controllore della Wii, costruito attorno all’accelerometro, cambia radicalmente le regole e si propone come nuovo paradigma nei videogiochi, trasformandosi in estensione naturale delle braccia come racchetta da tennis, pistola da tiro a segno, mazza da baseball o addirittura in bacchetta di direttore d’orchestra. Partendo da questo primo impiego di massa, i MEMS si posizionano per creare una nuova interfaccia, più naturale di mouse, joystick e tasti sempre più piccoli, fra noi e le tecnologie elettroniche della vita quotidiana. Quanto è meglio poter comandare gli oggetti dell’elettronica quotidiana con un semplice gesto, una cosa che a noi mediterranei viene peraltro facilissimo. La forza del gesto imprime a una piccola massa all’interno del dispositivo un’accelerazione, come spiegato 300 anni fa dal grande Newton. Quest’accelerazione può essere rilevata e trasformata in un segnale elettrico. E Nintendo conquista un mercato nuovo, il mercato di tutti coloro che mai si erano o si sarebbero cimentati con un joystick e che invece trovano naturale maneggiare una racchetta o un guantone da boxe (Vigna 2012).

A sei mesi dal suo lancio (maggio 2006) la Wii vendette il doppio dell’Xbox e quattro volte la Playstation 3. Un nuovo paradigma era stabilito. Mentre la nuova linea di Agrate girava ormai a pieno regime.

Il salto di qualità appare evidente. Nel 2007 il gruppo dei MEMS si moltiplicò fino a contare 170 persone. La piccola business unit divenne divisione di prodotto. E si fecero avanti i clienti, alcuni del tutto strategici. Come l’Apple che, dicono gli analisti di mercato, incorporò nel suo I-phone l’accelerometro ST. Un progetto che generò volumi produttivi ancora più sostenuti di quelli della Wii.

Ma è stato nel 2009, con il progetto Fast and furious che il gruppo MEMS di ST è riuscito a consolidare la sua leadership nel campo dei sensori di movimento. Con lo sviluppo in cento giorni del MEMS più complesso oggi realizzato, un giroscopio a tre assi, capace di avvertire forze rotazionali anche deboli, gli spostamenti in modo sensibilmente più accurato rispetto agli stessi accelerometri. Il gruppo è riuscito in ciò, e si è aperto un nuovo mercato. I-Suppli (società di ricerca di mercato nell’ambito dell’elettronica) ne celebrò l’introduzione negli I-Phone Apple di punta. E oggi per i MEMS di movimento avanzati, Apple è ancora di gran lunga il primo cliente di ST, per quasi la metà dei ricavi, secondo gli analisti.

Qualche cifra: nel 2008 i-Suppli ha assegnato a ST il 56% del mercato mondiale dei MEMS. Tre anni dopo, nel 2011, nonostante la moltiplicazione dei concorrenti, la prima posizione è stata ancora sua, al 48% e con un fatturato di 638 milioni di dollari, cresciuto dell’80% sul 2010. A gennaio del 2013 l’azienda ha superato i tre miliardi di MEMS prodotti, con un fatturato del 2012 di 800 milioni di dollari sempre secondo gli analisti – cresciuti del 19% pur in un anno di recessione mondiale. Rileva Vigna, dal 2011 divenuto executive vicepresident e direttore della divisione analogici, MEMS e sensori:

Potremmo dire che è nata una nuova industria, complementare a quella dei semiconduttori, quasi un pollone nuovo da una pianta molto radicata. Abbiamo fatto investimenti, creato posti di lavoro, salvaguardato posti che la crisi della domanda post 2008 aveva messo in gioco, avviato una catena di fornitura complementare. L’impianto produttivo di Agrate Brianza è stato ampliato più volte per far fronte alla domanda di MEMS, mentre a Malta si assembla il prodotto finale e in uno stabilimento francese si produce il chip che legge i segnali del sensore. Calcoliamo in 1500 i posti di lavoro ST legati ai MEMS, di cui un migliaio in Italia. Ma soprattutto il cuore della ricerca, dello sviluppo e del marketing resta vicino a Milano, dove i MEMS sono nati, a Cornaredo (Vigna 2012).

Il percorso applicativo della micromeccanica appare ancora agli inizi come dimostrano i fatti. Dopo gli accelerometri e i giroscopi negli ultimi due anni sono giunti alla ribalta anche i microfoni MEMS, piccoli dispositivi a bassissimo costo che consentono un’efficiente soppressione del rumore di fondo anche per cellulari usati all’aperto. Nel 2011 se ne sono venduti, stando alle stime dell’IHS, circa 1,3 miliardi di pezzi, nel 2012 sono cresciuti a 2 miliardi e quest’anno se ne prevedono 2,66. Una progressione molto forte, che ormai si diffonde in ogni prodotto elettronico.

Pur non essendo leader in questa categoria di prodotti, anche ST è in corsa, con sessanta milioni di microfoni MEMS già prodotti. E ha già presentato un minuscolo proiettore per cellulari, un modulo (Spirit1) integrato per la trasmissione wireless di dati da sensori in ambiente industriale, un sensore di pressione per il riconoscimento della posizione su cellulare anche in ambienti non coperti dal GPS (Global Positioning System).

Microfoni, sistemi sensoriali integrati, sensori di pressione, proiettori. La corsa dei MEMS è quindi in pieno svolgimento, con nuove famiglie e mercati in fase di incubazione e sviluppo. Ma si va anche oltre.

Penso a quelle applicazioni intorno al nostro corpo, che ci aiuteranno a stare bene, a migliorare la diagnosi e a curarci. Una nota azienda di attrezzi sportivi usa i nostri sensori per sollecitare i più pigri al movimento: registra ogni movimento di carattere ‘sportivo’ salutistico e ci mette in competizione con noi stessi, con quanto ci siamo mossi o non ci siamo mossi rispetto ai nostri obbiettivi. Penso ai sensori Mems e non che progettiamo per gli ambienti, che processeranno dati e manderanno informazioni ma anche istruzioni ad altre macchine. Passiamo dall’interfaccia uomo-macchina basata sul movimento a macchine che interfacciano altre macchine raccogliendo ed elaborando informazioni dall’ambiente in cui vivono e magari anche catturando energia per autoalimentarsi. Sono nuovi settori che si spalancano quasi ogni giorno (Vigna 2012).

E la salute è forse il campo meno conosciuto, ma più interessante, in cui i MEMS saranno la chiave. Per es., alla Scuola S. Anna di Pisa è stata sviluppata una piccola palestra e dei giocattoli per neonati per valutare precocemente, dai loro gesti e movimenti, eventuali sintomi di autismo (a quell’età curabili facilmente). Oppure vi sarà la possibilità di modellizzare il movimento dei malati di Parkinson, valutarne il decadimento, e fornire loro un programma riabilitativo su misura. Riducendo drasticamente, anche per loro, i costi di assistenza. E così via, andando dal monitoraggio della pressione oculare ai sistemi di training sportivi di nuova generazione. E il linguaggio dei gesti del corpo umano è solo una delle molteplici frontiere aperte.

Ecosistemi locali

Il CRS4 (Centro di Ricerca, Sviluppo e Studi Superiori in Sardegna) è nato nel 1990, per decisione della regione Sardegna. Era un centro di calcolo per il progettato Parco scientifico e tecnologico, ma era pensato anche come una sorta di propulsore per la cultura dell’innovazione ad alta tecnologia nella regione. Il presidente, alla fondazione, è stato il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia.

Rubbia era probabilmente riuscito a connettere il CRS4 al CERN di Ginevra, dove Tim Berners-Lee stava sviluppando i concetti essenziali del web. E non per caso, il contributo del centro al web è stato importante. Ha realizzato infatti alcuni straordinari primati nella storia di Internet: il primo sito web italiano, il primo quotidiano su web europeo («L’Unione sarda»). Nel suo entourage è nata la prima web mail del mondo. E certamente la sua cultura ha influenzato la nascita del primo provider continentale di accesso a Internet: la Video Online di Nicola (Niki) Grauso dalla cui esperienza, avrebbe poi avuto origine Tiscali, la principale Internet company italiana. Le piattaforme di Tiscali sono significative: l’archivio-motore iStella, il social network con diretta video Indoona, il sistema per lo streaming in diretta Streamago.

Intanto a Trento, la provincia investiva in ricerca sostenendo numerose iniziative tra cui la Fondazione Bruno Kessler e la Fondazione Mach. E raggiungeva un risultato straordinario diventando il sesto nodo dello European institute of technology, battendo la concorrenza di Londra. A Trieste, lo sviluppo tecnologico si affermava intorno al Sincrotrone e ad altri grandi insediamenti di livello internazionale. Genova conquistava attenzione con il suo IIT (Istituto Italiano di Tecnologia) e l’indotto tecnologico dell’industria che si era installata nel territorio.

Non solo le grandi città, come Roma e Milano, Torino e Napoli, ma anche, e soprattutto, le città medie – come dimostrano le vicende ricordate di Ivrea e Pisa – sembrano essere i luoghi dell’innovazione tecnologica italiana. Sicché in questa fase di sviluppo trainata dalle start-ups, territori come quello trevigiano o fiorentino, bolognese o modenese, comasco o bergamasco sembrano segnalarsi per la capacità di definire una strategia di sviluppo territoriale a base high-tech. Perché nell’innovazione si perdono certi treni, ma non mancano i nuovi treni che invece si possono prendere.

Arduino: il futuro è aperto

Il management passa, gli azionisti passano, persino le aziende passano, ma la cultura resta in un territorio molto più a lungo. Così in quell’Ivrea che era stata un tempo il mondo dell’Olivetti e che non lo era più, in seguito all’investimento – purtroppo temporaneo – che la Telecom Italia aveva operato costruendo un importante istituto di design internazionale, Massimo Banzi, David Cuartielles, Tom Igoe, Gianluca Martino e David Mellis, che si occupavano di interaction design, pensarono che per consentire agli studenti di imparare a creare oggetti interattivi in poco tempo, dovevano mettere a loro disposizione un microcontroller facile da usare e programmare. E soprattutto poco costoso. E poiché il personaggio più famoso di Ivrea, come il bar dove il progetto fu discusso, si chiamava Arduino, decisero che anche il loro prodotto avrebbe avuto quel nome. Era il 2002 quando iniziarono a pensarci. Lo sviluppo venne condotto in vari passaggi. Fino a che, nel 2005, partì una nuova avventura pionieristica dell’elettronica italiana.

Il contesto risultava profondamente cambiato rispetto ai tempi dell’ingegner Perotto, ma in fondo le somiglianze ci sono. I computer sono ovunque, nelle automobili si contano a decine, ma ci sono anche nei forni a microonde e nelle televisioni, negli orologi e negli innaffiatoi automatici, mentre allo stesso tempo la computerizzazione conquista sempre nuovi territori che un tempo erano appannaggio di tecnologie analogiche. Il punto è che questi oggetti, tanto facili da usare che non sembrano neppure programmabili, stanno diventando il territorio di caccia di pochissime grandi aziende globali, mentre i consumatori non sono in grado di conoscere nulla di quello che avviene nei loro apparecchi. Per degli insegnanti di interaction design ciò costituiva un problema e poi, probabilmente, vi era in loro anche un minimo di critica sociale. Sta di fatto che decisero che Arduino sarebbe stato un progetto aperto, funzionante con software open source e con hardware creative commons. Si sarebbe pubblicato on-line tutto il software perché altri lo potessero usare, copiare, modificare. E si sarebbe pubblicato on-line il progetto dello hardware, in modo che altri lo potessero replicare: «È così che si impara il software, guardando gli altri che lo fanno, modificando un poco il loro lavoro [...]». Ed è così che fanno gli artigiani: che non sanno spiegare tutto il loro sapere in poche formule, ma insegnano facendo vedere come lavorano. Del resto, anche Banzi e Cuartielles dovevano molto ad altri come Hernando Barragan dello Wiring project, sviluppato come tesi all’Interaction design institute di Ivrea, a Daniel Shiffman che aveva realizzato l’ambiente di programmazione visuale Processing. Tutti poi dovevano tanto al maestro di design e computing John Maeda.

Sta di fatto che anche l’istituto di design passò. Ma Arduino rimase una realtà. Banzi e i suoi compagni cominciarono a usare piccoli fabbricanti di elettronica di Ivrea per far fronte alla crescente domanda di Arduino già montati. Nel 2008 ne avevano venduti 50.000. Nel 2011 ne erano stati venduti 300.000. La gente li usava in giro per il mondo per ogni genere di progetto, ma in molti preferivano avere lo hardware già montato mentre si dedicavano a copiare il software che trovavano in rete. Banzi oggi può mostrare al mondo una quantità di cose che sono state fatte con Arduino e che non smette di incantare persino lui: «Ogni giorno quando mi sveglio e ricevo l’aggiornamento sulle iniziative che sono state prese usando Arduino mi sento sorpassato dallo stupore».

Ma che cos’è, insomma, Arduino? Ecco come lo spiega a Linkiesta.it, il 17 febbraio 2013, lo stesso Banzi intervistato da Gabriele Catania:

Non è facilissimo spiegarlo, perché si tratta di una cosa un po’ tecnica. In sintesi, è un piccolo computer, di bassissima potenza, molto semplice, dalle dimensioni di una carta di credito. È lo stesso tipo di computer che si trova, ad esempio, in un forno a microonde, o in un telecomando. Negli oggetti di tutti i giorni, insomma. Ed è progettato per essere facile da conoscere e da programmare. Infatti questo tipo di processori, i più diffusi al mondo perché sono spesso nascosti negli oggetti di uso quotidiano, fino a poco tempo fa erano solo roba per ingegneri, insomma erano abbastanza complessi. Ciò che abbiamo cercato di fare noi è realizzare un sistema per facilitare la programmazione di questi computer molto semplici e molto piccoli, utilizzabili per animare gli oggetti di tutti i giorni. Una persona con limitate conoscenze tecniche, se acquista un po’ di esperienza con Arduino, è poi in grado di progettare oggetti d’uso comune che abbiano al loro interno un cuore digitale, ossia questo processore. Chiaramente le cose che si possono fare quando un oggetto ha dentro un processore, un piccolo computer, sono veramente molte. Una delle forze di Arduino è la capacità di utilizzare sensori, ad esempio per capire quanta luce c’è nell’ambiente, o quanto rumore […] (www.linkiesta.it/ arduino-banzi#ixzz2LFhiVufm, 4 ottobre 2013).

I progetti che si possono sviluppare con Arduino sono i più vari. E sono diversi anche i progettisti. Ci sono i robot calciatori che vincono i campionati mondiali e gli elicotteri senza pilota che dopo essere stati giocattoli diventano mezzi di trasporto di merci in alcune zone impervie dell’Africa. Ci sono gli innaffiatoi con sensori per piante che si collegano a Twitter e mandano messaggi del tipo, «fa caldo oggi», «ho bisogno di bere un po’» e così via. Ci sono i generatori automatici di messaggi in caso di terremoto e Arduino viene persino usato al LHC (Large Hadron Collider) del CERN di Ginevra per raccogliere dati. Serve per fare nuovi strumenti musicali, per trasformare i gesti in parole scritte sul computer, per fare scritte con spray sui muri molto in fretta e con font preconfigurati. È stato usato per fare un prototipo di orologio connesso a Internet che ha poi cercato finanziamenti su Kickstarter raccogliendo l’incredibile cifra di 10 milioni di dollari. Arduino è servito anche per costruire a basso prezzo dei contatori geyger da distribuire alla popolazione giapponese per raccogliere dati affidabili sulla radioattività dopo il disastro di Fukushima in modo da controllare i dati che venivano pubblicati, forse con eccessiva prudenza per non dire ipocrisia, dalle fonti ufficiali. C’è persino chi sta costruendo un satellite in grado di condurre esperimenti spaziali costruito completamente in base a tecnologie aperte, copiabili, modificabili liberamente. È una fioritura di prodotti, prototipi, invenzioni e simpatiche combinazioni di oggetti e piattaforme che ha per limite soltanto l’immaginazione e il tempo di chi li vuole realizzare. Ma che Arduino e il software aperto che si trova in giro abilitano nel modo più semplice e meno costoso possibile. «Non devi chiedere il permesso per fare cose grandi» dice Banzi.

Per Banzi (che osserva come Arduino venga impiegato anche per fabbricare stampanti 3D, un’idea tanto vecchia che in alcuni casi ne stanno scadendo i brevetti), questo fenomeno è un movimento molto più ampio, abilitato da Internet e dalla condivisione di conoscenze. È una nuova idea di produzione che può ricordare la dinamica dell’innovazione radicale, teorizzata da Clayton Christensen che, a partire da prodotti realizzati con tecnologie poco costose, prende di mira mercati dominati da pochi grandi giganti e ne erode il potere dall’esterno. Probabilmente è anche particolarmente adatto a un Paese, l’Italia, che non ha grandi aziende della tecnologia, ma che potrebbe, se ne capisse il potenziale, rinnovare profondamente i suoi prodotti tradizionali arricchendoli con la potenza dell’elettronica.

Certo, dice Banzi, occorre cominciare a guardare avanti e non sempre al passato. Dimenticare Olivetti. «La storia di Perotto resta un’ispirazione. Ma il mondo è completamente cambiato. E c’è spazio per tutta una nuova industria».

La storia non è lineare. L’esperienza e la capacità tecnica si sedimentano nel tempo, nella memoria delle persone, nella qualità delle scuole e delle università. Ma i salti dell’innovazione non sono fatti per chi contempla il passato o lamenta le difficoltà poste dalla burocrazia. Il professor Dadda non si è certo fermato alla frontiera con il suo computer perché non gli lasciavano apporre un bollo ai seimila diodi del computer che aveva portato per nave dall’America. Tchou e Perotto non si arrestarono perché la loro azienda non li capiva fino in fondo. Vigna non si arrese solo perché i suoi primi MEMS non ebbero successo sul mercato. E Banzi non si è preoccupato di non avere una laurea in ingegneria quando si è trattato di creare il prodotto probabilmente più rivoluzionario del millennio. E di crearlo in Italia.

Bibliografia

«La civiltà delle macchine», 1953, 1, http://2.229.98.58:8080/ConsultazioneLibri/jsp/RcWebImageViewer.jsp?doc_id=0&page_name=6&view_width=75&rotation=0 (4 ottobre 2013).

Y. Doz, J. Santos, P. Williamson, From global to metanational, Boston 2001, in partic. pp. 58 e segg.

E. Vesentini, Gli anni ’70 e la Scuola Normale, «Archeologia e calcolatori», 2009, 20, pp. 11-15 (anche on-line, http://soi.cnr.it/archcalc/indice/PDF20/1_Vesentini.pdf, 4 ottobre 2013).

Storia delle telecomunicazioni, a cura di V. Cantoni, G. Falciasecca, G. Pelosi, 2 voll., Firenze 2011 (in partic. G. Prati, La fotonica nelle telecomunicazioni, 1° vol., pp. 281 e segg.; S. Randi, Successi e decadenza delle industrie di telecomunicazioni, 2° vol., pp. 657 e segg.).

B. Vigna, intervista a cura di S. Centro, «Nuovo Saggiatore», 2012, 28, 5-6.

La testimonianza di Roberto Castelli, progettista in Telettra dal 1972, poi responsabile della Divisione fotonica Alcatel e, ancora oggi, coordinatore dell’associazione Amici di Telettra, è stata raccolta direttamente da Giuseppe Caravita per questa breve storia dell’elettronica italiana.

Si ringrazia l’STMicroelectronics per l’assistenza nella redazione di questa cronistoria e per aver consentito l’accesso anche a documenti inediti, quale, tra tutti, lo storytelling Nimble Minds di Giovanni Carrada.