EGINA

Enciclopedia Italiana (1932)

EGINA (A. T., 82-83; gr. αἴγινα; lat. Aegīna)

Giuseppe CARACI
Margherita GUARDUCCI
Guido MARTELLOTTI

Piccola isola (85,4 kmq.), nel bel mezzo del Golfo Saronico, a eguale distanza a un dipresso fra Attica e Corinzia. Storicamente e geograficamente si può considerare parte dell'Argolide, di cui riproduce i caratteri geologici e morfologici. Egina ha foma di un triangolo equilatero: più montuosa (altezza massima 534 m.), ma meno estesa di Salamina, presenta su questa il vantaggio d'una migliore posizione strategica, comandando l'ingresso del golfo in fondo al quale è Atene. Già i Dori che abitarono in antico l'isola riuscirono a fare di E. uno dei centri commerciali più attivi di tutta la Grecia. Nell'intervallo fra le guerre persiane e la conquista ateniese, l'isola fu anzi indubbiamente la maggiore potenza navale del mondo ellenico.

Oggidì Egina forma, insieme con la vicina Ankístri (l'antica Cercyphalea, 13,7 kmq.) e qualche altra piccola isola dello sciame che le circonda (le classiche Insulae Pelopis), una ἐπαρχία (provincia) del nomòs d'Attica e Beozia: su una superficie di poco più di 100 kmq. vivevano 9279 ab. nel 1920; 9496 nel 1928. La densità di popolazione che ne risulta (95 ab. per kmq.) è una delle più alte di tutta la Grecia, ciò che si spiega con l'attività commerciale che ancora anima la vita di questo gruppo insulare. I centri abitati si dispongono in prevalenza sul lato occidentale dell'isola, dove è anche Egina, che conta poco più di 5000 ab. (6270 nel comune), sul luogo dell'antico porto, ormai destinato a una funzione poco più che locale.

Monumenti. - Pausania (II, 29 segg.) ci ricorda parecchi monumenti di Egina, tanto nella città che sorgeva nel luogo stesso dell'odierna, quanto nel resto dell'isola: un tempio di Afrodite, altri tre rispettivamente di Apollo, Artemide, Dioniso, altri santuarî ancora dì Ecate, di Afaia, quello di Zeus Panellenio sul Monte Oros, poi un heroon di Eaco, un teatro, uno stadio. Sappiamo d'altra parte che gli Egineti adoravano le divinità della vegetazione Damia e Auxesia, i cui simulacri in legno d'olivo erano stati trasportati da Epidauro (Erodoto, V, 83), e che essi avevano pure il culto di Demetra Thesmophoros (Erodoto, VI, 91). Di tutti questi monumenti, che solo in parte sono stati identificati, le rovine più importanti sono quelle del tempio di Afaia, divinità che può essere paragonata ad Artemide nella sua qualità di protettrice del mondo femminile. Questo tempio, le cui celebri rovine si trovano nell'angolo nord-est dell'isola - imponenti nella loro solitudine e nella bellezza del paesaggio che le circonda - è davvero una pietra miliare nella storia dell'arte greca. Costruito fra il 490 e il 480, sugli avanzi di un minore edificio del sec. VI, probabilmente distrutto dai Persiani dopo Maratona, esso era il tipico santuario di stile dorico nell'epoca dell'arcaismo maturo. Di calcare poroso ricoperto di stucco, con le rifiniture e le sculture di marmo pentelico, vivacemente colorato in rosso e azzurro come gli altri templi della Grecia in questa età, misurava circa 31 m. di lunghezza per 15 di larghezza, era esastilo con 12 colonne per ciascun lato maggiore e aveva la cella divisa in tre navate fra il pronao e l'opistodomo. Le sculture dei frontoni, le quali rappresentavano la lotta dei Greci contro i Troiani (quelli di Laomedonte e quelli di Priamo) e altri frammenti decorativi rinvenuti nel 1811 e acquistati dal principe Ludovico di Baviera per la Gliptoteca di Monaco, ci serbano un riflesso dell'immatura ma già potente arte dei bronzisti egineti che fiorirono tra il sec. VI e l'inizio del V, e dei quali ci restarono alcuni nomi (Callone, Glaucia, Onata). Perché il bronzo non si tradì mai attraverso il marmo così chiaramente come in questi corpi di guerrieri asciutti e nervosi, illuminati in volto da quel famoso convenzionale "sorriso eginetico", finissimamente lavorati nei minimi particolari. La figura di Atena che domina nel centro dell'uno e dell'altro frontone fece attribuire a questa dea il santuario, il quale poi fu rivendicato ad Afaia dai grandi scavi di A. Furtwängler (1901), che misero completamente alla luce il tempio e i suoi annessi e ricuperarono altro materiale architettonico e figurato, ora custodito nei musei di Atene e di Egina. Oltre gli avanzi del tempio di Afaia, si ricordano quelli del tempio di Afrodite, costruito nel sec. V vicino alla città, sulle fondazioni di un più antico tempio del sec. VII, e, risalendo nei tempi, i resti di una città preistorica esistente sotto la vetta del monte Oros, sopra terrazze sorrette da poderose mura "ciclopiche". (V. tav. XC).

Storia. - L'antica tradizione dei Greci voleva che questa isola, una volta chiamata Oinone (oppure Oinopia) e deserta di abitanti, avesse preso il nome di Egina dall'omonima ninfa figlia di Asopo, la quale vi sarebbe stata collocata da Zeus che l'amava, e proprio in quest'isola avrebbe generato al signore degli dei Eaco, il capostipite di una grande famiglia. A lui che si lamentava per la mancanza di sudditi, Zeus avrebbe cambiato in uomini le formiche; e però Mirmidoni (da μύρμηκες) si sarebbero chiamati i primi abitanti dell'isola: mito etiologico che serviva a spiegare il nome dei tessali Mirmidoni, ritenuti gli antichi abitanti dell'isola, e insieme ad affermare - secondo una tendenza comunissima nei Greci - gli stretti legami che avvincevano gli abitanti alla loro terra (Pindaro, Isthm., VII, 18 segg.; Apollodoro, III, 12, 6). Eaco "il migliore degli uomini" sarebbe stato a sua volta padre di Peleo e di Telamone e avo di Achille, per finire poi - sempre per la sua giustizia - compagno di Minosse e di Radamanto nel tribunale dell'Averno. A lui, poi, gli Egineti riportavano l'introduzione del culto di Zeus Panellenio, venerato sulle pendici settentrionali del Monte Oros (ora Hágios Elías), culto al quale avrebbe dato origine una terribile siccità dalla quale Eaco con le sue preghiere a Zeus avrebbe salvato tutti i Greci che gli si erano rivolti implorando aiuto (Apollodoro, loc. cit.; Diodoro, IV, 61; Isocrate, IX, 5). In realtà questo culto sul Monte Oros, più antico certamente del nome ch'esso attribuisce a Zeus, apparteneva ai primitivi abitanti dell'isola, d'origine tessala, i quali poi verso il sec. VIII a. C. furono sottomessi dai Dori di Epidauro (Erodoto, V, 83; VIII, 46; Pausania, II, 29, 5) e, mescolatisi col nuovo elemento, passarono nel sec. VII alle dipendenze del forte re di Argo, Fidone, al quale anche Epidauro probabilmente obbediva (Eforo, in Strabone, VIII, 376). Intanto Egina, favorita dalla sua posizione naturale che le permetteva di servire da tramite fra l'Attica e il Peloponneso, era venuta crescendo in grande floridezza commerciale, e aveva cominciato a diffondere le sue monete con l'immagine della tartaruga (più tardi i Greci considerarono Egina patria del conio) e il suo sistema metrologico, che ben presto venne adottato dalle varie regioni della Grecia e specialmente del Peloponneso. D'altra parte il grande aumento della popolazione, alla quale ormai l'isola - non molto fertile - non poteva offrire il nutrimento necessario, contribuiva a spingere gli Egineti sul mare in cerca di colonie sempre più lontane, dall'Egitto al Mar Nero, dall'Oriente asiatico alla penisola italica, ciò che dava anche un'opportuna espansione alle industrie già fiorenti nell'isola (unguenti, bronzo, ceramiche). Per tutto ciò Egina si avviava a divenire una rivale di Atene, sua vicina, che viveva essa pure sul mare e fin da principio tendeva alla supremazia sull'Egeo: gelosia alla quale si aggiungeva la differenza fra l'indole rigida dell'aristocrazia dorica in Egina e la disposizione alla libertà democratica nello stato ateniese, e poi anche le frequenti scorrerie degli Egineti sulla costa dell'Attica (Erodoto, V, 89; VI, 87 segg.) per rendere più profondo il dissidio. Così fin dalla prima metà del sec. VI Atene tentò di sottomettere Egina, ma invano (Erodoto, V, 82 segg.). A lotta aperta si venne col principio del sec. V; ma le ostilità furono interrotte dalle guerre persiane, durante le quali Egina, se pure è vero che in un primo momento offrisse acqua e terra agli ambasciatori di Dario, si portò molto bene e specialmente si fece onore nelle battaglie decisive di Salamina, di Platea e di Micale. Fu solamente verso la metà del sec. V che, in seguito alle vittorie navali degli Ateniesi su Egina, Epidauro e Corinto (458) e dopo un iungo assedio col quale gli Ateniesi l'avevano stretta, Egina si arrese e cominciò a pagare ad Atene il suo tributo come le altre città della prima lega navale attica (455: cfr. Tucidide, I, 108; Diodoro, XI, 78). All'inizio della guerra del Peloponneso (431) gli Ateniesi, per prudenza, stabilirono in Egina una cleruchia e bandirono dalla loro terra gli abitanti, i quali poi vennero accolti dagli Spartani e da loro sistemati nella Tireatide, fra Laconia e Argolide (Tucidide, II, 27). Dopo la sconfitta di Atene ad Egospotami gli Egineti furono restituiti nella loro isola, ma ormai i bei tempi di Egina erano passati. Dopo Alessandro Magno essa fu dei Macedoni, poi si unì alla lega achea, poi, conquistata di nuovo dagli Ateniesi, fu da essi ceduta al re Attalo, il quale a sua volta la lasciò per testamento ai Romani.

Nell'Impero bizantino Egina fece parte del tema dell'Ellade e, insieme con Ceo, costituì un arcivescovado. Dopo la caduta di Costantinopoli del 1204, mentre di diritto sarebbe spettata a Venezia, fu prima feudo della famiglia Dalle Carceri, poi dei catalani Coapena. Solo nel 1451 passò sotto il dominio veneto. Conquistata e quasi distrutta da Khair ed-dīn Barbarossa nel 1537, fu poi ripopolata da coloni albanesi. Nel 1664 fu riconquistata dal Morosini; ma nel 1715 ridivenne turca. Nel 1828 fu scelta come prima sede del governo del Capodistria, trasferitosi poi a Nauplia. Vi si batterono le prime monete della libera Grecia.

Bibl.: G. Hirschfeld, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, coll. 964-68; J. Beloch, Griech. Gesch., passim; A. Furtwängler, Aegina, das Heiligtum der Aphaia, Monaco 1906; Inscriptiones Graecae, IV, 1 segg.; A. Maiuri, L. Savignoni, in Röm. Mitt., XXV (1910), p. 197 segg.; B. V. Head, Hist. Numorum, Oxford 1911, p. 394 segg.; G. De Sanctis, in Riv. di filol., n. s., VIII (1930), p. 292 segg.

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