Editoria e giornalismo

L'Unificazione (2011)

Editoria e giornalismo

Albertina Vittoria

In uno scritto sull’«industria libraia», apparso nel 1858, lo scrittore milanese Carlo Tenca svolgeva innovative considerazioni sulla figura dell’editore come mediatore tra autori e pubblico e sul nuovo rapporto che si doveva stabilire da parte di editori e autori nei confronti dei lettori: Tenca scriveva infatti che l’autore doveva di necessità «interrogare il gusto e le propensioni di quel pubblico, da cui gli vien fatta possibilità di compiere gl’ideati lavori». Era questa nuova «circostanza» a divenire «il perno» sul quale poggiava «l’intero meccanismo dell’odierna industria libraria» (Tenca 1989, p. 22). Anche nel campo della stampa periodica e quotidiana, in quegli stessi anni, si cominciava a manifestare da parte di direttori e giornalisti la convinzione che occorreva rivolgersi a un pubblico più ampio del passato e che si stava formando un’opinione pubblica di cui si doveva tener conto.

Un mercato nazionale per libri e giornali

Se già verso la metà dell’Ottocento diversi furono i protagonisti dell’editoria e del giornalismo che intuirono i cambiamenti cui stava andando incontro la società, mentre i progressi tecnologici contribuivano a facilitare la diffusione di libri e giornali, fu proprio l’unificazione del paese a favorire la formazione dell’editoria e del giornalismo moderni. Questo processo assumerà caratteristiche definitive tra la fine del secolo e l’inizio del Novecento, ma il decennio di unificazione costituirà un passaggio determinante: in primo luogo per la nascita di un mercato nazionale, senza più barriere doganali, per l’estensione a tutto il paese delle leggi del Regno di Sardegna, in particolare quelle attinenti alla libertà di stampa, alla proprietà letteraria e all’istruzione.

L’editto sulla stampa (26 marzo 1848), promulgato nel Regno di Sardegna in applicazione all’art. 28 dello Statuto albertino («La stampa è libera, ma una legge ne reprime gli abusi»), fu infatti esteso nel 1861 a tutta la penisola, quindi al Veneto nel 1866 e alla città di Roma nel 1870. L’editto riconosceva a ogni cittadino la facoltà di espressione e aboliva la censura preventiva, dichiarava la libertà di stampa e il diritto di pubblicare periodici e giornali senza bisogno di autorizzazione, stabilendo comunque regole e forme di intervento per reprimere «gli abusi». Erano punite le offese contro il re e la famiglia reale, contro Senato e Camera dei deputati, nonché contro la religione, i capi delle potenze estere e il personale diplomatico, contro il buon costume e il diritto di proprietà. Qualunque «suddito del Re» poteva pubblicare giornali o periodici, che dovevano avere un gerente responsabile. Per quanto rimanessero diverse incertezze di interpretazione riguardo alle responsabilità per i reati di tipo politico, e fossero lasciati ampi poteri discrezionali all’autorità pubblica in merito al sequestro preventivo e al sequestro delle pubblicazioni, l’editto albertino sulla stampa rappresentò comunque «un punto di riferimento essenziale, di valore costituzionale, che né la Destra, né la Sinistra giunsero mai a porre in discussione» (Castronovo 1984, p. 7). Anche grazie ad esso, poterono sorgere e svilupparsi le numerose testate quotidiane e periodiche che caratterizzarono la vita culturale e politica postunitaria.

Altro passaggio fondamentale per la formazione di un mercato nazionale riguardò gli aspetti giuridici della proprietà letteraria. Già il Regno di Sardegna, con la convenzione austro-sarda «a favore della proprietà e contro la contraffazione delle opere scientifiche, letterarie e artistiche», siglata a Vienna il 22 maggio 1840, si era impegnato a «guarentire agli autori, durante la loro vita, la proprietà delle loro opere letterarie ed artistiche pubblicate negli Stati rispettivi», mettendo così al bando la pirateria libraria e tutelando gli autori dalle contraffazioni. Problemi sui quali dai primi del secolo scrittori e letterati avevano richiamato l’attenzione. Con la convenzione si stabiliva che le «opere o produzioni dell’ingegno» costituivano «una proprietà che appartiene a quelli che ne sono gli Autori, per goderne o disporne durante tutta la loro vita» e si dichiarava che ogni «contraffazione delle opere, produzioni e dei componimenti musicali e teatrali» era proibita; veniva inoltre stabilito che il «diritto degli Autori e dei loro aventi causa» passava agli «eredi legittimi e testamentarii» e che la sua durata sarebbe stata di quarant’anni a partire dalla data della pubblicazione dell’opera (www.ubertazzi.it/it/codice/doc39.pdf). La convenzione fu quindi ratificata dal Granducato di Toscana, dagli Stati ducali e dal governo pontificio, ma fu rifiutata dal Regno delle Due Sicilie, dove venne estesa solo con il compimento dell’Unità, nel febbraio 1861.

Con la legge per l’unificazione legislativa (2 aprile 1865) veniva quindi varata la legge sui «diritti spettanti agli autori delle opere dell’ingegno» (25 giugno 1865), in seguito estesa al Veneto (1867) e a Roma (1870), garantendo così l’unificazione del mercato librario. La tutela non riguardava solo le opere letterarie e artistiche, ma qualsiasi opera rivolta al pubblico: spettacoli, rappresentazioni teatrali o musicali, discorsi, sulla base del riconoscimento all’autore del diritto materiale, ovvero patrimoniale, di usufruire dei proventi delle proprie produzioni. Contestualmente, presso il ministero di Agricoltura, industria e commercio venne creata una divisione interamente dedicata alla proprietà intellettuale (Ufficio proprietà intellettuale), per il deposito e la registrazione di ogni opera facente richiesta di diritto d’autore, che poteva essere sia opera d’ingegno sia brevetti e marchi di fabbrica. La legge del 25 giugno 1865 ribadiva che gli «autori delle opere dell’ingegno hanno il diritto esclusivo di pubblicarle, e quello di riprodurle e di spacciarne le riproduzioni», ma stabiliva che l’esercizio del diritto d’autore sulla riproduzione e sullo spaccio di un’opera durava fino a 40 anni dopo la morte dell’autore e introduceva l’obbligo per chi intendeva «guarentirsi» i diritti d’autore di presentare alla Prefettura della provincia una dichiarazione e due copie dell’opera (ivi, doc443.pdf).

Questa legge veniva modificata dieci anni più tardi (10 agosto 1875), eliminando la distinzione tra opere inedite e opere pubblicate «per la stampa o per qualsivoglia altro mezzo» (ivi, doc460.pdf), per essere successivamente sostituita dal testo unico del 19 settembre 1882 (ivi, doc466.pdf). Dopo ulteriori dibattiti, convenzioni internazionali e proposte legislative, sarà il regime fascista a varare la definitiva normativa in merito, con il regio decreto legge del 7 novembre 1925 (convertito dalla legge del 22 aprile 1926 e abrogato da quella del 22 aprile 1941), che riconosceva al diritto d’autore la tutela giuridica, decretando opere protette dal diritto d’autore, «qualunque ne sia il merito e la destinazione, tutte le opere dell’ingegno scientifiche, letterarie, artistiche e didattiche» (ivi, doc504.pdf).

Altro intervento fondamentale del nuovo Stato unitario fu quello riguardante la scuola e le leggi finalizzate a combattere l’analfabetismo, problema gravissimo del paese, dove, all’indomani dell’Unità, su una popolazione che non raggiungeva i 22 milioni di abitanti, più di 14 milioni erano analfabeti, ovvero il 75% della popolazione sopra i 6 anni di età: ma se in alcune zone (Piemonte, Liguria e Lombardia) questi erano il 54% della popolazione, nel Mezzogiorno continentale raggiungevano l’86%, in Sicilia e in Sardegna arrivavano all’89 e al 90%, mentre ovunque il numero di maschi alfabeti era di gran lunga superiore a quello delle femmine (se in Piemonte le alfabete erano il 38%, in Campania scendevano al 10% e in Calabria al 3%).

Grazie alle riforme scolastiche – la legge Casati promulgata nell’ottobre 1859, e poi estesa a tutto il Regno, e la legge Coppino, ad opera della Sinistra, del 1877, che rendeva obbligatoria l’istruzione elementare dai 6 ai 9 anni (divenuti 12 con la legge del 1904) –, si verificarono, seppur lentamente, una diminuzione dell’analfabetismo e un aumento della popolazione scolastica: gli alfabeti – sempre con le nette difformità tra le diverse parti della penisola e tra maschi e femmine – passarono infatti dal 25% del 1861 al 31% nel 1871, al 38% nel 1881, al 50% nel 1901.

La diminuzione dell’analfabetismo e l’aumento di quel ceto medio e impiegatizio che gravitava nel mondo della scuola – così come nelle diverse istituzioni in espansione – avrebbero comportato conseguentemente la crescita del numero di persone che leggevano libri, giornali, riviste, sia per fini informativi, sia per svago o per preparazione e interessi professionali.

Progressi della stampa, distribuzione e produzione

Oltre che ai cambiamenti conseguenti alla riunificazione del paese e al lento – ma non uniforme – miglioramento delle condizioni di vita, la crescita del mercato librario e l’espansione degli strumenti di informazione furono dovute anche a ragioni non strettamente nazionali. I progressi tecnici e l’evoluzione dei macchinari realizzatisi nel corso del XIX secolo, che permisero di velocizzare sia la composizione dei testi sia la stampa dei fogli, contribuirono infatti al notevole sviluppo che ebbe l’industria tipografica in tutta Europa e negli Stati Uniti. Dopo la prima grande innovazione del torchio meccanico a cilindri, azionato da una motrice a vapore, che stampava 600 fogli orari e che fu utilizzato per la prima volta nel 1814 a Londra dal «Times», negli anni Quaranta fu introdotta una stampatrice in grado di imprimere contemporaneamente entrambe le facciate di un foglio; mentre, per quanto riguardava la composizione, fra il 1880 e il 1890 ci sarebbe stata la rivoluzione della linotype (con la quale una sola persona fondeva in un solo blocco di piombo una riga intera da matrici di rame composte su una tastiera), che sostituì la composizione a mano, permettendo un aumento di produttività di sei-sette volte.

Tab 1-Tipogr, libr al 1872

Furono innovazioni utilizzate dapprima per la stampa dei giornali e poi estese a quella dei libri. In Italia la meccanizzazione dell’attività tipografica investì quasi solamente le procedure di stampa, mentre la composizione rimase prevalentemente manuale, dato che le prime macchine compositrici si diffusero solo alla fine del secolo. Nonostante questi limiti, nella seconda metà dell’Ottocento in tutto il paese si ebbe una notevole crescita di tipografie e imprese tipografiche.

Secondo la relazione compilata nel 1873 da Giuseppe Ottino a nome dell’Associazione tipografico-libraria italiana per conto del ministero di Agricoltura, industria e commercio (Alaimo 1991, pp. 36-37), nel 1859 vi erano in Italia circa 600 tipografie, che divennero 911 nel 1872, cui si affiancavano 1.083 librerie, distribuite in maniera difforme con una forte concentrazione in alcune grandi città (tab. 1).

Punti vendita editoria

Assieme alle tipografie, nel corso della seconda metà dell’Ottocento aumentarono anche i luoghi per la distribuzione sia del prodotto librario che dei giornali: nel 1861 comparvero a Milano, in piazza della Scala e dietro al Duomo, le prime due edicole. Secondo dati relativi alla fine del secolo, pubblicati dall’Associazione tipografica-libraria italiana nel 1894 (Peresson 1983, p. 82), a quella data i punti vendita della produzione editoriale libraria e non libraria in Italia erano così distribuiti: Punti vendita editoria

Tuttavia, come fa notare Giovanni Peresson, vi era una grande disparità territoriale, poiché solo il 14,2% dei comuni italiani possedeva punti vendita, che erano nella grande maggioranza (57,4%) concentrati nel Nord del paese, mentre il 22% si trovava nelle regioni centrali e il 20,6% in quelle meridionali e nelle isole (ivi, p. 83).

Anche in Italia lo sviluppo editoriale fu favorito dal miglioramento dei mezzi di trasporto e dei collegamenti tra le diverse parti della penisola, così come da quello degli strumenti per la comunicazione e la trasmissione di notizie. L’utilizzazione del telegrafo era stata rapidissima in Europa e negli Stati Uniti, a partire dagli anni Quaranta dell’Ottocento, e già dal 1851 un cavo sottomarino collegava telegraficamente Francia e Inghilterra. Dal 1866 l’agenzia americana Associated Press e l’inglese Reuters potevano comunicare con il primo cavo sottomarino che collegava Terranova con l’Irlanda. In Italia l’introduzione del sistema telegrafico avvenne – inizialmente per uso militare – nel 1849 nel Lombardo-Veneto con la linea Innsbruck-Vienna.

Con il progresso delle tecniche tipografiche, che rese possibile una maggiore capacità produttiva delle aziende editoriali, e con l’aumento del pubblico di lettori, la seconda metà dell’Ottocento vide un incremento del prodotto sia librario sia, soprattutto, periodico: sempre secondo i dati di Ottino, le opere stampate in Italia passarono da 3.314 nel 1836 a 4.243 nel 1863, a 6.317 nel 1872 (cit. in Ragone 1999, p. 16); il numero di periodici, compresi i quotidiani, passò da 220 nel 1845 a 450 nel 1864, a 1.126 nel 1872 (Alaimo 1991, p. 30).

In particolare, grazie all’unificazione del mercato editoriale e all’organizzazione di un sistema pubblico di istruzione, si ebbe, come vedremo, un significativo incremento dei libri destinati alla scuola.

Rispetto ad altre nazioni, tuttavia, l’Italia rimaneva anche sotto questi aspetti un paese arretrato, principalmente, com’è noto, per le differenze consistenti tra le diverse regioni, quindi per il basso livello di industrializzazione, che si rifletteva anche nel campo tipografico dove i macchinari più moderni stentavano a essere introdotti. L’analfabetismo e lo scarso grado di alfabetizzazione contribuivano a mantenere basso il numero di lettori sia di giornali che di libri: caratteristica del nostro paese che sarebbe rimasta una costante in tutti gli anni a venire.

Le organizzazioni di categoria

Allo sviluppo delle imprese editoriali e tipografiche corrispose una sempre maggior consapevolezza dei protagonisti, che cominciarono a creare strutture di collegamento e di organizzazione per difendere i propri interessi e migliorare la distribuzione e la vendita dei propri prodotti. La prima fu costituita dalla rivista mensile «Bibliografia d’Italia», fondata nel 1867 dai fratelli Bocca e da Hermann Loescher, editori e librai a Torino, e dai librai tedeschi Münster, che esercitavano il loro commercio a Venezia, con l’obiettivo, come si avvertiva nel Programma apparso sul primo fascicolo, di ovviare alle «cattive condizioni in cui versa il commercio librario in Italia» e di far conoscere, attraverso uno scambio di informazioni bibliografiche, quanto si pubblicava nelle diverse parti del paese.

A questa iniziativa seguì, due anni dopo, l’organizzazione a Torino del primo Congresso librario italiano, in occasione del quale Casimiro Bocca propose la costituzione di una vera e propria associazione per migliorare le condizioni del commercio librario e rendere stabili le relazioni tra gli editori che vi aderivano. L’Associazione libraria italiana (Ali) fu quindi costituita a Milano il 17 ottobre 1869, con 86 soci, sotto la presidenza di Giuseppe Pomba e di un consiglio direttivo composto da Casimiro Bocca, Gaspero Barbèra, Gaetano Brigola, Felice Le Monnier, Luigi Pomba, Emilio Treves, tra i principali protagonisti del mondo editoriale di quegli anni. Oltre alla «Bibliografia d’Italia», poi divenuta «Bibliografia italiana», l’Associazione libraria – la cui sede fu stabilita a Firenze, per tornare successivamente a Milano – iniziò l’anno seguente la pubblicazione del «Catalogo bimestrale della libreria italiana». Nel settembre 1871 al secondo Congresso librario italiano, riunitosi a Napoli sotto la presidenza di Felice Le Monnier, l’Associazione mutò il proprio nome in Associazione tipografico-libraria italiana (Atli), volendo occuparsi anche degli interessi delle industrie tipografiche (dieci anni dopo sarebbero state formate due sezioni distinte, una tipografica e l’altra libraria). Al terzo congresso dell’Associazione, che si svolse a Venezia nel 1872 sotto la presidenza di Gaspero Barbèra, fu proposta la compilazione di una bibliografia di tutte le opere pubblicate in Italia, che si sarebbe concretizzata nel «Catalogo generale della libreria italiana dall’anno 1847 a tutto il 1899» compilato da Attilio Pagliaini (1905 sgg.).

In seguito, nel 1875, venne nominato presidente Emilio Treves, che vi rimase per 15 anni e che si impegnò in particolare sulle questioni relative alla proprietà letteraria e artistica, organizzando appositi congressi. Al congresso del 1881, presieduto da Giosue Carducci, furono gettate le basi per la costituzione della Società italiana degli autori (Sia), che sorse sotto gli auspici dell’Atli l’anno successivo con il preciso scopo di difendere il diritto d’autore dei soci e di appoggiarli per la riscossione delle somme loro spettanti: fu un passaggio importante, nel quale il letterato e l’artista, difendendo i propri interessi economici, si avviavano a fare del loro lavoro una professione vera e propria.

Mentre i tipografi editori fecero la scelta di entrare nell’Atli, assieme a quanti erano impegnati nelle imprese editoriali, rispetto ai quali finirono con l’avere un ruolo marginale, gli operai delle tipografie avviarono un autonomo processo di organizzazione. Inizialmente i tipografi avevano dato vita a un unico organismo, la Società dei compositori tipografi per l’applicazione e l’osservanza della tariffa, nata a Torino alla fine degli anni Quaranta e poi diffusa in altre città contestualmente al processo di unificazione nazionale. In seguito, quando Roma divenne capitale e si trasformò in uno dei centri tipografici più importanti della penisola, dalla locale Società dei compositori tipografi per l’applicazione e l’osservanza della tariffa venne la spinta per la costituzione di un’associazione nazionale di operai addetti agli stabilimenti tipografici, che avvenne nel dicembre 1872.

Anche nel settore giornalistico fu costituita la prima associazione, l’Associazione della stampa periodica in Italia, nata a Roma il 15 agosto 1877 e il cui primo presidente fu Francesco De Sanctis. I suoi obiettivi non erano di natura sindacale ma di mediazione nelle controversie politiche e sindacali. Ad essa seguì la costituzione dell’Associazione lombarda dei giornalisti (1890), di quella siciliana (1891) e di quella piemontese (1899).

Dalle stamperie alle aziende editoriali

I cambiamenti non riguardarono solo gli aspetti materiali dell’editoria e del giornalismo, ma anche la loro funzione e il modo di porsi nei confronti del pubblico di lettori, dal momento che il processo risorgimentale, l’unificazione politica e lo sviluppo economico del paese portarono a mutamenti più complessivi della società e alla crescita di ceti che volevano avere una maggiore presenza nella vita politica e culturale. Sebbene il paese fosse caratterizzato da un forte analfabetismo e coloro che avevano accesso al voto rappresentassero, all’indomani dell’Unità, meno del 2% della popolazione, tuttavia già in questi anni iniziava a farsi più pressante la richiesta di lettura, di informazione e di partecipazione, come peraltro avveniva in altre nazioni europee e negli Stati Uniti.

Il libro cominciò ad essere sempre meno un genere di lusso e i giornali venivano letti di più: non solo perché i progressi tecnologici fecero sì che essi costassero meno al pubblico, ma anche perché era lo stesso pubblico a voler leggere e informarsi. Era un «circolo» che Piero Barbèra, figlio di Gaspero e continuatore dell’attività paterna, descriveva lucidamente, sottolineando come grazie all’introduzione della macchina da stampa a vapore, inventata ai primi dell’Ottocento, «il libro e il giornale, potendo avere diffusione meravigliosa, discendessero al più meraviglioso buon mercato […] L’accresciuto numero dei lettori ha diminuito il costo della stampa, la diminuzione del costo della stampa ha cresciuto ancora il numero dei lettori: è un circolo tutt’altro che vizioso, il quale in un periodo di tempo relativamente brevissimo ha prodotto effetti assolutamente colossali». I libri, anche perché stampati in formati più maneggevoli, si erano trasformati da articoli per pochi in «oggetti di consumo generale»: «Le moderne Francesche non ebbero più bisogno del leggio per sostenere il libro galeotto in formato di messale – continuava Barbèra –; il volume non rimase più a domicilio coatto dietro le reti metalliche d’una biblioteca, ma si mescolò talvolta ai ferri del mestiere sul banco dell’artigiano, o s’imbrattò ai vasi di pomata e ai belletti sulla toilette della damina galante»; mentre il giornalismo «di anno in anno andava crescendo la sua importanza sociale, fino a diventare il quarto potere nello Stato moderno» (P. Barbèra 1904, pp. 319-321).

Il segno del cambiamento dell’editoria consistette nella nascita di collane popolari e di volumi dal formato e dal prezzo accessibili a un vasto numero di lettori. I libri venivano venduti in un numero maggiore di copie e anche se di best seller si potrà parlare solo dagli anni Ottanta in poi, ad esempio con i libri di Edmondo De Amicis, editi da Barbèra e poi da Treves (Cuore, uscito del 1886, raggiunse le 72.000 copie in due anni e arrivò a 300.000 copie nel 1904, con successive ristampe), o con Le avventure di Pinocchio di Collodi, edito da Paggi nel 1883 e poi da Bemporad (che nel 1907 avrebbe raggiunto le 500.000 copie), tuttavia iniziò un nuovo percorso nella diffusione del libro e nella sua evoluzione in genere di consumo: non solo per una maggior tiratura, ma anche perché, assieme al libro, un interesse crescente in un pubblico vasto e variegato lo avevano riviste e periodici di intrattenimento. Peculiarità dell’attività editoriale della seconda metà dell’Ottocento sarà infatti proprio quella di comprendere – nei diversi generi – tanto i volumi, quanto le pubblicazioni periodiche, spesso a carattere illustrato.

La maggiore diffusione delle opere, nell’ambito delle trasformazioni sociali e politiche del XIX secolo, comportò cambiamenti anche per quanto riguardava il ruolo dei tipografi e degli editori; anzi si può affermare che fu proprio in questa fase che nacque l’editore moderno e che ebbe inizio il passaggio da tipografo e stampatore a editore vero e proprio, anche se questo processo sarà compiuto più avanti, nel nuovo secolo.

Per certi aspetti, gli editori intendevano continuare quella missione civile ed educativa iniziata con il Risorgimento e svolgere una funzione culturale propositiva: in questo senso cessavano di essere solo stampatori, come lo erano stati fino ad allora, pubblicando opere su commissione, e divenivano – secondo le parole di Gaspero Barbèra – «sollecitatori di opere presso i letterati» (G. Barbèra 1930, p. 115).

Proprio Gaspero Barbèra, nato a Torino nel 1818, e trasferitosi a Firenze dove iniziò a lavorare presso Le Monnier, fu tra i più consapevoli dei mutamenti del paese e della società nonché della necessità che gli editori svolgessero una funzione di pubblica utilità: essi dovevano «studiar diligentemente di quali libri più abbisogni l’Italia», ovvero dovevano pubblicare «libri che non solo servano a ingentilire l’animo e nobilitarlo, ma a correggere gli errori presenti» (ivi, pp. 115, 117). Nel 1854 Barbèra, staccandosi da Le Monnier, diede vita alla omonima editrice proprio con questi intenti, ritenendo – come scriveva nella circolare che ne annunciava la nascita – «l’arte nostra qualcosa di più d’un traffico» e proponendosi di «contribuire, per quanto da noi si potrà, al decoro delle italiane Lettere» (ivi, p. 103).

Se per alcuni protagonisti l’accento veniva messo sul ruolo politico ed educativo dell’attività editoriale, per altri – sempre con l’obiettivo della costruzione della nuova Italia – si puntava su un’editoria popolare in grado di coinvolgere un numero ampio di lettori in tutto il paese. Strumento principale in questo senso erano i libri venduti in collane economiche o a dispense, e soprattutto le pubblicazioni periodiche illustrate. Annunciando la nascita dell’«Illustrazione universale» nel 1864, ad esempio, l’editore milanese Edoardo Sonzogno lo definiva un «giornale illustrato, italiano nello scopo, negli intendimenti e nei modi, e composto a servire a tutta l’Italia, non ad una parte di essa soltanto […] Quanto più l’Italia procede verso la sua unità, tanto maggiore bisogno essa ha, prima di tutto, di conoscere le stesse sue infinite varietà» (Giordano 1983, p. 84).

Con l’inizio dell’industrializzazione dell’attività tipografica, si assisterà quindi all’espansione non solo di piccole imprese, ma anche di vere e proprie case editrici, alcune delle quali erano sorte nei primi anni del secolo, se non in quello precedente. Si trattò in molti casi di editori che si fecero da sé, inventando un mestiere: alcuni poterono contare su una già avviata azienda tipografica (Bocca, Pomba, Paravia, Sonzogno), altri partirono dall’attività libraria (Zanichelli, Sandron), altri si trasferirono in Italia da altri paesi (Loescher, Olschki, Hoepli), altri iniziarono come tipografi (Barbèra, Le Monnier, Sansoni), o come semplici operai (Salani), o provennero da esperienze letterarie e giornalistiche (Treves).

Complessivamente non si trattò di uno sviluppo uniforme. All’egemonia piemontese e toscana sarebbe nel corso degli anni subentrata quella milanese. Roma ebbe un ruolo peculiare, perché da quando divenne capitale fu sede di molte imprese tipografiche impegnate nella stampa di quanto era connesso all’attività ministeriale e amministrativa, degli Atti parlamentari, dei periodici ufficiali, dei quotidiani che si spostarono da Torino o da Firenze e così via, ma non vi nacque mai una grande casa editrice. Nel Mezzogiorno gli editori furono ancora meno numerosi e presenti solo in alcune grandi città.

Editori popolari e romanzi di successo

Tra i generi che ebbero crescente diffusione vi fu quello letterario e di intrattenimento, con romanzi di vario tipo di scrittori stranieri, italiani, classici o contemporanei: la culla fu soprattutto Milano, dove già esistevano diverse editrici specializzate nel campo (Agnelli, le cui origini risalivano al XVII secolo, Carlo Barbini, Gaetano Brigola, Maurizio Guigoni, per citare qualche nome), e dove soprattutto iniziarono la loro attività i due principali protagonisti di questa nuova stagione editoriale, Sonzogno e Treves, che unirono la pubblicazione di volumi a quella di periodici.

Edoardo Sonzogno, che inizialmente svolgeva la propria attività nel campo teatrale, nel 1861 trasformò la tipografia della famiglia, avviata dai primi del secolo, in casa editrice, indirizzandosi soprattutto nel campo giornalistico, con riviste e settimanali illustrati: «Lo Spirito folletto» (giornale umoristico), «Illustrazione universale», «Emporio pittoresco» (settimanale di informazione e varietà che ebbe grande successo, raggiungendo nel 1872 una tiratura di 24.000 copie), «Romanziere illustrato»; e poi soprattutto con il quotidiano popolare «Il Secolo» (1866), voce del radicalismo lombardo, che sarà il primo giornale ad ampia diffusione, di cui parleremo più avanti. Anche nel campo della produzione libraria, Sonzogno – che nel 1870 si trasferì Parigi dove fondò una casa editrice parallela a quella milanese – diede vita a diverse collane economiche e di divulgazione, come la «Biblioteca del popolo», che proponeva trattati e manuali di piccolo formato di vari argomenti che vennero utilizzati per le scuole serali e dell’Umanitaria, la «Biblioteca universale», la «Biblioteca romantica» con i romanzi più famosi, molti dei quali usciti in appendice nel «Secolo». Altro mezzo per diffondere libri e classici in un ampio pubblico fu quello delle pubblicazioni a dispense, la prima delle quali fu La Divina Commedia (1867). Più avanti, Sonzogno si specializzò anche nell’editoria musicale, con le dispense del «Teatro per tutti» e collane di volumi. Con gli anni ampliò ulteriormente la propria attività, alternando, oltre al quotidiano, giornali popolari, di moda, scientifici e diverse collane, integrando i due settori e utilizzandoli per una reciproca pubblicizzazione. Lo stabilimento tipografico, dove introdusse macchine moderne, si ingrandì e arrivò negli anni Settanta a impiegare 200 operai.

Emilio Treves, originario di Trieste, patriota e combattente con Garibaldi, si trasferì a Milano nel 1861, fondando la casa editrice che nel giro di pochi anni, anche grazie al contributo finanziario del fratello Michele, dirigente di banca, divenne tra le maggiori editrici del paese; nel 1870 assunse la denominazione Fratelli Treves, venendo coinvolto nell’impresa un altro fratello, Giuseppe, che ne divenne amministratore. Consapevole delle trasformazioni sociali e politiche del paese e convinto della necessità che gli editori si organizzassero tra loro anche per risolvere quei problemi che impedivano la piena diffusione dei libri, Treves, come si è visto, fu tra i più impegnati nell’Associazione tipografico-libraria italiana e nella fondazione della Società italiana autori. Fu grazie ai soggiorni a Parigi e a Londra, e allo studio dell’organizzazione del mondo della stampa di quei paesi, che Treves comprese l’importanza di una politica editoriale basata sulla produzione sia di volumi che di periodici.

Anche Treves, infatti, iniziò la propria attività con un periodico illustrato, «Museo di famiglia», cui seguirono diverse iniziative specializzate in vari campi («Il Giro del mondo», «L’Universo illustrato», «L’Illustrazione popolare», «La Gazzetta illustrata», e molte altre negli anni Ottanta, tra le quali vi saranno diverse riviste di moda). Soprattutto dai suoi stabilimenti nacque quella che è stata la più importante rivista illustrata italiana, «Illustrazione italiana» (1875), durata fino ai giorni nostri, con la quale Treves – che ne fu anche direttore – riuscì nell’impresa in cui non era riuscito Sonzogno, cioè di dar vita a un grande giornale illustrato, diretto espressamente agli strati sociali più elevati. Era un giornale soprattutto di attualità, ma anche di svago e di letteratura, al quale collaborarono i più famosi scrittori del paese. Il solo esperimento di giornale quotidiano fu nel 1869 «Il Corriere di Milano», che qualche anno dopo venne assorbito dal «Pungolo».

Le collane di Treves furono varie: saggistiche, come la «Biblioteca utile» o la raccolta di letture scientifiche e popolari («La Scienza del popolo»), di viaggio e letterarie («Biblioteca amena»). Nel giro di pochi anni e nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento, fino ai primi del Novecento, Treves divenne il più importante editore italiano di letteratura: dai classici ai contemporanei, dagli scrittori stranieri a quelli italiani, i più grandi autori passarono per i suoi tipi e molti saranno i contemporanei – con i quali Treves svolse un vero compito di «sollecitatore» di opere – che daranno vita negli anni seguenti ai primi best seller, a cominciare da De Amicis e D’Annunzio.

Un altro editore che a Milano si distinse, più che per progetti culturali, «per aver creato un vero e proprio impero aziendale ‘integrato’, forse il primo della storia della carta stampata» (Gigli Marchetti 1997, p. 131), fu Giuseppe Civelli che, da una piccola tipografia aperta nel 1840, giunse a possedere sei stabilimenti tipografici in altrettante città, due cartiere e una fonderia di caratteri, occupando complessivamente circa 1.200 operai. Pubblicò diverse testate quotidiane e periodiche e nel settore librario spaziò nei più diversi campi del sapere, fino ai manuali e ai libri per le scuole.

Un settore in espansione fu quello musicale, nel quale svolse un ruolo di primo piano la casa editrice Ricordi, fondata a Milano nel 1808 da Giovanni Ricordi, musicista, suggeritore, copista, che inventò la stampa degli spartiti da noleggiare ai teatri e che creò il primo giornale italiano di critica musicale, «La Gazzetta musicale di Milano». La sua attività fu proseguita dal figlio Tito e dal figlio di questi, Giulio, che legò alla casa i nomi di Gioacchino Rossini e di Giuseppe Verdi e scoprì Giacomo Puccini, facendosi editore di tutta la sua opera. L’impresa raggiunse notevoli dimensioni: nel 1884 impiegava più di 200 operai e poteva produrre 2,5 milioni di fogli di carta per musica, 100.000 fogli di carta per cartelloni e 2 milioni di fogli di carta patinata e comune ogni anno; oltre a questo, la casa editrice acquisì piccole editrici musicali e aprì succursali a Napoli, Firenze, Roma e Londra. In apposite collane venivano poi pubblicate le opere teatrali e i libretti delle opere liriche.

Letteratura e scienza fra divulgazione e alta cultura

A partire dalla metà del secolo diversi furono quindi gli editori che si rapportarono in modo nuovo con il pubblico, avendo l’obiettivo di coinvolgerlo il più ampiamente possibile nella lettura, attraverso libri e giornali. In quest’opera di divulgazione, alcuni si indirizzarono maggiormente verso l’intrattenimento e la letteratura, altri verso una produzione saggistica e scientifica, o ancora tenendo insieme i due piani.

Prima dell’esperienza di Sonzogno e di Treves, un altro editore aveva scelto di produrre opere non più rivolte esclusivamente alle élites: Giuseppe Pomba, che dal 1810 aveva assunto la guida dell’azienda della propria famiglia, una libreria e stamperia attiva a Torino dalla fine del Settecento. Convinto della necessità di trasformarne l’attività in un’impresa industriale e commerciale modernamente strutturata, e precorrendo i tempi, Pomba fu il primo a introdurre nella propria tipografia la macchina a cilindro e a diffondere testi a uscita settimanale con prezzo contenuto. La sua «Biblioteca popolare, ossia Raccolta di opere classiche italiane non che latine e greche in italiano tradotte», iniziata nel 1828, si può considerare l’antesignana dell’editoria divulgativa e popolare: presentava volumi di ogni genere di letteratura in formato tascabile, con un numero di pagine non superiore a 200, distribuiti a cadenza settimanale e al prezzo di 50 centesimi, un decimo, cioè, del prezzo di mercato; anche la Storia universale di Cesare Cantù, sempre in dispense settimanali, era destinata a un grandissimo successo. Pomba si dedicò inoltre alle pubblicazioni periodiche e fu lui a stampare uno tra i primi settimanali «a figure» e di attualità in Italia, il «Mondo illustrato» (1846).

Successivamente, dalla fine degli anni Quaranta, l’azienda fu affidata al cugino Luigi e nel 1854 si fuse con la Tipografia sociale degli artisti e con la Tipografia del progresso, dando vita all’Unione tipografico-editrice torinese (Utet). La casa editrice sviluppò la propria attività su un doppio binario: da un lato, proseguendo con le collane ad ampia divulgazione, come la «Libreria del popolo italiano», consistente in piccoli manuali, e la «Nuova biblioteca popolare»; dall’altro, con opere di saggistica, rivolte a un pubblico di addetti, come la «Biblioteca dell’economista» e le collezioni di carattere storico o pedagogico. In seguito, la Utet si indirizzò maggiormente su questo secondo versante, specializzandosi in particolare nel campo del diritto e in quello delle scienze mediche.

Nell’ambito di progetti editoriali divulgativi, grande importanza ebbe la collana dei «Manuali» avviata nel 1875 dallo svizzero Ulrico Hoepli, che aveva aperto una libreria a Milano qualche anno prima: saranno in un secolo quasi 2.000 volumetti, a carattere enciclopedico e sui più vari argomenti, organizzati in tre serie (scientifica e letteraria, pratica, artistica), e rivolti a una classe media di professionisti e tecnici, con l’intento di contribuire alla loro formazione e di svolgere un supporto pratico alle più diverse attività.

Anche Firenze era sede di editori che avevano indirizzato la loro produzione verso forme più accessibili, seppure non con opere e collane a carattere popolare. Anzi, bisogna ricordare che Firenze – centro culturale di primo piano, ricco di istituzioni e iniziative – aveva avuto un ruolo centrale nella storia dell’editoria italiana nella prima metà del XIX secolo e lo mantenne negli anni successivi all’Unità, fin quando le venne sottratto da Milano e Torino e poi, definitivamente, da Milano. Due importanti protagonisti furono i già ricordati Felice Le Monnier, venuto in Italia da Parigi dopo il 1830, e Gaspero Barbèra, entrambi impegnati nella pubblicazione di opere di patrioti.

Anche Le Monnier era convinto che il libro non dovesse essere un oggetto di lusso, ma piuttosto dovesse rivolgersi al più vasto pubblico borghese dei ceti medi e a quello delle classi popolari, senza però trascurare gli aspetti esteriori ed estetici dell’edizione, come si propose di fare con la «Biblioteca nazionale», iniziata nel 1843, per la pubblicazione sia di classici che di romanzi storici e tragedie. A questa iniziativa e alla stampa di opuscoli politici si accompagnarono, tra il 1859 e il 1869, quella del giornale la «Gazzetta del Popolo», e l’inizio dell’impegno nel settore dello scolastico. Nel 1865 Le Monnier cedette la stamperia, dando vita alla Società successori Le Monnier che fu presieduta da Bettino Ricasoli. L’anno successivo iniziò la stampa della rivista mensile «Nuova Antologia» – fin quando nel 1878 venne trasferita a Roma – e, dal 1870 al 1900, quella del quotidiano fiorentino «La Nazione».

Di Gaspero Barbèra abbiamo già sottolineato la convinzione che l’editore dovesse pubblicare libri utili, con l’ambizione, come ricordò il figlio, di «giovare alle persone che vogliono istruirsi ed educarsi, non di compiacere ai capricci di qualche bibliomane che ama i libri solo per la forma, e li tiene gelosamente chiusi negli eleganti scaffali per paura di sgualcirli servendosene» (P. Barbèra 1904, p. 167). Nell’ottica di un’editoria che doveva contribuire all’educazione della nazione, tra i suoi titoli annoverò, nella collana «Opere educative e popolari», diversi esempi di quella letteratura self-helpista e volontaristica (Autobiografia di Benjamin Franklin, Volere è potere di Michele Lessona, ad esempio), di cui anche Treves fu sostenitore, avendo introdotto in Italia Chi s’aiuta Dio l’aiuta ovvero storia degli uomini che dal nulla seppero innalzarsi ai più alti gradi in tutti i rami delle umane attività di Samuel Smiles (1865). «L’etica del lavoro e della responsabilità, l’esortazione alla virtù operosa venivano associate, e apparivano così […] – ha messo in evidenza Bruno Tobia – una nuova incarnazione di patriottismo; e che il paternalista e moderato, ma politicamente impegnato, Barbèra e l’ex cospiratore e garibaldino Emilio Treves si dessero, per dir così, idealmente la mano nelle loro proposte editoriali di stampo ‘nazional-lavoristico’ testimonia quanto fosse diffusa fra gli uomini di cultura la convinzione della necessità di un ‘secondo tempo’ della rivoluzione nazionale, che, sconfitti gli austriaci sui campi di battaglia, sciogliesse apatie, inerzie, superficialità secolari del ‘carattere’ italiano» (Tobia 1995, p. 443).

Editore, oltre che di opuscoli e libri politici, di classici italiani e di autori contemporanei, proposti in diverse collane («Collezione gialla», «Collezione Diamante», «Biblioteca civile dell’Italia»), e dedito anche al settore scolastico, Barbèra pubblicò due quotidiani, «La Nazione», che costituì la sua fortuna commerciale prima di essere ceduta a Le Monnier, e «L’Italia nuova». Un’altra casa editrice che si poneva in quest’ottica di svolgere un compito civile ed educativo, e che iniziò la propria attività nei primi anni Settanta, fu, sempre a Firenze, la Sansoni.

Nell’ambito di un’editoria principalmente di saggistica, un centro importante fu costituito da Torino, dove essa si sviluppò in stretto rapportò con l’università e i docenti che vi insegnavano, proponendo sia testi per lo studio delle diverse discipline, sia vere e proprie dispense. Alcuni editori, accanto a questo consistente filone, portarono avanti quello rivolto alle scuole. A indirizzarsi su questo doppio binario, oltre alla già ricordata Utet, furono Bocca, Loescher, Paravia, Roux.

La Libreria Bocca, aperta a Torino nel 1775, acquistò rinomanza come casa editrice con Giuseppe Bocca, vissuto tra la fine del Settecento e il 1864, che divenne importante riferimento per il mondo politico liberale (pubblicò Le mie prigioni di Silvio Pellico e Del rinnovamento civile d’Italia di Vincenzo Gioberti). La sua attività fu poi portata avanti dal figlio Casimiro, protagonista, come si è visto, della vita associativa degli editori: a partire dagli anni Settanta, in stretto rapporto con i docenti dell’ateneo, diede sviluppo al settore storico e ampio spazio a collezioni e riviste che contribuirono alla diffusione della cultura positivista in Italia, a cominciare dai libri di Cesare Lombroso.

Hermann Loescher, di Lipsia, iniziò la propria attività aprendo nel 1861 una libreria a Torino, cui ne seguirono altre a Firenze e a Roma. Anche la sua attività editoriale si sviluppò in stretto rapporto con l’università torinese, attraverso la pubblicazione di monografie specialistiche e prolusioni ai corsi. Socio fondatore, come Bocca, dell’Ali, anche Loescher si impegnò nella diffusione del metodo positivo nelle scienze umane e della cultura medico-scientifica. Un settore di sua specializzazione fu quello della filologia classica e moderna, con particolare attenzione alle metodologie di altri paesi, soprattutto tedesche. Oltre a diverse collane, pubblicò a partire dagli anni Settanta e Ottanta varie riviste, che furono tra le prime a carattere specialistico relative alle scienze storico-letterarie ad apparire in Italia.

Un altro editore dalla produzione a carattere specialistico, particolarmente nel campo storico-politico ed economico-giuridico, fu Lorenzo Roux. Mentre la ditta Paravia, nata all’inizio del secolo come libreria e tipografia, si indirizzò sul versante filosofico e pedagogico e, soprattutto, nel settore dello scolastico: negli anni Settanta raggiunse una fisionomia imprenditoriale, con uno stabilimento dotato di macchine moderne e con oltre 200 dipendenti, avendo aperto, inoltre, librerie a Milano, Firenze, Napoli. Alla morte del titolare, Giorgio Paravia, nel 1851, la ditta era passata a un parente, Innocenzo Vigliardi, che più avanti aggiunse al proprio il cognome dei Paravia.

Anche a Bologna – assai meno ricca di imprese editoriali – si realizzò uno sviluppo parallelo di editoria e università. Il più importante editore legato all’università e in generale all’intellighenzia bolognese, fu Nicola Zanichelli che nel 1866 si trasferì nel capoluogo da Modena, dove, prima dell’Unità, si era impegnato soprattutto a smerciare libri proibiti e stampare opuscoli contro il governo ducale: la libreria era stata perquisita diverse volte ed egli stesso arrestato. La nuova libreria acquistata nel palazzo sede dell’ateneo bolognese – più avanti negli anni Ottanta Zanichelli vi trasferì anche la tipografia – divenne presto un centro della vita culturale cittadina, luogo di ritrovo di scrittori e professori universitari. Tra questi il più assiduo fu Giosue Carducci, delle cui opere Zanichelli divenne editore dal 1875, dando così una svolta alla storia della casa editrice, che fino ad allora aveva pubblicato pochi titoli l’anno, e che da quel momento li aumentò considerevolmente avviandosi a diventare, anche grazie ai numerosi rapporti che si intrecciarono con scrittori e studiosi, una casa editrice nazionale. Oltre a quello letterario, un settore molto importante fu quello scientifico, medico e matematico: nel 1864, Zanichelli pubblicò la prima traduzione italiana dell’Origine della specie per selezione naturale di Charles Darwin. Settore destinato a rafforzarsi sempre di più con gli anni, anche per quanto riguardava la parte destinata allo scolastico.

Meno tipografie e meno case editrici, e più arretrate, come si è detto, erano invece presenti nel Mezzogiorno. E, per lo più, all’indomani dell’Unità, caduti gli steccati della politica protezionista dei Borbone, furono colte impreparate di fronte allo sviluppo di quelle del Nord: «gli editori ed i librai dell’alta Italia – scrisse Antonio Morano, uno dei pochi editori napoletani che riuscì a non farsi sopraffare – in poco tempo, con mezzi accumulati da lunga mano, hanno invaso il nostro campo. Spedivano librerie intere, edizioni a centinaia di migliaia e noi tutto consumavamo, tutto divoravamo a pro e a beneficio degli editori e degli autori di lassù» (cit. in Palazzolo 1990, p. 193). In seguito, tuttavia, alcuni editori – a Napoli e Palermo, principalmente – si collegarono alle locali università e ai gruppi culturali cittadini, riuscendo, soprattutto dagli anni Settanta in poi, a elaborare progetti ad ampio respiro e a inserirsi in una prospettiva nazionale, come sarà il caso ad esempio, alla fine del secolo, della Giuseppe Laterza e figli di Bari.

Le case editrici che cominciarono ad avere un certo spessore dopo l’Unità furono, a Napoli, Morano (che tra i suoi testi scolastici pubblicò la Storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis), Luigi Pierro e Nicola Jovene; a Palermo, Luigi Pedone-Lauriel, libraio di origine francese, legato ai positivisti siciliani, Decio Sandron, libraio di Este, la cui libreria aperta nel 1839 era stata luogo di ritrovo per chi voleva trovare libri politici e allora proibiti; a Catania, Niccolò Giannotta, in stretto rapporto con l’ambiente universitario, in particolare con la facoltà di Giurisprudenza.

Nel campo dell’editoria espressamente popolare, oltre a quelle piccole editrici legate alle organizzazioni del movimento operaio e al nascente partito socialista che si dedicarono alla propaganda politica e che inizieranno la loro attività a partire dagli anni Ottanta, vi furono diversi editori che stamparono prevalentemente opere per le classi più povere a prezzi molto bassi: Adriano Salani a Firenze, che iniziò stampando canzonette, inni sacri e profani per i cantastorie e proseguì con opuscoli divulgativi e libriccini di letteratura d’appendice (sarà tra l’altro editore di oltre trenta romanzi di Carolina Invernizio); Edoardo Perino, operaio di origine piemontese, che a Roma nel 1870 organizzò un’azienda giornalistica e pubblicò varie collane a carattere popolare, avviando anche la vendita a dispense.

Diversi invece per obiettivi e contenuti, anche se le loro produzioni furono di vastissima diffusione, gli editori religiosi, spesso legati a ordini o direttamente al Vaticano, nati nel corso dell’Ottocento per la stampa sia di libri e opuscoli devozionali, sia di volumi o giornali di argomento sacro: per fare qualche nome, la Libreria del Sacro Cuore, Claudiana, casa editrice e libreria legate alla Tavola Valdese, Marietti a Torino, Libreria editrice vescovile Queriniana a Brescia, Desclée a Roma. Molto numerose in tutto il territorio nazionale, inoltre, le tipografie adibite alla produzione di un’editoria minore – opuscoli, libri di preghiere, vite di santi e così via – che, con la collaborazione dei parroci, aveva un’ampia diffusione tra gli strati popolari, così come l’ebbe l’attività editoriale legata alla congregazione dei salesiani: prima con la collana mensile «Letture cattoliche», promossa nel 1853 da don Giovanni Bosco, quindi con la Tipografia dell’Oratorio di San Francesco di Sales (1862), indirizzatasi nel corso degli anni al settore dello scolastico.

Gli editori scolastici

L’unità politica del paese, comportando, assieme alla caduta delle barriere doganali e all’unificazione del mercato editoriale, la realizzazione di un sistema pubblico di istruzione valido su tutto il territorio, ebbe conseguenze anche per quanto riguardava la diffusione dei testi adibiti ai diversi ordini della scuola. «Il sistema scolastico – come ha sottolineato Marino Raicich –, nel suo voler essere nazionale e non municipale dalle Alpi alla Sicilia, cercava di conseguire i suoi scopi di unificazione, attraverso il cemento dei comuni libri di testo, specie per quanto attiene alle grammatiche e ai manuali» (Raicich 1983, p. 297). Gli editori – o per lo meno una parte consistente di essi – compresero rapidamente le potenzialità di smercio e quindi di guadagno della produzione destinata alla scuola, potendo indirizzarla al paese nel suo insieme e non solo a zone circoscritte. Nel momento in cui nel 1867 furono varati dal ministero della Pubblica istruzione, ad opera di Michele Coppino, ministro nel governo Rattazzi, i programmi scolastici e gli ordinamenti per tutto il Regno, si aprì uno sbocco editoriale di vastissime dimensioni. Lo si comprende solo guardando, ad esempio, le cifre fornite dallo stesso ministero nel giugno 1881: a quella data le opere per le scuole erano complessivamente 3.922, di cui 342 per i licei, 814 per i ginnasi, 1.048 per le scuole tecniche, 415 per le scuole normali, 1.303 per le scuole elementari e popolari (ivi, p. 304).

Proprio i libri per la scuola e per l’educazione contribuirono in modo significativo allo sviluppo che l’editoria italiana ebbe a partire dalla seconda metà dell’Ottocento e dall’unificazione del mercato. Molti furono gli editori che si impegnarono in questo settore e molti ne nasceranno dediti solo ad esso, mentre gli autori stessi di libri scolastici e di manuali cominceranno a percepire compensi più alti, venendo così a crearsi una differenza di guadagno nei confronti di chi produceva testi rivolti agli specialisti che rendevano molto meno.

Molti degli editori di cui abbiamo parlato, proprio per le potenzialità del mercato dello scolastico, accompagnarono la loro produzione di cultura nelle varie discipline con quella destinata alle scuole. Il Piemonte con Torino fu uno dei centri di maggiore diffusione di editoria rivolta all’istruzione, da quella primaria a quella universitaria, con editori come Loescher, che si caratterizzò per la pubblicazione di opere straniere, soprattutto tedesche, relative allo studio del greco e del latino, o Paravia, che si impegnò sia nel campo propriamente pedagogico, con collane e riviste (tra cui «L’Educatore», la prima rivista di pedagogia in Italia, nata nel 1846), sia in quello scolastico e di letture per l’infanzia.

Tra gli anni Sessanta e Ottanta sarà invece Firenze – particolarmente da quando vi fu trasferita la capitale del Regno – a conquistare uno spazio molto ampio in questo settore, recuperando terreno nei confronti dei piemontesi: ma anche qui, dalla fine del secolo, a imporsi saranno sempre più gli editori milanesi.

La Le Monnier conquistò e mantenne un indiscusso primato nei libri di testo, per i quali nel 1867 iniziò la «Biblioteca scolastica», con classici latini e greci, cui seguirono trattati di fisica, botanica, chimica, algebra, aritmetica. Fu favorita anche grazie ai rapporti diretti con il ministero della Pubblica istruzione, che tra l’altro le permisero di sapere per tempo le novità introdotte nei programmi, suscitando allora – come ha ricordato Ilaria Porciani – diverse polemiche: fu il caso, ad esempio, del manuale di geometria di Enrico Betti e Francesco Brioschi (Gli elementi d’Euclide, 1867), collaboratori del ministero, che introduceva la geometria euclidea anticipando la scelta governativa, con gli immaginabili notevoli ricavi per l’editore (Porciani 1983, pp. 486-487).

Anche la Barbèra ebbe la capacità di far uscire manuali in contemporanea con i nuovi programmi, nella apposita «Nuova collezione scolastica secondo i programmi del Ministero della Pubblica Istruzione», e di scegliere come collaboratori docenti di scuola o legati allo stesso ministero, come Domenico Carbone, curatore del settore scolastico, che fu provveditore agli studi e dal 1866 provveditore centrale (ivi, p. 484). Più avanti – particolarmente all’indomani della scomparsa del fondatore (1880) – Barbèra diminuì la sua presenza nel settore, mentre acquistò terreno a partire dagli anni Ottanta la Sansoni, che si sarebbe specializzata nel campo degli studi classici, della filologia, della linguistica, della italianistica e della storiografia. Anche quella di Felice Paggi, la cui attività, iniziata nel 1840, sarebbe stata proseguita verso la fine del secolo dal nipote Enrico Bemporad, divenne un’azienda floridissima con i libri di testo e di lettura, assicurandosi la collaborazione di autori di prestigio, come Pietro Dazzi, insegnante di liceo, Ida Baccini e soprattutto di Collodi.

A Milano, invece, dalla seconda metà del Settecento era attiva la ditta Vallardi, che un secolo dopo si divise in due aziende distinte, quella di Francesco Vallardi, indirizzata soprattutto verso il settore medico, e quella di Antonio Vallardi, specializzata nelle stampe artistiche e nella pubblicazione di carte geografiche. Furono i figli di quest’ultimo a rimodernare l’azienda, concentrando la produzione, da una parte, nei libri di testo per le scuole e nei dizionari, dall’altra, nei materiali didattici di ogni genere, perfezionandosi inoltre nella stampa di carte geografiche per la scuola e di carte topografiche e strategiche.

Anche la cartografia era un settore destinato a una notevole espansione, con l’Istituto d’arti grafiche di Bergamo, nato nel 1873, e poi verso la fine del secolo con il Touring club italiano a Milano.

La Zanichelli a Bologna, dalla fine degli anni Sessanta, incrementò la percentuale di libri di argomento educativo, pedagogico e scolastico del suo catalogo, non solo in termini quantitativi, ma come strategia editoriale, fino a diventare tra i maggiori editori del settore. Anche l’editrice bolognese ebbe la capacità di stringere legami con alcuni personaggi del mondo politico, culturale e scolastico locale di orientamento liberale, come Alberto Dallolio, assessore all’Istruzione e per molti anni sindaco della città, che avrebbe ricoperto ruoli importanti nella casa.

Tra gli altri editori che affiancarono la produzione di cultura varia con quella scolastica ricordiamo a Napoli Morano, e a Palermo Sandron, che si inserì nel mercato sia con libri di testo sia con opere di letteratura amena, antologie, mappe e carte geografiche, senza avere grande concorrenza nell’isola, soprattutto con Remo Sandron, alla guida della casa editrice dopo la morte del padre Decio nel 1873. Case editrici più piccole attive nel settore furono Casanova di Torino, Maisner di Venezia, Enrico Trevisini di Milano, De Simone di Napoli, Diritti della scuola di Roma, Giusti di Livorno e via via altre che sorsero negli anni seguenti. Un ruolo importante nella produzione di libri di testo e di letture, inoltre, fu svolto dalle piccole editrici religiose, come quelle fiorentine legate agli scolopi (Calasanziana, Tofani, Chiesi), quelle legate ai salesiani o ancora quelle gestite da enti assistenziali, come la Agnelli di Milano, che aveva sede nell’orfanotrofio maschile. Più in generale, come dimostrano ricerche condotte a livello provinciale, non c’era nel paese centro che non avesse tipografie dove venivano stampati manuali e testi dei maestri e dei docenti del posto.

Il giornalismo postunitario tra arretratezza e trasformazione

Come l’editoria, il giornalismo italiano conobbe un significativo sviluppo con l’unificazione del paese, anche se per trasformarsi in giornalismo di opinione, moderno, ad ampia diffusione dovrà aspettare gli ultimi anni dell’Ottocento.

Nei due decenni successivi all’Unità, il giornalismo italiano fu per certi aspetti il proseguimento della milizia politica che lo aveva caratterizzato durante il Risorgimento, frammentato com’era in numerose esperienze, spesso dalla vita breve e con basse tirature, a differenza di quanto accadeva negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Francia, dove si stava affermando, accanto a un’informazione rivolta alle élites, un giornalismo popolare. Mentre in Italia, nel decennio 1860-1870, il numero di quotidiani venduti non superò le 400-450.000 copie complessive, in Inghilterra nel 1860 il solo «Daily Telegraph» vendeva 141.000 copie e negli anni Settanta «News» e «Standards» stampavano circa 200.000 copie quotidiane ognuno; in Francia il «Petit Journal» nel 1865 raggiunse le 259.000 copie. Per avere un termine di paragone, il primo giornale ad ampia tiratura italiano, «Il Secolo» toccò le 100.000 copie solo nel giugno del 1883, in occasione dell’edizione straordinaria uscita per la morte Garibaldi (Govoni 2002, pp. 109-110).

Anche in questo campo persistevano naturalmente i problemi che si sono sottolineati in precedenza: l’analfabetismo, il numero ristretto di lettori, le disparità di condizioni economiche e sociali tra le diverse parti della penisola e tra città e campagna. Come per i libri, inoltre, vi era il problema della distribuzione, e la vendita dei giornali avveniva prevalentemente per abbonamento o nei botteghini delle tipografie e delle librerie. Al tempo stesso, la struttura dell’impresa giornalistica era ancora di tipo artigianale e il grado di sviluppo tecnico modesto. Tuttavia, come per le imprese editoriali, pur nell’arretratezza, a partire dal 1861 il processo di trasformazione che avrebbe portato all’affermazione del moderno giornalismo ebbe il suo inizio.

Prima dell’Unità, era stata Torino, centro della vita politica e culturale, dove la libertà di stampa e di espressione era garantita grazie allo Statuto albertino, ad avere un ruolo di primo piano nel sistema giornalistico del paese: nel 1857 vi erano ben 53 periodici. Nel Regno di Sardegna era diffuso il maggior numero di giornali e riviste: nel 1858 erano 117, mentre erano 68 nel Lombardo-Veneto, 27 in Toscana, 16 a Roma, 50 nel Mezzogiorno (Murialdi 2006, p. 53).

A Torino, nel 1853, con l’appoggio di Cavour, nacque l’Agenzia Stefani-Telegrafia privata, la prima agenzia di stampa italiana fondata e diretta da Guglielmo Stefani, che trasferì la propria sede prima a Firenze e poi a Roma, quando divennero capitali del Regno. E sempre a Torino, nel 1848, apparve la «Gazzetta del Popolo», creata da Giovanni Battista Bottero e Felice Govean, quotidiano liberale di stretta osservanza cavouriana, che rappresentò una novità nel settore, essendo il primo giornale che intendeva rivolgersi a un pubblico popolare: riuscì in quattro anni ad arrivare alle 10.000 copie, che era una tiratura allora tra le più alte. In questa esperienza, che durerà per ben 153 anni, si può vedere, come ha scritto Paolo Murialdi, «il germe del quotidiano d’informazione e di opinione a larga diffusione» (ivi, p. 52).

All’indomani dell’unificazione, poi, oltre a voler raggiungere un numero ampio di lettori, il giornale si propose di andare al di là dei confini regionali, poiché, come scriveva Bottero, direttore del quotidiano dal 1861 e dalla stessa data deputato, in una lettera del 15 aprile 1862, una gazzetta locale, «sia in causa del telegrafo elettrico che precorre i giornali, sia in causa delle antiche divisioni», non poteva più «nel Regno ingrandito esercitare una influenza generale»; anche perché gli stessi partiti erano cambiati: «i grandi partiti ora sono armati, ed è già molto che con un semplice foglio di carta si possa tener fronte alle fazioni potentissime e forti di denaro e di comitati quali ora sono» (cit. in Bricchetto 2004, p. 165). Di conseguenza, il quotidiano torinese si ampliò, con quattro pagine in più, nuove rubriche, il romanzo pubblicato in appendice, l’aumento della pubblicità, che apparve tutti i giorni; e cominciò ad affiancare alla parte politica quella dedicata all’informazione.

Negli anni successivi all’Unità, il lavoro giornalistico non solo continuava a coincidere con la milizia politica o ad essere circoscritto a interessi locali, ma ancora non aveva assunto un carattere professionalizzante. Per molti collaboratori di periodici il giornalismo era una seconda professione, che non dava proventi necessari a vivere: come nel periodo risorgimentale, i giornalisti erano avvocati, notai, insegnanti, medici, ai quali si aggiunsero intellettuali e scrittori. I giornali erano scritti in maniera pesante e noiosa, con un linguaggio da arringa politica, e anche per via delle comunicazioni ancora arretrate – per quanto in fase di miglioramento – non vi erano notizie aggiornate, né tanto meno c’erano inviati speciali o inchieste. La Stefani ancora a inizio Novecento aveva solo dieci succursali e un centinaio di corrispondenti in tutto il paese, per le informazioni dall’estero era collegata con l’agenzia tedesca Wolff, a sua volta collegata con la Reuters di Londra; non solo, gli abbonati continuavano a ricevere le notizie per posta. I quotidiani, inoltre, uscivano spesso senza rispettare la frequenza stabilita, a orari differenti fra loro e anche diversi da quelli indicati.

Il mestiere del giornalista professionista sarebbe nato più tardi (solo nel 1908 nacque la Federazione nazionale della stampa italiana che riuniva tutte le associazioni giornalistiche) e lo stesso lavoro redazionale era svolto in maniera assai artigianale. Per fare un esempio, la lavorazione del «Secolo» – che pure segnerà una svolta nella storia del giornalismo italiano –, secondo il resoconto di un bollettino della Sonzogno (1889), veniva fatta di giorno: i redattori giungevano in ufficio la mattina e trovavano la corrispondenza portata dalla sera precedente, sfogliavano i giornali e ricevevano verso le 11.00 le notizie dall’Agenzia Stefani; rari i telegrammi particolari (la notizia della morte di Mazzini, ad esempio, venne conosciuta due giorni dopo); nel pomeriggio si procedeva all’impaginazione. Il giornale usciva verso le sei e il giorno dopo partiva per la provincia: tempi, come si vede, lunghissimi (Barile 1980, pp. 19-20).

Qualcosa tuttavia cominciò a cambiare per quanto riguardava le finalità dei giornali e i loro destinatari. Il primo a presentarsi con un intento popolare e commerciale, sull’esempio della «Gazzetta del popolo», fu proprio il «Secolo», nato a Milano nel 1866, che sei anni dopo, con le sue 30.000 copie, divenne il più diffuso quotidiano italiano. Grazie all’organizzazione editoriale costruita da Edoardo Sonzogno, il «Secolo» poté essere «uno dei pochissimi esempi di giornalismo indipendente, di ispirazione liberale e democratica con un programma di affermazione commerciale e di informazione» (ivi, p. 14). A differenza del quotidiano moderato «Il Pungolo» e del conservatore «La Perseveranza», espressione entrambi di ristretti gruppi politici, il «Secolo» intendeva rivolgersi a un pubblico allargato, con un’impostazione commerciale, sul modello della stampa francese. Il riferimento era costituito dal «Petit Journal» di Parigi, fondato nel 1863 da Émile de Girardin, un quotidiano non politico, dal formato ridotto e basso prezzo, che dava spazio ai fatti diversi e al romanzo d’appendice.

Il quotidiano milanese fu diretto da Eugenio Ferro, che aveva lavorato alle riviste Sonzogno, poi da Carlo Pisani, giornalista veneto, e dal 1867 da Ernesto Teodoro Moneta, ex garibaldino e futuro premio Nobel per la Pace nel 1907, che lo dirigerà per 30 anni. La novità rappresentata dal «Secolo» rispetto al panorama giornalistico del paese consistette nell’allargare il campo degli interessi, non limitandosi ad essere solo un organo di cronaca politica: fu potenziata la cronaca cittadina, di cui si occupò Carlo Romussi, e maggiore spazio venne dato agli articoli e alle rubriche di varietà e al romanzo a puntate. Man mano, nel corso degli anni, furono apportate ulteriori modifiche atte a renderlo sempre più moderno: fu ampliato il formato, furono utilizzate nuove macchine tipografiche, aumentate le corrispondenze dall’estero, introdotta un’illustrazione in prima pagina, incrementata la parte letteraria e artistica e vennero stampati in appendice due romanzi anziché uno (in maggioranza di scrittori francesi).

Dall’inizio degli anni Settanta il giornale si spostò sempre di più a sinistra, impegnandosi nella battaglia contro la Destra e avvicinandosi decisamente ai radicali. Nel 1875 Sonzogno realizzò la fusione con la «Gazzetta di Milano», già diretta dal fratello Raffaele, che si era trasferito a Roma nel 1870 per fondarvi un nuovo giornale, «La Capitale», nel cui ufficio sarà ucciso da un redattore amante della moglie. La fortuna del quotidiano di Sonzogno cominciò tuttavia a declinare con la nascita del «Corriere della Sera» (1876), di cui con gli anni non fu più in grado di reggere la concorrenza: il quotidiano del pomeriggio diretto da Eugenio Torelli-Viollier, dalle 3.000 copie iniziali passò alle oltre 70.000 di fine secolo, per poi divenire con la direzione di Luigi Albertini il quotidiano italiano più diffuso.

Giornali moderati e di opposizione

Per il retaggio delle precedenti divisioni politiche, oltre che per le difficoltà di comunicazione e i costi della distribuzione, il giornalismo italiano rimase in questa fase ancora a carattere prevalentemente locale e regionale e, come abbiamo detto, di natura essenzialmente politica, articolato in posizioni moderate, liberali, conservatrici o di opposizione.

Tuttavia, anche in seguito agli spostamenti della capitale, la situazione dei quotidiani nelle diverse città si fece più vivace. Con gli anni e la crescente industrializzazione dell’industria tipografica sarà Milano, a partire dall’esperienza del «Secolo», ad avere il maggior numero di periodici, come risulta, ad esempio, dai dati riportati da Orazio Buonvino (cit. in Castronovo 1984, p. 62): dal 1864 al 1873 il capoluogo lombardo passò da 80 a 137 giornali, mentre Torino scese da 100 a 85. Sempre nel 1873 Firenze ne aveva 107, Roma 109, Napoli 81, Palermo 48.

Proprio a Milano, inoltre, nel 1863 nacque, ad opera del farmacista bresciano Attilio Manzoni, la prima concessionaria di pubblicità, per fare da tramite tra giornali e inserzionisti. Fu lui a inventare le necrologie sui quotidiani. L’agenzia ebbe un rapido sviluppo e alla fine degli anni Ottanta aveva aperto filiali a Roma, Napoli, Genova, Parigi, Londra.

Altre significative e longeve esperienze che presero il via tra il primo e il secondo decennio postunitario furono, a Torino, oltre alla «Gazzetta del Popolo», la «Gazzetta piemontese», fondata e diretta da Vittorio Bersezio nel 1867, dalla quale nel 1894 con Alfredo Frassati deriverà «La Stampa»; ancora a Milano «Il Sole» (1865), quotidiano economico e finanziario; a Firenze «La Nazione» (1859); a Roma, dove tra il 1870 e il 1874 sorsero o si trasferirono alcune testate legate alla Sinistra («La Capitale», «Il Diritto», «Il Popolo romano», «La Riforma»), non nacquero invece giornali autorevoli di livello adeguato al ruolo politico della capitale, mentre furono più vivaci le testate letterarie e di costume, come il quotidiano «Il Fanfulla», cui si affiancò il supplemento «Il Fanfulla della domenica», diretto da Ferdinando Martini, protagonista del dibattito culturale di quegli anni. Nel Mezzogiorno e soprattutto a Napoli si diffuse una stampa clericale e filoborbonica, mentre il movimento liberale non riuscì a proseguire la sua azione con efficaci organi di stampa. Il solo quotidiano progressista e di ispirazione garibaldina fu «Roma», nato nel 1862. Buona parte della stampa palermitana si schierò su posizioni autonomiste e di critica al governo, tranne il «Giornale di Sicilia», vicino a Francesco Crispi.

Per quanto riguardava l’opposizione, un ruolo significativo fu svolto dall’intransigentismo cattolico, a cominciare dalla «Civiltà cattolica», organo dei Gesuiti, nata a Napoli nel 1850 e poi trasferita a Roma, e da diversi giornali concentrati soprattutto a Torino («L’Armonia della religione colla civiltà», «Il Mediatore», «La Pace») e Milano («Osservatore cattolico»). A Roma, nell’ottobre 1870, dopo un periodo di soppressione, riprese le pubblicazioni l’«Osservatore romano», portavoce ufficiale della Santa Sede. A partire soprattutto da quella data, nella capitale ci fu un netto sviluppo della stampa intransigente («La Voce della Verità», «La Frusta»), caratterizzata dal rifiuto della nuova realtà politica romana e dal rimpianto della vecchia città papalina. Al rafforzamento della stampa cattolica contribuì l’Associazione cattolico-italiana per la difesa della libertà della Chiesa in Italia, nata nel 1865: i quotidiani cattolici erano sette nel 1860, divennero diciotto nel 1874 (Castronovo 1984, p. 44).

La seconda metà degli anni Sessanta segnò lo sviluppo anche della stampa democratico-popolare, che fu caratterizzata dal progressivo spostamento di una parte cospicua dell’opposizione di sinistra dalle file mazziniane e garibaldine verso l’Internazionale anarchica e verso il socialismo.

Numerosi furono fogli e giornali di ispirazione garibaldina o repubblicana, nati in diverse parti della penisola, mentre cominciarono a sorgere i primi organi popolari legati alle Società di mutuo soccorso («Fede e avvenire» di Milano, «Giornale delle Associazioni operaie» di Genova). Due esperienze democratiche apparse a Milano furono particolarmente significative: il «Gazzettino rosa» (1867), quotidiano politico-letterario, fondato da Achille Bizzoni e Felice Cavallotti e finanziato da Sonzogno, e la «Plebe» (1868), fondato a Lodi da Enrico Bignami e poi trasferito a Milano: inizialmente democratico-mazziniano, divenne l’organo del socialismo legalitario in opposizione al movimento bakuniniano. Le principali testate della stampa internazionalista nasceranno in seguito, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta, nel contesto degli sviluppi organizzativi del movimento operaio, in particolare all’indomani dell’esperienza della Comune parigina: per ricordarne qualcuna, «La Voce dell’operaio» di Roma, «Il Fascio operaio» di Bologna, «Il Proletario italiano» di Torino, «La Favilla» di Mantova, «La Campana» di Napoli.

Sarà soprattutto dalla fine degli anni Settanta – con la nascita a Milano del «Corriere della Sera» – e dal decennio successivo che il panorama dell’informazione si evolverà ulteriormente, venendo segnato da un diverso tipo di giornalismo e dalla nascita di nuove testate, che rimarranno per buona parte le protagoniste del Novecento: «Il Messaggero» e «La Tribuna» a Roma, «Il Resto del Carlino» a Bologna, «Secolo XIX» a Genova, «Corriere delle Puglie» a Bari, «Il Mattino» a Napoli, «L’Ora» a Palermo.

La stampa illustrata

La principale novità che caratterizzò l’editoria e il giornalismo postunitari e che implicò l’intento di rivolgersi a un pubblicò ampio e, al tempo stesso, differenziato, fu data dal fatto che alla produzione di libri – come abbiamo visto – alcuni editori affiancarono quella di riviste e giornali spesso illustrati. In seguito anche alcuni quotidiani cominciarono a introdurre pubblicazioni settimanali dal carattere più divulgativo e variegato.

«Magazzini» illustrati già esistevano dall’inizio del secolo. Il primo in Italia, «Magazzino pittorico universale» di Genova, risaliva al 1834, mentre la prima pubblicazione europea era apparsa due anni prima a Londra: il «Penny Magazine» che, nonostante l’aspetto modesto, ottenne grandissimo successo, divenendo il modello per le esperienze successive. La stampa illustrata conoscerà un’accelerazione più avanti, quando le imprese tipografiche assunsero caratteristiche industriali, dal momento che per la stampa di un giornale con incisioni era necessaria una disponibilità di mezzi che solo un’impresa moderna e tecnicamente avanzata poteva permettersi. In questo settore, poi, l’industrializzazione della stampa illustrata ebbe come conseguenza la «completa professionalizzazione di chi realizzava le immagini» (Giordano 1983, p. 123): si formarono disegnatori che si specializzavano nell’esecuzione di schizzi e che andavano a realizzare le immagini sul posto dove avveniva l’evento da raffigurare; spesso erano poi i disegnatori della redazione a realizzare il disegno sulla tavoletta da incidere. In seguito, la tecnica dell’incisione sul legno fu insidiata dalla fotografia, che avrebbe preso il sopravvento nel nuovo secolo.

Il primo periodico interamente illustrato fu come abbiamo visto «Il Mondo illustrato» (1846), settimanale edito da Pomba con l’obiettivo di diffonderlo in tutta la penisola e di contribuire al processo di unificazione nazionale, che tuttavia durò solo un paio d’anni. In seguito si affermò un genere diverso, l’«Illustrazione», che, sempre sulla base di modelli provenienti dall’estero – Francia e Gran Bretagna in particolare – intendeva offrire un panorama delle attività nazionali contemporanee, una rassegna dei più importanti eventi non solo di cronaca e di politica, ma anche letterari, artistici, mondani, con rubriche dedicate ai viaggi, ai libri, al teatro, alla musica, senza che mancassero romanzi, novelle e commedie, il tutto con numerose e grandi illustrazioni. Tra i primi tentativi in questa direzione ci furono le riviste di Sonzogno e soprattutto quelle di Treves, la cui «Illustrazione italiana» fu, come si è visto, la più importante e diffusa.

Proprio la vasta articolazione al loro interno faceva sì che queste pubblicazioni potessero interessare un pubblico diverso, borghese, colto, professionista, mentre iniziarono a nascere periodici più specializzati, rivolti a determinati potenziali lettori. Come sarà, ad esempio, con la stampa femminile e di moda.

Per quanto le donne fossero in percentuale assai meno alfabetizzate degli uomini e avessero meno possibilità di andare a scuola, tuttavia cominciavano a diventare più che in passato potenziali fruitrici di libri e di riviste. Tra gli editori dediti specialmente alla produzione di riviste di moda e opere letterarie per il pubblico femminile, uno spazio significativo fu occupato dal milanese Alessandro Lampugnani, a partire da «La ricamatrice», poi mutata in «Giornale delle famiglie» e nel 1874 fusa con «Il Corriere delle dame»: con intenti educativi e tono divulgativo, la rivista si articolava secondo un modello che poi sarebbe divenuto tipico del genere, ovvero disegni di moda e modelli, insieme ad articoli di attualità e rassegne di fatti del giorno, con uno sguardo rivolto anche agli avvenimenti politici, poi le rubriche, tra le quali una di corrispondenza con le lettrici. Tra le altre riviste di Lampugani – editore anche di una Guida della famiglia. Guida della ricamatrice. Guida delle ore casalinghe (1859), manuale di base per la gestione della casa – vi furono «Giornale dei modelli», «Giornale dei sarti», «Le ore casalinghe», «Giornale delle fanciulle», «Toletta delle dame». Sempre a Milano, Ferdinando Garbini si specializzò con una produzione quasi esclusivamente rivolta alle donne, oltre che con libri educativi e guide per lavori femminili, con riviste illustrate, alcune delle quali ebbero lunga durata («Il Bazar», «Il Piccolo corriere», «La Moda illustrata», «La Gran moda», «Giornale per le modiste», «Emporio della ricamatrice»). Un altro importante periodico dedicato alla famiglia fu «La Donna e la famiglia», nata nel 1862, sempre con intenti pedagogici, per iniziativa dei cattolici genovesi di segno conciliatorista, al quale si affiancò in seguito un supplemento dedito a consigli pratici nella sfera domestica. Anche Treves cominciò a pubblicare un «supplemento di mode» al «Museo di famiglia» e all’«Universo illustrato» per poi varare dalla fine degli anni Settanta apposite riviste; Sonzogno stampò «Novità», nata nel 1864 e durata ottant’anni, e altre testate che saranno assorbite nell’«Eco della moda». Anche in questo settore fu Milano a conquistare il primato: nel 1868 vi erano ben 13 testate di moda.

Si diffuse, inoltre, un giornalismo culturale, fatto di riviste letterarie e artistiche di varia periodicità, che ebbe una culla importante a Firenze: qui nacque nel 1866 la già ricordata «Nuova Antologia», che riprendeva la tradizione dell’«Antologia» di Giovan Pietro Vieusseux e che è rimasta attiva fino ai giorni nostri. Ad essa collaborarono scrittori e politici di ogni sorta, da De Sanctis a Carducci, da Capuana a Verga, da Pascoli a Pirandello. Nel 1878 fu trasferita a Roma, cambiando periodicità da mensile a quindicinale.

Sarà poi più avanti l’editore milanese Angelo Sommaruga, con il quindicinale letterario «Cronaca bizantina», fondato a Roma nel 1881, a dar vita a una breve ma intensa esperienza, in cui coinvolse gli scrittori più noti del momento, autori peraltro anche dei numerosi volumi pubblicati nel giro di pochi anni dalla sua casa editrice. Da questa esperienza, come dai supplementi domenicali dei quotidiani (tra i primi ci fu nel 1878 il già citato «Fanfulla della domenica»), nasceva un nuovo genere di giornalismo: gli intellettuali, gli scrittori e gli artisti cominciavano a usare strumenti diversi per comunicare con un pubblico più ampio, collaborando con articoli o pubblicando proprie brevi opere su riviste, settimanali e quotidiani, nei quali, a partire dai primi anni del Novecento, una pagina (la terza) sarà dedicata interamente alle questioni culturali. Questi sviluppi appartengono però a una fase successiva, quando i giornali divennero strumenti per la formazione dell’opinione pubblica e il giornalismo divenne un vero mestiere, mentre gli editori avviarono una trasformazione industriale delle loro aziende, usufruendo – come i giornali – del sostegno finanziario di banche e industrie.

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