EDIFICI RELIGIOSI

Federiciana (2005)

Edifici religiosi

Stefania Mola

Quello dell'edilizia sacra in età federiciana è un capitolo che più di altri si presta a generare infinite e irrisolvibili discussioni, a causa dell'evidentemente scarsa (o nulla) predilezione di Federico II nei confronti della fondazione o della costruzione di edifici religiosi. Tra le innumerevoli accuse a lui rivolte, tra le occasioni da lui stesso offerte al biasimo dei contemporanei e alle discussioni dei posteri, questa appare senza dubbio un dato di fatto a prima vista fondato, se confrontato con la fervida attività sul versante dell'edilizia fortificata e residenziale.

Il noto dissenso di Tommaso da Gaeta espresso in una lettera inviata all'imperatore (comprensivo di contrapposizione agli avi normanni) riflette in un certo senso il disagio di chi assiste a ingenti e gravosi (per i sudditi) investimenti su tale fronte, senza che vi sia preoccupazione alcuna almeno per la salvezza dell'anima, cosa di cui erano invece ben consapevoli i "christianissimi reges Siciliae qui etiam et inter bella fundabant ecclesias et monasteria" (Tommaso da Gaeta, 1914, lettera X, p. 18). Sembrerebbe un cambiamento di rotta, ma in realtà, proprio nel perseguire in via prioritaria la direzione delle fortificazioni, Federico si poneva in continuità consapevole con quanto verificatosi in precedenza; semmai, fu il ritmo incalzante di un programma giudicato faraonico a risultare aberrante a Tommaso almeno quanto sembrò a tutti coloro che avevano vissuto la fastosa stagione delle chiese e dei monasteri normanni, con i quali Federico non mostrò mai di voler competere.

Se nessuna fonte elogia dunque l'imperatore per l'attività in questo campo, ben documentati ‒ anche oltre il Regno ‒ sono le lamentele e i rimproveri per aver messo talora in atto distruzioni deliberate di edifici esistenti che ostacolavano, con la loro presenza in un punto strategico del territorio, la realizzazione del programma imperiale. Decisamente pesanti a questo proposito ‒ e a tratti violente ‒ sono le accuse di Gregorio IX e Innocenzo IV tramandateci da biografi pontifici dalla penna affilata, che al disinteresse imperiale per il nuovo aggiungono la proterva inclinazione a distruggere o mandare in rovina l'esistente. Se, in generale, si può parlare di malevole illazioni, non vi è dubbio che in qualche caso chiese o possedimenti ecclesiastici abbiano dovuto soccombere e cedere il posto ad altri edifici: sono documentate, ad esempio, la distruzione della chiesa di Sora nel 1229, l'incuria verso la cattedrale di Lucera, caduta in rovina prima del 1238 (per la quale l'imperatore delibererà poi la ricostruzione, peraltro mai realizzata), nonché la confisca del suolo di proprietà della chiesa dei SS. Cosma e Damiano (se non la distruzione della chiesa stessa) per edificare la domus di Salpi, in Capitanata.

L'incidenza delle possibili committenze è comunque da considerarsi scarsa, vista l'assenza di specifiche di-sposizioni a riguardo, nonché di menzione da parte dei contemporanei. Le motivazioni addotte dal sovrano sembrano orientarsi verso una giustificazione semplice: ciò che si doveva fare era già stato fatto dai suoi avi, come proverebbero la perfetta efficienza delle strutture di età normanna nonché alcuni cantieri ancora attivi in età federiciana, quali quelli del duomo di Cefalù (in via di completamento nel 1223) e del chiostro di Monreale (che getterebbe nuova luce su alcuni reflussi nella scultura pugliese del Duecento).

La netta preferenza per l'edilizia civile e militare non era una novità presso gli Svevi: già il Barbarossa, da committente, si era decisamente orientato verso le residenze a scapito degli edifici di culto. Non secondaria è la valutazione della politica di Federico in rapporto alla Chiesa (con tutti i problemi connessi all'autonomia dalle pretese papali) e agli Ordini religiosi (alcuni dei quali, come i Domenicani e i Francescani, decisamente discriminati rispetto ad altri, ad esempio quelli militari degli Ospitalieri e dei Teutonici che godettero di privilegi del tutto particolari).

In quale modo le scelte culturali e gli orientamenti del gusto convergono negli edifici religiosi del periodo federiciano? In genere, e per le ragioni cui si è accennato, gli interventi si dirigono su edifici già esistenti e fondati in epoca normanna: pensiamo ad esempio al caso di Bari, dove nel cantiere della cattedrale ‒ attivo alla fine degli anni Venti contemporaneamente a quello del castello ‒ fervono i lavori di arredo e abbellimento "con il favore dello stesso Federico e le elargizioni dei cittadini" (Calò Mariani, L'ornato e l'arredo, 1995, p. 385). Allo stesso modo, la politica ecclesiastica di Federico ‒ attraverso il controllo mirato sulle nomine dei vescovi nonché l'attribuzione ad alti prelati di incarichi a corte ‒ si pone in continuità con quella di chi lo aveva preceduto, suggerendo la possibilità di contatti e scambi anche a livello di maestranze tra i cantieri tipicamente imperiali e quelli di fabbriche sacre in via di completamento.

Tuttavia, in quegli anni, la situazione si rivela piuttosto complessa, come dimostra un pur sommario elenco di edifici religiosi 'collegabili' a vario titolo all'imperatore (perché fondati, sostenuti o semplicemente inseribili nel segno della sua 'cultura'). Una sostanziale inoperosità in campo edilizio religioso si registra in Campania, e comunque poche sono anche le chiese di età sveva in Sicilia.

Escludendo alcune fabbriche di area germanica a vario titolo rientranti in questo discorso (come il duomo di Bamberga, la chiesa dei SS. Maria e Giorgio di Francoforte sul Meno e l'abbazia di Ebrach), vanno ricordati: in Puglia, la collegiata-cattedrale di Altamura, purtroppo gravemente compromessa tanto a livello di documentazione quanto come edificio, che vede tuttora aperte le questioni relative al suo impianto originario, alle matrici culturali e alle vicende intercorse tra cantiere svevo e cantiere angioino; e la cappella del castello di Trani, di controversa identificazione, pur se parrebbe facile porla in relazione con alcuni frammenti scultorei di soggetto sacro erratici o diversamente ricollocati all'interno della struttura fortificata. In Basilicata, la cappella del castello di Lagopesole, sulla quale, peraltro, gravano tuttora pareri discordi a proposito della datazione. È l'unico esempio di edificio sacro che possieda una fisionomia definita: aula unica, abside rettilinea contenuta nella parete orientale, portale con sobria decorazione a bastoncelli spezzati e probabile loggia al piano superiore retta da mensole; per certe analogie con le cappelle di alcuni castelli svevi di area germanica (Gelnhausen, Wimpfen, Sponheim, Münzelberg), si è pensato potesse essere stata affidata alle cure dei Teutonici. In Calabria, la cattedrale dell'Assunta di Cosenza, fabbrica di impostazione e caratteri cistercensi, che ha subito nel tempo alterazioni decisive ed evidenti, soprattutto nel capocroce. Il 30 gennaio 1222 è registrata la presenza ufficiale di Federico alla sua (ri)consacrazione, con il dono ‒ dal chiaro significato politico ‒ della famosa e preziosa stauroteca in oro, smalti e pietre preziose, con cui venivano confermati anche i buoni rapporti con i Cistercensi, ordine cui apparteneva Luca Campano, vescovo di Cosenza dal 1201, già scriba di Gioacchino da Fiore a Casamari e poi abate della Sambucina di Luzzi. È possibile che protomagister fosse proprio l'arcivescovo e le maestranze le medesime cui era stata affidata la ricostruzione della Sambucina, di S. Maria di Acquaformosa e dell'abbazia del Sagittario. In Sicilia, la basilica del Murgo, presso Lentini, voluta da Federico forse per trasferirvi i monaci di S. Maria a Roccadia (abbazia di fondazione ruggeriana), negli anni tra 1220 e 1225, e rimasta incompiuta a 3 m d'altezza. Solo il portale, impostato con analoghe misure e struttura di quello più tardo di Castel Maniace, permette di collegarla culturalmente (per possibile committenza o maestranze) con i più evoluti esempi di architettura federiciana; e la chiesa di S. Maria della Valle o della Scala di Messina, più nota come Badiazza, oggi ridotta a un rudere. I segni della possibile committenza imperiale appaiono tuttavia sfuggenti e di scarso rilievo: di certo si sa che il monastero benedettino femminile, già fondato da Ruggero II, fu munificamente sostenuto da Federico tra 1220 e 1225 e trasferito ‒ forse per suo diretto interessamento ‒ ai Cistercensi, ma dal punto di vista dell'architettura ciò che si può desumere dall'edificio (ripetutamente danneggiato da terremoti e alluvioni e a lungo abbandonato) rimanda a un'interpretazione in chiave locale delle novità introdotte dall'Ordine: tre monumentali absidi a vista, capocroce turrito e merlato, inserti arabeggianti, come i raccordi angolari tra i quattro arconi di profilo spezzato che delimitano il grande quadrato dell'incrocio realizzati con un ventaglio di archetti sovrapposti (crollati con il terremoto del 1908).

Al di fuori dei territori meridionali, infine, non va dimenticata la fondazione della chiesa della città-campo di Vittoria, presso Parma, edificata nel 1247 con la dedicazione a S. Vittore e in seguito distrutta.

Se delle fabbriche appena menzionate si conosce un seppur labile legame diretto, non mancano indicazioni per ravvisare in ulteriori edifici echi delle componenti culturali o delle iniziative imperiali. Nel segno della cultura federiciana in Calabria sono da ricordare l'abbazia di S. Maria della Sambucina a Luzzi (soprattutto il portale, conclusione dei lavori di ricostruzione iniziati alla fine del sec. XII) e l'abbazia di S. Giovanni in Fiore nella sua fase conclusiva (decorazione plastica del portale). Oppure la cattedrale di Gerace (ancora per le decorazioni del portale) e l'abbazia della Matina a S. Marco Argentano, nella quale echi federiciani emergono nella seconda fase di ricostruzione che riguarda la sala capitolare e la relativa decorazione plastica: qui Federico sostenne il trasferimento dei Cistercensi della Sambucina all'indomani della frana del 1222. E ancora, in Terra d'Otranto, l'abbazia di S. Maria del Galeso, presso Taranto, testimone della circolazione di motivi cistercensi e filiazione dell'abbazia della Sambucina. O il complesso di S. Nicola di Casole (presso Otranto), la cui abbazia greca fu ricostruita nello stesso giro di anni della basilica del Murgo con non poche assonanze di tipo costruttivo (si confrontino i pilastri polistili dell'incompiuta siciliana con i ruderi pugliesi).

Tirando le fila, i casi di Lagopesole e Trani (seppure con beneficio di dubbio), nonché quello della chiesa vescovile della città-accampamento di Vittoria, già smentirebbero la diffusa convinzione che negli edifici e nelle progettazioni imperiali non fosse in alcun modo previsto uno spazio destinato al culto. Spazio che, in ogni caso, poteva esistere anche in altri castelli o dimore, o nelle città di nuova fondazione oggi scomparse insieme a ogni altra testimonianza. Quel che è certo è che nessuno di questi spazi doveva essere così significativo da richiedere particolari disposizioni a riguardo, tali che fossero ricordate dai contemporanei e tramandate ai posteri.

Nel sostanziale disinteresse verso l'edilizia religiosa da parte dell'imperatore si avverte la conferma di uno spirito pragmatico e tollerante, un carattere 'laico' che non promosse né ostacolò l'attività in questo campo, ponendo comunque come prioritario il proprio progetto politico: se un'eventuale distruzione si verificò fu solo quando di ostacolo ai suoi progetti, come ricorda il caso del castellum di Ordona, a sud di Foggia, diventato poi uno dei casalia popolati da Federico, dove le indagini archeologiche hanno riportato alla luce le strutture di una grande chiesa di probabile fondazione bizantina (tra sec. IX e XI) riadattata a scopo residenziale e poi difensivo dall'imperatore.

Diversamente dalla committenza che lo aveva preceduto, Federico non reputò di fondare, sostenere e/o finanziare edifici religiosi se non per ragioni di opportunità personale, di equilibri politici o di esigenze di culto specifiche, come nel caso delle quattro sinagoghe sorte a Trani, in Terra di Bari, dove la comunità ebraica residente aveva raggiunto in età federiciana dimensioni, presenza e potere economico particolarmente rilevanti. Forse il castello di Lagopesole fu dotato di cappella a causa del suo isolamento, ma laddove una residenza poteva contare sulla vicinanza di una chiesa cattedrale (Foggia, Castel Fiorentino) la possibilità non fu evidentemente neanche presa in considerazione.

Ciò che piuttosto colpisce è che l'indifferenza nei confronti dell'edilizia religiosa riguardi il suo valore rappresentativo e d'immagine (rispetto all'orientamento verso gli edifici fortificati). Federico progettò l'immagine del suo potere al di fuori e oltre gli edifici sacri, e non attraverso di essi come altri sovrani prima e dopo di lui avrebbero consapevolmente scelto; pertanto sono da considerare alla stregua di eccezioni eccellenti le immagini scolpite che lo ritraggono, in un caso, fanciullo insieme alla madre ai lati della Vergine nella lunetta (1198) di S. Maria Maggiore a Monte S. Angelo e, in un altro, sul fianco dell'ambone nella cattedrale di Bitonto (realizzato da "Nicolaus sacerdos et magister" nel 1229), in una celebrazione della dinastia sveva, ovvero nell'atto di riaffermare la sua autorità sovrana sulla città di Bitonto.

Una grande chiesa vescovile, a quei tempi, non poteva d'altronde essere considerata da Federico come rappresentativa (piuttosto antagonista) del potere imperiale. E, tuttavia, questo non influisce su altre scelte, come quelle che riguardano la protezione accordata ad alcuni Ordini religiosi i cui edifici sacri, a livello di immagine, risultavano maggiormente svincolati dai segni del potere ecclesiastico tradizionale e vescovile (Cistercensi, Templari, Teutonici). A volte, attraverso elargizioni e privilegi concessi a chiese e comunità monastiche (cistercensi e florensi in Calabria, fondazioni verginiane come l'abbazia di S. Guglielmo al Goleto, in territorio di S. Angelo dei Lombardi), Federico consentiva di intraprendere il rinnovamento di quegli edifici (Badiazza e abbazia del Murgo, in Sicilia). Proprio nel caso del Goleto, più di una suggestione rimanda legittimamente a Castel del Monte: il complesso monumentale risale al sec. XII, ma la cappella di S. Luca, edificata su un'altra chiesa tra 1247 e 1255 (quindi in anni federiciani e manfrediani), rivela dal punto di vista costruttivo e stilistico in senso lato affinità talmente stringenti con il maniero pugliese da aver fatto ipotizzare la partecipazione delle medesime maestranze o almeno di parte di esse, forse le personalità più eminenti. E qui Castel del Monte vale come riferimento specifico, tanto quanto quel magister Melchiorre da Montalbano, architetto e scultore di formazione meridionale permeata di modi cistercensi a cui già Émile Bertaux proponeva di attribuire la realizzazione della chiesa superiore del Goleto, ravvisando nelle eleganti forme svevo-cistercensi l'eco convincente di quelle che lui stesso indicava come le esperienze di formazione giovanile (cantieri di Castel del Monte, appunto, e Lagopesole). Oggi la critica sembra ancora orientata in tal senso ma con maggiore cautela, assegnando con sicurezza a Melchiorre solo la cattedrale di Rapolla (Potenza) e il pulpito della matrice di Teggiano (Salerno). A queste circostanze va infine aggiunta l'ipotesi di una diretta committenza di Federico per un nuovo portale classicheggiante destinato all'abbazia di Fossanova, edificio per il quale un'epigrafe attestava la fondazione imperiale da parte di Federico I.

Dunque, fino a che punto possiamo continuare a seguire i mille rivoli dell'attività edilizia nella prima metà del Duecento sotto il segno di Federico, tentando di ravvisarne caratteristiche specificamente federiciane? Sulla base delle testimonianze offerte da castelli e fortificazioni, nel riconoscere un'opera come federiciana si stempera ogni possibilità di identificazione individuale, si mescolano progettisti, artefici, modelli e identità, assorbiti dalla volontà unificatrice di un committente che scelse consapevolmente l'architettura civile come maggiormente idonea a restituire forma e valore simbolico al suo potere.

Su queste premesse, a nessun edificio sacro di quel periodo è possibile adattare la qualifica di federiciano, nemmeno alla tanto celebrata cattedrale di Altamura, che della sua epoca di fondazione pare aver conservato ben poco e comunque nulla di caratterizzante e tipico. Come si sa, a breve distanza di tempo dall'inizio dei lavori, quasi contemporaneo al ripopolamento della città (1243), l'imperatore intervenne rivendicando a sé la fondazione avvenuta per rispondere principalmente alle esigenze di culto della nuova comunità. Intervenne appropriandosi del diritto, esteso anche ai suoi successori, di nominare direttamente gli arcipreti, senza che questo conferisse in automatico il ruolo di chiesa palatina alla chiesa altamurana, che solo con Carlo d'Angiò otterrà esplicitamente il titolo di nostra specialis capella già concesso da Federico alla basilica di S. Nicola di Bari. È solo un'ipotesi che, contemporaneamente al risveglio dell'interesse di Federico, possano essersi verificate ripercussioni anche sull'edificio o, quanto meno, un parziale ripensamento da parte sua sul ritorno d'immagine che avrebbe potuto giocare in suo favore attraverso una posizione maggiormente conciliante e disponibile nei confronti della Chiesa e di quella chiesa.

Resta tuttavia il fatto che in nulla la chiesa di Altamura si lega o si pone in rapporto con le architetture che solitamente si indicano come federiciane: non nei modi costruttivi, non nella scultura applicata (vicina alla tradizione locale di Terra d'Otranto e Matera: gli arcipreti successori del brindisino Riccardo, di diretta nomina imperiale, furono per la maggior parte salentini); nessuna eco di marca cistercense o di altri grandi cantieri coevi (Castel del Monte in primis, ma anche i cantieri ecclesiastici di Bari e Bitonto). Almeno così sembrerebbe dopo le gravi manomissioni, anche a livello documentario: ciò che risulta è che fu riparata e ricostruita dopo un non meglio identificato disastro avvenuto nel 1316, ampliata a fine Quattrocento con l'aggiunta di un nuovo coro a ovest, rimaneggiata a metà Cinquecento, infine restaurata e 'reinterpretata' nell'Ottocento. Dati sufficienti per riconoscere il completo stravolgimento della facies medievale, che non sappiamo con certezza essere stata direttamente influenzata dall'intervento di Federico (la fabbrica era comunque già avviata); e se qualcosa di progettato non fu poi realizzato, possiamo ipotizzare che nel Cinquecento riecheggiò (reinterpretato alla maniera locale) nelle due torri svettanti dal sentore così 'oltralpino'.

Quanto detto finora ripropone anche in questa sede la dibattuta questione dei rapporti tra cantieri laici ed ecclesiastici e le reciproche interferenze: la specificità federiciana che informa i primi appare del tutto inesistente nei secondi e nell'arte sacra del periodo, nonostante certe concordanze tra architettura sveva e cistercense vengano sostenute da scambi (peraltro documentati) di magistri tra cantieri, e alcune metodologie, tecniche e modalità costruttive cistercensi conducano fino a Castel del Monte, Lagopesole e ai castelli siciliani dell'ultimo decennio. A meno di non estendere il discorso dall'arte federiciana in senso stretto (arte 'per Federico') a un senso lato che ricomprenda l'arte 'ai tempi di Federico'. In questo caso l'orizzonte abbraccia a trecentosessanta gradi una più vasta rosa di edifici dentro e fuori del Regno (oltre ad alcuni già citati, le cattedrali di Ruvo, Bari, Trani, Bisceglie, Bitonto, Foggia, Lanciano, la chiesa di S. Maria Alamanna di Messina, la cattedrale di Matera e la chiesa di S. Giovanni nella stessa città, l'abbazia di S. Giovanni in Venere e il duomo di Termoli).

Si tratta comunque di un orizzonte troppo vasto, anche per questa specifica sede (soprattutto se integrato da quello comprendente la più caratterizzante architettura civile e militare), diviso tra ricerca di un tratto unitario, caratterizzante, coerente all'interno di un percorso di evoluzione stilistica che permetta di individuare anche i protagonisti, e la tendenza a livellare il tutto, accettando una molteplicità di esiti ed esperienze di segno diverso conviventi negli stessi tempi e negli stessi luoghi anche quando non in armonia tra loro, riflesso fedele della situazione variegata e non omogenea del tempo.

Sulla questione del rapporto tra cantieri imperiali ed ecclesiastici la scarsità e frammentarietà delle sopravvivenze materiali incide in misura determinante. Inoltre, se dal superstite corredo di molte chiese emergono nomi di personalità note, come quelli di Alfano da Termoli, Gualtieri da Foggia, "Nicolaus sacerdos et magister", che essi fossero o meno attivi tra chiese e castelli i documenti non lo dicono, né lo dicono le testimonianze sopravvissute: e le perplessità crescono se si considerano i mediocri risultati espressi nelle mensole erratiche del castello di Trani, o negli archi e nei capitelli nel castello di Bari (compresi i nomi degli artifices che lì si firmano, "Melis de Stelliano" e "Minerrus de Canusia"). Mancano insomma i segni concreti di questo scambio più volte dato per scontato, ad onta della possibilità di postulare realisticamente una simile eventualità.

Una certa omologazione del linguaggio (intesa come affinità di orientamento del gusto tra sfera profana ed ecclesiale) si verifica solo negli ultimi anni di regno dello Svevo all'interno dei grandi cantieri di quel periodo (1239-1250), ma in senso classico e gotico. Uniche tracce all'altezza di quest'ipotesi possono essere considerate le due testine di grifone ritrovate nell'area della cattedrale di Trani e il finestrone della cattedrale di Bari, manufatti in cui si registra un rinnovato orientamento (in senso gotico) della stilistica ornamentale propria degli edifici ecclesiastici, in linea con quanto si andava verificando sull'opposta sponda adriatica tra Spalato e Traù.

I magistri francesi e tedeschi che lavorarono nei cantieri imperiali degli ultimi anni, una volta ritornati nelle loro terre d'origine, lasciarono in Italia meridionale una giovane generazione formatasi sui loro modi e sui loro modelli; è da queste esperienze, infatti, che uscirà e partirà per approdare in Toscana Nicola "de Apulia", meglio conosciuto come Nicola Pisano. La nuova generazione di magistri che si affaccia all'orizzonte tardoromanico è avvertibile ‒ diversamente rispetto al passato ‒ anche nelle architetture sacre, come si evince ad esempio dalla cattedrale di Termoli o dalla chiesa di S. Maria Maggiore di Monte S. Angelo (per quest'ultima vi è l'ipotesi di un passaggio di maestranze dal vicino castello).

Qualche riscontro più specifico ci porta a Foggia, dove la scomparsa del palatium imperiale e gli scarsi legami tra l'arco sopravvissuto (e ad esso pertinente) e gli esiti maturati nel cantiere della cattedrale-collegiata concentrano l'attenzione sull'anomala cripta di sentore cistercense, lasciando aperta l'ipotesi di qualche punto di contatto. Un capitello (indicato come nr. 2, prossimo al semicapitello figurato del lato sud della collegiata) mostrerebbe il segno delle esperienze maturate nei cantieri di ambito svevo-cistercense (corona di otto foglie lobate, quelle angolari a crochets). Le ragioni della diversità e del mutamento andrebbero ricercate nel riflesso delle esperienze che a partire dal 1223 andavano maturando nel cantiere del palazzo federiciano, cui è legata la seconda e conclusiva fase della chiesa (riscontrabile nel capitello della settima lesena del lato meridionale, affine al corredo plastico della cripta).

Spostandoci a Bari, abbiamo visto come il cantiere della cattedrale, sostenuto dal favore di Federico, sia attivo contemporaneamente al castello e con la presenza di Alfano da Termoli, magister vicino ai cantieri imperiali. Differentemente a Troia, in Capitanata, la 'presenza' imperiale, più che nell'ormai superata ipotesi legata ai celebri capitelli erratici con testine angolari, va indagata semmai nella struttura esterna dell'abside della cattedrale. In Sicilia, il portale duecentesco della cattedrale di Catania, oggi rimontato sul prospetto della chiesa del S. Carcere, rivela nettamente la partecipazione alla tradizione ornatistica pugliese congiunta a un fresco naturalismo di stampo federiciano, nel segno di quel superamento dei particolarismi regionali del Sud che effettivamente fu una peculiarità dell'arte federiciana.

Ancora, un riflesso del complesso universo di forme e modelli elaborati all'interno dei cantieri imperiali si può cogliere in alcune abbazie cistercensi o di Ordini ad esse prossimi. Da un certo punto di vista va tenuto conto proprio dell'itinerario compiuto da Nicola Pisano dalla Puglia verso nord, ma anche dell'evoluzione delle più semplici forme aniconiche (come il capitello a crochets nelle sue infinite variazioni): in diretta relazione con la sfera federiciana è la plastica architettonica della migliore arte cistercense in Puglia (S. Maria di Ripalta sul Fortore), con consonanze che portano a Castel del Monte e quindi ai cantieri imperiali 'maturi' (capitello con foglie d'edera e bacche, assimilabile al fauno orecchiuto del castello e ai capitelli naturalistici alla maniera di quelli di Reims e della Sainte-Chapelle). Altri esempi su cui riflettere, ormai lontani dai ristretti confini del Regno (Toscana e Lazio), sono l'abbaziale di S. Galgano, gli innesti nella chiesa di S. Martino al Cimino, l'abbazia di Casamari, il portico della parrocchiale di Priverno nonché il lato meridionale del chiostro di Fossanova (capitello fogliato con testine umane, capitello a crochets e bulbi a giorno, riecheggianti lo stile dei magistri Nicola di Bartolomeo da Foggia e Pietro Facitolo).

Tutto ciò benché la 'migrazione' di questa generazione verso edifici ecclesiastici noti e riconoscibili sia documentata solo in età manfrediana e angioina. La qual cosa, annullando di fatto ogni distanza tra fabbriche civili ed ecclesiastiche (laddove l'intervento di queste maestranze si impegna anche nella costruzione di cappelle all'interno dei castelli da esse stesse riparati), non consente di riconoscere più, nell'ambito dell'edilizia religiosa, tracce qualificabili come autenticamente federiciane.

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