Ecosistemi regolati dall'uomo

Frontiere della Vita (1999)

Ecosistemi regolati dall'uomo

Fabio Caporali
(Dipartimento di Produzione Vegetale, Università della Tuscia, Viterbo, Italia)

La pressione demografica e tecnologica ha influito sensibilmente sugli ecosistemi naturali, modificandone sia la distribuzione sulla superficie terrestre che l'intensità d'uso. I sistemi urbani e quelli industriali rappresentano i casi di massima sostituzione dei componenti naturali degli ecosistemi nativi con componenti antropogenici; i sistemi agrari rappresentano, invece, i casi di massima modificazione di tali componenti. Storicamente, la principale forma di cambiamento d'uso del suolo è stata l'incremento della superficie destinata all'agricoltura. II problema della regolazione degli ecosistemi si pone sia in termini di preservazione degli ecosistemi naturali rimasti, sia in termini di razionalizzazione d'uso degli ecosistemi a diverso grado di antropizzazione. Poiché uno sviluppo sostenibile è soprattutto uno sviluppo di rapporti equi tra uomo e uomo e tra uomo e ambiente, la regolazione degli agroecosistemi dovrebbe essere condotta in modo tale da garantire quattro proprietà fondamentali: produttività, stabilità, pariteticità e sostenibilità.

Regolazione o controllo degli ecosistemi

Il grado di interferenza della componente umana negli ecosistemi è andato aumentando col crescere della pressione demografica e tecnologica. Le esigenze legate ai fabbisogni di sussistenza e di sviluppo delle attività umane come l'agricoltura, l'industrializzazione, l'urbanizzazione e i trasporti, hanno contribuito in modo determinante a modificare gli ecosistemi originari, apportando alterazioni strutturali e funzionali che documentano il grado di interferenza dell'azione umana.

L'interferenza umana tuttavia non è solo spontanea (purposive), come quella delle altre specie, ma è soprattutto voluta (purposeful), in quanto è volontariamente guidata in funzione degli obiettivi perseguiti. Per regolazione o controllo degli ecosistemi intenderemo quindi l'insieme delle interferenze intenzionali esercitate su di essi in funzione degli obiettivi attesi. Il tipo di controllo messo in atto dipende dagli obiettivi prefissati. Mentre il problema degli obiettivi è di tipo culturale e muta in rapporto al grado di maturazione della società, quello della implementazione del controllo investe, invece, questioni metodologiche, come per esempio il raccordo e il coordinamento tra le istituzioni, e problemi tecnici relativi ai meccanismi stessi di controllo messi in atto per modificare struttura e funzionamento degli ecosistemi. La regolazione è un grado di interferenza programmato dal controllore. Quest'ultimo non può prevedere tutte le risposte possibili di un ecosistema influenzato da fattori climatici, singoli organismi, popolazioni e comunità, e quindi caratterizzato da una propria strategia di sviluppo indipendente, prevedibile solo in parte. Pertanto ogni azione di regolazione è inevitabilmente accompagnata da un insieme di effetti non intenzionali o imprevedibili. Di conseguenza è innegabile che il grado di regolazione diventi tanto più consapevole e attendibile quanto maggiore è la conoscenza acquisita sulla gamma di reazioni dell'ecosistema. l recenti sviluppi nelle diverse branche dell'ecologia stanno contribuendo a modificare sia gli obiettivi che i meccanismi di regolazione degli ecosistemi. Purtroppo le conseguenze non prevedibili della passata gestione globalmente hanno determinato una crisi ambientale caratterizzata dall'inquinamento, dal depauperamento delle risorse e dalla perdita di biodiversità, e una crisi sociale con squilibri tra ricchi e poveri, flussi migratori, criminalità e droga. Tali conseguenze richiedono con urgenza nuovi principi di controllo degli ecosistemi che riorientino lo sviluppo umano verso una direzione di sostenibilità.

L'interferenza umana negli ecosistemi

fig. 1

Per spiegare la struttura della realtà, i processi osservati in essa e il ruolo dell'uomo, P.E. Checkland (1981) ha suggerito uno strumento di carattere olistico, denominato systems thinking (pensare per sistemi) che ha sia valenza epistemologica che scientifica. Con questo strumento di analisi della realtà viene individuata una mappa dell 'Universo costituita da cinque diverse classi di sistemi (fig. 1): i sistemi naturali, i sistemi antropogenici fisici, i sistemi antropogenici astratti, i sistemi di attività umana e, infine, i sistemi trascendentali che vanno oltre la conoscenza empirica, cioè non sottoponibili a controllo sperimentale. Le prime quattro classi sono raggruppate insieme in un sovrasistema che potremmo defmire di coevoluzione uomo-natura, mentre quella dei sistemi trascendentali è collocata al di fuori di esso, nell'impossibilità di precisame obiettivamente le relazioni con le altre classi. Il sistema di coevoluzione uomo-natura è in pratica il processo in divenire che definisce la realtà come risultante della confluenza tra storia naturale e storia sociale.

Non deve stupire il fatto che l'uomo con le sue attività venga incluso a pieno titolo nel concetto di ecosistema. Tornando infatti alle prime formulazioni di tale concetto (Tansley, 1935), l'attività umana trova il suo proprio spazio nell'ecologia perché è considerata un fattore biotico estremamente potente che sempre più sconvolge l'equilibrio degli ecosistemi preesistenti e alla fine li distrugge formandone nuovi di differente natura. L'unità ecosistemica comprende quindi il dualismo uomo-natura.

Lo stato di coevoluzione si manifesta con gradualità diversa in rapporto al grado di alterazione dei sistemi naturali attuato con i sistemi antropogenici. l sistemi di attività umana come quelli agricoli, industriali e urbani, sono il risultato di un'attività organizzativa prodotta dai sistemi antropogenici astratti. Questa organizzazione si realizza sostituendo o modificando componenti nativi degli ecosistemi e aggiungendo sistemi antropogenici fisici (manufatti, macchine, ecc.). Nell'attuale momento storico di coevoluzione tra uomo e natura i processi antropogenici hanno acquisito una preminenza tale da costituire l'elemento più rilevante nell'evoluzione degli ecosistemi, sia in scala locale che in scala planetaria. l sistemi urbani e quelli industriali rappresentano i casi di massima sostituzione dei componenti naturali degli ecosistemi nativi con componenti antropogenici. Quelli agrari rappresentano invece i casi di massima modificazione dei componenti naturali degli ecosistemi nativi. In ogni caso lo scopo del cambiamento d'uso degli ecosistemi è quello di aumentame la capacità di sostentamento per le attività umane. Le modifiche di gestione degli ecosistemi si attuano variando l'area e l'intensità di uso. Allo stato attuale si pone pertanto il problema del controllo sia della distribuzione spazio-temporale degli ecosistemi gestiti dall'uomo sia della loro organizzazione interna.

Poiché gli ecosistemi sono sistemi aperti e organizzati gerarchicamente, il controllo o la regolazione si esercitano solo sui livelli gerarchici sotto stanti alla scala di intervento. l livelli gerarchici sovrastanti impongono, invece, le condizioni limitanti, esercitando il 'controllo del controllo'. Una regolazione assoluta degli ecosistemi da parte della componente umana è quindi impossibile, poiché è impossibile il controllo dell'intero sistema planetario che rappresenta l'ultimo controllore. È invece possibile, come purtroppo dimostrato, che gli effetti non intenzionali, che sfuggono al controllo umano, e che si manifestano ai livelli gerarchici superiori rispetto alla scala di intervento antropogenico come l'effetto serra, le piogge acide o il buco dell'ozono, possano agire da vincoli per lo sviluppo di strategie future.

Il controllo della distribuzione spazio-temporale degli ecosistemi

A partire dal 18° secolo, e soprattutto nel 20° secolo a partire dagli anni Sessanta, l'effetto dei cambiamenti d'uso degli ecosistemi è diventato globale. l cambiamenti sono avvenuti diffusamente quasi in ogni parte della Terra e hanno determinato variazioni globali che riguardano caratteristiche comuni del pianeta, come per esempio il clima. È importante sottolineare che i cambiamenti globali influenzano tutte le regioni, indipendentemente dal fatto che solo alcune hanno contribuito a produrli (Houghton, 1994).

tab. I
fig. 2
tab. 2

l sistemi urbani e quelli industriali, pur non occupando grandi superfici rispetto agli altri tipi di ecosistemi, sono caratterizzati dall'impiego di una tale quantità di risorse (energia e materia) e di output prodotti (effluenti gassosi e liquidi, rifiuti solidi, ecc.), da essere comunque considerati tra le principali fonti di cambiamento globale della qualità dei substrati, in particolare aria e acqua. Gli effetti di questo tipo di sistemi hanno messo in discussione la tendenza in atto in tutti i paesi del mondo, sviluppati e non, a concentrare la popolazione umana nelle aree urbane rispetto a quelle rurali (tab. I). Se i paesi in via di sviluppo, dove la crescita demografica è elevata (fig. 2), dovessero mettere in atto lo stesso tipo di sviluppo tecnologico basato sulla combustione delle fonti di energia fossile che ha caratterizzato fino a oggi i paesi industrializzati, le conseguenze ambientali potrebbero essere apocalittiche (Bresso, 1993). La tabella (tab. 2) mette in evidenza, per tre delle più importanti aree del mondo per dimensione e intensità d'uso degli ecosistemi, che il flusso di CO2 da combustibili fossili nelle due aree industrializzate supera di oltre il doppio (USA) e il quadruplo (ex Unione Sovietica) la capacità di fissazione netta dei relativi ecosistemi terrestri, sottolineando che il catabolismo delle società umane moderne supera di molto l'anabolismo degli ecosistemi naturali.

tab. 3

Storicamente, la maggiore forma di cambiamento d'uso del suolo è stata la crescita della superficie destinata all'agricoltura. Diecimila anni fa gli ecosistemi terrestri erano occupati da vegetazione naturale o seminaturale mentre oggi circa un terzo della superficie terrestre è occupato da territori agricoli, soggetti a colture o pascoli (Houghton, 1994). Direttamente o indirettamente, l'umanità utilizza circa il 40% dell'energia solare fissata annualmente mediante la foto sintesi dai produttori terrestri (Vitousek et al., 1986). Attualmente la superficie destinata all'agricoltura ammonta a 4,7 miliardi di ettari, di cui il 30% costituito da colture arative (arboree ed erbacee) e il 70% da pascoli permanenti. La maggior parte dei cambiamenti d'uso del suolo è avvenuta a partire dal 17° secolo (Asner et al., 1997), in modo abbastanza diffuso in ogni regione della Terra (tab. 3) e, per le sole colture arative, metà dell'incremento è avvenuta nel 20° secolo (Houghton, 1994). Di conseguenza, gli ecosistemi terrestri nativi (foreste e praterie) hanno subito una drastica riduzione essendo stati convertiti in agroecosistemi.

La tendenza alla deforestazione per la conversione agricola è praticamente cessata nei paesi della fascia temperata ma continua a ritmo sostenuto nei paesi in via di sviluppo della fascia tropicale. Le stime FAO (Food and Agriculture Organization) del tasso di deforestazione della fascia intera dei paesi tropicali (Houghton, 1994) indicano per la decade 1980÷1990 un valore di 15,4 milioni di ettari per anno, superiore del 36% rispetto al tasso degli ultimi anni Settanta. Questo incremento del tasso di deforestazione risulta però differente nei vari continenti, con il valore maggiore per l'Asia (+93%), quello intermedio per l'America (+32%) e quello minore per l'Africa (+12%). È stato stimato che con questo tasso di deforestazione tutte le foreste tropicali verrebbero eliminate in circa 100 anni (Houghton, 1994).

Gli effetti globali del cambiamento d'uso degli ecosistemi nativi tropicali in agroecosistemi stanno diventando evidenti. Tra di essi vi è l'alterazione del clima connessa allo sbilanciamento del ciclo dell'acqua per la ridotta traspirazione delle piante arboree, all'emissione di gas serra e alla riduzione dello strato di ozono stratosferico (Schimel, 1995; Turner et al., 1997); vi sono poi la perdita di fertilità dei suoli e la relativa diminuzione delle potenzialità agricole, con conseguente abbandono dei terreni a un destino incerto (Houghton, 1994; Asner et al., 1997), e, infine, l'insostituibile perdita di biodiversità, sia a livello di comunità che di specie (Wright, 1990).

l dati riportati in tabella 2 mettono in evidenza il trasferimento di CO2 all'atmosfera a seguito del cambiamento d'uso del suolo da forestale ad agricolo in Brasile. Questo paese presenta in assoluto il più alto tasso di deforestazione, stimato per gli anni Ottanta in 1÷2 milioni di ettari per anno. L'emissione di CO2 deriva dalla combustione della fitomassa incendiata e dalla degradazione di residui carboniosi lasciati al suolo. ln Brasile la produzione di CO2 da questa sorgente è più che doppia rispetto al contributo proveniente dai combustibili fossili. Tale situazione è antitetica rispetto agli Stati Uniti d'America e all'ex Unione Sovietica, gli altri due paesi industrializzati considerati, dove, invece, il solo imponente flusso di CO2 proviene da combustibili fossili ed è praticamente assente quello che deriva dai cambiamenti d'uso del territorio. La stessa attività agricola provoca un ulteriore trasferimento di CO2 all'atmosfera per l'incremento dei processi ossidativi della sostanza organica, dovuto alla lavorazione del suolo; questo contributo è particolarmente accentuato nei climi caldi e umidi come quelli tropicali. Complessivamente, la deforestazione per l'agricoltura e l'agricoltura stessa producono in Brasile un flusso netto di CO2 verso l'atmosfera pari all'86% del flusso globale del paese. Il trasferimento complessivo di CO2 all'atmosfera da parte degli Stati Uniti d'America, derivante dai soli combustibili fossili, è tuttavia circa quattro volte superiore rispetto a quello del Brasile. Considerata anche la diversa entità della popolazione, pari a 263 milioni per gli Stati Uniti e a 150 milioni per il Brasile, quest'ultimo risulta un produttore netto di CO2, molto meno importante rispetto al primo sia globalmente che pro capite.

Questi dati testimoniano i grandi contrasti tra i modelli di sviluppo di paesi con un diverso grado di industrializzazione e nello stesso tempo invitano a riflettere sulle eventuali connessioni che li hanno determinati. La 'fame' di terra per scopi agricoli nelle zone della fascia tropicale è un segno di appetiti insoddisfatti anche in altre zone del pianeta.

L'agricoltura come sistema di attività umane

fig. 3

L'agricoltura è un sistema di attività umane che deriva dalla integrazione dei sistemi naturali con i sistemi antropogenici, sia di tipo astratto che di tipo fisico (fig. 3). Tale sistema è il prodotto di una rete di connessioni sociali che collegano tutti i nodi importanti (boxes) attraverso cui l'informazione è elaborata e distribuita. Essa converge in un nodo operativo centrale costituito dagli agricoltori che operano negli ecosisterni nativi trasformandoli in agroecosistemi.

La rete di connessioni sociali che ruota attorno agli agricoltori è costituita a sua volta da una rete di interazioni tra entità istituzionali importanti (politica e amministrazione, ricerca e formazione professionale, industria e commercio, consumatori) che forma il contesto informazionale e che alla fine determina le scelte degli agricoltori. L'attività dell'operatore agricolo deriva quindi dal confronto tra il proprio quadro informativo individuale e il quadro informativo istituzionale. L'attività degli agricoltori interessa segmenti territoriali elementari ben definiti (aziende agrarie), e questi nel loro insieme costituiscono un mosaico di tessere che caratterizza l'ambiente rurale nel suo complesso. In Italia, circa tre milioni di aziende agrarie coprono complessivamente un territorio pari a circa tre quarti della superficie nazionale.

Il territorio nativo sul quale si esercita l'attività agricola è l'ecosistema naturale soggetto alla modificazione antropogenica; la risultante unità territoriale di coordinazione è definita agroecosistema. In analogia con gli ecosistemi, anche gli agroecosistemi sono distribuiti lungo un gradiente continuo di gerarchie che va dal microambiente in prossimità della pianta agraria al macroambiente rappresentato dalla regione agraria. L'unità operativa elementare in agricoltura, ossia l'azienda agraria, può essere utilmente considerata come l'agroecosistema che rappresenta l'effettivo punto di incontro tra gli interessi dell'uomo, volti a indirizzare a proprio vantaggio la produttività degli ecosistemi naturali, e la strategia dei sistemi naturali, volta al mantenimento della comunità climax, cioè alla stabilità del sistema, alla conservazione delle risorse e alla diversificazione biologica (Caporali, 1991).

Attraverso la crescente globalizzazione delle comunicazioni, dell'economia e della politica, il contesto ambientale informazionale sta praticamente permeando l'intero pianeta tramite accordi internazionali di politica agraria e commercio tra stati o aggregazioni di stati, attività di società multinazionali nei settori strategici delle biotecnologie e dei supporti meccanici e chimici all'agricoltura, e così via. Oltre al condizionamento globale delle attività umane di impronta naturale operato dal clima si sta imponendo un condizionamento altrettanto globale da 'clima culturale' di impronta umana. Quindi le agricolture nazionali, che tradizionalmente trovavano nello stato il principale elemento di controllo, oggi traggono ulteriori elementi di condizionamento dal più ampio sistema di relazioni internazionali in cui sono collocate.

Il controllo dei cambiamenti d'uso degli ecosistemi sembra un problema apparentemente risolto a livello dei paesi industrializzati, che attualmente mantengono costante la distribuzione tra i diversi tipi di ecosistemi. Tuttavia costituisce un problema nei paesi della fascia tropicale dove meccanismi di tipo sia locale che internazionale concorrono nel favorire la deforestazione. l primi sono legati al progressivo incremento demografico, correlato alla condizione di povertà, e alla pressione di moltitudini di popolazioni senza terra (landless) escluse dal diritto di proprietà nei propri paesi, dove la maggior parte del territorio è in mano a un'esigua minoranza di proprietari. l secondi sono invece connessi alle esigenze del commercio internazionale, volto a rifornire i paesi ricchi di prodotti agrari a basso prezzo, e alle esigenze dei paesi poveri, che devono espandere la produzione agricola da destinare all'esportazione per risanare il debito nazionale. Quindi, una delle principali cause del cambiamento d'uso degli ecosistemi nella fascia tropicale è correlata alla ineguale distribuzione della ricchezza e del potere tra paesi sviluppati e non e tra differenti segmenti di società all'interno dei paesi tropicali (Houghton, 1994). Per porre freno alla tendenza distruttiva verso gli ecosistemi naturali del pianeta, occorre agire sulle cause prime che l 'hanno determinata, ossia sui valori che hanno orientato lo sviluppo delle relazioni uomo-uomo e uomo-ambiente nelle società umane.

L'orientamento dei sistemi di attività umana nel passato

Riconoscere i vincoli che i sistemi antropogenici astratti pongono allo sviluppo dei sistemi di attività umana è fondamentale per interpretare il passato e per stabilire l'orientamento futuro. In pratica il tipo di gestione dell'ambiente dipende strettamente dal quadro culturale che lo interpreta, ossia dai paradigmi (o sistemi di valori) dominanti che si affermano durante lo sviluppo culturale delle società umane. Il paradigma tutt'oggi dominante, che fonda le sue radici nel dualismo cartesiano tra uomo pensante (soggetto) e natura pensata (oggetto), ha determinato una forte attitudine a vedere l'uomo come dominatore di una natura ricca di risorse da sfruttare e sottomessa. Di conseguenza si è affermata una teoria della gestione dell'ambiente (economia) in cui questo è considerato un serbatoio illimitato sia per le risorse da cui attingere che per i rifiuti da scaricare. L'attività di produzione di servizi volti al mantenimento delle condizioni di abitabilità di questo pianeta (Westman, 1977) non è stata riconosciuta e quindi non è stata fino a oggi protetta. Solo la recente visione ecologica sta correggendo questa falsa interpretazione e determinando l'insorgenza di un nuovo paradigma, quello dello sviluppo coevoluzionario (Norgaard, 1984) o sviluppo sostenibile dei sistemi di attività umana. Attualmente si confrontano due tipi di paradigmi diversi per il modo di pensare e per i sistemi di valori che sottendono: quello dell'egoasserzione e quello dell'integrazione (Capra, 1996). Il primo deriva da una posizione di alienazione e di dominio dell 'uomo sulla natura, il secondo dal riconoscimento del senso di appartenenza al tutto che l'ecologia sistemica, invece, suggerisce e che sfocia nel riconoscimento del principio di responsabilità (Jonas, 1993) per l'uomo nei confronti della natura e di se stesso.

Come conseguenza dell'affermazione del sistema di valori legato al paradigma dell'egoasserzione, la storia dello sviluppo della società umana negli ultimi secoli si è contraddistinta per il progressivo orientamento della società verso la produzione di beni materiali, fino a un consumismo esasperato. Questo processo ha causato inevitabilmente un progressivo sfruttamento delle risorse planetarie, in primo luogo quelle energetiche di qualsiasi tipo, e un progressivo inquinamento dell'ambiente, dovuto all'eccessiva produzione di rifiuti metabolici rispetto alla capacità di riciclaggio dei processi naturali.

fig. 4

Nessuna fonte energetica immagazzinata (fig. 4) si sta salvando dal saccheggio umano generalizzato. l combustibili fossili sono stati e vengono largamente impiegati per attivare lo sviluppo industriale, i trasporti e l'urbanizzazione; anche l'agricoltura contribuisce alloro uso soprattutto per le quote concernenti la costruzione e l'impiego di macchine agricole e di composti chimici di sintesi a elevata richiesta energetica, come i concimi azotati. Le biomasse forestali (a stoccaggio da decennale a secolare), oltre che essere sovrasfruttate per la produzione di legno e legna da ardere, sono state, e vengono continuamente, sostituite da agroecosistemi. Quelle accumulate nei suoli delle praterie, o anche nei suoli agrari di lunga storia, come sostanza organica a lenta decomposizione (humus), sono state e vengono attaccate, rispettivamente, per far posto a nuovi agroecosistemi o per intensificare l'uso di quelli preesistenti. L'attacco ai legami organici del carbonio comunque presenti in natura è così generalizzato da identificare nell 'umanità uno stato patologico defmibile come 'fame di carbonio', che rischia di minare le basi stesse della sopravvivenza umana.

Per invertire questa tendenza è necessario un cambiamento culturale nella direzione del paradigma della integrazione, che identifica nell'ambiente un bene complessivo e collettivo. Complessivo perché l'interdipendenza domina e l'ambiente non è in realtà scindibile nelle sue parti, e collettivo perché è un bene di tutti, e tutti hanno il diritto di goderne, il dovere di conservarlo e, se possibile, migliorarlo. Queste posizioni culturali stanno cominciando a incidere sul paradigma dominante dell'egoasserzione, come dimostra, per esempio, la recente evoluzione del concetto chiave di benessere, che ha rappresentato l'obiettivo primario da raggiungere nella teoria della gestione dei sistemi di attività umana (Bernetti e Casini, 1995). Da un concetto di benessere legato da principio al livello di utilità (teoria utilitarista) e successivamente al possesso di beni e servizi (approccio dell'opulenza) si è passati oggi (teoria della libertà) a un concetto di benessere come un valore culturale che pone l'accento su ciò che possiamo o non possiamo fare, su ciò che possiamo o non possiamo essere. Le merci vengono quindi relegate a semplici mezzi rivolti ad altri fini e lo scenario ambientale entra a far parte integrante del concetto di benessere come bellezza dei valori naturali, miglioramento della qualità ambientale, riduzione dell'inquinamento ed equità intergenerazionale.

L'umanità tende a convertire gli ecosistemi naturali in agroecosistemi, ossia in sistemi organizzati per convogliare l'energia solare a suo beneficio. Probabilmente, anche da un'organizzazione degli agroecosistemi basata sui criteri di compatibilità ambientale e sociale si potranno trarre gli elementi utili per impostare l'organizzazione dell'intera società sui criteri di sostenibilità. In questo caso l'agricoltura potrebbe svolgere anche la funzione di 'maestra' di ecologia (Caporali, 1991).

Regolazione degli agroecosistemi

L'organizzazione degli agroecosistemi avviene in funzione degli obiettivi perseguiti. La precisazione degli obiettivi di un sistema di attività agricola precede ogni tipo di progettazione e quindi ogni tipo di regolazione degli agroecosistemi. La scelta degli obiettivi dipende dal quadro culturale dominante che stabilisce le soluzioni pratiche adottate per l'implementazione degli agroecosistemi. Nell'era dell'industrializzazione l'obiettivo principale è stato quello di massimizzare il profitto dell'impresa agricola attraverso la massimizzazione delle produzioni agrarie, sia vegetali che animali. L'intero sistema agricoltura (misure politiche e finanziarie, sviluppo della ricerca e della industria, professionalità agricola e gusto dei consumatori) è stato orientato in questa direzione. Attualmente, questo orientamento viene messo in discussione per gli effetti che ha generato nei paesi industrializzati e per le implicazioni a livello mondiale. Tali effetti interessano il piano della produzione, con eccedenze di prodotti agrari che non hanno mercato, dell'impatto ambientale, con la perdita di fertilità dei suoli, la perdita di biodiversità, l'eutrofizzazione e l'inquinamento delle acque, ecc., che si traducono in costi sociali aggiuntivi (esternalità), e, infine, il piano delle conseguenze sociali come l'esodo rurale da aree montane o collinari e l'incremento dei flussi migratori (Ammassari et al., 1997). Alla luce di queste conseguenze inattese e della visione sistemica promossa dalle conoscenze ecologiche, il quadro di riferimento degli obiettivi perseguiti è divenuto più ampio, coinvolgendo sia aspetti sociali che ambientali, ed è stato orientato più verso la qualità che verso la quantità dello sviluppo agricolo. Sia nella legislazione che nei curricula delle istituzioni formative più importanti dei paesi avanzati, come le università, si intravedono segni tangibili di cambiamento che mirano a reimpostare la formazione culturale e professionale, e quindi il comportamento, di tutti i componenti del sistema agricoltura (dagli agricoltori ai consumatori) secondo i criteri di ecocompatibilità. Nella legislazione della Unione Europea, per esempio, a partire dal 1985 sono stati introdotti regolamenti comunitari (culminati nel regolamento 2078 del 1992) accompagnati da misure finanziarie in favore dell'agricoltura ecocompatibile, cioè di una agricoltura che secondo la ASA (American Society of Agronomy) migliora la qualità dell'ambiente e le risorse naturali dalle quali dipende; fornisce cibo e fibre per i bisogni umani; è economicamente valida; migliora la qualità della vita per gli agricoltori e per l'intera società. Sul fronte universitario, curricula comuni sono ormai pronti e offerti a diversi livelli di specializzazione da consorzi di università europee nell'ambito di programmi comunitari, che prevedono anche la mobilità di studenti e docenti tra le varie sedi consorziate.

fig. 5

Per raggiungere gli obiettivi attesi di carattere sociale e ambientale, gli agroecosistemi devono essere organizzati facendo riferimento a quattro proprietà fondamentali (Conway, 1987): produttività, stabilità, pariteticità, sostenibilità. Queste proprietà emergono quando l'agroecosistema viene considerato come un'entità territoriale organizzata da una mente ordinatrice che mette insieme risorse fisiche e biologiche, native e importate, per soddisfare esigenze personali e sociali. Il modello strutturale di agroecosistema riportato in figura (fig. 5), che può essere applicato per motivi di studio a qualsiasi scala dimensionale, è particolarmente utile per l'azienda agraria, l'unità territoriale elementare socialmente rilevante, attraversata da flussi di idee, di energia e di materia. Contesto ambientale e agroecosistema sono collegati da scambi di input e output che riguardano l'informazione culturale cioè i valori della società e dell'agricoltore, l'informazione socioeconomica cioè i flussi frnanziari, l'informazione tecnica per la gestione di colture e allevamenti, l'informazione genetica derivante dall'evoluzione biologica e collegata all'uso delle colture e degli animali e, infine, i flussi di energia e di materia. Questi ultimi si verificano sotto forma di input naturali, come radiazione solare o pioggia, di input artificiali, come macchine, concimi e fitofarmaci, oppure di output naturali come correnti idriche e aeree e, infine, di output seminaturali, come le produzioni agrarie esportate per il mercato. L'ecosistema nativo subisce una radicale trasformazione strutturale e funzionale per l'inserimento dei nuovi componenti selezionati dall'uomo e per la loro organizzazione spazio-temporale, che avviene secondo i criteri di gestione derivati da tutti gli input di informazione citati.

Produttività

fig. 6

La produttività riguarda la capacità degli agroecosistemi di immagazzinare l'energia solare sui campi coltivati sotto forma di biomassa delle colture, successivamente sfruttabile per ulteriori trasformazioni come le produzioni animali (carne, latte, lana, ecc.), a beneficio dell'uomo. Ogni campo coltivato può essere considerato una centrale solare che funziona attraverso l'attività foto sintetica delle colture. L'insieme dei campi coltivati che costituiscono un'azienda agraria determina la capacità di questa di immagazzinare energia solare. La caratteristica principale degli agroecosisterni è che parte dell'energia e della materia, sotto forma di biomassa accumulata, lascia il sistema come raccolto per essere esportata sul mercato. Il modello funzionale di base (ossia riferito allo sfruttamento del flusso della radiazione solare) di un agroecosistema a livello di una azienda mista (con produzione vegetale e animale) è rappresentato nella figura (fig. 6). Il flusso di energia radiante attiva catene di pascolo (colture-bestiame-uomo) e di detrito (residui colturali e degli allevamenti animali-colture), attraverso l'integrazione dei tre componenti principali dell'agroecosistema (le colture, gli animali in allevamento e il suolo). La fertilità del suolo, che è l'elemento chiave per l'espressione produttiva delle colture, è fortemente influenzata dal grado di integrazione tra colture e allevamenti animali, oltre che dalla tipologia stessa delle singole produzioni.

La produttività di un agroecosistema come un'azienda agraria dipende dall'interazione di tutti i fattori naturali e di quelli antropici che concorrono alla sua gestione: le caratteristiche del clima, del terreno e della pianta, il modo in cui le colture sono disposte nello spazio (monocolture o consociazioni) e nel tempo (avvicendamenti liberi o rotazioni fisse) e, infine, il modo in cui le colture interagiscono con gli allevamenti animali, per esempio, attraverso il riciclo colturale delle deiezioni. Inoltre, affinché le biomasse possano accumularsi sui campi, è necessario garantire la loro difesa dagli eventuali attacchi dei predatori e dei parassiti nativi, in particolare dai fitofagi e dai fitopatogeni. Tutti gli interventi di gestione colturale, dalla semina alla raccolta, vengono effettuati con macchine o materiali che richiedono energia per la loro costruzione e il loro funzionamento. Con l'espressione energia ausiliaria si intende tutto il complesso dei sussidi energetici necessari alla gestione delle aziende agrarie che derivano dall 'utilizzazione di combustibili fossili.

La produttività dell'agroecosistema è in realtà un processo di trasformazione di input in output (beni e servizi); di conseguenza è opportuno esprimere la sua misura in termini di efficienza di trasformazione degli input impiegati in output prodotti. Accanto al consueto modo di esprimere la produttività come sostanza secca, energia, proteine, ecc., per unità di area e unità di tempo (che sottolinea l'importanza del suolo come risorsa nativa), è possibile esprimerla sotto forma di intensità d'uso di ciascuna risorsa impiegata, calcolando, per esempio, il rapporto tra input e output per l'energia, il capitale, la manodopera, ecc. In questo modo è possibile misurare l'efficienza di trasformazione del sistema e ottenere indici numerici molto utili per valutare la sostenibilità, l'altra proprietà fondamentale degli agroecosistemi. La produttività degli agroecosistemi è altamente regolabile attraverso interventi diretti sui componenti fondamentali (colture, bestiame, suolo) e sul loro grado di integrazione, e attraverso il tipo e l'entità di input immessi. La storia recente dell'agricoltura dimostra come l'obiettivo principale perseguito nell'era dell'industrializzazione sia stato la massimizzazione delle rese colturali e degli allevamenti animali. Il punto centrale su cui più si è concentrata l'attenzione è stato la coltura e l'allevamento piuttosto che il sistema che li comprendeva; di conseguenza l'azienda agraria è stata interpretata più come un'aggregazione di colture e di allevamenti che come un sistema integrato. In tale prospettiva, anche una sola coltura o un solo allevamento hanno potuto costituire singoli agroecosistemi, sotto forma di aziende monocolturali arboree o erbacee o sotto forma di allevamenti animali monospecifici, perseguendo l'obiettivo della massima specializzazione in funzione del supposto massimo controllo del sistema e del massimo profitto economico dell'impresa. Tutto ciò è stato possibile grazie a elevati input esterni di energia e di materia a basso costo, perché non gravati delle esternalità che producono, da trasformare in elevati output esterni, in parte attesi (elevate produzioni agrarie) e in parte inattesi (effetti ambientali negativi, che hanno causato esternalità a carico dell'intera comunità vivente). Il funzionamento degli agroecosistemi è stato palesemente reso lineare, organizzando i processi produttivi agrari secondo gli stessi criteri che operano nelle fabbriche e trascurando totalmente il ruolo dell'ecosistema nativo, dei suoi componenti fisici e biologici e dei suoi processi ciclici e integrati a sostegno della vita. L'esaltazione della produttività, intesa come aumento delle rese per ettaro o per capo di bestiame allevato, e celebrata come una grande conquista sociale (rivoluzione verde), è potuta avvenire a scapito delle risorse di energia e di materia del pianeta e a scapito della sua qualità ambientale, proprio perché non è stata interpretata come rapporto tra input impiegati e output generati durante il processo produttivo. Lo stesso patrimonio genetico delle piante e degli animali da allevamento, frutto dell'evoluzione biologica e della selezione umana in condizioni ambientali specifiche, è stato profondamente modificato e uniformato a condizioni colturali caratterizzate da alti input, sia per sostenere che per difendere la produzione agraria. Diversi ecotipi e razze locali di colture e animali da allevamento, selezionati da generazioni di agricoltori per la loro resistenza e per la loro capacità a valorizzare ambienti in cui le condizioni climatiche e pedologiche sono difficili, sono stati sostituiti da nuovi genotipi le cui prestazioni sono buone solo se vengono accompagnati dal pacchetto di interventi tecnici previsti a loro sostegno, mentre sono a rischio qualora gli input siano inadeguati o in condizioni di forte stress ambientale. La perdita di diversificazione biologica, introdotta dal controllo industriale dell'agricoltura sia all'interno degli agroecosistemi che all'interno dei suoi stessi componenti, rappresenta una grande minaccia per le altre tre proprietà fondamentali degli agroecosistemi: la stabilità, la sostenibilità e la pariteticità.

Attualmente, un nuovo importante strumento per modificare le capacità produttive delle specie agrarie, sia vegetali che animali, è rappresentato dalle biotecnologie (v. il saggio di W. Marconi, Lo sviluppo di biotecnologie per l'ambiente), tecniche di ingegneria genetica capaci di trasferire frammenti di DNA tra organismi completamente differenti. Se l'introduzione massiccia delle biotecnologie in agricoltura avverrà nell'ottica degli agroecosistemi ad alti input, come, per esempio, avviene nel caso di colture agrarie modificate per la resistenza all'uso degli erbicidi, l'impatto ambientale, sanitario e sociale non potrà che peggiorare. Se invece le colture verranno modificate per conferire una maggiore resistenza agli stress ambientali (freddo, caldo e scarsa disponibilità idrica) o agli attacchi da agenti nocivi (fitofagi e fitopatogeni), nell'ottica di ridurre gli input di energia ausiliaria (irrigazione, concimi azotati, pesticidi, ecc.), allora le biotecnologie potranno offrire un importante contributo per l'affermazione di un'agricoltura compatibile. Questo tipo di agricoltura, a forte impronta locale per qualità dei prodotti e dei processi di produzione, potrà quindi rivelarsi fondamentale per lo sviluppo rurale e per la promozione e la difesa delle risorse umane e del territorio.

Stabilità

Mantenere elevati e costanti i livelli di produttività è un importante obiettivo dell'attività agricola in ogni parte del mondo. Nell'accezione più comune, la stabilità, o costanza di produttività, è il grado di fluttuazione delle rese in risposta ai cambiamenti a breve termine delle condizioni climatiche, colturali e di mercato. Il concetto di stabilità a breve termine può essere tuttavia allargato per comprendere il grado di fluttuazione di altri output connessi alla coltivazione, per esempio, le perdite di disponibilità idrica dall'agroecosistema, il grado di erosione, la disponibilità di elementi nutritivi o di pesticidi, che possono a loro volta condizionare le decisioni e le attività di regolazione dei livelli di produttività colturale. La stima sull'entità delle perdite può essere effettuata applicando modelli che simulano scenari tanto più credibili quanto maggiore è l'accuratezza dei dati ambientali e colturali inseriti nei modelli come base di conoscenza.

Il grado di fluttuazione degli output può essere in parte controllato dall'agricoltore attraverso le operazioni di gestione che intervengono sui più importanti fattori limitanti la produttività, cioè la disponibilità idrica, la fertilità del suolo e la difesa dalla competizione di erbe infestanti, fitofagi e fitopatogeni. L'andamento climatico è di per sé variabile e prevedibile solo su base statistica. Di conseguenza, le limitazioni climatiche sono più subite che regolate, anche se qualche intervento diretto, come l'irrigazione, può contribuire ad aumentare la disponibilità idrica per le colture. Tuttavia l'irrigazione presuppone una rete di distribuzione dell'acqua organizzata a livello extraaziendale e condizioni finanziarie aziendali che consentano di sopportarne i costi di impianto e di esercizio. Queste condizioni spesso non sussistono. Per garantire in ogni caso una stabilità di produzione in rapporto alla variabilità climatica e ai conseguenti cambiamenti della fertilità del suolo e dell'aggressività dei competitori (erbe infestanti, fitofagi e fitopatogeni), è importante organizzare sistemi colturali che per la scelta delle specie e per la loro organizzazione spazio-temporale rispondano il meglio possibile agli stress ambientali. Alcuni principi generali riguardanti questa strategia sono applicabili a qualsiasi scala di intervento intraaziendale, cioè per l'organizzazione dell'intera azienda, dei suoi sistemi colturali e di ciascuna coltura o campo coltivato. La base comune a questi principi di organizzazione è quella di assicurare comunque diversità al sistema da implementare.

A livello di agroecosistema aziendale il maggior grado di diversificazione può essere assicurato dall'agricoltura mista, cioè da una contemporanea produzione vegetale e animale. In questo caso le interazioni che si stabiliscono tra le colture e il bestiame allevato, per la complementarità virtuosa tra catena di pascolo e catena di detrito, favoriscono il ritorno al suolo delle deiezioni compostate (letame). Questa integrazione aumenta il contenuto di sostanza organica del suolo, favorendo il trattenimento dell'acqua e tutti i processi microbiologici che presiedono alla nutrizione delle piante e alloro buono stato sanitario. In caso di agricoltura mista, i sistemi colturali devono prevedere estese coltivazioni foraggere poliennali, usualmente leguminose come erba medica e trifogli poliennali, che non sono presenti nelle sequenze più semplificate delle colture in aziende a sola produzione vegetale. Per rimanere in stato 'sodivo' (senza lavorazione) per gli anni della loro durata (da 2 a 4, normalmente), esse favoriscono nel terreno la fase di umificazione rispetto a quella di mineralizzazione, aumentando il contenuto di sostanza organica del suolo e i benefici a esso collegati.

tab. 4

Le leguminose hanno infatti la capacità di ripristinare le risorse nutritive dei suoli, tramite la fissazione di azoto che viene così reso disponibile per le colture successive. Il beneficio di questo rilascio di sostanze azotate disponibili perdura alcuni anni e opera come un forte elemento di regolazione interna al sistema per il mantenimento della stabilità delle rese. La tabella (tab. 4) riporta dati significativi a questo proposito, derivati dal confronto tra sistemi colturali in ambiente mediterraneo caratterizzati da presenza o assenza di erba medica nella rotazione colturale. Il mantenimento delle rese colturali sui valori attesi si è realizzato automaticamente per tutte le colture con la precessione di erba medica e senza trattamenti con composti di sintesi (erbicidi e concimi azotati). Risultati simili in assenza di erba medica sono stati ottenuti ricorrendo all'uso (importazione nel sistema) di concimi azotati. Questi ultimi, tuttavia, non si sono rivelati efficaci nel caso di andamento climatico sfavorevole, come mostrano le produzioni di grano duro nel 1989, un'annata siccitosa. l dati suggeriscono che il mantenimento della stabilità delle rese nel sistema colturale può essere conseguito o con un input informativo (organizzazione di un'opportuna sequenza di colture) oppure con un input di energia e di materia dall'esterno (concimi azotati ed erbicidi), che ha però un costo economico, un esito incerto e un impatto ambientale aggiuntivo costituito dalla depressione della produzione delle colture successive conseguente all'applicazione di erbicidi.

La presenza delle colture foraggere poliennali nei sistemi colturali garantisce inoltre ulteriori elementi di stabilità per le rese (su valori alti) e per gli altri output (su valori bassi): fondamentali, per esempio, l'azione di contenimento delle erbe infestanti, dei fitofagi e dei fitopatogeni delle colture agrarie (che prosperano nei casi di monocolture o di colture molto ravvicinate nella sequenza colturale) e la riduzione dello scorrimento superficiale delle acque (run-off), dell'erosione, della perdita di elementi nutritivi e di diffusione ambientale di pesticidi.

Infine, anche a livello di una singola coltura o di un campo coltivato, possono essere conseguiti alcuni vantaggi per la stabilità delle rese se vengono adottati criteri per favorire un certo grado di diversificazione interspecifica (consociazione di specie diverse) oppure intraspecifica (consociazione tra varietà o ecotipi). Nel primo caso viene sfruttata la complementarità ecologica di specie che hanno esigenze differenti relative alla nutrizione (per esempio, consociazione di graminacee con leguminose), al portamento (colonizzazione dello spazio aereo) o all'esplorazione del suolo (colonizzazione radicale di strati differenti). Nel secondo caso la complementarità si realizza tramite la risposta differenziale dei diversi genotipi alle variazioni climatiche, agli attacchi dei parassiti e a quelli dei predatori.

Pariteticità

La pariteticità si riferisce alle relazioni sociali che si instaurano quando l'agroecosistema è in atto. Pariteticità significa pari opportunità, ossia uguale accesso alle risorse per l'agricoltura e ai benefici dell'agricoltura.

Per quanto concerne le risorse, la prima da considerare è la stessa terra, dal cui uso dipende la possibilità di esercitare l'agricoltura. Come già sottolineato, l'agricoltura è un rapporto interattivo tra uomo e natura, che si realizza in unità territoriali elementari, usualmente chiamate aziende agrarie. Il primo requisito da garantire, affinché il rapporto sia proficuo, individualmente (per chi coltiva) e socialmente (per tutto il resto della comunità), riguarda appunto la natura del rapporto tra l'agricoltore e la terra, in termini sia di qualità che di durata. La storia dell'agricoltura insegna che le migliori situazioni si realizzano quando chi coltiva la terra ne è anche proprietario, cioè quando il rapporto è duraturo e motivato. G. Haussmann (1964), a questo riguardo, ha enfatizzato il concetto di simbiosi tra l'uomo e la terra per identificare l'attitudine dell'essere umano a esprimere il meglio della sua creatività organizzativa e della sua predisposizione al lavoro, quando ha facoltà di possedere e utilizzare liberamente il proprio scenario di vita. In tal caso lo conforma fisicamente e funzionalmente anche in rapporto alle sue esigenze estetiche, come fosse un'appendice della sua stessa casa. Questo stato sociale dell'agricoltore padrone della sua terra, che è stato perseguito con fatica, lotte e perseveranza in Europa occidentale, come documenta la storia delle riforme fondiarie nei suoi vari paesi in questo secolo, e che ha inoltre costituito la caratteristica di base nella colonizzazione dell'America Settentrionale (a spese però dell'eliminazione delle popolazioni native), non è purtroppo una prerogativa di tutti i popoli dei vari continenti, ma solo una conquista sociale dei contadini senza terra che hanno lottato per ottenerla. Quando questa condizione di agricoltore-padrone viene meno, e quindi manca il rapporto affettivo che lega l'uomo al suo scenario di vita, si instaura una caduta di interesse, sia estetico sia funzionale, che si riflette negativamente sulla conduzione dell'azienda agraria. Rimane infatti preminente l'interesse di tipo economico del proprietario non coltivatore (che può essere un individuo, una società o lo stato stesso), che vede la terra solo come un bene strumentale per produrre profitto. Di conseguenza "alla simbiosi con la terra si sostituisce il criterio del tornaconto individuale e della speculazione" (Haussmann, 1964).

Da una recente indagine condotta in Cina nel decennio 1987÷1996 (Prosterman et al., 1996), emerge chiaramente che il mancato diritto alla proprietà del suolo da coltivare, o almeno la sua concessione in uso per un periodo sufficiente, è il maggiore limite per il raggiungimento dell'autosufficienza alimentare del paese. Infatti, gli agricoltori che non posseggono o non hanno in uso la terra non sono interessati a compiere i miglioramenti fondiari che possono far aumentare le rese delle colture. Viene suggerito che in Cina si dovrebbero introdurre misure regolative atte a perseguire due grandi obiettivi legati al possesso della terra: investimenti fondiari a lungo termine e messa a coltura di terreni non utilizzati. Un ulteriore obiettivo che viene suggerito è quello di impedire che l'espansione urbana e industriale avvenga a spese dei terreni agricoli.

Sempre per quanto concerne le risorse, tra le più importanti sono le sementi, i concimi e i mezzi meccanici, dal cui uso dipende in gran parte la buona riuscita della coltura, l'affrancamento dalla fatica per le operazioni colturali più usuranti (lavorazione del suolo e raccolto), il dominio di superfici più ampie per unità di lavoro umano e la tempestività delle operazioni colturali. La capacità di acquisto di queste risorse richiede una situazione finanziaria favorevole all'accesso al credito e per gli incentivi economici. Queste condizioni sono invece raramente soddisfatte per la maggior parte degli agricoltori nei paesi in via di sviluppo, ed è pertanto il grado di povertà che comunque limita la possibilità di raggiungere un'organizzazione strutturale delle aziende agrarie tale da garantire adeguati livelli produttivi (Murdoch, 1990). Condizioni paritetiche non esistono attualmente tra l'agricoltura e gli agricoltori dei paesi ricchi e dei paesi poveri e tra agricoltori ricchi e poveri di uno stesso paese. Questa disparità di accesso alle risorse è fonte di squilibri sociali e ambientali. Gli agricoltori più poveri sono costretti a lasciare il loro mestiere e la loro terra, alimentando flussi migratori a carattere locale, regionale e continentale che a lungo andare generano insostenibili condizioni di inurbamento e crescenti tensioni sociali, ambientali e sanitarie per la disoccupazione, la criminalità e la predisposizione alle malattie. In merito al commercio e all'impiego delle sementi, il problema si presenta attualmente in uno stato conflittuale critico per i diritti di brevetto sulle sementi migliorate geneticamente, anche attraverso le biotecnologie, che le ditte produttrici di sementi vantano e tentano di imporre legalmente agli agricoltori in ogni parte del mondo. Gli agricoltori, storicamente essi stessi promotori del miglioramento genetico per selezione e liberi di impiegare e di commerciare le proprie sementi migliorate, dopo l'avvento del miglioramento genetico praticato dalle ditte produttrici di sementi e protetto dai diritti di brevetto, devono approvvigionarsi di sementi dal mercato. In pratica, gli agricoltori tendono a essere progressivamente privati della capacità di auto approvvigionamento per la risorsa più importante di tutta l'attività agricola, il seme da cui si sviluppano le colture, che oggi sono costretti a comprare. Il problema di accedere alle risorse per l'agricoltura è analogo a quello che riguarda lo sbocco al mercato dei prodotti agrari. Gli stati o gruppi di stati hanno sempre introdotto criteri protezionistici per garantire condizioni vantaggiose all'interno dell'area di interesse protetta. In generale le barriere commerciali favoriscono i paesi ricchi che acquistano prodotti agrari a basso prezzo dai paesi poveri e, contemporaneamente, vendono loro prodotti tecnologici ad alto prezzo (Murdoch, 1990). Di conseguenza il divario economico tra paesi ricchi e paesi poveri tende ad aumentare piuttosto che a ridursi.

Di fronte a questa situazione socialmente ingiusta, si intuisce come grande sia ancora lo sforzo di regolazione da effettuare per raggiungere livelli ottimali di pariteticità che consentano un funzionamento dell'agricoltura e degli agroecosistemi più equilibrato in ogni parte del mondo, in spirito di solidarietà e di armonia tra i popoli.

Sostenibilità

La sostenibilità è la proprietà più complessa degli agroecosistemi e riguarda la capacità di mantenere la produttività a lungo termine, in rapporto sia alle condizioni interne che esterne di organizzazione. Infatti, è possibile mantenere una produttività a lungo termine se i meccanismi naturali che la sostengono non vengono compromessi, se i processi produttivi non generano inquinamento e se le influenze esercitate dalle forze culturali e socioeconomiche esterne non sono lesive per la struttura e la funzionalità degli agroecosistemi.

Il concetto di sostenibilità, per la sua capacità di riassumere i diversi aspetti che compongono la multi funzionalità dei sistemi di attività umana, si è imposto nell'uso comune per denotare il modello di sviluppo ideale da perseguire, ossia lo sviluppo sostenibile o coevoluzionario. Il modello stesso di ecosistema, come rappresentazione del funzionamento della realtà, individua la strategia di sviluppo della natura fondata sull'autoorganizzazione, sull'autocontrollo e sull'autoevoluzione, come una strategia di sviluppo durevole, o ecosviluppo (Caporali, 1991). l principi fondamentali su cui si basa l'ecosviluppo sono l'uso integrale della radiazione solare per garantire produttività e abitabilità, il riciclo della materia e la progressiva diversificazione biologica. Questi tre principi dovrebbero essere presi a riferimento nella progettazione e nella implementazione degli agroecosistemi e, quindi, nella realizzazione di quella che abbiamo definito agricoltura ecocompatibile. Poiché la forza creativa della natura si basa sull 'uso integrato delle risorse native, sul completo riciclo della materia e sulla promozione della biodiversità, questi attributi dovrebbero essere conferiti anche agli agroecosistemi per migliorarne l'efficienza, il grado di autonomia e la stabilità e contemporaneamente ridurre gli input energetici responsabili di un impatto ambientale negativo. L'obiettivo è quello di realizzare, fondamentalmente a livello aziendale, agroecosistemi dove la complessità biofisica risulti più accentuata, sia dentro che fuori i campi coltivati, rispetto a quella presente negli odierni sistemi agricoli specializzati, tendenti alla disgiunzione tra produzioni animali e vegetali, alle monocolture e alle monosuccessioni. In pratica la progettazione di agroecosistemi a compatibilità ambientale dovrebbe mirare a realizzare una unità di gestione (azienda agraria) dove le componenti siano così integrate e bilanciate tra di loro da poter garantire tutte le principali funzioni di un ecosistema. Un ecosistema dovrebbe, perciò, funzionare come una centrale solare in grado di convertire l'energia solare in biomassa con la maggiore continuità possibile nel corso dell'anno; come un bacino di raccolta delle acque di precipitazione per favorire l'infiltrazione a scapito dello scorrimento superficiale e dell'erosione; come un bacino di fissazione biologica dell'azoto atmosferico, attraverso frequenti ed estese colture di specie leguminose in rotazione e in consociazione; come un sistema aziendale misto, nel quale allevamento e coltivazioni realizzano la massima integrazione possibile tra le catene di pascolo e di detrito; infine, come una comunità biologica integrata, per promuovere la prevenzione dalle infestazioni attraverso un controllo biologico basato sulla diversità entro e fuori i campi coltivati.

La valutazione delle prestazioni degli agroecosistemi in termini di sostenibilità

La sostenibilità di un agroecosistema si riferisce in primo luogo alla sua capacità di soddisfare l'obiettivo primario per cui il sistema è costruito, ossia il sostegno della catena trofica frnalizzata all'alimentazione umana. La produttività deve pertanto raggiungere un adeguato livello quantitativo e qualitativo, che deve essere mantenuto su scala temporale con un grado di autonomia elevato per ridurre la dipendenza da fonti di energia e di materia esterne, per diminuire i costi di gestione ed evitare un impatto ambientale negativo. La misura della produttività non riguarda soltanto l'output asportabile dal sistema ma anche il grado di trasformazione degli input in output, ossia l'efficienza della trasformazione. Agli effetti della sostenibilità un agroecosistema è migliore quando riesce a esprimere rese elevate con bassa intensità dei fattori impiegati come, per esempio, bassi input di energia esterna per unità di output e riesce a mantenere integri i meccanismi di produzione come la fertilità del suolo o di difesa tramite il controllo biologico delle infestanti, dei fitofagi e dei fitopatogeni. Gli aspetti produttivi valutati secondo le chiavi di efficienza o autonomia (Caporali et al., 1989; Azar et al., 1996) possono fornire adeguati Indicatori di Prestazioni Agroambientali (IPA) per valutare le proprietà dell'agroecosistema, specialmente a livello di azienda agraria. In tal caso è possibile abbinare l'analisi degli input e degli output a livelli successivi di organizzazione aziendale per quantificare gli scambi di energia, materia e valore monetario tra i componenti interni all'agroecosistema e tra l'agrosistema stesso e l'esterno. In questo modo è possibile ottenere una serie di IPA (indicatori di dipendenza, reimpiego, asportazione, autonomia, rendimento degli input, ecc.) utili a esprimere giudizi sulla sostenibilità delle aziende esaminate.

Il grado di apertura di alcuni agroecosistemi è oggi tale da renderne assolutamente precaria la sostenibilità. Il caso degli allevamenti 'senza terra', in cui molti capi sono allevati in uno spazio minimo, è quello più esemplificativo e rappresenta il grado massimo di semplificazione degli agroecosistemi. Gli allevamenti 'senza terra' funzionano senza il supporto dei foraggi prodotti in azienda (catene di pascolo) e senza il riciclo delle deiezioni (catene di detrito) integrate in loco, ma attraverso l'importazione di mangimi dal mercato e la cessione al mercato di deiezioni da smaltire. Questi agroecosistemi funzionano, rispettivamente nel primo e nel secondo caso, 'importando' ed 'esportando' sostenibilità. La loro sostenibilità dipende in pratica dalle condizioni culturali ed economiche esterne che ne determinano l'accettazione da parte della società. Oggi, per esempio, stanno progressivamente aumentando le preoccupazioni di ordine etico, suscitate dalle condizioni di costrizione e di stress degli animali allevati, e di ordine sanitario, per il rischio di contaminazione della catena alimentare dovuto all'uso di sostanze chimiche e di mangimi pericolosi anche per la salute umana, che mettono in discussione il mantenimento di tali sistemi di allevamento.

Infine, la sostenibilità degli allevamenti nei paesi industrializzati attualmente dipende dalla tendenza generalizzata a comporre la razione alimentare, anche degli animali ruminanti, con una larga quota di granelle di cereali e legumino se per migliorarne la trasformazione in latte e carne. Mentre i ruminanti possono fare a meno delle granelle, grazie alloro apparato digerente che è in grado di digerire la cellulosa delle foglie, altrettanto non avviene per gli organismi monogastrici come l'uomo stesso, per il quale sono indispensabili i prodotti derivati dalle granelle. Nella prospettiva dell'aumento consistente della popolazione umana, il flusso alimentare delle granelle non potrà continuare a essere diretto massicciamente verso i ruminanti, per i quali l'autentica compatibilità dell'alimentazione è invece legata alla utilizzazione delle foglie dei foraggi.

Orientamento dei sistemi di attività umane verso lo sviluppo sostenibile

Lo sviluppo sostenibile dell'umanità richiede un maggior impegno verso forme di decentramento dei sistemi di attività umane che sfruttino maggiormente il flusso diretto di energia solare e meno quello ausiliario di energia fossile.

Per quanto concerne l'utilizzazione degli ecosistemi, è importante individuare un punto di equilibrio tra la quota di ecosistemi naturali ancora esistenti da preservare da cambiamenti d'uso e il grado d'intensità d'uso degli ecosisterni a maggior grado di modificazione dei componenti naturali (agroecosistemi). La compatibilità ambientale va definita in termini fisici e deriva da uno stato di sostanziale equilibrio di molti ecosistemi locali che producono uno stato di equilibrio dell'ecosistema globale di un paese e dell'intero pianeta (Bresso, 1993). Poiché input informativi di migliore organizzazione interna degli ecosistemi sono sempre in grado di sostituire gli input di energia e di materia dall'esterno, i centri istituzionali di elaborazione della cultura e della formazione professionale (università e scuola) e i centri istituzionali di elaborazione legislativa (istituzioni politiche e amministrative) hanno le maggiori responsabilità nella regolazione d'uso degli ecosistemi. Il potenziamento di una formazione culturale e di una legislazione orientate ecologicamente può costituire un potente meccanismo di retro azione informativa capace di riaggiustare i sistemi di attività umane verso la direzione di ecocompatibilità.

A livello di un bacino idrografico l'approccio ecosistemico sembra attualmente il migliore strumento a disposizione per il sostegno di attività di progettazione, gestione e restauro ambientale orientate verso uno sviluppo sostenibile (Van Haveren et al., 1997). Per realizzare tali attività sarebbe necessario conservare gli habitat ad alta integrità ancora rimasti, gestire popolazioni e habitat entro il contesto di interi bacini idrografici, identificare e correggere le cause prime della degradazione degli habitat, gestire in armonia con i processi naturali, operare verso condizioni future che riflettano la distribuzione storica delle condizioni naturali, ripristinare e proteggere una rete di aree di rifugio attraverso il territorio e programmare in funzione di vantaggi a lungo termine. Questi principi dovrebbero essere messi in pratica attraverso un circolo vizioso di attività di monitoraggio e di gestione adattativa, nel quale i risultati del monitoraggio forniscono i necessari meccanismi di retro azione per riorientare l'azione di adattamento. Poiché i più importanti bacini idrografici terrestri sono a dimensione transnazionale, dovrebbe realizzarsi una gestione coordinata degli interventi su bacini internazionali mediante la costituzione di nuove istituzioni (Bresso, 1993).

Conclusioni

5
6

Gli agroecosistemi, se costruiti secondo le regole raccomandate per assicurare produttività, stabilità, pariteticità e sostenibilità, rappresentano le forme d'uso del territorio più idonee a soddisfare i bisogni dell 'uomo e ad assicurare il mantenimento dell'abitabilità ambientale. Di conseguenza agli agricoltori sarebbe affidato non solo il compito di garantire le fondamentali esigenze alimentari e di approvvigionamento di materie prime per l'umanità, ma anche quello di salvaguardare il territorio come patrimonio comune di risorse anche per le future generazioni. Questo arricchimento del profilo professionale degli agricoltori non può che giovare a loro stessi e all'intera società. All'operatore agricolo sarà riconosciuto un maggior prestigio sociale, verosimilmente, anche attraverso la retribuzione del servizio svolto come custode del territorio. Allo stesso tempo, la società guadagnerà, da un'agricoltura diffusa capillarmente e vitale sul territorio, un forte impulso per la decentralizzazione demografica e i benefici a essa connessi per l'uso dell'energia solare, il riciclo dei materiali, la diversificazione del territorio e la creazione di nuovi posti di lavoro in campo agricolo, industriale e turistico. In conclusione, la società guadagnerà in stabilità sociale e ambientale. In un paese industrializzato e densamente popolato come l'Italia, le aree territoriali più idonee a sperimentare oggi forme integrate di sviluppo sostenibile sono le aree a parco, dove convivono emergenze naturalistiche che meritano di essere conservate e valorizzate. La loro istituzione (legge quadro 394 del 1991) dipende da requisiti e valenze (tabb. 5, 6) che dovrebbero spronare, attraverso il coinvolgimento attivo delle popolazioni locali, a realizzare una convergenza di forze culturali e socioeconomiche sull'obiettivo comune di conservazione e valorizzazione delle risorse per la promozione della sinergia uomo-ambiente.

Le aree a parco rappresentano oggi tanto un efficace strumento legislativo per governare un territorio limitato, quanto un probante banco di prova per verificare la capacità di organizzazione delle società più ricche a orientarsi nella direzione della ecocompatibilità. l risultati che si conseguiranno a livello sociale e ambientale nelle aree adattate a parco potranno essere utili per accumulare l'esperienza necessaria a gestire con le stesse modalità intere nazioni e l'intero pianeta.

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