Ecologia

Enciclopedia del Novecento I Supplemento (1989)

Ecologia

Umberto Colombo
Giuseppe Lanzavecchia
Stefano Lanzavecchia
Danielle Mazzonis

sommario: 1. Definizione di ecologia. 2. Breve storia dell'ecologia. 3. I rapporti dell'ecologia con altre discipline. a) Ecologia ed economia. b) Ecologia e scienze sociali. c) Ecologia e urbanistica. d) Ecologia e discipline tecniche. 4. Il rapporto uomo-ambiente. 5. La crisi ecologica. 6. La nozione di ambiente. 7. Retroazioni negative dell'uso dell'ambiente. a) Impatto dell'inquinamento sui vari settori ambientali. b) Impatto delle attività umane sull'uomo. c) Interdipendenza degli impatti. 8. Verso nuovi equilibri. a) Risorse e dematerializzazione. b) Agricoltura. c) Industria. 9. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Definizione di ecologia

L'ecologia - scienza degli ecosistemi che studia le interazioni tra le differenti specie o, più in generale, la biosfera - è, nel suo significato più proprio, una branca delle scienze biologiche che si colloca al fianco della biologia molecolare, della citologia, della fisiologia, della morfologia e anatomia e della sistematica. Il termine ‛ecologia' è stato introdotto per la prima volta nel 1866 dal biologo tedesco Haeckel (v., 1866) e deriva da due parole greche, οἶκος (casa) e λόγος (scienza, discorso): significa dunque, letteralmente, scienza dell'habitat o, più estesamente, scienza che studia le condizioni di esistenza degli esseri viventi e le interazioni di ogni tipo tra questi e l'ambiente in cui vivono. Il suo campo di studio comprende anzitutto gli equilibri naturali e i cicli biologici, mentre i suoi concetti di base sono quelli di ‛ecosistema' (unità funzionale comprendente l'ambiente e le popolazioni che in esso vivono, corrispondente a un livello superiore di organizzazione, quasi al vertice della scala che dal protoplasma, attraverso cellule, tessuti, organi, sistemi di organi, organismi, popolazioni, comunità e appunto ecosistemi, porta alla biosfera), di catena alimentare (o rete trofica) e di habitat.

Anche se l'ecologia è, in senso stretto, un capitolo delle scienze biologiche, questa collocazione risulta ampiamente superata quando viene concesso spazio allo studio delle condizioni di esistenza della specie Uomo e delle interazioni di quest'ultima con l'ambiente. Ne risultano inevitabilmente coinvolti problemi di ordine storico, socioeconomico e culturale e, di conseguenza, l'ecologia si salda alle scienze umane, per cui non possono sfuggire al suo campo concettuale discipline come il diritto, l'economia e la sociologia. Di fatto, proprio quando prende in considerazione i rapporti dell'uomo con l'ambiente, l'ecologia si pone al crocevia delle scienze dell'uomo e di quelle biologiche, e quindi la sua collocazione nell'ambito delle sole scienze naturali risulta ampiamente riduttiva. Alla definizione classica di ecologia, intesa come branca delle scienze biologiche (con eventuali collegamenti con le scienze umane), si contrappongono, nell'accezione corrente, altri significati, anche molto diversi. In particolare, per l'uomo della strada l'ecologia è tutto fuorché una scienza e, sostanzialmente, il termine si identifica con un movimento di contestazione della società industriale che predica e raccomanda una specie di ideologia neorousseauviana che ha come credo sottinteso il rifiuto dello sviluppo.

In conclusione, a fianco del significato classico il termine ecologia va sempre più assumendo i nuovi significati di scienza dell'ambiente umano e di ideologia che fa proprie le preoccupazioni dell'uomo per la degradazione dell'ambiente in cui vive. Merita sottolineare che tale evoluzione - o meglio dilatazione e differenziazione - di significati deve essere accettata come un dato di fatto che trova le sue ragioni in mutamenti di prospettive, di interessi e di esigenze, non esclusivi di questa scienza. In altre parole, aspetti e dimensioni delle scienze umane e preoccupazioni per il degrado dell'ambiente diventano, in certo modo, essi stessi parte dell'ecologia, quando vengano esaminati alla luce dei concetti e dei metodi propri dell'ecologia classica. Un esame della storia dell'ecologia dimostra, del resto, come, fin dalla sua origine, vi siano state preoccupazioni di ordine sociale, culturale e umano e come, dopo una serie di sviluppi che rientrano quasi esclusivamente nell'ambito delle scienze biologiche (ecologia classica), siano stati integrati e recuperati aspetti tipicamente umani e sociali (ecologia moderna), fino ad arrivare a una concezione allargata, quale quella attuale (ecologia politica).

2. Breve storia dell'ecologia

Anche se la conoscenza empirica delle esigenze ecologiche degli esseri viventi risulta, senza dubbio, qualcosa di acquisito fin dai tempi dell'uomo preistorico che se ne serviva per le sue ricerche di selvaggina, di piante commestibili e di rifugi dotati di un microclima adatto alla sua sopravvivenza, i primi fondamenti coscienti e scientifici dell'ecologia classica possono essere riconosciuti nelle opere di Darwin (v., 1859) che, enunciando la teoria dell'evoluzione delle specie, metteva in evidenza l'enorme importanza dei fattori ambientali sui fenomeni evolutivi e poneva le basi dello studio sistematico dei rapporti tra gli organismi viventi e l'ambiente che li circonda.

Come è noto, sul pensiero di Darwin ebbero una profonda influenza le idee di Malthus (v., 1798) e, particolarmente, la tesi che gli individui, non soggetti a costrizioni, si moltiplicano secondo una progressione geometrica, mentre la quantità di alimenti disponibili si accresce solo in progressione aritmetica; secondo Malthus, quindi, la popolazione tende sempre a crescere oltre i mezzi di sussistenza e da questo fatto consegue la necessità di una ‛lotta per la vita'. All'origine dell'ecologia classica possiamo quindi riconoscere, sia pure indirettamente, una preoccupazione di ordine umano e sociale, cioè l'esigenza, sottolineata da Malthus, di un controllo e di una limitazione della popolazione, data la scarsità relativa delle risorse alimentari che possono essere fornite dal nostro pianeta.

Molto diverso è stato invece il ruolo di altri movimenti di pensiero e di azione, come ad esempio il romanticismo e il luddismo, che oggi vengono spesso considerati alla base dell'ecologia. Infatti, anche se il romanticismo, visto nei suoi aspetti di movimento di reazione alla distruzione dell'ambiente, caratterizzato da un amore appassionato per la solitudine, oltre che da un senso di intima comunione con la natura, trova formalmente facili punti di contatto con l'ecologia sociale dei nostri giorni, non si possono ignorare le sostanziali differenze che esistono tra di essi e non si può ignorare, soprattutto, che il romanticismo non ha avuto alcuna reale influenza diretta sulla nascita dell'ecologia come scienza. In effetti, anche se alcune delle posizioni del romanticismo possono sembrare vicine a quelle espresse dal movimento ecologico, rimane il fatto che le motivazioni di base sono sostanzialmente dissimili e, in particolare, che il problema della distruzione della natura e, di converso, della sua tutela, non poteva certamente essere visto dal romanticismo nell'ottica di una cultura ecologica (cioè secondo i metodi dell'ecologia) che ancora non esisteva o, quanto meno, non era entrata nella coscienza della maggioranza delle persone.

Le stesse considerazioni, a maggior ragione, valgono per il luddismo, che è stato un movimento violento di contestazione della civiltà delle macchine, motivato da preoccupazioni di ordine occupazionale che nulla, o ben poco, hanno a che fare con l'ecologia. In conclusione, a differenza del malthusianesimo, romanticismo e luddismo sono stati sostanzialmente estranei al nascere del pensiero ecologico, anche se loro derivazioni ed epigoni (neoromanticismo e neoluddismo) si presentano legittimamente come aspetti dell'ecologia sociale e politica dei nostri giorni.

L'ecologia come scienza pura, sostanzialmente svincolata da implicazioni e preoccupazioni di ordine umano e sociale, ha cominciato a svilupparsi, sulla scia di Darwin, nella seconda metà del XIX secolo: A. von Humboldt, A.-L.-P.-P. De Candolle, A. Engler, A. Gray hanno posto i fondamenti della geografia botanica; E. Forbes, studiando la ripartizione della fauna nel Mare Egeo, ha rilevato che nelle zone di diversa profondità vivono specie dalle caratteristiche diverse, evidenziando così l'aspetto dinamico delle interazioni organismi-ambiente; Haeckel (v.,l866) ha introdotto il termine di ‛ecologia' e Möbius (v., 1877) quello di ‛biocenosi'. Secondo Möbius ‟la biocenosi è un raggruppamento di esseri viventi che corrisponde, per la sua composizione e per il numero delle specie e degli individui, ad alcune condizioni medie dell'ambiente, raggruppamento di esseri che sono legati da una dipendenza reciproca e che si conservano riproducendosi in modo permanente [...]. Se una delle condizioni fosse deviata per un certo tempo dalla sua media abituale, l'intera biocenosi sarebbe trasformata [...]. La biocenosi sarebbe ugualmente trasformata se il numero di individui di una data specie aumentasse o diminuisse per tramite dell'uomo, oppure se una specie scomparisse totalmente dalla comunità o un'altra vi entrasse". I diversi componenti della biocenosi sono uniti tra loro da legami di dipendenza reciproca. Ciò distingue la biocenosi dalla folla (in cui non vi è dipendenza reciproca) e dalla società (in cui vi è attrazione reciproca). Si può allora dire che la biocenosi è un insieme di esseri viventi riuniti dall'attrazione non reciproca che esercitano su di essi i diversi fattori ambientali; questo insieme è caratterizzato da una determinata composizione specifica, dall'esistenza di fenomeni di interdipendenza, e occupa uno spazio che viene chiamato biotopo.

Tra la fine del XIX secolo e l'inizio del XX, soprattutto a opera di studiosi anglosassoni (V. E. Shelford, S. H. Adams, Ch. B. Davenport, R. N. Chapman, ecc.), sono stati portati avanti studi e contributi sulle reazioni degli animali ai diversi fattori ambientali (biotici e abiotici), sui valori estremi di detti fattori compatibili con la loro sopravvivenza, sulla successione di faune, sulla ‛sinecologia' (termine introdotto da C. J. Schröter nel 1902 per indicare lo studio dei rapporti fra gli individui appartenenti alle diverse specie di un gruppo e con l'ambiente in cui vivono). Forel (v., 1892-1904), con il suo studio sul lago Lemano, ha fondato la ‛limnologia', Murray e Hjort (v., 1912) banno stabilito i fondamenti dell'oceanografia, Uvarov (v., 1931) ha sviluppato i concetti relativi all'azione dei fattori fisici dell'ambiente. La dinamica delle popolazioni ha mosso i primi passi con gli studi teorici, su base matematica, di Volterra (v., 1926), Lotka (v., 1934-1939) e Gause (v., 1935). Elton (v., 1927) ha definito le basi teoriche dell'ecologia classica.

A fianco e sulla scia di questi studi di base sono sorte le prime società ecologiche, che testimoniano l'interesse sempre più ampio degli ambienti scientifici per questa nuova disciplina: la British Ecological Society nel 1913, l'Ecological Society of America nel 1916. Sono nate anche riviste specializzate, come: ‟Journal of ecology" nel 1913, ‟Ecology" nel 1920, ‟Ecological monograph" nel 1931, ‟Journal of animal ecology" nel 1932. La nascita e lo sviluppo dell'ecologia moderna scienza che fa appello a diverse discipline, pur avendo metodi suoi propri possono allora essere collocati intorno agli anni trenta del nostro secolo, quando sono venute meno le rigide barriere tra le diverse scienze, che avevano trovato la loro piena espressione nel positivismo di A. Comte. Il ritardo di almeno cinquant'anni dell'ecologia rispetto a discipline di laboratorio, come per esempio l'embriologia o la genetica, trova spiegazione nel fatto che il grado di sviluppo delle conoscenze aveva di fatto fino ad allora imposto ai ricercatori di studiare i fenomeni naturali come se fossero indipendenti gli uni dagli altri, e questo modo di pensare, se ha aiutato altre scienze a ‛inventariare' il mondo e a sistematizzare le acquisizioni, è stato fortemente pregiudiziale per l'ecologia - tipica scienza sistemica - che non può considerare i fenomeni avulsi dai legami che intercorrono tra loro.

Un'ulteriore ragione che spiega il ritardo del decollo dell'ecologia rispetto ad altre discipline va ricercata nella sua mancanza di prospettive e di implicazioni pratiche, almeno fino agli anni trenta. Di fatto, questa scienza non sembrava avere alcuna applicazione possibile (a differenza di altre), fino a che non ci si è resi conto e si è toccato con mano che i dati di laboratorio e i risultati delle analisi a tavolino potevano essere utilizzati per comprendere le conseguenze, fino ad allora impreviste, positive ma più spesso negative e talvolta perfino causa di eventi catastrofici, degli interventi sull'ambiente naturale. È stato così che l'ecologia ha potuto imporsi e svilupparsi, superando definitivamente le concezioni meccanicistiche e le barriere disciplinari che avevano caratterizzato la sua nascita come semplice branca delle scienze biologiche.

Anche se la distinzione tra ecologia classica ed ecologia moderna è sostanzialmente convenzionale, merita ricordare che, a partire dagli anni trenta, sono cominciati a comparire i primi studi relativi ad applicazioni dei principi dell'ecologia a problemi di varia natura: prima agricoli e forestali, poi inerenti ai più diversi aspetti delle attività dell'uomo. In altre parole, si può far coincidere la nascita dell'ecologia moderna con la sua dilatazione dal campo specifico delle ricerche specialistiche di taglio esclusivamente biologico ai più diversi aspetti, di base e applicati, del rapporto tra le popolazioni (in particolare quelle umane) e l'ambiente. Mentre si andavano via via precisando e sistematizzando i principi di base dell'ecologia classica - cioè di un'ecologia che, pur appoggiandosi e riferendosi a numerose altre discipline scientifiche, ha un'identità sua propria e può essere considerata una scienza specifica e ben delimitata -, i suoi metodi venivano trasferiti a numerosi altri settori della ricerca di base e applicata, fino ad arrivare, per estensione, a una nozione di ecologia come ‛scienza totale delle popolazioni totali nell'ambiente totale'.

Si è passati così da una nozione di ecologia come scienza ‛disciplinare' a una nuova nozione di ecologia ‛interdisciplinare' - o meglio ‛transdisciplinare' -, anche se questi due modi di essere continuano a mantenere identità e sviluppi propri (spesso del tutto autonomi) e sono tuttora fonte di equivoci, incomprensioni e dispute tra gli esperti che privilegiano l'una o l'altra delle concezioni. In particolare, molti biologi tendono a sostenere e riaffermare i significati, ben delimitati, dell'ecologia classica, opponendosi alle posizioni dei nuovi ecologi (in certo modo ‛tuttologi'), che preferiscono considerare ‛ambientalisti', cioè studiosi che poco o nulla hanno a che fare con la vera ecologia. Pur senza voler entrare nel merito di questa disputa, che si riallaccia alla sempre più ampia estensione del concetto di ecologia (almeno nel linguaggio e nel significato correnti), merita sottolineare che - quanto meno a partire dagli anni trenta - convivono più ecologie e il discorso tende a estendersi, ramificarsi e complicarsi, assumendo risvolti inaspettati e imprevedibili che investono i più diversi campi dello scibile.

Proprio negli anni in cui l'ecologia ha cominciato a estendere il proprio campo d'interesse, allontanandosi, in certo modo, dalla sua precisa identità originaria, si è assistito anche a un approfondimento e a una sistematizzazione dei diversi capitoli nei quali si articola la disciplina, intesa in senso classico. Sono state precisate e integrate reciprocamente in un corpo unitario le nozioni di ‛autoecologia' (cioè lo studio dei rapporti di una sola specie con il proprio ambiente, considerato nei suoi aspetti e fattori climatici, abiotici, alimentari, biotici), di ‛dinamica delle popolazioni' (cioè la descrizione e la ricerca delle cause delle variazioni di abbondanza delle diverse specie: v. Schwertfeger, 1963), di ‛sinecologia' o ‛biocenotica' (cioè la definizione delle nozioni di biocenosi e di ecosistema, delle caratteristiche e dell'evoluzione delle biocenosi, dei trasferimenti di materia e di energia negli ecosistemi, di evoluzione e di adattamento), di ‛ecologia applicata' (cioè la definizione dei principi di lotta biologica, di mantenimento degli equilibri naturali, di diagnosi ecologica, di azione dell'uomo sulla biosfera, di inquinamento, ecc.). In questi stessi anni sono stati pubblicati importanti trattati (v. Clarke, 1954; v. Odum, 19592; ecc.) e numerosi testi a carattere maggiormente divulgativo (v. Farb, 1963; v. Odum, 1963; v. Dajoz, 19712; ecc.). Inoltre, l'approfondimento e la sistematizzazione dei principi dell'ecologia classica hanno consentito il decollo dell'ecologia moderna, che si è avvalsa per i suoi sviluppi dei metodi della prima.

La continua dilatazione dei campi di speculazione e di applicazione dell'ecologia ha portato, grosso modo negli anni sessanta, alla nascita della cosiddetta ecologia sociale o politica: si veda, in particolare, il saggio di denuncia della Carson (v., 1962), che può essere considerato come la prima significativa testimonianza di impegno totale dell'ecologia. Caratteristiche comuni delle opere ecologiche ditaglio sociale e politico - tra le molte si possono ricordare quelle di Nicholson (v., 1970), di Ward e Dubos (v., 1972), di Goldsmith e altri (v., 1972), di Dorst (v., 1965), ecc. - sono la denuncia dei danni che l'uomo sta provocando alla biosfera e la messa in guardia dell'umanità dall'ecocatastrofe verso la quale andrebbe inconsciamente correndo. Nella generalità dei casi i libri appartenenti a questo filone evocano, anche nel titolo stesso, una sorta di ‛apocalisse' alle porte e lasciano poche speranze per il futuro se non dovessero verificarsi in tempi brevi radicali cambiamenti d'indirizzo che coinvolgano praticamente tutti i meccanismi dello sviluppo e le radici dello stesso benessere. Anche se all'origine dell'ecologia classica si possono certamente riconoscere preoccupazioni di ordine umano e sociale (in particolare, le riflessioni sull'esplosione demografica conseguente alla rivoluzione industriale), la nascita e lo sviluppo dell'ecologia sociale e politica non possono essere intesi semplicemente come un ritorno alle origini.

Di fatto, le influenze del sociale sull'ecologia e di quest'ultima sul sociale sono due fatti distinti, ed è senz'altro più rilevante e significativo l'influsso dei metodi e dell'approccio propri dell'ecologia classica - o mutuati da essa - sulla considerazione dei problemi umani e sociali rispetto a quanto non sia avvenuto all'inverso. Del resto, come si è già accennato, mentre è improprio considerare il movimento romantico come un antesignano dell'ecologia, è certo che l'ecologia ha determinato una diversa interpretazione delle istanze romantiche e che nel neoromanticismo ( così come nel neoumanesimo) dei nostri giorni è chiaramente riconoscibile una matrice ecologica. La trasposizione dei principî dell'ecologia classica nella problematica globale del rapporto tra uomo e ambiente porta a riconoscere e a precisare le interdipendenze che riguardano non solo gli aspetti fisico-biologici dell'ambiente (propri delle scienze naturali), ma anche quelli di equilibrio territoriale, di urbanistica e inerenti ai beni culturali, di demografia, di energia, di tecnologia, di alimentazione, quelli relativi ai consumi e così via. Ne risulta che le prospettive, anche quelle lontane, della condizione umana in relazione e nel quadro delle tendenze ecologiche e delle seconde rispetto alla prima, diventano sempre più oggetto di indagini, di previsioni e perfino di profezie che suscitano ampi consensi e dissensi.

A innescare la bomba di questa disputa sul futuro è stato, in particolare, il primo rapporto su I limiti dello sviluppo realizzato per il Club di Roma (associazione informale di intellettuali e ricercatori di diversi paesi, costituitasi nel 1968, a Roma, presso l'Accademia dei Lincei). Il rapporto, apparso nel 1972, venne curato dal System Dynamics Group, del Massachusetts Institute of Technology (MIT), diretto da Dennis e Donella Meadows, e si basa sulla proiezione a medio e lungo termine delle tendenze di crescita dell'attuale società mondiale, calcolate secondo un modello matematico di simulazione, che consente di arrivare alla ‛datazione' dei punti di rottura dovuti al processo di crescita. Il rapporto su I limiti dello sviluppo propone una linea politica che si può sommariamente configurare come un progetto di ‛crescita zero'. Sui problemi di metodo e sulle proposte di questo rapporto, criticato per la generalizzazione del modello e la sua astrattezza intellettuale, lo stesso Club di Roma e i suoi esperti hanno compiuto numerose e sostanziali rettifiche in rapporti successivi e in primo luogo in quello di Mesarović e Pestel, dedicato alle Strategie per sopravvivere, pubblicato nel 1974, ma anche nei successivi di Tinbergen (v., 1976) e di Gabor e Colombo (v., 1976).

Gli autori del secondo rapporto banno fatto proprie le critiche al precedente studio, fondate principalmente sulla scelta di un unico modello globale per analizzare le tendenze e le retroazioni dello sviluppo, disaggregando il mondo in dieci aree. Ma sono soprattutto lo spirito e le conclusioni della ricerca che si differenziano sostanzialmente: la precedente minaccia di un'apocalisse alle porte si sfuma nell'ipotesi di un periodo di cinquant'anni necessario perché possano diventare efficaci correzioni strutturali - determinate da precise scelte da effettuarsi immediatamente - atte a evitare l'autodistruzione dell'umanità e a trasformare l'attuale crescita disordinata e squilibrata in un processo di crescita economica e di sviluppo armonico della società umana.

Il secondo rapporto del Club di Roma ha innescato e focalizzato il dibattito sui quattro rischi mortali che incombono sull'umanità: l'esplosione demografica, il dislivello tra il nord e il sud del pianeta, la mancanza di cibo e la crisi energetica; ma soprattutto, il rapporto, ponendosi controcorrente rispetto alla tradizione ‛ecocatastrofica' che contrassegna l'ecologia sociopolitica, ha proposto un insieme di soluzioni che finiscono per essere una sorta di autocritica del mondo capitalistico, poiché in esso è nato e si è sviluppato il modello di crescita che viene ora messo in stato di accusa in quanto basato eccessivamente sul liberismo economico, sul profitto e su una crescita fine a se stessa del prodotto nazionale lordo.

Aurelio Peccei, che è stato il fondatore e il principale animatore del Club di Roma, ha pure precisato, proprio nei termini di un'ideologia neoumanista, l'urgenza di una svolta: ‟Non si tratta di un'altra rivoluzione tecnico-scientifica e produttivistica - ha scritto - bensì di una rivoluzione che riguarda direttamente noi stessi, quali protagonisti di ogni vicenda. In sostanza, è la qualità degli uomini che deve migliorare e cambiare, senza di che vi sono poche speranze di riprendere in mano la somma delle cose attuali e provvedere responsabilmente a quelle future" (v. Peccei, 1974).

Le tesi del Club di Roma cominciarono a circolare già nel 1970, prima della loro pubblicazione, e la loro influenza sul piano ecologico è stata ed è tuttora rilevante, sia per quanto riguarda proposte e ipotesi, sia per la loro contestazione. Basti pensare al ‛no' del Terzo Mondo agli indirizzi economico-ecologici dell'Occidente, emerso a Stoccolma alla Conferenza dell'ONU sull'ambiente umano nel 1972, e allo scontro di opinioni determinatosi alla Commissione delle Comunità Europee tra l'olandese Sicco Mansholt, assertore della necessità di un freno allo sviluppo, e il francese Raymond Barre, interprete delle esigenze di un'Europa ancora sensibile alle necessità di espansione economica.

Come conseguenza del rumore sollevato dai rapporti del Club di Roma, l'ecologia politica ha cessato di essere una specie di ideologia neoromantica o un'occasione tutto sommato innocua per acquisire un consenso sociale astratto e generalizzato (si considerino, ad esempio, le iniziative del presidente Nixon alla fine degli anni sessanta, cui hanno fatto seguito analoghe mozioni e iniziative in diversi paesi, tra i quali l'Italia), per tradursi in ricerca e in azione, sulla base di ipotesi politiche e scientifiche che non possono eludere scelte di campo. La stessa ‛ecologia rossa', quale è stata delineata, in Italia, dal convegno Uomo, natura, società, organizzato dall'Istituto Gramsci (v., 1972), ha mosso i suoi primi passi da una critica delle tesi e delle conclusioni-soluzioni prospettate nel primo rapporto per il Club di Roma, pur associandosi alle preoccupazioni per il futuro che erano emerse nel rapporto stesso. Infatti, riprendendo ed estrapolando il pensiero di F. Engels e di K. Marx, l'‛ecologia rossa' ha focalizzato nella parcellizzazione del lavoro e nella logica del capitalismo le origini della crisi ecologica, crisi che essa riconosce in tutta la sua importanza e gravità.

Più recentemente, in diversi paesi, e particolarmente nella RFT, è sorto un movimento ecologico, noto come movimento dei Verdi, che, pur non avendo connotazioni univoche e precise, tuttavia parte dal presupposto che la natura, soprattutto quella non toccata dall'uomo - e quindi le piante, gli animali - rappresenta comunque un valore da difendere e preservare in assoluto. Il movimento dei Verdi è intervenuto su numerosi problemi ambientali e di protezione della natura: dai parchi naturali alle piogge acide, alla lotta alla vivisezione. È interessante ricordare che la richiesta, in Germania, di una benzina ‛ecologica', priva di piombo, ha avuto la sua principale motivazione nel fatto che con questo tipo di benzina non si avvelenano i catalizzatori per l'abbattimento di ossidi di azoto e di zolfo, dannosi per la natura (prima ancora che per l'uomo). In generale, i Verdi dedicano un'attenzione prevalente a quegli aspetti della qualità della vita che sono connessi a un ambiente naturale sano. Tuttavia, sono anche attenti ai problemi della città, a proposito dei quali propendono per una conservazione accentuata del passato, considerando come una sorta di attentato l'utilizzazione per scopi diversi dei monumenti e degli edifici storici. Il loro peso è andato crescendo, anche sul piano politico, in questi ultimi anni, tuttavia più come movimento di opinione che sul piano operativo. Accanto al movimento dei Verdi, ne esistono altri che si rifanno a concetti naturalistici e finiscono per essere antindustriali e antisviluppo. In Italia, si possono ricordare quelli di matrice cristiano-cattolica, che si rifanno alla tradizione solidaristica e sono per una gestione limitata, strettamente su scala locale, dell'economia e della società, e quelli che si richiamano alla matrice marxista e che trovano spazio nella tradizione sottoproletaria popolare (tipico il pensiero di Pier Paolo Pasolini).

In conclusione, l'ecologia - e siamo oramai ai nostri giorni - sia essa di ispirazione neoromantica, riformista, neoumanista, ecc. (derivata dal filone ‛ecocatastrofico'), o rivoluzionaria (cioè innestata nell'ideologia marxista), non è più soltanto una scienza e, come tale e finché tale, fuori dai giudizi di valore. Viceversa, poiché l'ecologia politica ha finito con il comprendere e l'inglobare la considerazione dei rapporti dell'uomo totale con l'ambiente totale e, più in particolare, per affrontare il problema della gestione pratica e operativa di questi rapporti, non può esistere un discorso ecologico capace di sottrarsi a giudizi di valore, cioè di essere esente da conflittualità.

Questo sommario excursus storico sull'evoluzione dei contenuti e dei significati attribuiti all'ecologia ha cercato di dimostrare come sia praticamente impossibile una definizione univoca di questa disciplina, al di fuori di riferimenti temporali e di precisi schemi concettuali. L'ecologia di oggi non è quella di ieri e sarà presumibilmente diversa da quella di domani, e nello stesso tempo sono differenti le concezioni di ecologia assunte da biologi, urbanisti, sociologi e così via. Tuttavia, anche in questa grande instabilità e varietà di posizioni esistono denominatori comuni e punti fermi che fanno dell'ecologia un riferimento universale, una sorta di ‛grande contenitore' delle istanze, delle preoccupazioni, delle ipotesi dei nostri giorni.

3. I rapporti dell'ecologia con altre discipline

La storia dell'ecologia e della sua evoluzione di significati e di interessi delinea anche, in certo modo, la varietà e la molteplicità dei suoi rapporti con altre discipline tecniche (zoologia, botanica, biologia, geologia, fisica, chimica, ecc.) e umane (geografia, demografia, economia, psicologia, diritto, sociologia, ecc.). Ampiezza e tipologia di questi rapporti sono strettamente dipendenti da ciò che si intenda per ecologia, cioè quale ecologia venga assunta come riferimento. Si può, in ogni caso, affermare che tra l'ecologia (comunque considerata) e le altre discipline tecniche e umane esistono, di regola, ampie relazioni di reciproco scambio. In particolare, le discipline tecniche forniscono all'ecologia i metri che le sono necessari, mentre le discipline umanistiche le suggeriscono i valori che, assieme ai metri, sono alla base dell'ecologia quantitativa. Da parte sua, l'ecologia fornisce a molte discipline, tecniche e soprattutto umane, strumenti e criteri che hanno aperto nuove prospettive e settori di indagine; basti pensare, per esempio, alla nascita della chimica ambientale, della geologia ambientale, della psicologia e sociologia ambientali e così via, che non possono essere considerate semplici capitoli applicativi delle rispettive discipline nè, al contrario, parti dell'ecologia applicata, ma veri e propri momenti di saldatura e di integrazione tra l'ecologia e le suddette discipline. Come l'ecologia assume diversi significati, così anche i suoi rapporti con altre discipline si restringono - o si dilatano - e si articolano parallelamente. Di conseguenza è opportuno, per un esame critico di questi rapporti, considerare in forma disaggregata le diverse nozioni tecniche di ambiente di uso (implicito o esplicito) più comune e verificare, per ciascuna di esse, quali siano le relazioni che necessariamente si instaurano tra la corrispondente nozione di ecologia e le discipline collegate.

Un primo approccio può essere quello di assumere come riferimento l'ambiente inteso come habitat fisico dell'uomo, cioè come spazio fisico-chimico-biologico con cui vengono a contatto le popolazioni umane. In quest'ottica, sono le conseguenze sull'uomo di questo contatto che definiscono la significatività degli elementi e dei relativi supporti disciplinari pertinenti. Oltre al clima e agli eventuali cataclismi, acquistano particolare rilevanza i microclimi confinati (ambienti di lavoro e di vita), la condizione degli spazi aperti utilizzati per finalità produttive e ricreative, la struttura urbana con le sue particolarità chimiche, fisiche e microclimatiche. Inoltre, questa connotazione del concetto di ambiente implica anche la considerazione di altri elementi dello spazio che, pur non essendo a diretto contatto con l'uomo, costituiscono anelli per contatti successivi, come per esempio le falde acquifere o segmenti di ecosistemi naturali in cui possono accumularsi sostanze pericolose per l'uomo. Ne risulta una relazione diretta particolarmente stretta tra igiene ed ecologia e, di converso, sono da considerarsi specifiche derivazioni di questa relazione l'igiene ambientale, la medicina del lavoro, l'ergonomia, ecc.

Un secondo approccio può essere quello di assumere come riferimento l'ambiente complessivo di vita, cioè un ambiente che, pur mantenendo l'uomo come elemento centrale, aggiunge all'habitat fisico quel complesso di aspetti che fanno parte della sua vita di relazione. In quest'ottica, oltre agli elementi precedentemente considerati, assumono rilevanza le culture nelle loro diverse forme e, in generale, tutti gli aspetti inerenti al sistema socioeconomico. Ne discendono un collegamento preciso e una stretta relazione tra ecologia e geografia, mentre si può considerare come derivato di questa relazione la cosiddetta ‛geografia della percezione'.

Un terzo approccio può essere quello di assumere come riferimento l'ambiente in quanto ecosistema, cioè complesso di elementi fisici, chimici e biologici legati tra loro da flussi di energia e da trasferimenti di materia, senza che gli effetti sull'uomo vengano assunti, come nei casi precedenti, quali criteri primari di significatività dei suddetti elementi. L'ambiente, inteso in questo senso, coincide con quello dell'ecologia classica e comporta relazioni strettissime tra questa disciplina e le scienze fisiche, chimiche e naturali (geologia, botanica, zoologia, ecc.). Giova ricordare che l'ecosistema comprende anche l'uomo e le sue attività (ecosistema urbano, agro-ecosistemi, ecc.) e, di conseguenza, ciò comporta anche relazioni tra l'ecologia e le scienze del territorio (urbanistica, agraria, geografia, ecc.).

Un quarto approccio può essere quello di assumere come riferimento l'ambiente come spazio governato, cioè di assegnare all'uomo un ruolo attivo, sottolineando la sua capacità di intervenire sull'ambiente in base a progetti e motivazioni precise. In altri termini, si considera l'ambiente solo in quanto governato dalle attività dirette dell'uomo (agricoltura, industria, servizi), dal complesso di regole di cui si è dotato (organizzazione sociale e amministrativa, leggi, ecc.) e dalla definizione preventiva delle attività future (piani, progetti, ecc.). Sono evidenti, in questo caso, le strette relazioni tra l'ecologia (così concepita) e il diritto, l'economia l'urbanistica, la programmazione, la politica, ecc.

Un quinto approccio può essere quello di assumere come riferimento l'ambiente vissuto, cioè inteso non quale entità oggettiva (come in tutti i casi precedenti), ma quale ogni persona si costruisce soggettivamente sulla base delle proprie esperienze personali. Ne risulta che lo spazio e le condizioni variano in relazione alle interferenze culturali e non esistono più coordinate di riferimento oggettive, quali sono quelle definibili attraverso il ricorso alle cosiddette scienze esatte (fisiche e umane) con cui si è soliti misurare stati e condizioni. In questo caso vi sono evidenti relazioni tra ecologia, psicologia e, in certa misura, sociologia, mentre la psicologia e la sociologia ambientali possono essere considerate derivati di questa relazione.

Questo esame, rivolto a evidenziare separatamente - o meglio a far emergere implicitamente - i punti di contatto e le relazioni dirette di reciproco scambio tra le varie nozioni di ecologia e altre discipline, è in realtà fortemente riduttivo, in quanto l'ecologia - almeno nell'accezione attuale che gode di maggior credito - è insieme una scienza specifica, una scienza di tutti i sistemi (come tale una sorta di ‛tuttologia' transdisciplinare e, quindi, non separabile nettamente dalle altre discipline specifiche), ma anche e soprattutto un modello culturale di approccio, di interpretazione e di gestione di tutti i problemi di scambio e di relazione che riguardano l'antroposfera. In altre parole, se può avere significato riconoscere e definire le principali relazioni tra l'ecologia come scienza specifica e autonoma (o come raggruppamento di scienze specifiche e autonome, cioè precisamente delimitate quanto a riferimenti) e altre discipline (ugualmente specifiche e autonome), il discorso diventa sostanzialmente improponibile se si assume che l'ecologia sia una ‛tuttologia', cioè un momento di incontro e di sintesi di tutte le scienze.

Queste considerazioni astratte rischiano, tuttavia, di portare troppo lontano, ed è allora consigliabile esaminare brevemente le relazioni tra l'ecologia e alcune discipline critiche, riferendosi a esempi concreti che meglio si prestano a fornire un'immagine puntuale di alcune delle convergenze e reciproche influenze tra le diverse nozioni di ecologia e dette discipline.

a) Ecologia ed economia

Emblematico è il caso dell'economia, certamente una disciplina che ha trovato, in questi ultimi anni, più significative convergenze con l'ecologia, ne ha influenzato i metodi e ne è stata a sua volta influenzata. Del resto, fra economia ed ecologia esiste identità perfino nelle radici linguistiche, pur con un'ambigua differenziazione, ove il ‛logico' non corrisponde esattamente al ‛nomico'. Sebbene l'economia sia una vecchia scienza del ‛sociale' e l'ecologia una scienza giovane del ‛naturale' pensato e vissuto, non a caso lo stesso Konrad Lorenz, famoso etologo ed ecologo, ha definito l'economia come un'ecologia miope, riconoscendo cioè sostanziali convergenze tra la prima e la seconda. A questo riguardo, se è vero che uno dei principali campi di speculazione e dei principali obiettivi dell'ecologia è quello di definire e di quantificare le condizioni che massimizzano la qualità complessiva della vita, tra i ruoli tradizionali dell'economia vi è quello di misurare i livelli di benessere, condizione non coincidente con la qualità della vita, ma in certo modo convergente rispetto a essa.

Prima che la crisi ecologica, cioè il manifestarsi clamoroso di una serie di retroazioni negative connesse più o meno direttamente all'espansione del sistema economicoproduttivo, suggerisse che la qualità della vita è qualcosa di diverso rispetto al valore dei beni materiali disponibili, era abitudine corrente esprimere il livello qualitativo di una società attraverso indicatori economici. E ancora, per valutare l'opportunità delle diverse iniziative d'intervento, era buona regola ricorrere a valutazioni economiche dei costi-benefici, misurando cioè la compatibilità di piani e di progetti su basi esclusivamente economiche. Quando l'ecologia ha posto il problema di integrare nei bilanci economici la considerazione di fenomeni importanti come la degradazione dell'ambiente fisico, il deteriorarsi delle relazioni sociali (conflittualità, criminalità, ecc.), la disgregazione dei tessuti urbani e civili e così via (tutte realtà che sfuggono alle possibilità di sintesi dei tradizionali indicatori economici), è stata principalmente l'economia che ha offerto all'ecologia strumenti per misurare in modo reciprocamente commensurabile queste variabili tradizionalmente extraeconomiche, suggerendo criteri che consentono di attribuire alle medesime valori monetari e di inserirle quindi in una normale contabilità.

In altre parole, la disponibilità di una contabilità ambientale in forma monetaria ha notevolmente arricchito il patrimonio di conoscenze e di possibilità di intervento dell'ecologia e dell'economia stessa, consentendo di correggere le grandezze economiche che sono alla base delle tradizionali contabilità nazionali che, in tale quadro, riflettono anche i dati ambientali. Il calcolo delle economie e delle diseconomie legate alle condizioni ambientali (fisiche, sociali, culturali, ecc.) diviene così, in certa misura, un indicatore sintetico dello stato dell'ambiente.

Partendo dal modello input-output (o delle interdipendenze strutturali e settoriali) di Leontief (v., 1970), moltissimi sono i contributi e gli sviluppi nei quali economia ed ecologia mostrano ampie convergenze, fino ad arrivare a esperienze significative di sintesi in sede OCSE e, in Italia, agli studi ENI-ISVET di valutazione dei costi-benefici delle politiche di intervento ecologico che hanno avuto particolare fortuna a cavallo degli anni sessanta e settanta. Si può quindi affermare che l'incontro e le reciproche influenze tra queste due discipline hanno dato all'ecologia importanti riferimenti quantitativi, dei quali si avvertiva particolarmente l'esigenza, e hanno reso l'economia, parafrasando Lorenz, meno miope.

b) Ecologia e scienze sociali

Valgono, per questi rapporti, delle considerazioni simili a quelle già specificate per l'economia, anche se, a livello di parallelismo di significati e di obiettivi, non sono immediatamente riscontrabili le stesse analogie tra le due discipline. Come conseguenza della constatazione dell'insufficienza degli indicatori economici tradizionali a esprimere le condizioni di qualità della vita, è nato e si è sviluppato - a partire dalla metà degli anni sessanta e principalmente negli Stati Uniti - il cosiddetto ‛movimento degli indicatori sociali', che può essere considerato una risposta puntuale delle scienze sociali alla necessità di prendere in considerazione nuove aree di interesse, messe in evidenza dalla crisi ambientale e fatte proprie dal movimento ecologico. Obiettivi e contenuti del movimento sono espressi nella ben nota opera di G. Cohen (v., 1969) Toward a social report, e sono ulteriormente precisati in due documenti descrittivi delle condizioni sociali degli Stati Uniti d'America (Social indicators) comparsi, rispettivamente, nel 1973 e nel 1976. Le aree d'interesse maggiormente considerate riguardano: la popolazione, la famiglia, la casa, la sicurezza sociale, il benessere economico, la salute, l'alimentazione, la sicurezza, l'educazione e la formazione, il lavoro, il reddito e il costo della vita, la cultura, il tempo libero, la mobilità sociale e la partecipazione.

Dal punto di vista tecnico-metodologico, seguendo una logica molto simile a quella che ha caratterizzato il nascere dell'ecologia politica, le ricerche e gli sviluppi hanno riguardato gli aspetti del sociale da privilegiare, il tipo d'informazioni su cui basarsi e le modalità per organizzarle e renderle utilizzabili. Tuttavia, con singolari analogie con quanto si è verificato in campo ecologico, sul criterio di neutralità ha prevalso spesso la preoccupazione di fornire indicazioni gradite ai policy makers, o agli opinion makers, il che ha comportato che gli obiettivi nazionali o, in un certo senso, ideologici hanno spesso finito per diventare il criterio guida per la selezione dei parametri critici e per la fissazione degli standard di accettabilità. In concreto si è ricorso, per descrivere le condizioni sociali, a indicatori cosiddetti ‛oggettivi', di taglio normativo, che finiscono per perdere la funzione strettamente conoscitiva propria di un buon indicatore per assumere quella - potenzialmente molto pericolosa - di strumenti di controllo sociale.

Come reazione ai limiti etico-concettuali di tali indicatori (subordinazione delle ricerche al potere) ha preso corpo, sempre negli Stati Uniti, all'inizio degli anni settanta, un nuovo filone di ricerche sociali, basato su indicatori soggettivi. Questi ultimi sono stati sviluppati, dapprima, come risposta all'esigenza di dare un peso alle diverse variabili sociali ancora definite da indicatori oggettivi, ma ben presto hanno acquistato dimensioni autonome e, attraverso la considerazione dei sentimenti, delle emozioni, dei desideri, delle aspirazioni, delle frustrazioni, ecc., hanno mirato a dare un'immagine delle condizioni sociali quali erano percepite e vissute soggettivamente. Come hanno sottolineato Campbell e Converse (v., 1972), principali promotori degli indicatori soggettivi, questi consentono di tenere nel debito conto il fatto che la qualità della vita ‟non è data soltanto da circostanze oggettive, quali la salute, le abitazioni, ecc., ma anche - e soprattutto - dalle esperienze che l'individuo fa singolarmente durante la sua esistenza e dai bisogni che da queste esperienze emergono".

Parallelamente all'affermarsi degli indicatori sociali, si sono sviluppate, in sedi diverse, ricerche specifiche sugli indicatori ambientali, collegati cioè direttamente all'ecologia. Gli sforzi hanno teso alla definizione e alla strutturazione di indici descrittivi di condizioni e di fenomeni dell'ambiente fisico e sociale, con riferimento a standard correlati alla salute, all'economia, all'ecologia e a criteri estetici. In una prima fase hanno prevalso, anche in campo ambientale, gli indicatori oggettivi, ma successivamente hanno via via trovato spazio anche indicatori soggettivi e, soprattutto, si è affermata l'esigenza di affiancare ai metri anche i valori, cioè di tener conto dei desideri e delle aspirazioni delle popolazioni.

In sostanza, ecologia politica e scienze sociali hanno percorso strade parallele (spesso praticamente coincidenti) ed entrambe le discipline, con l'affinarsi delle sensibilità, si sono avvicinate con un approccio anche psicologico alla definizione dei rispettivi problemi. Inoltre anche gli obiettivi e i risultati delle ricerche hanno finito per convergere, tanto che in alcuni casi l'ecologia e le scienze sociali (e talora anche le scienze economiche) appaiono essere la stessa cosa. Gli sforzi di queste discipline sono rivolti a finalità solo nominalmente di ordine ecologico, oppure sociale o economico, ma nella realtà essi sono inerenti a una stessa dimensione e a uno stesso obiettivo: la qualità della vita. Le differenze sono essenzialmente di linguaggio (metodi e contenuti coincidono) e sono motivate, quasi esclusivamente, dalla formazione di origine degli specialisti, cioè dal loro essere - o considerarsi - ecologi, sociologi, psicosociologi o economisti. In tutti i casi la qualità della vita tende sempre a essere in qualche modo definita e resa misurabile mediante indicatori multispettrali, che partono dalla considerazione di aspetti disciplinari e sfociano poi nell'interdisciplinarità.

Tra tutte queste corrispondenze, alcune forse casuali, merita particolarmente sottolineare che l'ecologia ha certamente mutuato dalle scienze sociali la considerazione del cosiddetto ‛irrazionale', cioè l'esigenza non solo di tarare i metri tenendo conto dei valori, ma anche e soprattutto di saper considerare i valori come dimensioni autonome. Questo discorso, che si riallaccia a quello già sviluppato sugli indicatori soggettivi, merita di essere ulteriormente approfondito, in quanto il passaggio dall'ecologia classica a quella politica non è dovuto esclusivamente a un normale allargamento di prospettive e alla percezione cosciente del dilagare della crisi ambientale, ma anche e soprattutto al fatto che la disciplina è uscita dai santuari degli specialisti e si è dovuta verificare nel sociale.

Il sociale, come è ben noto e codificato nelle discipline che ne studiano i fenomeni, è fatto anche di irrazionalità, come era già stato messo in evidenza da Pareto, nel 1916, nel Trattato di sociologia generale. Di fatto, la teoria paretiana del sistema sociale è dominata dalla distinzione tra azioni logiche e azioni non logiche, dicotomia che adempie la stessa funzione della dicotomia weberiana tra azioni razionali rispetto allo scopo e azioni razionali rispetto al valore. Nell'ambito di questa dicotomia, l'ipotesi fondamentale da cui parte Pareto è che delle due classi di azioni la seconda sia, nell'insieme dei rapporti umani, molto più importante della prima. ‟Chi crede nella ragionevolezza loro - scrive Pareto - si lascia sfuggire la sfera di gran lunga preponderante della condotta umana; potrà costruire castelli metafisici come fecero a loro tempo i giusnaturalisti, ma non è in grado di far avanzare nemmeno di un millimetro lo studio scientifico della società".

È proprio in questa fondamentale intuizione che si possono riconoscere i fondamenti dell'ecologia umana, ciò che la differenzia dall'ecologia classica. Infatti, tutte le altre specie viventi agiscono ubbidendo a principi razionali (l'istinto degli animali ne è un esempio), mentre le azioni dell'uomo non dipendono solo da comportamenti oggettivamente adeguati al fine (azioni logiche), ma anche e soprattutto da comportamenti che lo sono solo soggettivamente e nella convinzione di coloro che li esercitano (azioni non logiche). In altre parole, questa fondamentale distinzione evidenziata dalle scienze sociali, tra il mondo dell'uomo e quello delle altre specie viventi, giustifica il fatto che i rigorosi principi dell'ecologia classica non possano essere applicati sic et simpliciter ai problemi umani e spiega perché l'ecologia umana non abbia avvenire al di fuori di stretti sinergismi con le scienze sociali.

c) Ecologia e urbanistica

I parallelismi tra urbanistica ed ecologia (quanto meno a livello di obiettivi, ma anche di struttura dell'ambiente costruito) sono stretti ed evidenti, ma ciononostante gli influssi della prima sulla seconda sono modesti, benché l'ecologia politica e sociale entri massicciamente nei problemi relativi all'ambiente urbano. L'ecologia, più che richiamarsi ai concetti e agli strumenti dell'urbanistica, si avvicina ai problemi dell'ambiente urbano attraverso le mediazioni dell'economia politica, delle scienze sociali e della psicologia, e risulta polarizzata dal suo approccio teso a privilegiare gli aspetti ‛naturali' rispetto a quelli artificiali. Sono testimonianza di tale processo, per esempio, le ricerche e le conclusioni sull'ambiente urbano e sulla sua desiderabilità sviluppate in sede OCSE negli anni settanta.

L'origine di questa separazione può essere sostanzialmente ricondotta alla diversità dei moduli e dei riferimenti operativi. Tradizionalmente, l'urbanistica si basa sul criterio dei piani (strumenti relativamente rigidi, anche se recentemente essa ha teso a renderli più flessibili, sia in relazione ai diversi livelli d'intervento, sia in termini temporali, e a privilegiare gli aspetti di regolazione dell'ambiente fisico che hanno rappresentato il centro della sua attenzione fin dalla metà del secolo scorso): è in questi termini che l'urbanistica commisura innanzitutto la qualità dell'ambiente urbano. L'ecologia è almeno altrettanto rigida, a livello di riferimenti e criteri metodologici, ma è del tutto elastica per quanto concerne la fissazione preventiva degli obiettivi. Una conferma emblematica dei non facili rapporti tra urbanistica ed ecologia è riconoscibile nel fatto che l'urbanistica, a differenza di altre discipline specialistiche, ha accolto con diffidenza la filosofia dell'environmental impact statement, cioè della necessità di una verifica continua e partecipativa delle attività umane, probabilmente per l'aleatorietà che essa comporta, che non consente di pervenire a piani, anche se flessibili, articolati e differenziati.

d) Ecologia e discipline tecniche

Come è già stato evidenziato, l'ecologia classica, intesa come disciplina specialistica, è in stretto rapporto - quanto a strumenti di analisi, criteri di approccio, leggi di riferimento, ecc. - con altre discipline come quelle naturali, fisiche e chimiche. Questo parallelismo si deve al fatto che l'ecologia classica non è altro che un capitolo delle scienze biologiche e si colloca in un quadro di relazioni e di interscambi, principalmente con la geologia, la chimica e la fisica. In particolare, si tratta spesso di relazioni dirette, se non di vere e proprie sovrapposizioni. Questo intimo intreccio, particolarmente evidente nel passato e certamente ancora attuale per quanto concerne gli sviluppi dell'ecologia di matrice classica, si è andato allentando con l'affermarsi dell'ecologia moderna e soprattutto di quella politica. Le relazioni tra l'ecologia, intesa nella vasta accezione attuale, e le scienze fisiche e naturali sono diventate sempre meno dirette e sempre più mediate dall'ecologia classica, la quale finisce per fornire, all'incontro con altre discipline tecniche e non tecniche, la chiave di lettura e di interpretazione delle informazioni tecniche stesse. Ne segue che i metodi dell'ecologia, pur avendo raggiunto una propria identità autonoma, sono direttamente intrecciati e correlati a quelli di altre discipline scientifiche, mentre i contenuti e i prodotti dell'ecologia lo sono molto meno. Un discorso di questa natura può, in certo modo, essere decodificato definendo (sia pure con eccessivo schematismo) l'ecologia classica come una scienza disciplinare che va verso l'interdisciplinare, l'ecologia moderna come una scienza interdisciplinare che va verso il transdisciplinare, e infine l'ecologia politica come un riferimento culturale e un modello di approccio alla realtà al di sopra delle discipline.

Per rendersi conto di quanto questo sia vero, può essere interessante vedere come, in tempi assai recenti, si stia in un certo senso ribaltando il rappotto tradizionale tra ecologia e discipline scientifiche, compresa la biologia dalla cui matrice l'ecologia classica è nata. Oggi, ad esempio, le enormi prospettive di sviluppo delle biotecnologie e la percezione dei rischi potenziali per l'uomo e l'ambiente che esse possono comportare portano a dovere e voler valutare a priori tali rischi. Un caso molto importante è l'introduzione di microrganismi geneticamente modificati con tecniche di DNA ricombinante, la loro proliferazione, i mutamenti genetici che ne possono conseguire per trasferimento di materiale genetico da o ad altri microrganismi, la creazione di nicchie ecologiche e così via. Un po' in tutto il mondo si stanno cominciando ad affrontare tali tematiche e negli Stati Uniti la National Science Foundation ha pubblicato, nel 1985, un rapporto sull'applicabilità dei metodi di risk assessment all'impatto ambientale delle biotecnologie (v. Covello e Fiksel, 1985). Il discorso sulla valutazione dei rischi connessi all'uso della tecnologia scientifica per l'uomo e per l'ambiente, e sulla loro prevenzione, ha, naturalmente, una portata ben più generale rispetto a un discorso limitato alle sole tecnologie biologiche, e oramai esso è sempre più oggetto d'interesse e intervento da parte di organismi politici responsabili, a livello di governi e di azioni sovranazionali (come il vertice dei capi di Stato e di governo dei grandi paesi industrializzati dell'Occidente, e la Comunità Economica Europea). Molto interessante, al riguardo, è un altro recente documento (v. Speth e altri, 1985) redatto dal Center for National Policy degli Stati Uniti, che tocca tutta una serie di aspetti che verranno discussi più avanti parlando delle retroazioni negative dell'uso dell'ambiente.

4. Il rapporto uomo-ambiente

Nell'accezione attuale il rapporto uomo-ambiente è generalmente visto in termini di mera contrapposizione, di conflitto se non di intrinseca incompatibilità. L'essere arrivati a considerare l'uomo come qualcosa di nettamente separato - per così dire estraneo - rispetto all'ambiente, trova una prima spiegazione in quattro peculiari caratteristiche che distinguono l'uomo dalle altre specie viventi: la sua attitudine a riflettere e a pensare, cioè ad avere una visione cosciente del mondo che lo circonda e, quindi, anche un atteggiamento critico nei riguardi di ogni proprio comportamento che possa essere pregiudiziale all'ambiente; la sua tendenza ad avere una visione antropocentrica del mondo, salvo poi ‛pentirsi', quasi autopunirsi, per questo suo supposto ruolo privilegiato; la sua straordinaria capacità di modificare l'ambiente; la sua proprietà di essere praticamente svincolato da ‛nicchie ecologiche'.

In verità, come sostiene V. Giacomini, l'uomo è assieme componente della biosfera (cioè parte dell'ambiente, come l'aria, l'acqua, il suolo, la flora, la fauna, ecc.) e centro dell'antroposfera, non è cioè una ‛malattia della Terra' né un fenomeno patologico, ma è partecipe dell'ambiente del quale è anche elemento culminante, direttivo, determinante, trasformatore, regolatore. È allora arbitrario e riduttivo pensare che le relazioni uomo-ambiente si riducano alle azioni dell'uomo ‛cattivo' sull'ambiente ‛buono', dal momento che è ben evidente, sia pure con un'enorme semplificazione, che questo rapporto si articola in almeno quattro possibili situazioni: l'uomo ostile all'ambiente, l'uomo favorevole all'ambiente, l'ambiente ostile all'uomo, l'ambiente favorevole all'uomo. Non è di grande aiuto alla comprensione dei problemi, nè coerente ai principî dell'ecologia, ridurre questa relazione a uno solo dei suoi termini (l'uomo ostile all'ambiente), il che porta - come realmente si verifica - a una fatalistica visione ecocatastrofica del mondo o a ingenue aspirazioni di annullamento dell'uomo nella natura, in altre parole a una rassegnazione acritica di fronte allo sviluppo qualunque esso sia (dal momento che sarebbe, comunque, un male) o a posizioni di ottuso protezionismo.

Se si ripercorre dall'origine l'evoluzione dei rapporti tra uomo e ambiente, si deve riconoscere che questa relazione non si è instaurata - come alcuni vorrebbero - sulla base dello sfruttamento cosciente delle risorse naturali da parte del primo o, all'origine (quando cioè l'uomo era ancora ‛buono') dell'adattamento volontario del primo al secondo, cioè nel contesto di comportamenti lucidamente finalizzati allo sviluppo, o alla conservazione, e secondo regole controllate dall'uomo. I meccanismi sociali alla base dello sfruttamento delle risorse, o della loro conservazione, sono stati largamente inconsapevoli, così come il loro adattamento alle caratteristiche dell'ambiente è da considerarsi ampiamente involontario. L'insieme dei fenomeni per i quali una comunità di uomini ha agito sull'ambiente o si è adattata a esso non può essere interpretato come il semplice risultato di una scelta, al limite come una lucida risposta a un'esigenza culturale (anche ecologica) avvertita, ma è la risultante di un processo dialettico che si è istituito fra la comunità umana e il suo ambiente. Così, i comportamenti e le azioni umane tendono a modificare l'ecosistema del quale fa parte la comunità che li esprime, o ad adattarsi a esso; cioè le influenze uomo-ambiente sono a doppio senso e i fenomeni di feedback sono una regola.

In questo complesso sistema di rapporti dinamici, riconducibile a una sorta di ‛determinismo ambientale', sia pure non lineare, le capacità tecnologiche dell'uomo esercitano un ruolo essenziale. Proprio a motivo di tale potere dirompente, alle tecnologie viene talora attribuito un ruolo di fattore sovrapposto, quasi non naturale.

Se per molti non è facile riconoscere la completa naturalità dell'uomo, cioè la legittimità della sua presenza e del suo ruolo come componente della natura, non deve stupire questo atteggiamento nei riguardi delle tecnologie che sono concettualmente lontane dall'immagine immediata e corrente che ci facciamo della natura. A rafforzare questa attribuzione di estraneità contribuisce, inoltre, l'enfatizzazione dei guasti sulla natura provocati dalle applicazioni tecnologiche, cioè l'illegittima identificazione con la natura di tutto ciò che è bene, e l'altrettanto arbitraria negazione di naturalità a tutto ciò che è considerato un male. Al di là del fatto che questa attribuzione manichea del bene e del male non ha alcuna giustificazione logica, in quanto i fenomeni naturali possono essere altrettanto ciechi e distruttivi (cioè esiste anche la natura ostile alla natura), mentre le applicazioni tecnologiche - a parte i benefici offerti all'uomo - sono spesso favorevoli anche alla natura, deve essere incondizionatamente riconosciuto che le tecnologie, frutto dell'esperienza e dell'intelletto dell'uomo, sono altrettanto naturali della capacità del castoro di costruire dighe, dei terremoti di far vibrare la Terra, dell'orogenesi di sollevare le montagne e delle forze isostatiche di livellarle.

Ripercorrendo la storia degli sviluppi tecnologici, ci si rende conto che gli elementi delle tecnologie (catene operative, conoscenze, strumenti di lavoro) non sono altro che espressioni - proprio come i linguaggi, i rapporti sociali, l'arte, la poesia, ecc. - dell'adattamento dell'uomo a compiti di trasformazione dell'ambiente che gli sono ‛per natura' propri, nonché del livello raggiunto dalla sua organizzazione sociale. I bisogni di una comunità e la sua organizzazione sociale portano l'uomo a modificare l'ambiente o ad adattarsi a esso, e sono quindi il risultato dell'identità raggiunta dall'ecosistema (uomo più ambiente) che li esprime. Tali bisogni influenzano direttamente i ritmi e i tempi di lavoro, la composizione dei gruppi di cooperatori, la tipologia degli utensili, i luoghi delle prestazioni di lavoro, i sistemi economici di contorno, vale a dire l'insieme della struttura delle tecnologie. Ne risulta, in sintesi, che le tecnologie, ben lungi dall'essere elementi sovrapposti, distorcenti l'ambiente fisico e sociale, sono fattori interni e conseguenze quasi obbligatorie del medesimo.

5. La crisi ecologica

In tempi recenti, proprio a causa dell'intensificarsi in modo esponenziale del rapporto uomo-ambiente, si sono verificati crescenti segni di crisi ecologica. Questa, per definizione, non è altro che la rottura o il deterioramento di certi rapporti tra l'uomo e l'ambiente, cioè l'espressione della perdita d'identità di settori e aspetti sempre più vasti dell'antroposfera che abbraccia, proprio per la capacità dell'uomo di pensare e di riflettere sui fenomeni che lo circondano, tutta la biosfera. L'uomo è arrivato buon ultimo nella storia della Terra (nell'Era quaternaria), vi ha trovato equilibri biologici antichissimi e si è inserito al secondo e al terzo livello trofico della catena alimentare che, dalle piante verdi capaci di fotosintetizzare materia organica, attraverso gli erbivori, arriva ai carnivori. Quando era ancora Pithecanthropus erectus, questo straordinario animale ha scoperto e utilizzato il fuoco - forse la prima importante applicazione tecnologica - e ha iniziato la trasformazione dell'ambiente in cui è nato, cioè ha dato inizio al proprio dominio sulla natura. Le comunità umane - che ai primordi della civiltà erano formate da gruppi nomadi di raccoglitori di frutti della terra e di cacciatori, e cioè vivevano di quello che la natura offriva spontaneamente - già nel Neolitico hanno incominciato a coltivare piante alimentari, il che ha permesso loro di accumulare i prodotti e di conservarli per i periodi freddi e di carestia.

In sostanza, con la nascita dell'agricoltura l'uomo si è svincolato - almeno parzialmente - dalla dipendenza totale dalla natura per quanto concerne uno dei suoi bisogni primari: l'alimentazione. Conseguenza immediata di questo affrancamento è stata la nascita dei villaggi e delle città, di un artigianato, di un'organizzazione più complessa di quella tribale. La popolazione umana ha così cominciato ad aumentare, anche se solo in aree limitate e molto lentamente, in quanto la difficoltà o l'impossibilità di affrontare adeguatamente e nella generalità delle situazioni altri problemi connessi a bisogni primari ha condizionato la dinamica demografica. È a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo, quando la popolazione sulla Terra era di poco superiore al mezzo miliardo di uomini, che si verificò un fatto nuovo con effetti dirompenti. Ebbe inizio cioè in quell'epoca, prima in Inghilterra e poi in altri paesi europei, la rivoluzione industriale, la più grande rivoluzione di tutta la storia dell'umanità. Il carbon fossile al posto della legna, poi l'energia vapore e quindi il petrolio, l'energia nucleare, l'elettronica, l'automazione, ecc. hanno dato all'uomo possibilità immense di trasformazione del proprio ambiente.

Si è assistito dapprima a un progressivo affrancamento dell'uomo dai peggiori mali e da molti bisogni elementari che lo affliggevano da sempre (fame, freddo, pestilenze, povertà diffusa, ecc.), poi al conseguimento di livelli di benessere altrimenti impensabili. Basti ricordare, a titolo di esempio, che la vita media dell'uomo nei paesi industrializzati si è quasi triplicata dall'era romana ai giorni nostri. Le migliorate condizioni ambientali, cioè l'addomesticamento della natura ostile all'uomo, la disponibilità sempre maggiore di beni e di servizi, l'acquisizione di tecniche e di strumenti di prevenzione e d'intervento sanitari sempre più efficienti e, in sintesi, il conseguimento di standard di qualità della vita più compatibili con lunghe sopravvivenze (se non nella generalità dei casi, almeno in vaste aree geografiche) hanno determinato l'aumento vertiginoso della popolazione terrestre, dando luogo a quella ‛demografia galoppante' che è posta da molti all'origine della crisi ecologica.

La popolazione della Terra, che ha ormai raggiunto nel 1987 i cinque miliardi di abitanti, continuando a crescere al ritmo di circa due unità ogni minuto secondo (quattro nascite e due decessi), nel 2000 dovrebbe superare di poco i 6 miliardi di abitanti - dei quali oltre 4 miliardi vivrebbero nei paesi in via di sviluppo - e oscillare tra 8 e 8,5 miliardi nel 2050. Questo gigantesco incremento di popolazione, unito al rilevante e continuo aumento dei consumi pro capite, ha come immediata conseguenza uno straordinario accrescimento dei bisogni che il pianeta Terra è chiamato a soddisfare. La necessità appunto di far fronte a questo aumento di popolazione è stata discussa recentemente in un libro di Colombo e Turani (v., 1982), nel quale si fa un'analisi di come e a quali condizioni, in un periodo così breve di tempo, si possa affrontare il problema di raddoppiare, con la popolazione, la dotazione di cibo, energia, materiali, strutture industriali, infrastrutture, servizi, a livello mondiale (dotazione che l'uomo si è data in tutto l'arco di tempo precedente, durante il quale è vissuto su questo pianeta).

Lo straordinario aumento dei consumi, dovuto allo sviluppo demografico ma anche al tipo di civilizzazione in cui sono impegnati i paesi industrializzati, ha finito per porre il problema della limitatezza delle risorse, se non del possibile esaurimento di alcune di esse. Tale limitatezza non riguarderebbe solo gli aspetti quantitativi, ma anche quelli qualitativi, sempre più alterati dai sottoprodotti e dai rifiuti dello sviluppo, in quanto gli ambiti di variabilità qualitativa che assicurano la sopravvivenza dell'uomo sono molto circoscritti. A questo proposito va osservato che già dalla metà del secolo scorso Ch. R. Darwin e A. R. Wallace, enunciando la teoria dell'evoluzione delle specie, avevano messo in evidenza l'enorme importanza dei fattori ambientali sui fenomeni evolutivi e avevano posto le basi di una nuova scienza - l'ecologia - destinata a studiare i rapporti e gli equilibri tra gli organismi viventi e l'ambiente che li circonda. E l'ecologia ci insegna appunto che tali rapporti si sviluppano in uno spazio limitato - l'imbarcazione Terra - e che gli uomini sono costretti in una piccola capsula spaziale - la biosfera - il cui spessore, inclusi i giacimenti sedimentari contenenti sostanze fossili di origine biologica, non supera la decina di chilometri sulla crosta terrestre. È noto, inoltre, che il nostro piccolo pianeta è ricoperto dall'acqua per circa il 70% della sua superficie, che immense distese di ghiaccio ricoprono le terre polari e che i deserti delle regioni tropicali e i rilievi troppo elevati e scoscesi non consentono, o consentono molto male, la vita dell'uomo, delle piante e degli animali destinati alla sua alimentazione. Dal momento che la produzione primaria del nostro pianeta, cioè la quantità di energia che gli organismi produttori sono in grado di assimilare, oscilla, riportata in produzione lorda (grammi di materia organica per unità di tempo e di superficie), da un minimo di 0,5 g/m2/giorno nelle zone desertiche e negli oceani a un massimo di circa 20 g nelle terre coltivate e in alcuni ambienti naturali particolarmente favorevoli, si può calcolare facilmente la biomassa compatibile con le capacità della Terra.

Secondo Josué de Castro, già direttore generale della FAO, la superficie coltivabile necessaria all'alimentazione di ogni uomo ammonterebbe a due acri (poco meno di un ettaro) e, di conseguenza, i 16 miliardi di acri della Terra destinabili all'agricoltura potrebbero essere sufficienti per non più di 8 miliardi di persone. Secondo Cesare Marchetti dello IIASA, invece, tenendo conto soltanto delle attuali tecnologie e non di quelle in fase di studio e di sviluppo (nuovi materiali ed energie di domani, biotecnologie, ecc.), il pianeta Terra sarebbe in grado di sfamare e dare risorse a ben 1.000 miliardi di persone (a prescindere da problemi di altra natura come, ad esempio, quelli sociopsicologici). I problemi relativi alle risorse che l'uomo è in grado di ottenere su questo pianeta e alle tecnologie che servono allo scopo verranno discussi in seguito. Qui ci si può limitare a ricordare che è molto probabile che prima della fine del prossimo secolo si dovrebbe pervenire a una stabilizzazione della popolazione terrestre attorno a un valore compreso tra 8-9 e 13-14 miliardi di persone.

I principî dell'ecologia consentono d'inquadrare in modo completo il problema della crisi del rapporto uomo-ambiente che, in prima approssimazione, viene attribuito all'esplosione demografica e alla rivoluzione industriale. L'ecologia si basa sul concetto di ecosistema (unità funzionale comprendente l'ambiente e la popolazione che in esso vive), concetto che implica il fatto che nessuna delle sue componenti (sia essa la popolazione o l'ambiente) può essere disgiunta dall'altra. All'interno di ogni ecosistema, qualunque sia la sua natura, si stabiliscono particolari equilibri che meccanismi specifici di autoregolazione tendono a conservare: sono i cosiddetti meccanismi omeostatici, che permettono all'ecosistema di difendere e di salvaguardare la propria identità. Tali meccanismi autoregolatori trovano la loro origine nella catena di interdipendenze funzionali che collega tra di loro tutti gli elementi dell'ecosistema: l'interdipendenza è la grande legge dell'universo e il meccanismo di input-output-feedback la grande norma.

L'uomo - la cui caratteristica biologica principale è la capacità di modificare gli elementi dell'ambiente per adattarli ai suoi più diversi bisogni - tenta molto spesso di sottrarsi alla catena di interdipendenze semplificando l'ecosistema, cioè cercando di ignorare le retroazioni (di alcune delle quali si discuterà più avanti). Questo modo di agire - al di là dell'esplosione demografica, che è un aspetto della crisi ambientale, ma non la sola spiegazione - è la causa prima della crisi del rapporto uomo-ambiente. Infatti, il tentativo di ignorare alcuni risvolti dei problemi non fa altro che crearne di nuovi e, a tale riguardo, si possono fare innumerevoli esempi nei più svariati campi. Se, per assecondare lo sviluppo urbano, viene prelevata troppa acqua dal sottosuolo, l'approfondimento delle falde acquifere o il loro prosciugamento costituiscono vincoli al processo di urbanizzazione; se, per favorire lo sviluppo industriale, si consente alle fabbriche di emettere liberamente i propri inquinanti, le condizioni ambientali deteriorate finiscono per tradursi - direttamente o indirettamente - in elementi frenanti per le attività industriali; se viene trascurata l'agricoltura a vantaggio di altre attività ritenute più redditizie, il peso delle importazioni alimentari sottrae valuta pregiata ai bisogni di queste ultime, mentre si degrada il suolo prima destinato alle colture agricole; se un'attività sottrae al sistema più servizi di quanti non ne restituisca, il sistema depauperato finisce per limitare l'attività stessa; se, per favorire lo sviluppo di un paese, si sottraggono risorse all'educazione di base, la collettività non adeguatamente preparata avanza richieste irrealistiche che sottraggono risorse allo sviluppo; e così via. Risulta allora chiaro che non si può premiare un elemento dell'ecosistema (sia esso appartenente alla componente popolazione o all'ambiente) senza danneggiare prima o poi anche l'elemento stesso che si voleva favorire. Si deve invece avere a cuore il funzionamento dell'intero ecosistema più che l'interesse di singoli elementi, dato che solo in questo modo è possibile tutelare realmente le necessità di tutti. Ne segue che è pure importante stabilire per ogni componente quali siano le caratteristiche fondamentali e irrinunciabili, senza le quali, cioè, l'ecosistema stesso è destinato a perdere, prima o poi, la sua stessa identità.

L'ecologia, con tutto il bagaglio delle diverse discipline naturali e umane che vi concorrono, sarebbe in linea di principio in grado di fornire una risposta a questa domanda; tuttavia si tratta di una problematica così complessa che, almeno oggi, le risposte possono solo essere parziali, molto semplificate, e non scevre da componenti ideologiche, le quali surrogano gli aspetti strettamente oggettivi che non si è in condizione di utilizzare, se pure si è in grado di disporne. Schmidt di Friedberg (v., 1979) ha cercato di dare una risposta a questa problematica. Anche se non è possibile condividere completamente tutte le sue indicazioni (ad esempio, per quanto riguarda le risorse, delle quali si parlerà in seguito, la massimizzazione dell'uso di quelle rinnovabili e la minimizzazione dell'uso di quelle non rinnovabili), tuttavia si ritiene molto utile per il lettore ricordarne, in modo sintetico, le principali condizioni irrinunciabili, pena la perdita di identità dell'ecosistema umano.

Per quanto riguarda l'ambiente, tali condizioni sono: la massimizzazione dell'uso delle risorse rinnovabili; la minimizzazione dell'uso delle risorse non rinnovabili; la minimizzazione delle scelte irrevocabili; il rispetto delle vocazioni specifiche delle varie componenti dell'ambiente; la gradualità nella modifica degli equilibri; la razionale utilizzazione dei livelli di energia. Per quanto concerne l'uomo, invece: il superamento delle soglie di povertà che condizionano le scelte umane; il rispetto della varietà (tecnica, culturale, sociale) quale potenziale fonte d'innovazione, indispensabile in un mondo non statico; il rispetto delle tradizioni, quali verità sperimentali pazientemente accumulate nei secoli; la presa in considerazione dell'uomo in quanto specie e non solo come individuo.

Quest'ultimo aspetto merita una particolare riflessione, ove si tenga conto che la selezione naturale, alla base degli equilibri tra ambiente e comunità in esso insediate, agisce di regola in direzione interspecifica - tende cioè a rafforzare qualità utili alla specie (come per esempio la solidarietà) - mentre la selezione sociale è fondamentalmente intraspecifica, tende cioè a promuovere caratteristiche utili all'individuo (per esempio l'aggressività). Ne consegue che il rendere sempre più accanita la selezione sociale, come spesso avviene nella società umana, potrebbe portare a una popolazione fatta di individui singolarmente molto efficienti, ma collettivamente deboli come specie. Anche questo è tuttavia un aspetto che pone, se non altro, degli interrogativi, in quanto non è un dato apodittico che la specie Uomo debba seguire le regole di altre specie, quando essa è (naturalmente) in grado di creare strumenti e condizioni di controllo e di sostegno delle nuove situazioni che non sono tipiche della specie in un ambiente che non abbia subito interventi da parte dell'uomo. Ad esempio, si può ricordare che oggi si fanno sistematicamente sopravvivere (o meglio vivere) individui altrimenti destinati a essere eliminati per le loro (o altrui) condizioni organiche: mancanza di certi enzimi, incapacità delle madri di allattare, e così via.

Se quelli sopra ricordati sono gli insegnamenti dell'ecologia, o meglio i criteri e i comportamenti che hanno influenza sull'identità dell'ecosistema umano, si deve considerare la crisi del rapporto uomo-ambiente, che s'identifica in un certo senso con la crisi del mondo contemporaneo, come una conseguenza del fatto che non si tiene sufficientemente conto delle condizioni base per il buon funzionamento dell'ecosistema umano. In particolare molti puntano il dito sul fatto che la nostra civiltà è sovente basata sullo spreco delle risorse non rinnovabili, sulla selezione intraspecifica, sul disprezzo delle tradizioni, sull'annullamento di ogni varietà, sulle modifiche radicali non adeguatamente meditate, sulla proliferazione autonoma della tecnologia al di fuori degli interessi della collettività, e così via. Non sarebbe determinante, di conseguenza, appellarsi all'esplosione demografica per spiegare i motivi per cui scricchiolano le strutture del nostro mondo.

6. La nozione di ambiente

Sebbene esista un sostanziale consenso sui grandi principî dell'ecologia e sulla necessità di riferirsi ai medesimi per analizzare i problemi ambientali, le posizioni tendono a divaricarsi quando dalla teoria si passa alla pratica, cioè si debbono affrontare concretamente i diversi aspetti della crisi in atto. Tali divaricazioni trovano origine nel fatto che convivono - per quanto possa sembrare strano - concezioni molto diverse dell'ambiente. Per l'uomo della strada l'ambiente rappresenta assai spesso, nell'accezione corrente, la natura incontaminata, quella dei fiumi e dei boschi, delle piante e degli animali: una natura alla Rousseau, che accetta il mondo rurale ma ignora altezzosamente quello urbano. Anche nel linguaggio scientifico le nozioni di ambiente e di natura sono coincise per lungo tempo, cioè il concetto di ambiente è stato rigidamente limitato alle sue sole componenti cosiddette ‛naturali'. Gli enormi consensi che hanno accompagnato il sorgere e lo svilupparsi del movimento ecologico neoromantico, del quale le associazioni protezioniste costituiscono - per così dire - il braccio secolare, sono una risultante emblematica di questa posizione che, ancora oggi, riscuote ampi consensi, nonostante il parallelo affermarsi di altre correnti di pensiero basate su una nozione meno riduttiva del concetto di ambiente. A questo proposito, basti pensare che ancor oggi per molti - forse anche per i più - le preoccupazioni ambientali e l'ecologia stessa (intesa quest'ultima come riferimento e strumento di difesa dell'ambiente) riguardano quasi esclusivamente le poche testimonianze-relitto dell'ambiente cosiddetto ‛naturale', nel quale vengono tutt'al più inclusi, con un singolare salto di concetto, anche i beni culturali e storici. Tale visione ristretta e neoromantica dell'ambiente spiega anche perchè tutte le forme di sviluppo tendano a essere interpretate da molti in senso negativo (in quanto deviazioni da un'ambita ‛naturalità'), con il risultato di condannare indiscriminatamente non solo le retroazioni negative della civiltà industriale, ma anche gli evidenti benefici di cui loro stessi godono.

In effetti, quando si sottolineano e si enfatizzano solo gli effetti negativi della rivoluzione industriale e dell'esplosione demografica - cause, testimonianze ed effetti, allo stesso tempo, dell'affrancamento dell'uomo dai bisogni elementari, della vittoria sulle pestilenze e della conquista di libertà precedentemente negate ai più - si dimentica che la nozione di ambiente non può essere circoscritta a ciò che è estraneo all'uomo e a particolari prodotti del suo ingegno (i beni culturali), ma che essa comprende, altrettanto legittimamente, le strade, le case, le fabbriche, l'organizzazione sociale, la cultura, l'economia, le tecnologie, ecc. In particolare, limitandosi a considerare i soli elementi fisici dell'ambiente, risulta evidente il ruolo fondamentale che riveste, soprattutto nei paesi di vecchia civiltà, il cosiddetto ‛ambiente costruito', cioè risultato - spesso mirabile - di una lunga stratificazione d'interventi umani. Del resto, quanto di equivoco e di parziale vi sia nella nozione ristretta di ambiente naturale e nell'attribuzione a quest'ultimo di caratteri sempre e comunque buoni, risulta con evidenza dal fatto che tutto ciò che vi è di male, cioè di ‛innaturale', tende a essere attribuito all'intervento dell'uomo, anche quando è vero il contrario. A questo proposito, basti pensare ai dissesti idrogeologici, che interessano larga parte del nostro paese e che sono principalmente dovuti al venir meno, a seguito dello spopolamento delle zone montane e collinari, delle opere di difesa del suolo già costruite e mantenute dalla presenza dell'uomo (muretti di sostegno, opere di scolo delle acque meteoriche, ecc.). È pur vero che a tali dissesti non sono estranei i disboscamenti, le colture agricole condotte con modalità non appropriate, le grandi opere civili (strade, bacini idrici, ecc.), l'urbanizzazione, ma non si deve dimenticare che frane ed erosioni sono, prima di tutto, fenomeni assolutamente naturali e che lo smantellamento dei rilievi ubbidisce alla legge dell'isostasia, cioè è una risposta ‛naturale' all'orogenesi.

Nonostante le forti e diffuse resistenze di retroguardia, si è largamente affermata ormai nella cultura moderna anche una nozione più ampia e corretta di ambiente. A tale proposito, giova ricordare alcune posizioni e definizioni, emerse in sedi autorevoli, che inquadrano la nozione di ambiente e le relazioni di quest'ultimo con l'uomo in un contesto più aderente alla realtà e più attento ai bisogni dell'uomo stesso. In particolare, nella risoluzione finale della Conferenza di Stoccolma sull'ambiente umano, organizzata dalle Nazioni Unite nel 1972, si legge: ‟L'uomo è tanto creatura che creatore del proprio ambiente [...]; entrambi gli aspetti dell'ambiente in cui vive, tanto il naturale che quello dovuto al suo intervento, sono essenziali per il suo benessere". E ancora, alla Conferenza sull'educazione ambientale di Tbilisi del 1977, sempre organizzata dall'ONU, si è arrivati - anche e soprattutto per iniziativa dei paesi del Terzo Mondo, che vedevano con sospetto l'ideologia della ‛crescita zero', sostenuta dai paesi industrializzati - alla seguente definizione: ‟Ambiente è la somma delle risorse disponibili in un certo luogo e in un dato momento per soddisfare le aspirazioni e le necessità dell'uomo".

In questi casi si è molto lontani da una visione dell'ambiente limitata ai soli aspetti naturali e, soprattutto, da un approccio alla gestione dello stesso su basi esclusivamente di conservazione e di rigoroso controllo dello sviluppo. Nel contesto di queste definizioni, ma in un'ottica più specificatamente operativa, si può definire l'ambiente come un insieme di beni materiali (acqua, aria, suolo, flora, fauna, costruzioni, ecc.) e immateriali (cultura, abitudini, tradizioni, modelli di vita, paesaggi, ecc.) che forniscono servizi tangibili (spazio vitale, approvvigionamento idrico, trasporti, servizi sanitari e scolastici, alloggiamenti, ecc.) e intangibili (opportunità di immedesimazione nella natura, di godimento estetico, di identificazione culturale, di soddisfacimento di aspirazioni, ecc.). Di conseguenza, le condizioni dell'ambiente non possono essere quantificate in relazione alla loro maggiore o minore naturalità, ma tenendo conto dell'attitudine complessiva del flusso di servizi teso a soddisfare i bisogni che emergono dagli interessi collettivi, settoriali e individuali delle popolazioni.

7. Retroazioni negative dell'uso dell'ambiente

Dal momento che l'ambiente naturale è in grado di fornire un flusso molto modesto di servizi, assolutamente insufficiente a soddisfare i bisogni degli uomini, non solo per l'aumento della popolazione, ma anche per la dilatazione, la riqualificazione e la differenziazione della domanda conseguenti allo sviluppo economico, culturale e morale dell'umanità, l'uomo è stato costretto a intervenire sull'ambiente, al fine di migliorare e aumentare il flusso dei servizi che esso può rendere. Condannare indiscriminatamente questi interventi, in nome di una supposta lesa ‛naturalità', significa negare l'evidenza e, soprattutto, non rendersi conto che la stessa domanda di beni naturali è un'esigenza secondaria delle civiltà avanzate, quelle cioè che hanno già profondamente trasformato per altre finalità primarie l'ambiente naturale. Tuttavia, nonostante non si possa negare che, nel complesso, gli interventi dell'uomo si siano risolti in miglioramenti evidenti dell'ambiente (incremento qualitativo e quantitativo dei servizi resi), alcuni errori e l'insufficiente considerazione delle retroazioni negative hanno agito in senso contrario, fino a vanificare - o a minacciare di compromettere in un vicino futuro - gli stessi vantaggi ottenuti. A tale riguardo, si deve sottolineare che in alcuni casi si tratta di errori evidenti o di omissioni colpevoli, in altri di una certa leggerezza con la quale sono state avviate attività senza una sufficiente attenzione e i dovuti approfondimenti, ma che spesso si è trattato di conseguenze imprevedibili e difficilmente controllabili, dato che molte delle retroazioni negative derivanti dallo sviluppo si caratterizzano per il loro andamento esponenziale e, quindi, diventano gravissime subito dopo essersi manifestate. Inoltre, un altrettanto rilevante fattore di complicazione può essere individuato nella limitata capacità delle diverse porzioni di ambiente, cioè nella loro attitudine non inesauribile a sostenere modifiche suscettibili di incrementare il flusso dei servizi resi. Ne deriva che, a livello locale (e relativamente ad alcuni aspetti anche a livello mondiale), la sopravalutazione della capacità dell'ambiente di fornire servizi in misura sempre maggiore si è risolta in una perdita secca dei servizi già resi. Gli inquinamenti (fisici e sociali) e le minacce di scarsità di alcune risorse sono tra le retroazioni più significative.

a) Impatto dell'inquinamento sui vari settori ambientali

L'impatto dell'inquinamento sui vari settori ambientali e i danni che ne derivano per l'uomo sono già stati illustrati nell'articolo inquinamento ambientale e nel relativo aggiornamento. Ci limiteremo pertanto a esporre qui alcuni dati quantitativi.

Per quanto riguarda l'inquinamento dell'aria, per la parte di cui sono responsabili gli autoveicoli, si è calcolato, per esempio, che una vettura media che consumi 1.000 litri di benzina per percorrere 10.000 chilometri emetta 290 kg di monossido di carbonio (CO), 33 kg di idrocarburi e di aldeidi, 11 kg di ossidi di azoto, 1 kg di diossido di zolfo (SO2) e di polveri, 0,2 kg di piombo. Da parte sua, un jet supersonico libera, per ogni ora di volo, 83 tonnellate di vapor acqueo, 72 tonnellate di diossido di carbonio (CO2), 4 tonnellate di CO e un'uguale quantità di ossidi di azoto.

La principale fonte dell'inquinamento atmosferico da SO2 è rappresentata dalle centrali termoelettriche. Esse, anche se alimentate a carbone con basso tenore di zolfo (meno dell'1%) e dotate di elettrofiltri per l'abbattimento delle polveri (efficienza superiore al 99%), emettono circa 4.000 m3 (calcolati a 0 °C e 1 atmosfera)/h/MW di fumi, circa 7 kg/h/MW di ossidi di zolfo come SO2, 3,5 kg di ossidi di azoto come NO2, 0,5 kg di polveri, 0,2 kg di CO e quantità minori di idrocarburi, aldeidi, policiclici aromatici, metalli pesanti, cloro, fluoro, sostanze radioattive, ecc. Quanto al riscaldamento domestico, nelle condizioni medie italiane si verificano emissioni dell'ordine di 15 kg/abitante/anno di SO2, 10 kg di CO, 20 kg di idrocarburi e di aldeidi, 2 kg di ossidi di azoto e 0,5 kg di polveri.

Tabella 1
Tabella 2

Se si considerano inoltre le emissioni delle varie industrie chimiche, si arriva, specialmente per i paesi più industrializzati, a diversi milioni di tonnellate annue, come evidenziato dalle tabb. I e II, che riportano per alcuni anni e alcuni grandi paesi industrializzati i dati di emissione globale di ossidi di zolfo e di azoto. Negli Stati Uniti, in particolare, si producono inoltre, ogni anno, circa 15 milioni di tonnellate di polveri, 23 milioni di tonnellate di idrocarburi e 130 milioni di tonnellate di ossidi di carbonio.

Per quanto riguarda l'inquinamento dell'acqua, è importante sottolineare che per questa, a differenza di quanto si verifica per l'aria, esistono, a fianco dei problemi di qualità, anche quelli di quantità-disponibilità. In effetti, la quantità di acqua utilizzabile per gli usi di maggior interesse è meno consistente di quanto usualmente non si creda. Infatti, il 98% delle acque terrestri è salato e la quasi totalità delle acque dolci, circa 25 milioni di km3, è immobilizzata sotto forma di ghiaccio nelle calotte polari. L'uomo, dunque, dispone realmente per i propri bisogni di circa 350.000 km3 di acque di superficie (laghi e fiumi) e di 1,5 milioni di km3 di acque sotterranee.

A fronte di tali disponibilità, oggi praticamente non incrementabili, i bisogni dell'uomo sono in continuo aumento, a causa della crescita demografica, dell'industrializzazione, della diffusione dell'irrigazione per uso agricolo, dell'urbanizzazione e così via. L'uomo dei paesi sottosviluppati utilizza per i suoi bisogni personali circa (e in media) 40 litri di acqua al giorno, ossia 15 m3 all'anno; un europeo ne utilizza 500 m3 e un americano 1.300 m3. Attualmente il consumo medio mondiale è di 300 m3 pro capite, ma si prevede che entro la fine del secolo possa essere superiore ai 1.000 m3. A parte gli usi civili e agricoli, l'acqua viene impiegata anche nella produzione di energia, nel trasporto di calore, nel raffreddamento e in molti processi produttivi. Per esempio, la lavorazione di una tonnellata di acciaio richiede circa 200 m3 di acqua e la produzione di una tonnellata di carta da 50 a 300 m3.

Il pianeta non soffre ancora globalmente di un deficit idrico, ma in alcune zone si manifesta già uno squilibrio tra il flusso disponibile e i prelievi in atto, anche perché parte delle disponibilità teoriche non sono più adatte a molti usi, in quanto contaminate da inquinanti. Tale fenomeno non è certo di origine recente, ma solo lo sviluppo demografico e industriale del XX secolo gli ha conferito una dimensione preoccupante. Infatti, limitato prima ad alcuni spazi circoscritti, solo negli ultimi decenni ha raggiunto un carattere diffuso, non risparmiando praticamente alcun corpo idrico.

Anche se l'inquinamento da scarichi civili può assumere dimensioni preoccupanti a valle delle grandi concentrazioni urbane, soprattutto quando i corpi idrici ricettori hanno portate modeste in relazione alla portata degli scarichi inquinati, sono principalmente le attività industriali e il dilavamento dei campi trattati con concimi chimici e pesticidi che influiscono pesantemente sulla qualità delle acque. Basti pensare che è stato calcolato, con riferimento alla struttura dell'industria italiana, che l'inquinamento generato dalle attività industriali nel nostro paese corrisponde, limitatamente al carico organico, a quello che sarebbe causato da 150-200 milioni di abitanti, in aggiunta a quello degli abitanti insediati, all'agricoltura-allevamento, ai trasporti, al turismo. Più in particolare, sempre in termini di ‛abitanti equivalenti', nell'industria di distillazione dell'alcol etilico e produzione di liquori ogni addetto ‛inquina' come 2.550 abitanti, nella produzione di zucchero come 1.000, nell'industria di pasta di carta e cartone come 425, nell'industria conciaria come 133, e così via. Un'immagine d'insieme della ‛pressione' a cui sono sottoposti i corpi idrici nelle zone ad alta densità di popolazione e d'industrializzazione, per effetto di scarichi industriali, civili e indirettamente connessi ad attività agricole, può essere ricavata dalla considerazione dei principali inquinanti riversati annualmente in un grande fiume come il Po: 52 milioni di tonnellate di rifiuti inorganici, 15 milioni di tonnellate di fanghi chimici, 36 milioni di tonnellate di rifiuti organici. Sebbene le acque siano ambienti viventi, sistemi in equilibrio, nei quali miliardi di microrganismi sono in attività per rigenerarle, al di sopra di ben determinate soglie d'inquinamento la capacità di autodepurazione dei corpi idrici può risultare insufficiente e anche regredire fino quasi ad annullarsi. Avviene così che in corpi idrici confinati o semiconfinati (laghi, bacini chiusi, ecc.), nei quali il ricambio di acqua è assente o molto lento, si determinino condizioni di morte biologica, la cui reversibilità può richiedere tempi lunghissimi.

Oltre agli inquinamenti chimici, dovuti allo scarico nei corpi idrici di sostanze organiche e inorganiche, una particolare rilevanza, soprattutto in ambienti confinati o di portata idrica contenuta, va assumendo anche l'inquinamento termico delle acque. Per avere un'idea delle dimensioni del problema basti pensare che, per ogni kWh elettrico prodotto per via termica, si devono dissipare nell'acqua 1.000 kilocalorie e cioè, volendo limitare in uscita al condensatore il sovralzo termico tra l'acqua prelevata e quella restituita a meno di 10 °C, riscaldare più di 30 m3/secondo di acqua per ogni 1.000 MW di potenza elettrica installata. Il problema è comune sia alle centrali termiche tradizionali che a quelle nucleari, anche se per queste ultime è più acuto a causa del minor rendimento degli attuali impianti nucleari, per i quali la portata dell'acqua di raffreddamento è superiore di circa il 40% rispetto a quella occorrente per una centrale tradizionale. Per quanto l'aumento di temperatura nei corpi idrici ricettori risulti limitato a pochi gradi centigradi (in Italia, ad esempio, la legge impone che la variazione massima tra le temperature medie delle sezioni a monte e a valle del punto d'immissione dello scarico non superi i 3 °C e che, su almeno metà delle sezioni, tale variazione non superi 1 °C), in alcune situazioni questo aumento è suscettibile di turbare localmente l'equilibrio ecologico naturale dell'ambiente acquatico, floristico e faunistico. Tuttavia, in un bilancio globale, il calore scaricato nei corpi d'acqua dalle centrali termoelettriche di tutto il mondo, rispetto al calore solare ricevuto dagli stessi, è una frazione molto piccola: meno di 1/100.000. Non sussistono pertanto preoccupazioni sul piano dell'equilibrio termico generale.

Anche il mare - nel quale confluiscono tutti gli inquinanti che i corsi d'acqua non sono riusciti a riciclare, oltre agli scarichi diretti costieri e pelagici - comincia a risentire, sia pure localmente (fasce litoranee), di fenomeni diversi di alterazione chimica e biologica delle acque. Particolarmente preoccupanti sono i fenomeni che riguardano le catene alimentari, per i pesanti riflessi indotti sulla salute dell'uomo. A tale riguardo si possono ricordare casi limite di intossicazioni croniche e acute dovute al consumo di pesci variamente contaminati, come le tristemente famose malattie di Minamata e di Itai-Itai in Giappone, conseguenti a scarichi localizzati in mare di mercurio e di cadmio, che hanno fatto rispettivamente 1.400 e 123 vittime.

Passando ora al suolo, bisogna premettere che questo può essere considerato un ‛organismo' vivente formatosi nel corso dei secoli: occorrono mediamente 500 anni perchè si formi un suolo attraverso l'alterazione delle rocce madri e l'accumulazione di humus. Nel suolo si elabora in buona parte la materia organica che è alla base della catena alimentare e, oltre alla sua funzione biologica naturale, il suolo, come supporto dell'agricoltura, svolge un ruolo insostituibile nell'alimentazione degli uomini. Ma il suolo è un organismo fragile, le cui funzioni possono essere compromesse dalle attività umane e naturali più diverse. Infatti, ancora più gravemente dell'aria e dell'acqua, sia in termini spaziali che di reversibilità dei danni subiti, le funzioni del suolo possono essere compromesse da sfruttamenti anarchici e da impatti diretti o indotti conseguenti allo sviluppo urbano, all'industria, a colture non appropriate, ecc. Può inoltre essere cancellato dall'erosione, sepolto dai rifiuti e può veder compromesso il suo equilibrio biologico dagli inquinanti chimici acquisiti direttamente (fertilizzanti, pesticidi, ecc.) e indirettamente, attraverso l'acqua e l'aria.

Il suolo produttivo è stato divorato dalle costruzioni, cancellato dall'erosione e isterilito da colture inadatte.

Quanto all'erosione, si può ricordare che si passa da valori molto bassi e facilmente compensati da processi naturali nelle aree forestate (circa 8,5 tonnellate/km2/anno) a valori elevatissimi in aree soggette a lavori di cava o di costruzione di opere (17.000 tonnellate/km2/anno) e che, in generale, le attività umane di occupazione del suolo (a esclusione di quelle agricole) comportano un aumento dell'erosione circa mille volte superiore rispetto a quella media naturale. Solo negli Stati Uniti, tra il 1865 e il 1930, 4 milioni di ettari sono stati trasformati in bad land a causa del ruscellamento e dell'azione del vento su terreni deforestati. Le cifre mondiali sono ancora più allarmanti, se si tiene conto di tutti i fattori - naturali e antropici - direttamente e indirettamente influenti sull'erosione: infatti si calcola che, a motivo della sola erosione, la superficie delle terre coltivabili si sia ridotta in tempi storici - secondo l'UNEP - di un ventiquattresimo e che il tasso annuo di riduzione sia attualmente dell'ordine di 16 milioni di ettari.

Il suolo può anche insterilirsi a causa di un impiego agricolo non razionale, come per esempio si verifica quando viene sottoposto, senza adeguate misure di rigenerazione, a pratiche intensive di monocoltura, vere e proprie mostruosità dal punto di vista ecologico, ma anche dell'economia agricola a lungo termine. Inoltre, non diversamente da quanto accade per il mare, anche il suolo riesce a digerire con sempre maggiore difficoltà i rifiuti e i sottoprodotti delle attività umane, che crescono ogni anno del 13%, a livello mondiale, e che trovano generalmente nel suolo il loro punto d'arrivo. Per avere un'immagine della dimensione del problema dei rifiuti, basti pensare che solo in Italia si producono annualmente 14 milioni di tonnellate di rifiuti solidi urbani (dei quali solo 3,5 milioni smaltiti con impianti a tecnologia complessa - come l'incenerimento, il compostaggio e il riciclo - atti a contenere gli effetti sul suolo), almeno 3 milioni di tonnellate di fanghi provenienti dalla depurazione degli scarichi civili, e oltre 33 milioni di tonnellate di rifiuti e di fanghi industriali.

E veniamo all'impatto dell'inquinamento sulla flora e sulla fauna. Più che le attività di consumo (sfruttamento del legname, caccia, pesca, ecc.), influiscono sulla flora e sulla fauna tipiche e atipiche lo sconvolgimento degli equilibri naturali - dovuto, in primo luogo, agli inquinamenti dell'acqua, dell'aria e del suolo -, la sottrazione di spazi vitali destinati ad altri usi, il rumore, la vicinanza fisica con l'uomo. Gli effetti sinergici di tutti questi fattori di alterazione sono ben manifesti. Per esempio, dall'inizio del secolo si sono estinte in Francia il 10% delle specie vegetali e, attualmente, il 30-40% è in fase di regressione. Quanto alla fauna, in quattro secoli si sono estinte oltre 110 specie di Mammiferi, con un ritmo sempre più accelerato: 7 nel XVII secolo, 11 nel XVIII, 27 nel XIX e 67 nel XX. Attualmente quasi ogni anno viene depennata qualche specie dalla carta della fauna mondiale e ben 600 specie di Mammiferi sembrano avviate verso la definitiva estinzione. Su circa 400 specie di Uccelli conosciute in Europa, 50 sono minacciate di estinzione e 200 sono in manifesta regressione. In particolare, solo negli ultimi anni sono scomparse 32 specie di Uccelli in Italia, 17 in Germania e 6 in Belgio. Sulla sopravvivenza degli Uccelli e, più in generale, degli animali, influisce assai negativamente la progressiva riduzione di habitat tipici, come le zone umide, le dune e le macchie costiere, le siepi e i filari di alberi in campagna, i boschi cedui e così via. In pratica, se alcuni fenomeni di riadattamento ad ambienti atipici (in particolare, l'ambiente urbano) non indicassero una prima inversione di tendenza, si potrebbe davvero temere che il sinistro presagio della Carson (v., 1962) di una ‟primavera silenziosa" sia destinato ad avverarsi nel prossimo futuro.

b) Impatto delle attività umane sull'uomo

Le attività umane sono responsabili - direttamente e indirettamente - oltre che della degradazione dell'ambiente fisico e biologico, anche di altri impatti, non meno importanti. Basti pensare alla degradazione qualitativa e quantitativa dei servizi essenziali (abitazioni, trasporti, servizi scolastici, sanitari e ricreativi, ecc.) nella maggior parte delle grandi concentrazioni urbane, al deterioramento delle relazioni sociali, al diffondersi della criminalità, soprattutto minorile, alla crisi dei valori, alla droga, alla sempre più difficile convivenza pacifica dei popoli basata su equilibri fragilissimi e spesso rotti da guerre locali, agli squilibri tra Nord e Sud, alla povertà e alla fame che affliggono una parte consistente dell'umanità (nonostante una disponibilità di beni sufficiente, se equamente distribuita, a soddisfare i bisogni di tutti) e così via. Tra queste categorie di impatti merita una particolare sottolineatura la perdita irreversibile dell'identità culturale di intere comunità, a motivo di grandi movimenti migratori o della sovrapposizione di modelli culturali, economici e produttivi che tendono a imporsi per la loro più alta redditività diretta, ma sempre più spesso per un perverso effetto dei media. Non è fuori luogo pensare che alcuni fenomeni traumatici che hanno interessato l'evolversi delle relazioni sociali in Italia, nel corso degli ultimi venti anni (fra questi lo stesso terrorismo), siano da riconnettere a disadattamenti da perdita brusca di identità culturale, come conseguenza delle imponenti migrazioni interne avvenute negli anni cinquanta e sessanta.

c) Interdipendenza degli impatti

Le relazioni di mutuo scambio e di reciproca interferenza tra le diverse componenti dell'ambiente sono all'origine degli effetti a cascata che interventi, anche molto circoscritti, determinano. Per esempio, l'emissione di sostanze inquinanti nell'atmosfera non solo altera la qualità dell'aria, ma si traduce anche in inquinamenti del suolo e dell'acqua; le condizioni fisiche mutate, poi, danneggiano la salute degli uomini, con conseguenti costi che gravano sul sistema economico al quale vengono così sottratte risorse destinate ad altri servizi. In altre parole, molto spesso gli effetti indotti degli interventi umani possono essere assai più gravi di quelli diretti e, comunque e di regola, riguardano aree di interesse molto più vaste di quelle immediatamente prevedibili.

8. Verso nuovi equilibri

Se si identificano l'origine e l'essenza della crisi ambientale con il cambiamento, e non solo con alcuni aspetti legati alle retroazioni negative, è evidente che non esistono speranze di soluzione, in quanto il mondo di domani sarà certo diverso da quello di oggi, così come quello di oggi è diverso da quello di ieri. Questo spiega il catastrofismo dei protezionisti, rivolto a rimpiangere un'impossibile naturalità del passato, cioè un immobilismo dell'ambiente contrario agli stessi principî dell'ecologia. Se invece, più correttamente, s'intende per superamento della crisi ambientale la correzione di certe tendenze negative e il ristabilimento di un adeguato e differenziato flusso di servizi compatibile con i bisogni e le aspirazioni degli uomini, le soluzioni non appaiono altrettanto impossibili.

In effetti, gli stessi principî dell'ecologia suggeriscono che tutti gli ecosistemi, ivi compresi quelli umani, sono regolati da meccanismi omeostatici che portano al raggiungimento di nuovi equilibri, quando azioni perturbatrici degli equilibri precedenti minacciano l'identità degli ecosistemi stessi. È pur vero che gli ecosistemi umani si differenziano dagli altri per le particolari attitudini dell'uomo ad agire, a pensare e, soprattutto, a usare e trasformare il mondo che lo circonda in funzione di nuovi bisogni che continuamente si crea e, di conseguenza, essi non sono rigidamente assimilabili ai sistemi biologici dominati da leggi deterministiche. Tuttavia, se si integrano i meccanismi biologici propri di tutti gli ecosistemi con i paralleli meccanismi socioculturali esclusivi dell'ecosistema umano, il problema può essere facilmente ricondotto a una stessa matrice. Se è vero, infatti, che le particolari caratteristiche dell'uomo portano, con maggiore facilità di quanto non si verifichi per altre specie, a grosse divaricazioni rispetto alle condizioni di equilibrio auspicabili, nello stesso tempo queste stesse attitudini favoriscono il conseguimento di nuovi equilibri. Le oscillazioni nelle condizioni dell'ecosistema umano, compatibili con il mantenimento e il recupero della sua identità, sono molto più ampie di quanto non si verifichi per altri ecosistemi che, di conseguenza, risultano più fragili e soggetti a collassi definitivi. Basti pensare che l'uomo, nella sua storia, ha superato con disinvoltura variazioni imponenti delle condizioni ambientali (come, per esempio, le glaciazioni) che hanno determinato, invece, la scomparsa di numerosissime altre specie viventi, vegetali e animali, compresi organismi superiori.

I meccanismi omeostatici di cui dispone l'uomo, o che, a differenza di quanto avviene per altre specie viventi che hanno margini ridottissimi di autonomia, l'uomo è in grado di attivare, sembrano ampiamente compensare le sue capacità distruttive e le sue imprevidenze, portando a nuovi equilibri che si instaurano in condizioni ambientali mutate, ma non necessariamente peggiori. Basti ricordare, a tale riguardo, che alla natura selvaggia dei nostri antenati - tanto cara ai protezionisti, ma certamente scomoda e avara di servizi - si sono sostituiti, per esempio, l'ambiente della campagna coltivata e l'ambiente urbano, che non deve essere necessariamente identificato con le sue degenerazioni. Infatti, ambienti urbani sono anche i centri storici di Firenze e di cento e cento altre mirabili città e non solo le squallide periferie o le favelas brasiliane.

L'organizzazione sociale e le sue leggi (in particolare le norme specifiche per la tutela dell'ambiente), lo studio e lo sviluppo di nuove tecnologie appropriate, la capacità di adattamento a nuove condizioni, la presa di coscienza dell'urgenza e dell'importanza di tali problemi e così via sono i meccanismi autoregolatori dell'ecosistema umano. Tali meccanismi sono in grado di affrontare i problemi posti dalla crescita demografica, dallo sviluppo delle città, dallo sfruttamento agricolo della terra, dall'uso delle risorse minerarie, dalle attività industriali, come si vedrà, per alcuni di questi aspetti, più avanti. Il problema dell'esplosione demografica, difficilmente affrontabile in modo diretto, date le vaste implicazioni etiche, culturali e religiose connesse, potrà invece trovare soluzioni indirette attraverso il superamento delle condizioni di sottocultura e di povertà che ne sono all'origine, come già si è verificato nei paesi industrializzati.

Quanto all'ipersfruttamento e al temuto esaurimento di alcune risorse essenziali, i meccanismi autoregolatori degli squilibri determinati da una società orientata dai consumi (fare di più con più) o da una società impazzita (fare di meno con più) non sembrano identificarsi - come alcuni vorrebbero - nel ritorno a una società primitiva (fare di meno con meno), ma nell'affermazione di società orientate a un risparmio reale (fare le stesse cose con meno) o più efficienti (fare di più con meno). La tendenza in atto a sostituire i flussi di materia e di energia con flussi di informazioni, per ottenere gli stessi servizi e spesso anche per incrementarne il livello, costituisce una testimonianza emblematica dei nuovi orientamenti verso questa civiltà. In altre parole, la temuta scarsità delle risorse ha attivato meccanismi autoregolatori del sistema, identificabili con nuove tecnologie e diversi modelli di approccio al soddisfacimento di vecchi e nuovi bisogni. Tuttavia, la fiducia nella realizzazione di equilibri più favorevoli non può basarsi esclusivamente su speranze tecnologiche o di cambiamento etico-culturale. Infatti, non è facile credere - in un'ottica neoilluminista - che la tecnologia, che è causa di molti degli squilibri attuali, sia in grado da sola di rimediare a tutti gli inconvenienti del passato e di non provocarne di nuovi. Nè d'altra parte si può pensare - affidando le proprie speranze a una sorta di neoumanesimo - che un nuovo ordine morale possa trasformare di colpo i comportamenti degli uomini. Non sembrano esistere pertanto soluzioni totalizzanti, anche perché le difficoltà che si frappongono al conseguimento di nuovi equilibri sono varie e numerose. Schmidt di Friedberg (v., 1982) le ha così riassunte: a) l'isteresi del sistema socioeconomico, cioè la riduzione del margine di libera scelta, in quanto le decisioni che si dovrebbero prendere oggi sono in larga misura condizionate da altre già prese nel passato (contraddizione tra l'urgenza di decidere e l'impossibilità di farlo); b) la mancanza di obiettivi e di linguaggi comuni, cioè il fatto che le diverse componenti del corpo sociale attribuiscono valori diversi ai beni ambientali; c) il problema del potere in un mondo sistemico, cioè la possibilità di decidere tenendo conto direttamente delle attese delle popolazioni; d) la complessità intrinseca dei problemi del rapporto ambientale, che sono difficili da affrontare data la loro tendenza a ramificarsi e a prendere risvolti inaspettati che sconvolgono previsioni accuratamente meditate.

La strada verso un riequilibrio dei rapporti tra uomo e ambiente non è, dunque, agevole e sembra potersi identificare, più che in iniziative totalizzanti, in una serie di piccoli passi, verificabili caso per caso, che presuppongono graduali modifiche di comportamento (per esempio, abbandono della tradizionale schizofrenia che ci porta ad abusare dell'ambiente come produttori-consumatori e a stigmatizzarne l'abuso come cittadini), modifiche strutturali (adeguamento dell'organizzazione sociale) e modifiche funzionali (riorganizzazione del modo di produrre).

Come risulta dalle considerazioni sulle principali retroazioni negative, le attività umane che comportano i maggiori problemi di rapporto ambientale sono quelle connesse allo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili, alle attività industriali e agricole, all'urbanizzazione crescente, in particolare nel Terzo Mondo. Di conseguenza, è opportuno esaminare, relativamente a questi aspetti, lo stato e l'evoluzione dei rapporti con l'ambiente, riferendosi a indicazioni sia oggettive che soggettive.

a) Risorse e dematerializzazione

La concezione che l'uomo si è fatta del pianeta per quanto riguarda le risorse naturali - in particolare quelle non rinnovabili - è che esso sia una specie di scrigno che ne contiene in quantità limitate, e quindi esauribili. Uno sfruttamento troppo intenso di tali risorse porterebbe perciò all'esaurimento in tempi brevi di quelle di cui il pianeta è meno dotato. Questa concezione è stata accreditata anche da molti studiosi ed è alla base delle considerazioni di una forte corrente di pensiero che si riconosce nei primi rapporti redatti per il Club di Roma (I limiti dello sviluppo e Strategie per sopravvivere). Il documento più recente che forse meglio esprime questa corrente di pensiero è il famoso rapporto per il presidente degli Stati Uniti Carter (v. Barney, 1980), che fa il punto circa la situazione delle diverse risorse del pianeta (spazio, terreni coltivabili, boschi, cibo, minerali, acqua, aria, ecc.), ne mostra gli aspetti critici e propone le politiche per affrontarli.

Eppure, nonostante la sua suggestività e certe apparenti giustificazioni, questa concezione è sostanzialmente errata, non solo alla luce degli sviluppi tecnologici dei nostri giorni, ma anche sotto un profilo storico. L'umanità si è più volte trovata - nella sua lunga storia - in condizioni di penuria di risorse. Nello stesso tempo ha saputo creare nuovi moltiplicatori dello sforzo fisico e trovare nuove risorse. I nomadi si procuravano il cibo attraverso la raccolta e la caccia: dipendevano da climi e stagioni, e dovevano spostarsi per sopravvivere. In queste condizioni di ‛equilibrio' con la natura, non più di 70-80.000 persone potevano vivere in Italia e qualche decina di milioni nel mondo. Con l'agricoltura e la pastorizia si è superata la fase della raccolta e della caccia per entrare in quella della coltivazione e dell'allevamento. L'agricoltura ha saputo rinnovarsi più volte, e la sua produttività è cresciuta e cresce ancora oggi - più della popolazione, smentendo così le profezie di Malthus. Anche i materiali hanno segnato la storia dell'uomo - età della pietra, del bronzo, del ferro - il quale ha anche utilizzato nelle diverse epoche ceramiche, legno, pelli, lana, cotone, lino, per non parlare delle moderne fibre sintetiche, delle materie plastiche, del vetro, della gomma, dei compositi e così via. Allo stesso modo l'energia ha una lunga storia: dalla legna da ardere e dal fuoco, alla forza muscolare degli animali, all'acqua, al carbone, al petrolio, al gas, all'energia nucleare.

Tutte queste risorse esistevano già nel pianeta, ma occorreva ‛inventarle', ossia trovare le tecnologie adatte per il loro sfruttamento. Le tecnologie agricole si sono sviluppate al punto da essere oggi tra le più sofisticate a disposizione dell'uomo, ma sono ben lontane dall'aver raggiunto il limite del loro perfezionamento e anzi presentano ancora enormi prospettive, soprattutto per merito delle biotecnologie. Anche lo sfruttamento dei vari materiali ha richiesto lo sviluppo di tecnologie complesse e sofisticate: da quelle per la lavorazione della pietra o del legno, a quelle per sfruttare le argille e le ceramiche, le fibre tessili e i metalli (si pensi alla coltivazione delle miniere, alla riduzione del minerale a metallo, alla fusione, alligazione, tempera, forgiatura, imbutitura, laminazione, inchiodatura, saldatura, sinterizzazione, ai trattamenti superficiali). Lo stesso discorso vale per l'energia. La conquista del fuoco è stata una delle maggiori avventure dell'uomo. Altre tecnologie energetiche riguardano l'addomesticamento degli animali da lavoro; l'invenzione dell'aratro, della slitta, del carro; l'uso della ruota nel trasporto, nella manifattura, nelle cadute d'acqua; i mantici per le fucine; i mulini a vento; il pompaggio dell'acqua nelle gallerie delle miniere di carbone; le tecniche di trivellazione; i forni e le caldaie; gli oleodotti e i gasdotti; le perforazioni in mare aperto. Per quanto possano essere complesse, tutte queste tecnologie rappresentano sviluppi naturali e prevedibili dello sfruttamento delle risorse che la natura offre. Ma le nuove risorse che l'uomo sta sviluppando oggi richiedono un approccio tecnologico completamente differente: non si presentano come tali in natura e sono comunque il risultato di tecnologie che si basano su avanzate conoscenze scientifiche, come verrà illustrato più avanti.

Le biotecnologie stanno quindi aprendo la strada a un'agricoltura totalmente nuova: con l'invenzione di specie più produttive, o resistenti ai climi aridi o all'acqua salmastra; con nuovi metodi di fertilizzazione, quale la fissazione diretta dell'azoto atmosferico; con la lotta biologica integrata ai parassiti, che riduce o annulla il ricorso ai pesticidi chimici inquinanti; con la creazione di ecosistemi autocontrollati, che limitano il bisogno di interventi esterni (fertilizzanti e pesticidi chimici, acqua, energia).

La scienza dei materiali consente di affrontare in modo nuovo la problematica di queste risorse. Vi sono, innanzitutto, enormi possibilità di migliorare i materiali tradizionali: a parità di prestazioni si riduce il peso degli oggetti anche in modo cospicuo (si pensi, per esempio, al peso di un'automobile di oggi rispetto a un'automobile di appena vent'anni fa).

Ma soprattutto s'inventano nuovi materiali. Tra quelli strutturali si aprono notevoli prospettive per i materiali ceramici in sostituzione dei metalli. E siccome questi materiali sono composti del silicio, del quale è sostanzialmente costituita la crosta terrestre, le nostre risorse in questo settore sono destinate ad aumentare notevolmente. La scienza dei materiali consente di rendere più plastici i materiali ceramici, altrimenti notoriamente fragili, e già oggi stanno circolando le prime automobili con motori realizzati con questi materiali. Queste realizzazioni presentano notevoli vantaggi, in quanto tali motori consentono di semplificare la vettura (per esempio eliminando il radiatore) e di raggiungere un più elevato rendimento energetico. Si inventano anche nuove fibre - di vetro, di carbonio, aramidiche (il kevlar), di boro - e con esse si rinforzano plastiche, metalli, ceramiche, facendo compositi leggeri ed eccezionalmente resistenti. L'avionica, i containers, le auto, le carrozze ferroviarie, le barche, gli attrezzi sportivi sempre più sono fatti di compositi (v. materiali).

Altri materiali nuovi sono quelli impiegati per l'elettronica - primo fra tutti il silicio - il cui sviluppo ha richiesto la conoscenza del comportamento degli elettroni e delle impurezze nella materia, lo sviluppo delle tecnologie di iperpurificazione e di crescita dei grandi cristalli perfetti, e la creazione delle tecniche della microelettronica. L'informatica è la figlia diretta di questi sviluppi.

Un discorso analogo vale per l'energia. Lo sfruttamento dell'energia nucleare ha richiesto la conoscenza approfondita della costituzione della materia e dei nuclei atomici, e lo sviluppo di processi controllati delle reazioni di fissione a catena dei nuclei di uranio. La realizzazione dei reattori autofertilizzanti a neutroni veloci consente di moltiplicare di oltre 50 volte la quantità di energia ottenibile dall'uranio, ossia di ridurre ulteriormente il contributo, già modesto, delle risorse primarie rispetto a quello delle fonti energetiche convenzionali (carbone, petrolio, gas). L'energia solare fotovoltaica ha richiesto lo sviluppo delle stesse conoscenze che hanno portato alla microelettronica: le celle solari a base di film di silicio amorfo consentiranno probabilmente fra qualche decina d'anni di ottenere energia elettrica dal Sole in modo economico. La fusione nucleare controllata punta a riprodurre le condizioni del Sole (nuclei di atomi leggeri a 100 milioni di gradi) sulla Terra: in queste condizioni i nuclei leggeri (ricavati dall'acqua e dal litio) fondono liberando enormi quantità di energia. Queste tre tecnologie energetiche ‛inventano' letteralmente le risorse. Esse inoltre non richiedono - o lo fanno solo in minima parte - il ricorso continuo a grandi masse di materie prime.

Se si considera poi come vengono usate le risorse, si vede che nei paesi industrializzati il contenuto di materiali e di energia per unità di reddito prodotto sta diminuendo regolarmente. I settori industriali di base e quelli delle produzioni di massa stanno giungendo a saturazione. Nel contempo si affermano nuove tecnologie, si sviluppano nuovi beni e si ricorre sempre più a servizi, tutte trasformazioni che portano a una minore intensità di materiali e di energia. La diffusione dell'informatica nei diversi settori dell'economia contribuisce al contenimento delle risorse. Società dell'informazione vuol dire possibilità di arbitraggio tra risorse naturali e informazione. L'informatica favorisce l'interazione fra le diverse tecnologie e i diversi settori, i quali si rinnovano ottimizzando l'intero processo produttivo, che diventa più funzionale, in grado di affrontare meglio i problemi e di fornire soluzioni piuttosto che soltanto di vendere i prodotti.

Il CAD e il CAM - ossia i metodi computerizzati di progettazione e di manifattura - portano all'uso di materiali più idonei, a riduzioni di peso, a prestazioni più elevate e funzionali, a una vita più lunga degli oggetti, minimizzando gli scarti di lavorazione e migliorando la gestione dei rifiuti. Informatica e tecnologie flessibili di lavorazione robotizzata ribaltano l'approccio del sistema produttivo verso il mercato che, tradizionalmente, era quello di produrre, mettere in magazzino e cercare di vendere, mentre oggi si tende sempre più a progettare e produrre soltanto ciò che richiede il mercato, prodotto per prodotto, risparmiando quindi risorse e lavoro. Questo modo di produrre, combinato con la telematica, porta a ottimizzare (fino ad annullarli) i magazzini a monte e a valle. La telematica, inoltre, permette di ottimizzare i trasporti, facendo muovere in andata e ritorno soltanto i vettori carichi, e risparmiando in vettori, carburanti, vie di comunicazione. A tutto questo si deve aggiungere la tendenza delle nostre società, ormai ricche, invece che ad accrescere la quantità dei beni, a migliorarne la qualità in termini di affidabilità, prestazioni tecniche, estetica, funzionalità. Inoltre, si richiedono sempre più beni immateriali, che riguardano l'istruzione e la cultura, la salute, il tempo libero.

Sotto il profilo dell'impatto ambientale, gli sviluppi ricordati portano dunque alla realizzazione di ‛ecotecnologie', ossia di tecnologie che inquinano di meno richiedendo meno materia (per materiali ed energia) e meno spazio, ma più software e tecnologia (ossia intelligenza e conoscenza) e quindi anche maggiore possibilità di controllo. La società diventa enormemente più sobria, anche se con un approccio diametralmente opposto e assai più efficiente rispetto a quello del ‛risparmio' della società contadina. Vale appena la pena di ricordare che il Terzo Mondo ha una problematica del tutto diversa: anche se potrà ricorrere alle nuove tecnologie, tuttavia dovrà ancora ‛crescere' per dare a tutti i suoi abitanti i beni necessari e per creare infrastrutture e fabbriche.

b) Agricoltura

L'agricoltura è allo stesso tempo generatrice di impatti negativi sull'ambiente (occupazione e trasformazione di spazi naturali, inquinamento indotto dall'uso di fertilizzanti e pesticidi, ecc.) e vittima di altre attività dell'uomo. Basti pensare, con riferimento al solo problema degli spazi, che tradizionalmente la pianificazione territoriale considera le zone coltivate come aree libere e diversamente destinabili (quasi una sorta di res nullius), il cui valore è valutato, al massimo, in termini di disponibilità di spazi aperti (interesse collettivo) e non certamente in relazione agli interessi del settore agricolo. È avvenuto così che le attività insediative, l'industria, le infrastrutture di trasporto, il turismo, ecc. abbiano finito per sottrarre all'agricoltura i terreni migliori, marginalizzando sempre più le aree coltivabili. A parte questi aspetti, in cui l'agricoltura compare come vittima, non vi è dubbio che le esigenze immediate connesse alla produzione di derrate alimentari, cioè la necessità di soddisfare la crescente domanda dovuta all'esplosione demografica e all'aumento dei consumi pro capite, abbiano portato anche l'agricoltura a percorrere strade contrarie ai principî dell'ecologia, cioè a dar luogo a impatti indesiderati e a retroazioni anche molto gravi. In primo luogo è la natura stessa dell'agricoltura (e dell'allevamento) a farne qualcosa che è intrinsecamente opposto all'ambiente cosiddetto naturale. Infatti l'agricoltura punta a realizzare in una certa area (che può essere anche molto estesa) la coltivazione di poche specie e sempre più spesso di una sola (ad esempio il grano, il trifoglio, il mais) cercando quindi di eliminare tutte le altre specie vegetali e anche animali che risultano concorrenziali con il suo obiettivo. Per far questo si realizzano ecosistemi artificiali, sostenuti dal lavoro continuo dell'uomo (e delle macchine), che - nell'intento di massimizzare l'output - richiedono quantità crescenti di fertilizzanti e - per essere protetti dall'aggressione delle altre specie vegetali e animali - abbisognano di erbicidi e di altri pesticidi. Le agricolture avanzate necessitano quindi di un apporto energetico (fertilizzanti, meccanizzazione, ecc.) molto elevato rispetto a quello dei prodotti ottenuti; ciò è stato finora possibile con l'impiego di energia fossile, cioè col massiccio consumo di risorse non rinnovabili. Inoltre, il ricorso eccessivo a fertilizzanti in aree con larghe estensioni agricole e densamente popolate può portare a diverse notevoli conseguenze negative: ad esempio, l'eutrofizzazione delle acque interne e anche delle coste marine, dovuta particolarmente ai fertilizzanti fosfatici, e un'eccessiva concentrazione di nitrati nell'acqua potabile, cui concorrono certamente i fertilizzanti azotati. Infine, per quanto riguarda i pesticidi, non vanno dimenticati i possibili effetti tossici e mutageni, per cui occorre da un lato rendere più diffusa e ampia possibile l'informazione, e dall'altro selezionare opportunamente i prodotti che minimizzano questi rischi.

Va anche tenuto presente che l'uso sempre più esteso di pesticidi, reso necessario dall'accresciuta resistenza delle specie nocive selezionate, la diffusione di altre forme d'inquinamento (di origine agricola ed extragricola), le pratiche di forzatura dei cicli vegetali e di conservazione delle derrate, ecc. influiscono sulla qualità dei prodotti fino a costituire vere e proprie minacce per la salute dei consumatori. Queste considerazioni hanno portato alcuni ad auspicare un ritorno a pratiche agricole ‛naturali', anche se il discorso appare improponibile sia a motivo dei costi, sia soprattutto per il ruolo fondamentale dell'agricoltura ‛intensiva' nella lotta alla fame nel mondo. Di fatto, non sembra che le retroazioni negative connesse a un'agricoltura necessariamente ad alta produttività possano essere superate con pratiche colturali orientate all'austerità (fare di meno con meno), quanto piuttosto con pratiche innovative (fare le stesse cose - o fare di più - con meno). Ed è in questa direzione che si sta muovendo l'agricoltura, sorretta e guidata da nuove tecnologie di lotta biologica alle ‛pesti', di selezione di nuove specie vegetali, di fertilizzazione del suolo, di risparmio energetico, di riciclaggio delle biomasse sottoprodotte, di ingegneria genetica, mirando, per il futuro, alla fissazione diretta dell'azoto sulle piante senza l'uso di fertilizzanti azotati, e così via.

A questo riguardo occorre ricordare che ben diversi sono i problemi dei paesi industrializzati, come quelli dell'Europa occidentale o gli Stati Uniti, dai problemi di molti paesi del Terzo Mondo, dove vincere la fame resta l'obiettivo primario. L'Europa occidentale rappresenta circa il 7% delle terre arabili del mondo e, a causa del carattere intensivo della sua agricoltura, usa circa il 25% di tutti i pesticidi e il 17% dei fertilizzanti consumati. Oggi l'Europa occidentale produce in molti casi (barbabietola da zucchero, grano, orzo, uva) assai più di quanto riesca a consumare o anche a esportare. Non si capisce quindi per quale motivo debba insistere nell'accrescere ulteriormente, sostenendole, tali produzioni che richiedono, tra l'altro, irrigazione, lavoro meccanico, fertilizzanti, pesticidi, energia, e producono inquinamento. D'altra parte, le nuove tecnologie agricole, che fanno ricorso ai nuovi ibridi, all'irrigazione, ai fertilizzanti, ai pesticidi e in parte almeno alla meccanizzazione - in particolare quelle della cosiddetta rivoluzione verde - hanno consentito in alcuni paesi dell'America Latina (come il Messico) e in molti dell'Asia meridionale e sud-orientale (in primo luogo l'India), densamente popolati e tradizionalmente caratterizzati da fame endemica, di ribaltare la situazione alimentare, facendoli diventare addirittura, in qualche caso, esportatori netti di prodotti alimentari

C'è un altro aspetto negativo dell'agricoltura che occorre ricordare, in relazione alla ricchezza del patrimonio genetico delle specie vegetali. Quasi tutte le specie vegetali domestiche di cui si nutre oggi l'uomo - frutta, ortaggi, cereali - hanno un'origine antichissima. Quando migliaia di anni fa i nostri antenati cominciarono a coltivare le piante, conservavano i semi migliori per il raccolto dell'anno successivo. Sforzi umani e selezione naturale hanno portato alla ricchissima varietà di piante che oggi riescono a crescere e a sopravvivere negli ambienti più diversi. Inoltre, man mano che le pesti e gli altri flagelli da cui è segnata la storia della civiltà hanno colpito il pianeta, l'ambiente, attraverso il meccanismo della selezione naturale, ha messo a punto nuovi e più agguerriti mezzi di difesa. Oggi però i contadini di tutto il mondo non conservano più i loro semi migliori: il meccanismo evolutivo naturale non è considerato sufficiente ad assicurare la produzione, mentre le nuove varietà ibride ad alta resa sono sterili. Perciò le sementi vengono prodotte e vendute da imprese specializzate e questa procedura rappresenta il più vistoso esempio di innovazione nelle biotecnologie tradizionali, anche se oggi si sta sviluppando una biotecnologia moderna basata sulle tecniche di coltivazione delle cellule vegetali e sulla manipolazione del DNA delle piante.

Le nuove specie create in laboratorio hanno il vantaggio di rispondere ai bisogni specifici per cui sono state realizzate: resa elevata, resistenza ai più diversi fattori, necessità di minori quantitativi di fertilizzanti e di acqua, ecc. Proprio in quanto ‛migliori', esse rischiano però di creare un problema non indifferente per l'ambiente, perché saranno privilegiate dagli agricoltori di tutto il mondo, con il conseguente abbandono dei semi naturali o provenienti da incroci e la diminuzione ulteriore del numero di varietà disponibili sul pianeta (già ridimensionato dalle attività umane, dall'inquinamento, dall'abuso di pesticidi, ecc.). Tale ‛erosione genetica', come è chiamata dagli esperti, è assai pericolosa in quanto le differenze fra le specie riflettono la capacità naturale di resistenza ad ambienti diversi. Se un flagello distruggesse una specie vegetale (come è accaduto più volte: si pensi nel secolo scorso alla vite), la natura con la sua ricchezza genetica sarebbe in grado di offrire un'altra specie capace di sopravvivere. La scelta di piante ‛ideali' identiche in tutto il mondo rende invece, potenzialmente, qualsiasi infezione una vera e propria minaccia per l'uomo e l'ambiente.

c) Industria

Il rapporto tra attività industriali e ambiente, quale risulta percepibile dalle reazioni delle popolazioni, appare essere fortemente conflittuale. Di fatto, il confronto fra indicatori oggettivi di pressione (quantità percentuale di risorse consumate dall'industria e inquinanti emessi) e indicatori soggettivi di reattività ambientale (frequenza e importanza dei conflitti ambientali connessi alle attività dell'industria) mostra, con evidenza, che sovente all'industria vengono attribuite responsabilità molto superiori rispetto a quelle che realmente le spettano come fattore di alterazione delle condizioni ambientali. Le principali ragioni, alla base di questa conflittualità esasperata, sono individuabili nei seguenti fattori: a) l'industria determina impatti evidenti e localizzati, a differenza di quanto avviene per altre attività, soprattutto quelle civili e di consumo, relativamente alle quali le responsabilità sono distribuite tra tutti i cittadini; b) l'utilità di molte attività industriali, cioè il flusso di servizi reso, spesso non è immediatamente percepibile, soprattutto quando ci si riferisce ai settori di base che non producono beni di consumo; c) l'industria, espressione emblematica dello sviluppo capitalistico, non è generalmente percepita come un bene di interesse collettivo, cioè un'attività che contribuisce all'innalzamento del benessere e al miglioramento della qualità della vita delle popolazioni; d) nei paesi di recente industrializzazione non esiste una cultura industriale e la mancanza di tradizioni rende più acuta la conflittualità.

Un'indagine comparativa sui conflitti ambientali connessi all'industria chimica - uno dei settori oggettivamente e soggettivamente più critico - dimostra, per esempio, che la frequenza e l'importanza dei conflitti sono inversamente proporzionali alla disponibilità di spazi (bassa densità di popolazione) e all'esistenza di tradizioni industriali, meglio se chimiche, specifiche. Si ha così una bassa conflittualità relativa in paesi come la Gran Bretagna, la Svizzera e la Repubblica Federale di Germania (dove l'industria chimica è da tempo inserita) e un'alta conflittualità in Spagna e in Irlanda (paesi che si sono affacciati da pochi anni alle produzioni chimiche). La conflittualità risulta anche molto alta nei paesi con scarse risorse territoriali e alta densità di popolazione, come i Paesi Bassi, il Giappone e, in minor misura, il Belgio e l'Italia.

A questi motivi di conflittualità, per così dire esterni al sistema industriale, se ne aggiungono altri interni allo stesso: le già ricordate forti concentrazioni e precise localizzazioni degli effetti delle attività industriali e la mancanza di chiarezza sul ruolo dell'impresa industriale nella società civile. Per lungo tempo l'impresa si è qualificata per essere un'entità essenzialmente economica, tesa a massimizzare i profitti interni. Non a caso M. Friedman (v., 1970) affermava che la principale responsabilità di un'impresa è quella di impegnare le sue capacità in tutto ciò che sia suscettibile di far aumentare i suoi utili. In contrapposizione a questa concezione che considera l'impresa come un'entità puramente giuridica ed economica, si va consolidando una visione più ampia che la definisce come una cellula socioeconomica cioè uno strumento di produzione di ricchezza, d'integrazione e di sviluppo del sistema sociale. Ne consegue, secondo Ackoff (v., 1976), che la principale responsabilità di un'impresa è quella di massimizzare il tasso di consumo sociale reso, il che comporta un atteggiamento orientato verso le controparti sociali e, in particolare, una costante attenzione per l'ambiente. Va rilevato, tuttavia, che l'industria è nata e si è sviluppata nel quadro di una concezione molto più vicina a quella di Friedman che a quella di Ackoff. Ne sono testimonianza l'insufficiente attenzione per i problemi dell'inquinamento (cioè la tendenza a scaricare sulla collettività i costi della conseguente degradazione ambientale), la concentrazione delle attività industriali in aree già dotate di servizi (cioè la tendenza ad appropriarsi, senza adeguate contropartite, di beni collettivi), la propensione verso il gigantismo degli insediamenti produttivi (cioè l'anteposizione delle economie interne di scala alle diseconomie esterne connesse alle migrazioni, alla concentrazione degli effluenti, alla domanda localizzata di servizi e così via). Questi atteggiamenti, oltre a determinare un'alta conflittualità sociale, sono all'origine di numerose altre retroazioni che hanno finito per vanificare i benefici che le imprese, tese principalmente a massimizzare gli utili, perseguivano. Sono quindi scattati meccanismi autoregolatori che hanno messo in grave imbarazzo il sistema industriale, chiamato a difendersi non solo per gli abusi di cui era oggettivamente responsabile, ma anche per il fatto stesso di esistere e di produrre.

L'ostilità diffusa verso il mondo industriale, la formulazione di leggi ambientali particolarmente finalizzate al controllo dell'inquinamento industriale, la pressione delle organizzazioni sindacali prima rivolta agli ambienti di lavoro e poi all'ambiente esterno - e tutta una serie di nuove limitazioni hanno costretto l'industria a mettere in atto cambiamenti radicali di atteggiamento, di organizzazione e di modi di operare. A livello funzionale, cioè di modalità di produzione, si è così assistito a una serie d'interventi, prima di recupero delle situazioni esistenti (ecologia passiva), poi di vera e propria riconversione (ecologia attiva).

Sono tipici interventi di ecologia passiva la realizzazione di impianti di depurazione delle acque reflue e di sistemi di abbattimento dei fumi, il miglioramento delle condizioni di lavoro, ecc., cioè tutte quelle iniziative tese a restituire compatibilità ambientale (in relazione alla nuova domanda emergente) ad attività nate in un quadro di riferimento molto più permissivo e, comunque, basato su altre priorità (per esempio, lo sviluppo di aree depresse). Questa azione di risanamento ha comportato notevoli problemi: costi d'investimento e di gestione degli impianti di depurazione che, in alcuni casi, hanno completamente distorto la redditività delle produzioni; difficoltà tecnico-economiche, per alcuni settori produttivi, nel conseguire obiettivi di qualità ambientale fissati, talora, con un eccesso di rigidità; urgenza degli interventi, spesso a scapito della loro razionalità; emotività dell'opinione pubblica che, spesso sulla base di sospetti immotivati, ha preteso rimedi superflui. Questa fase, pur con risultati benefici evidenti, ha comportato anche sprechi e allocazioni irrazionali di risorse. Non risponde certo a criteri di buona gestione degli interessi industriali e collettivi l'aver dovuto realizzare impianti ecologici tecnologicamente avanzati a valle e al servizio di impianti produttivi obsoleti o, comunque, basati su processi e tecnologie non appropriati.

Molto più significative, sia a livello di promozione della qualità ambientale che di riconquista da parte dell'industria del proprio ruolo - legittimato - di fattore centrale dello sviluppo, sono le iniziative di ecologia attiva, cioè le nuove filosofie d'insediamento (decentramento delle attività in piccole unità produttive), i processi non-waste, i prodotti sicuri, i risparmi energetici, il riciclo dei sottoprodotti, i migliori controlli, ecc. Alla base di questo rinnovamento, in parte ritardato dalla crisi economica, sono le nuove tecnologie, cioè la scoperta di nuovi materiali idonei a sostituire vantaggiosamente quelli che comportano problemi di scarsità o determinano incompatibilità ambientali; la definizione di modi diversi e più puliti per ottenere prodotti tradizionali non sostituibili; gli approcci innovativi alla soluzione di molti problemi; la sostituzione di flussi di materia e di energia con flussi d'informazioni e di servizi per ottenere gli stessi risultati; e così via.

L'industria è stata il motore del grande sviluppo economico e sociale delle nostre società e rimane ancora oggi centrale per l'economia di tutto il mondo: per i paesi in via di sviluppo, al fine di uscire da una situazione di autosufficienza ristretta, basata sulla sola agricoltura (e, per giunta, su un'agricoltura arretrata in quanto non sorretta da un'agroindustria adeguata), e per quelli avanzati, ormai avviati verso una società postindustriale e dell'informazione. Deve essere ben chiaro che non è possibile offrire servizi sofisticati per soddisfare le esigenze di una società sempre più ricca senza la creazione continua di ricchezza garantita dal settore industriale. La crescita economica rimane quindi, ancora per molti decenni, un obiettivo essenziale della strategia di sviluppo mondiale.

Nei paesi del Terzo Mondo la popolazione cresce tuttora a ritmi assai elevati, con effetti drammatici sulla distribuzione per età. I giovani sono già oggi in larga maggioranza in questi paesi e lo saranno ancora di più alla fine del secolo. Non si può pensare che questo enorme potenziale di forza-lavoro possa trovare impiego nella sola agricoltura, tanto più che le moderne tecniche agricole stanno aumentando la produttività del settore e riducendone il fabbisogno di manodopera. La stabilità politica e l'armonia sociale dipendono allora dalle possibilità di sviluppo del settore industriale e dei servizi connessi, sia nei centri urbani che nelle aree rurali del Terzo Mondo. D'altra parte, nei paesi avanzati l'industria sarà sottoposta a notevoli processi di ristrutturazione, con un'enfasi crescente nei nuovi settori legati alle tecnologie emergenti e con la dislocazione di alcuni settori di base e tradizionali nei paesi in via di sviluppo.

L'attuale rivoluzione tecnologica, come si è visto, porta alla ‛dematerializzazione' dell'economia e della società dei paesi avanzati. Gli altri paesi non possono pertanto ignorare le implicazioni di questa rivoluzione per il loro proprio sviluppo e debbono industrializzarsi senza necessariamente seguire la via già seguita dai paesi di più vecchia industrializzazione, facendo così in modo da mitigare gli aspetti negativi che l'industria comporta nei riguardi dell'ambiente e della salute dei lavoratori e delle popolazioni. L'industria, del resto, sa anche produrre gli strumenti per controllare l'ambiente e prevenire l'inquinamento, dai satelliti ai sensori, e gli strumenti per affrontare i rischi delle calamità naturali, del clima, dei terremoti, delle eruzioni. Se agli inizi dello sviluppo industriale gli aspetti ambientali sono stati ampiamente ignorati, col crescere dell'intensità dei processi e degli effetti negativi di certe attività in particolare - come lo sfruttamento minerario, l'energia, la chimica, la metallurgia, la carta - si è accentuata l'attenzione per le conseguenze sull'ambiente. Si sono perciò avviate, come è stato già detto, azioni ‛curative', che sono spesso risultate costose e non risolutive, e si sono quindi cominciate ad attuare strategie preventive, con lo sviluppo di tecnologie e modi di produzione capaci di evitare o contenere molto l'inquinamento ambientale.

Per i paesi industrializzati con forti immobilizzazioni in impianti, il passaggio da un approccio di tipo curativo a uno non inquinante dipende in larga misura da considerazioni di natura economica, ossia dalla convenienza o meno di rimpiazzare gli impianti esistenti prima del termine del loro ciclo di vita. Ma per quelli in via di sviluppo, che partono spesso da zero, il secondo approccio dovrebbe essere più facile. Non va però dimenticato che, con la dislocazione industriale, si ha una crescente segmentazione del mercato mondiale, con la produzione di certi beni primari (come i metalli) nei paesi in via di sviluppo, e una crescente produzione di beni sempre più sofisticati, di alta qualità e quindi a più elevato contenuto scientifico-tecnologico, nei paesi avanzati. Ne risultano ridotti, di conseguenza, l'importanza e il valore relativo dei prodotti industriali primari e dei semilavorati. In questo caso, per i paesi in via di sviluppo potrebbe rimanere un margine troppo esiguo per affrontare convenientemente problemi percepiti come non immediatamente essenziali, e in primo luogo quelli ambientali, anche se una tale situazione andrebbe comunque evitata. In ogni modo, l'appropriarsi, da parte di tali paesi, di nuove tecnologie più avanzate e di nuovi segmenti di attività a più alto valore faciliterebbe certamente un loro sviluppo più armonico.

Le nuove tecnologie, in particolare la microelettronica e l'informatica, le tecnologie di processo (laser, microprocessori, automazione) e le biotecnologie consentono oggi per la prima volta, dagli inizi della rivoluzione industriale, di rendere concorrenziali sul mercato le imprese e le unità produttive relativamente piccole e decentrate, cosicché le economie di scala non sono più comunque vincenti. Questo rende possibili nuovi modi di industrializzazione, meglio distribuiti sul territorio e coinvolgenti sia il tessuto urbano sia le aree rurali. Un tale sviluppo è altamente desiderabile per evitare un processo di urbanizzazione eccessivo e disordinato, come è avvenuto recentemente e ancora sta verificandosi in molti paesi in via di sviluppo. Tutto questo consentirebbe di realizzare sistemi agroindustriali integrati su base regionale e certamente più rispettosi dei valori ambientali. Queste considerazioni dovrebbero essere sempre ben presenti ai pianificatori dei paesi in via di sviluppo, se essi vogliono evitare gli aspetti maggiormente negativi del pur necessario processo d'industrializzazione, ricordando che oggi si può disporre delle opportunità, prima non esistenti, offerte dalle nuove tecnologie e dalla loro fusione con quelle tradizionali. Questo elemento di novità segna una svolta essenziale nel dibattito sulle tecnologie appropriate o intermedie, che è stato particolarmente animato negli anni sessanta e agli inizi degli anni settanta.

9. Conclusione

Nel corso dell'articolo si è visto come siano nati e si siano sviluppati i concetti di ecologia e di ambiente umano e come, soprattutto negli ultimi tempi, sia cresciuta l'attenzione per i problemi ambientali che si trovano oggi al centro dell'interesse non soltanto di esperti e scienziati, ma dell'opinione pubblica e dei responsabili politici. Non è un caso che - come conseguenza del vertice di Versailles del 1982 dei capi di Stato e di governo dei sette grandi paesi industrializzati dell'Occidente, e della decisione di costituire un gruppo di lavoro su Tecnologia, crescita e occupazione che affrontasse i grandi temi di ricerca internazionale rivolti al superamento dei problemi della crescita e dell'occupazione - sia stato scelto l'ambiente, per esplicita indicazione del vertice, come uno dei 19 temi prioritari. Ne è nato un progetto che ha portato a un rapporto per il vertice di Londra del 1984, nel quale si riconosce il ruolo essenziale e la dimensione internazionale della problematica ambientale nello sviluppo economico e sociale, e si suggeriscono le strategie della ricerca al livello della collaborazione internazionale per affrontare convenientemente tale problematica. Uno degli aspetti più rilevanti della problematica ambientale va ricercato nella sua dimensione sistemica, che richiede un approccio ampiamente pluridisciplinare e una visione integrata. Soltanto oggi essa può essere affrontata scientificamente, proprio perché la scienza sta ormai passando da una somma di discipline tra loro indipendenti a un insieme integrato e sistemico.

I problemi da affrontare, con uno sforzo adeguato di ricerca, sono innumerevoli: si possono appena ricordare quelli del clima, della circolazione dell'atmosfera e delle acque, dei cicli bio-geo-chimici degli elementi, della ricettività dell'ambiente a prodotti e azioni, di come vivono e si evolvono ecosistemi e ambienti, anche per effetto di specifici interventi umani. Oltre a questi problemi, vi sono poi tutta una serie di aspetti più particolari e peculiari, che riguardano nicchie ecologiche, settori come quelli dell'agricoltura, dell'industria, dei trasporti, di altri servizi, sistemi come quelli urbani o delle reti di trasporto (strade, ferrovie, canali, oleo- e gas-dotti), con i loro problemi di inquinamenti materiali, da rumore, estetici, ecc.

Entrando un po' più nei dettagli di alcuni soltanto dei temi appena ricordati (di altri si è, pur brevemente, discusso precedentemente), si può accennare al dibattito da tempo in corso sul cosiddetto ‛effetto serra' (riscaldamento degli strati bassi dell'atmosfera), che deriva dall'aumento della concentrazione di CO2 nell'atmosfera per effetto della produzione e del consumo di energia da combustibili fossili. È noto che questo effetto è complicato da altri fenomeni inquinanti che potrebbero avere effetti sinergici o antagonisti: fra questi l'immissione di polveri e altri ‛particolati' derivanti da attività dell'uomo e da fenomeni naturali (tra cui le eruzioni vulcaniche). Il complesso di questa problematica climatico-ambientale è oggetto di studio in ambito internazionale.

Un altro problema con forti implicazioni internazionali e che attrae oggi fortemente l'attenzione è quello dell'inquinamento atmosferico, che talvolta in termini riduttivi prende in considerazione solo le cosiddette piogge acide derivanti dalla produzione e trasformazione dell'energia, con immissione nell'atmosfera di di ossido di zolfo, di ossidi di azoto, oltre che di idrocarburi e particolati.

L'inquinamento delle acque costiere, causato da attività industriali, agricole, domestiche (incluso il turismo), oltre che dai traffici marittimi, è un problema che tocca soprattutto i mari chiusi, ove si affacciano aree densamente popolate e ricche di attività, come l'Italia. Da noi, in primo luogo nella zona dell'alto Adriatico, è particolarmente rilevante il problema già ricordato dell'‛eutrofizzazione'. Questo tema va affrontato con un approccio sistemico senza penalizzare eccessivamente le soluzioni più ‛facili' e operando in modo che le diseconomie collegate alla soluzione del problema ambientale possano essere alleviate. Nel caso dei rifiuti degli allevamenti di bestiame, per esempio, si può puntare alla produzione di energie alternative, come è dimostrato dal gran numero di piccoli impianti di trattamento dei liquami con produzione di biogas già realizzati in Italia. Si tratta inoltre d'incoraggiare l'adozione di soluzioni moderne, incentivando gli investimenti basati sulle tecnologie migliori e su approcci tecnologicamente semplici, come si conviene a un sistema distribuito e gestito da utenti non particolarmente specializzati. In ogni caso il problema dell'inquinamento marino, e in particolare della protezione degli ambienti costieri, è ovviamente assai più ampio ed è oggetto oggi di attenzione congiunta da parte dei paesi mediterranei.

Un'altra problematica molto complessa, e che richiede un articolato intervento di ricerche per essere affrontata convenientemente, è quella dello smaltimento dei diversi tipi di rifiuti, da quelli urbani a quelli industriali, da quelli agricoli a quelli radioattivi. Questi ultimi presentano aspetti molto diversi a seconda che si tratti di rifiuti a bassa e media attività, oppure a lunga attività, per i quali occorre una convergenza a livello internazionale per quanto riguarda metodi di stoccaggio e di monitoraggio e scelta dei siti.

Ricerca, conoscenza reale delle situazioni, attenzione delle varie componenti sociali debbono tradursi in politiche tali da considerare l'ambiente come un sistema dinamico in evoluzione, del quale si sanno controllare input e output e si riesce a conoscere lo stato in modo sempre più accurato, superando così l'attuale situazione caratterizzata prevalentemente da conoscenze lacunose ed empiriche e da azioni di tamponamento. Troppo spesso, infatti, in materia ambientale, si opera per via terapeutica con interventi di tamponamento dei danni ormai provocati. Viceversa, una politica ambientale moderna dovrebbe basarsi, ogniqualvolta questo sia possibile ed economicamente conveniente, su un approccio preventivo, in modo da evitare che si verifichino conseguenze dannose a seguito degli interventi dell'uomo, ma anche di eccezionali evenienze naturali. Una tale politica richiede però una visione di lungo periodo, non sempre facile da attuare. Se è vero che l'obiettivo del miglioramento della qualità ambientale è quasi sempre conveniente a medio e lungo termine, tuttavia, se esso viene perseguito frettolosamente e senza ben conoscere i vincoli di carattere economico-produttivo, si possono incontrare difficoltà e ostacoli così rilevanti da far prevalere le esigenze di breve periodo.

Occorre rendersi conto che, mentre lo sviluppo economico e sociale richiede necessariamente che l'uomo agisca sull'ambiente, viceversa tale sviluppo abbisogna di un ambiente sano e gradevole; in questo contesto è soltanto la disponibilità di ricchezza, creata col lavoro, che consente all'uomo di intervenire per risanare il territorio e per prevenirne il degrado. Sono i paesi più ricchi, anche se densamente popolati, come appare dagli esempi dell'Olanda, del Belgio, della Danimarca, in grado di potersi garantire un ambiente sano e gradevole. Del resto, nel nostro stesso paese - pur così carente per lungo tempo di una politica ambientale - sono le aree più ricche, come ad esempio il Varesotto, la Valle d'Aosta, l'Alto Adige, anche quando sono densamente popolate e con notevoli attività industriali, quelle che risultano più tutelate. Il confronto tra la montagna svizzera, popolosa e attiva, e buona parte di quella italiana, spopolata, con attività marginali e caratterizzata da dissesto idrogeologico, mostra che il recupero ambientale è possibile là dove l'uomo vive, opera e crea ricchezza.

La politica ambientale deve diventare quindi a tutti gli effetti uno strumento attivo della nostra società, rivolto a favorire lo sviluppo economico, sociale e culturale e quindi anche la creazione di ricchezza, che è fatta di beni, di infrastrutture, di servizi, di un valido tessuto urbano, di cultura e conoscenze diffuse e di un territorio sano, funzionale e bello. Così come siamo passati da una società di pura raccolta delle risorse prodotte naturalmente sul pianeta a una basata sulla coltivazione di quelle agricole e sull'invenzione di quelle materiali, per avviarci oggi verso una società sempre meno materiale in relazione alla ricchezza prodotta, allo stesso modo occorre passare sempre più da uno stato di mero sfruttamento della risorsa ‛ambiente' a uno di creazione e sostegno dell'ambiente nel quale si deve vivere. La politica ecologica e ambientale deve puntare a questo obiettivo prioritario, essenziale per un mondo nel quale la popolazione non solo è ancora in fase crescente, ma presenta anche la necessità - nella maggioranza dei casi - di superare le attuali condizioni di indigenza.

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