DORIA PAMPHILI LANDI, Filippo Andrea

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 41 (1992)

DORIA PAMPHILI LANDI, Filippo Andrea

Fiorella Bartoccini

Nacque a Roma il 28 sett. 1813, secondogenito del principe Luigi Giovanni Andrea e di Teresa Orsini dei duchi di Gravina. Nel 1839 sposò Mary Talbot, figlia del conte di Shrewsbury, molto amata a Roma - insieme con la sorella Guendalina, moglie di Marcantonio Borghese - per la devozione religiosa e l'opera di beneficenza. Un fratello, George Talbot, convertitosi al cattolicesimo nel 1847, fattosi prete, diventò cameriere segreto partecipante e consultore di Propaganda.

La morte del fratello primogenito Andrea (1836) e del padre (1838) fece assumere al D., con il titolo ducale, una serie di gravose responsabilità nella conduzione di una vastissima proprietà terriera, che si estendeva, nella trasmissione secolare dei feudi, da Melfi nel Regno di Napoli a Torriglia nel Genovesato. Nel Lazio erano particolarmente importanti le tenute di Valmontone e di San Martino. Il D. era anche impegnato, con gli altri aristocratici, a garantire una forte presenza sociale e pubblica che si affiancava a quella della corte pontificia in una sorta di rappresentanza laica della città: di uno sfarzo reale di ospitalità riferiscono le cronache del tempo, sia nel palazzo di via del Corso, sia nella villa sul Gianicolo, considerata con villa Barberini e villa Ludovisi una delle più belle, in alcuni giorni aperta al popolo. E al popolo erano destinate varie istituzioni di beneficenza, fra cui particolarmente importante l'ospizio di S. Maria in Cappella per i malati cronici.

All'ampliamento della villa sul Gianicolo, con l'acquisto anche di villa Giraud, di villa Ferroni e di villa Corsini, e alla trasformazione di alcune parti delle costruzioni e dei giardini, che subirono gravi danni con l'assedio francese del 1849, il D. dedicò tempo e denaro, affiancato dagli architetti G. Iapelli, G. Guj e, soprattutto, A. Busiri Vici. Furono ricostruiti e riadattati edifici, ridisegnati in parte i giardini, con la valorizzazione di quello inglese, e, per tradizione familiare, ampliato l'orto botanico con le serre (ospitavano nel 1856 più di 600 specie di piante). Altri importanti interventi si ebbero nel palazzo Doria di via del Corso, in quello Pamphili di piazza Navona e nella contigua chiesa di S. Agnese (costruzione della cancellata nel 1856).

All'avvento di Pio IX il D. dovette assumere responsabilità politiche, insieme con altri esponenti di quella aristocrazia romana che costituì nei primi momenti dell'opera riformista il settore privilegiato di scelta dei collaboratori laici: era già inserita, sia pure con funzioni puramente onorifiche o limitate ad ambiti finanziari e caritativi, nel vecchio sistema e poteva così garantire una occasione d'incontro, di fusione, di equilibrio tra forze progressiste e conservatrici, tra forze laiche ed ecclesiastiche. L'impegno profuso nella beneficenza assicurava inoltre al D. popolarità e consenso nella plebe. Presente in varie manifestazioni, membro della guardia civica, era disponibile ad interventi radicali, soprattutto nelle campagne: nel marzo del 1847 divenne vicepresidente del Pontificio Istituto statistico agrario e d'incoraggiamento (presidente era il cardinale F. S. Massimo), di cui era stato uno dei soci fondatori.

Alla guida dell'istituzione erano grandi proprietari terrieri e rappresentanti della amministrazione pubblica, delle istituzioni bancarie; anche mercanti di campagna e commercianti si aggregavano nelle tre sezioni di lavoro (statistica, agraria e commerciale), animando una discussione tesa non solo al miglioramento della produzione, ma anche ai problemi del latifondo e dei diritti d'uso. Comunque, a parte l'ostacolo delle divergenti proposte e delle latenti conflittualità, delle immature conoscenze e dei ristretti spazi di manovra, non si arrivo, come del resto in altri terreni di dibattito, a una concretezza di azione, per il crescere delle agitazioni e delle inquietudini politiche e diplomatiche.

Alla nascita del nuovo Municipio il D. venne segnalato al pontefice nella terna dei nomi proposti per la designazione del senatore di Roma (con T. Corsini, poi prescelto, e M. Borghese); rimase attivo tra i conservatori. Compito più importante gli fu affidato il 4 maggio 1848 con la nomina a ministro delle Armi nel governo presieduto formalmente dai cardinali L. Ciacchi, poi G. Soglia, di fatto da T. Mamiani, ministro dell'Interno: era un compito che, anche nel Processo di laicizzazione dello Stato, con una infittita presenza borghese e rappresentanza delle altre province, restava ancora affidato, nel solco di una lunga tradizione storica, a membri della aristocrazia (il D. succedeva a C. Aldobrandini, passato al comando delle guardie civiche). In quei giorni di accesa agitazione politica, conseguente all'allocuzione con cui, il 29 aprile, Pio IX rifiutava un'azione di guerra contro l'Austria, fu scelto, più che per capacità specifica, per la notorietà di cui godeva ("ricchissimo e splendidissimo fra' principi romani, giovane di nobili spiriti, era in quei giorni in amore di popolo" scriverà L. Farini); con Corsini, M. Massimo e Mamiani era già andato, il 30 aprile, in missione mediatrice dal papa. Al suo fianco, nel ministero, operava in realtà P. Campello, che dal 1847 si occupava della riforma dell'esercito nella Consulta di Stato ed era ora incaricato dei servizi di intendenza.

Il momento era particolarmente difficile: le truppe pontificie regolari comandate da G. Durando e quelle volontarie comandate da A. Ferrari avevano già passato il confine e affrontato con successo i primi scontri con il nemico; bisognava ora provvedere a rifornimenti e istruzioni nel quadro dei difficili rapporti fra i due generali. L'esercito di Ferdinando di Borbone, sotto la guida di G. Pepe, si era attestato nelle Legazioni, in attesa di ordini da Napoli, ormai avviata alla reazione autoritaria e conservatrice. La sconfitta subita dai Pontifici a Vicenza l'8 giugno pose il problema del ritorno e del controllo dei reducil che, sbandati, minacciavano l'ordine pubblico in varie località dello Stato e a Roma stessa, il problema della riorganizzazione, con scarsità di mezzi, di nuovi reparti. Bisognava anche provvedere all'assistenza di quanti erano rimasti sul terreno di guerra, concentrandosi a Venezia, e a un'intesa militare con il Piemonte.

Questioni tecniche e specifiche s'innestavano in quelle politiche e diplomatiche: il D. affiancava Mamiani in difficili e intrecciate linee di azione, verso il pontefice e la Curia che conducevano una diretta opera, verso il Parlamento che sosteneva il proprio potere nella scelta e nel controllo delle decisioni, verso la popolazione romana che il ritorno dei reduci aveva reso ancor più inquieta e turbolenta. Dal 15 giugno fu discusso alla Camera il rapporto presentato dal D. sulla situazione militare e sulla prospettiva di riordinamento dell'esercito, da lui ulteriormente illustrato il 3 luglio, in un quadro di vivacissima polemica, animata dall'opposizione democratica: in primo piano da P. Sterbini, C. Bonaparte e F. Mayr. Il 13 luglio gli Austriaci ripassarono il Po, lasciando un presidio a Ferrara: mentre anche il pontefice protestava, il ministero delle Armi curava per la difesa dello Stato l'organizzazione di Comitati di guerra nelle Legazioni e la formazione di uno speciale corpo di truppe regolari a protezione della frontiera. Mancavano comunque mezzi finanziari, mancavano armi.

La difficile situazione evolse rapidamente con le dimissioni del governo il 22 luglio 1848: mentre il pontefice affrontava il problema di una sostituzione e Mamiani restava provvisoriamente al suo posto, al D., fermo nella decisione, succedette alla fine del mese il Campello. Il D. era stato nominato membro dell'Alto Consiglio, ma era ormai ai margini della vita politica. Come gli altri nobili romani rifiutò l'evoluzione democratica: con Borghese e S. Salviati era il 26 novembre a Gaeta, dove si era rifugiato il pontefice; solennemente lo ricevette poi a Valmontone nel viaggio di ritorno a Roma; sul Gianicolo fece erigere un monumento ai caduti francesi.

Seguirono anni di tranquilla vita domestica (con un impegno pubblico nel Consiglio comunale), di accresciuti interessi per le innovazioni agrarie e le istituzioni finanziarie (si trova il suo nome nei consigli di amministrazione di banche), di lunghi soggiorni in città italiane ed estere, soprattutto in Inghilterra. Come altri aristocratici romani, il D. era pienamente consapevole sia del processo storico di trasformazione in atto a livelli politici, economici, sociali, sia del movimento nazionale italiano e della prospettiva unitaria, ma, a differenza di M. Caetani, non ebbe contatti con esponenti del Comitato liberale: nel 1860 non firmò un indirizzo di fedeltà al pontefice della nobiltà romana e nel 1861 quello proposto da Cavour di solidarietà alla causa nazionale (ma dichiarò di sentirsi ugualmente italiano). Animato da profonda religiosità, non accettava la politica laica e lo scontro con il Papato, il quale garantiva, a Roma, anche la continuità di antichi privilegi nobiliari, la protezione della ricchezza familiare e l'alto livello della presenza sociale (e non solo nell'ambito della vita locale).

L'occupazione della città, il 20 sett. 1870, portò il D. in primo piano sulla scena politica (una Savoia era nel suo albero genealogico): eletto consigliere comunale, membro della Giunta e facente funzione di sindaco per la rinuncia di G. Lunati, accompagnò Vittorio Emanuele II nella visita privata compiuta a Roma il 31 dic. 1870, in occasione dello straripamento del Tevere. Nominato grande ufficiale della Corona d'Italia, il 13 febbraio il D. annunciava in Campidoglio la cessazione dall'incarico perché chiamato ad alto ufficio di corte (sarà prefetto di palazzo e gran maestro delle cerimonie), ma ormai era entrata in crisi l'intera Giunta; il 25 giugno 1871 egli dava anche le dimissioni dal Consiglio.

Era stato creato senatore il 1° dic. 1870, membro della commissione permanente di finanza, ma lo si vide poco a palazzo Madama, da cui nel 1874 tentò di dimettersi. Lo angustiavano la diversità del linguaggio sociale e politico ("era un signore molto cortese, quantunque non del tutto immune dai vecchi pregiudizi aristocratici": Pesci, p. 146), lo scontro con il pontefice e con la Chiesa ("nessuno vuol essere sindaco - scriveva il luogotenente A. de La Marmora a G. Lanza, riferendosi anche al Doria -. Si adattano bensì a prestar giuramento al re, ma vorrebbero una riserva per le leggi ecclesiastiche": Gli archivi delle Giunte, p. 123). Narravano i contemporanei che egli accentuava con la famiglia una particolare forma di devozione religiosa; con il figlio Alfonso protestava: "senza o con fredda religione non va bene" (23 maggio 1872, in Arch. Doria Pamphili, tit. I, sottotit. 49). E fu anche per reazione verso le nuove leggi che avevano portato alla fine del fidecommesso e del maggiorascato che egli costituì una "Amministrazione della Disponibile", che curò, dopo la sua scomparsa, il patrimonio Doria fino al 1901.

Come in altre case aristocratiche furono i figli del D., rimasto vedovo nel '58, ad assumere funzioni pubbliche e mediatrici: Teresa, sposata con il duca E. Massimo, Giovanni Andrea (m. nel 1890), Alfonso (ad vocem), Guendalina, sposata con il conte G. L. della Somaglia, Olimpia, sposata con il principe F. Colonna.

Il D. morì a Roma il 9 marzo 1876.

Il fratello Domenico, nato a Roma il 30 maggio 1815, era stato costretto a lasciare la città in seguito allo scandalo provocato dalla morte di Vittoria Savorelli, che si diceva conseguenza di una sua tradita promessa di matrimonio: un caso che superò gli stretti confini locali e dette vita a rievocazioni letterarie (la più nota è quella di E. About nel romanzo Tolla, Paris 1855). Si stabilì a Genova, nel palazzo avito, occupandosi del patrimonio di famiglia e seguendo, con diretta partecipazione, l'evoluzione politica del momento, in particolare gli eventi del 1848-49. Membro della amministrazione comunale, fece parte del Comitato di pubblica difesa, creato nell'agosto del '48, dopo i primi rovesci dell'esercito piemontese. Nell'agitato clima cittadino si pose, come vicesindaco, mediatore fra la rivolta democratica e il governo torinese; si adoperò per il ritorno dell'espulso F. De Boni e firmò un indirizzo a Carlo Alberto sulle condizioni politiche e militari del momento. L'occupazione di Genova da parte delle truppe non risparmiò il suo palazzo, gravemente danneggiato, e provocò, oltre alla vivacità di una protesta pubblica che sfiorò lo scontro diretto con lo stato maggiore, anche le dimissioni dal mandato parlamentare, ottenuto dagli elettori di Rapallo il 15 luglio 1849. Nelle lettere al fratello stigmatizzava sia "la fazione scellerata" dei rivoltosi, sia i "modi infami" del governo.

Rieletto in Consiglio comunale, assessore, continuò ad occuparsi dell'amministrazione cittadina e a seguire, sia pur con distaccato interesse, gli eventi: le lettere lo rivelano attento osservatore, consapevole della ineluttabilità dell'inserimento di Roma nel tessuto nazionale, ma anch'egli preoccupato della posizione della Chiesa e del pontefice. Morì a Genova il 4 dic. 1872. Aveva sposato, nel 1863, Eugenia Spinola, vedova del marchese Durazzo.

Fonti e Bibl.: Roma, Archivio Doria Pamphili, tit. I, sottotit. 49, 92, 93: per la scarsa corrispondenza privata (molto ricca la documentazione relativa all'amministrazione del patrimonio familiare); Roma, Museo centrale del Risorgimeno, buste CXXXIX (1920) e CCII (10, 13-15, 19, 25, 28-31, 34, 35, 44, 50): lettere di vari corrispondenti relative alla guerra del 1848; Le Assemblee del Risorgimento: Roma, Roma 1911, Consiglio dei deputati, 15 giugno-29 luglio 1848; Alto Consiglio, 8-31 luglio 1848; N. Roncalli, Diario di Roma, I, 1844-48, a cura di M. L. Trebiliani. Roma 1972, ad Indicem; A de Liedekerke de Beaufort, Rapporti delle cose di Roma (1848-1849), a cura di A. M. Ghisalberti, Roma 1949, ad Indicem; Gli archivi delle Giunte provvisorie di governo ..., a cura di C. Lodolini Tupputi, Roma 1972, ad Indicem; L. Farini, Lo Stato romano dal 1815 al 1850, Torino 1850-53, II, p. 111; [M. Montecchi] Fatti e documenti riguardanti la Divisione civica e volontari mobilizzata sotto gli ordini del gen. Ferrari …, Capolago 1850; G. Spada, Storia della rivoluzione di Roma ..., Firenze 1868-70, II, pp. 416 s.; E. Ovidi, Roma e i Romani nella campagna del 1848-49 …, Roma-Torino 1903, passim; U. Pesci, I primi anni di Roma capitale, a cura di G. Monsagrati, Roma 1971 (1 ediz., Firenze 1907), pp. 142, 146, 165, 260-263, 296; R. De Cesare, Roma e lo Stato del papa, Roma 1975 (1 ediz., Roma 1907), pp. 15, 19, 21, 51, 55, 72 s., 75-78, 82-85, 95, 108, 118, 125, 264, 288, 545, 588; P. Pieri, Storia militare del Risorgimento, Torino 1962, ad Indicem; C. Destefanis, Sulle vicende municip. di Roma dopo Porta Pia, in Il Veltro, XIV (1970), pp. 565-572; F. Bartoccini, La "Roma dei Romani", Roma 1971, ad Indicem; Id., Roma nell'Ottocento, Bologna 1985, ad Indicem; C. M. Travaglini, Il dibattito sull'agricoltura romana nel secolo XIX, Roma 1981, ad Indicem; Diz. del Risorg. naz., II, p. 957. Sui lavori di ristrutturazione del palazzo e della villa Doria, A. Busiri Vici, Quarantatré anni di vita artistica ..., Roma 1891, passim; C. Benocci, La villa della famiglia Doria Pamphilj a Roma. Agronomia, paesaggio, architettura nell'Ottocento, in Storia della città, XII (1987), pp. 15, 38-73.

Per Domenico: lettere al fratello nei fondi sopra cit.; necrol., in Gazzetta di Genova, 7 dic. 1872; Diz. del Risorgimento naz., II, pp. 956 s.

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